Read online book «Un Gelato Per Henry» author Emanuele Cerquiglini

Un Gelato Per Henry
Emanuele Cerquiglini


Emanuele Cerquiglini
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Indice

Prima di copertina (#ufb6d3001-065a-5f73-ad7c-95cef7b905ef)
Informazioni (#ued76cbd0-1b2d-52de-984b-2ec160a538c1)
Ringraziamenti (#u1c8eff96-6714-5722-949c-d09dab9693c0)
Note (#uc3d540b7-7f68-5453-8763-59f48c1cd195)
Dedica (#uebacae4e-e813-59d2-a8df-1708dbb0fb04)
Personaggi (#ucd530a45-7640-5a5a-aff5-1ea4054a16a0)
Citazione (#u6dc71e96-77ae-537a-9624-3dcb6d906b42)
Prologo (#u8729d9c9-26da-5a7b-9e3b-fd5415a5759e)
Capitolo 1 (#u1572b560-ec1d-5730-8d7b-fd07b7b6db7b)
Capitolo 2 (#u14014535-21ef-579d-bf82-12990dd91338)
Capitolo 3 (#u39dff6d5-6bd0-55d9-996b-f974d97243da)
Capitolo 4 (#u7e7c4160-05f3-5a53-9030-4a2a4c5c0b03)
Capitolo 5 (#u196be72e-55d5-59d6-ad35-a4801cb41db9)
Capitolo 6 (#u5487dec1-6b4a-5ae6-917d-b775518d6021)
Capitolo 7 (#uc190c7b1-381a-5017-bc21-ae2530e2241a)
Capitolo 8 (#u96431fc2-0b37-58f4-bb3d-bf58a64cb583)
Capitolo 9 (#u6bf78ad2-8a28-5f32-8c7b-e4a8ea2bf252)
Capitolo 10 (#u9fb0dec6-6a07-5bbb-9b74-a6a21b26e4b0)
Capitolo 11 (#u8cb38a6b-c55d-538c-a80c-43ca0160f4ea)
Capitolo 12 (#uc8ad530f-40fb-5fe6-ad82-ebd16c0bcf24)
Capitolo 13 (#litres_trial_promo)
Capitolo 14 (#litres_trial_promo)
Capitolo 15 (#litres_trial_promo)
Capitolo 16 (#litres_trial_promo)
Capitolo 17 (#litres_trial_promo)
Capitolo 18 (#litres_trial_promo)
capitolo 19 (#litres_trial_promo)
Capitolo 20 (#litres_trial_promo)
Capitolo 21 (#litres_trial_promo)
Capitolo 22 (#litres_trial_promo)
Capitolo 23 (#litres_trial_promo)
Capitolo 24 (#litres_trial_promo)
Capitolo 25 (#litres_trial_promo)
Capitolo 26 (#litres_trial_promo)
Capitolo 27 (#litres_trial_promo)
Capitolo 28 (#litres_trial_promo)
Capitolo 29 (#litres_trial_promo)
Capitolo 30 (#litres_trial_promo)
Capitolo 31 (#litres_trial_promo)
Capitolo 32 (#litres_trial_promo)
Capitolo 33 (#litres_trial_promo)
Capitolo 34 (#litres_trial_promo)
Capitolo 35 (#litres_trial_promo)
Capitolo 36 (#litres_trial_promo)
Capitolo 37 (#litres_trial_promo)
Capitolo 38 (#litres_trial_promo)
Capitolo 39 (#litres_trial_promo)
Capitolo 40 (#litres_trial_promo)
Capitolo 41 (#litres_trial_promo)
Capitolo 42 (#litres_trial_promo)
Capitolo 43 (#litres_trial_promo)
Capitolo 44 (#litres_trial_promo)
Capitolo 45 (#litres_trial_promo)
Capitolo 46 (#litres_trial_promo)
Capitolo 47 (#litres_trial_promo)
Capitolo 48 (#litres_trial_promo)
Capitolo 49 (#litres_trial_promo)
Capitolo 50 (#litres_trial_promo)
Capitolo 51 (#litres_trial_promo)
Capitolo 52 (#litres_trial_promo)
Epilogo (#litres_trial_promo)
Nota dell' autore (#litres_trial_promo)
L' autore (#litres_trial_promo)
LINK (#litres_trial_promo)
Quarta di copertina (#litres_trial_promo)

Prima di copertina






immagine in prima di copertina di Veronica Louro

Informazioni

EMANUELE CERQUIGLINI

Finalista al concorso “il mio esordio 2015”



UN GELATO PER HENRY
8 MILIONI DI BAMBINI SCOMPAIONO OGNI ANNO.
HENRY E’ UNO DI LORO.

Copyright © (Patamu:52441) 07-12-16 by Emanuele Cerquiglini





la pagina Facebook dedicata agli amici di Henry (https://www.facebook.com/ungelatoperhenry)

www.cerman.info (http://www.cerman.info/)




Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o usati in chiave fittizia. Qualsiasi rassomiglianza a fatti e località reali o a persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale.




Ringraziamenti


Si ringraziano Roberta Graziosi e Sarah Verdini per aver affrontato insieme all’autore la correzione della prima stesura del romanzo, per il sostegno, il confronto e la loro pazienza.

Si ringraziano Luigi, Alexandra e Andrea, amici di vecchia data, che sperano sempre ne esca qualcosa di buono.

Si ringrazia inoltre Livia Risi per aver fornito all’autore le caratteristiche di uno degli abiti della sua collezione: il “Pizzo Jersey BuyBy”, scelto dall’autore per vestire Barbara Harrison in un capitolo del romanzo.
liviarisi.com (http://liviarisi.com)

Note


Durante le ricerche in rete per affrontare il tema del “secondo emendamento” e della cultura delle armi da fuoco negli Stati Uniti, l’autore si è ispirato ad un articolo di Matti Ferraresi,
intitolato “U.S. Army tutti al poligono” e pubblicato in rete sul sito di Panorama il 12 Febbraio 2013:
tuttialpoligono (http://www.panorama.it/news/esteri/stati-uniti-armi-poligono/)
immaginando le conseguenze della visita di un giornalista italiano presso la New Jersey Firearms Academy

Dedica


A mia madre e mio padre, coloro che hanno protetto la mia infanzia, che mi hanno sempre sostenuto da adulto, e che mi hanno permesso di avere libero accesso al mondo della fantasia. Non va così di lusso a chiunque e questa è stata la mia più grande fortuna. Abbiamo avuto momenti di sole e poi abbiamo conosciuto l’ombra portata dalle nubi, ma oggi, come ieri, le affronteremo senza paura. Il Sole è sempre lì, che ci aspetta al sorgere…


Grazie mamma e grazie papà. Emanuele

Personaggi


ALCUNI TRA I PERSONAGGI PRESENTI NELLA STORIA



BAMBINI
Henry Lewis (quasi undici anni)
Joanna Longowa (quasi undici anni)
Nicolas (quasi undici anni)

RAGAZZI
Zibi Longowa (fratello di Joanna)
Shelley Logan (amica di Jim)

FORZE DELL’ORDINE
Barbara Harrison (tenente FBI)
Gordon Murphy (sceriffo di Toms River)
Gonzalez (agente, distretto di Medford)
Clive Thompson (servizi segreti)
Iron (cane poliziotto)

ADULTI
Jim Lewis (meccanico- padre di Henry)
Ted Burton (maggiore del Corpo dei marines in pensione)
Winnipeg Moore, detto Winnie (gelataio)
Jasmine Lewis (sorella di Jim)
Robert Brown (il compagno di Barbara Harrison)
la signorina Anderson (insegnante di matematica)
il maestro Johnson (insegnante di storia)
Leland Wright (il capo della Firearms)
Dalton Clark (infermiere in pensione)
Samantha Monroe (la moglie di Dalton)
Delisay, detta Delizia (la seconda moglie di Ted)
Ronald Howard (ricco sfondato)
il coach Kyrle (insegnate di ginnastica)
George e Paul (figli di Samantha)

PERSONAGGI DEL PASSATO
Emily Butler (sei anni)
Allison Parker (la mamma di Emily)
Luke Butler (padre di Emily)
Ryan Green (secondo marito di Allison)
Richard Harrison (dodici anni, fratello di Barbara)
Donald Coleman (amico del padre di Barbara)

Citazione


“Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quello con la pistola è un uomo morto[...]”
Ramón Rojo (Gian Maria Volonté)

PER UN PUGNO DI DOLLARI (1964)
Regia di Sergio Leone

Prologo



Non sempre le apparenze ingannano e non è vero che i mostri non esistono. I bambini dovrebbero saperlo e non gli andrebbe negato il mondo per quello che è, con la nobile intenzione di proteggerli. Sarebbe una scusa e un rinvio pericoloso nell’immersione con la realtà. Nel mondo c’è dualismo: comprendere il bene senza conoscere il male sarebbe come negare l’esistenza del libero arbitrio.
Ai bambini andrebbe spiegato, che pur essendo tutti gli esseri umani uguali, tra loro esistono un’infinità di differenze, che rendono ogni persona un individuo unico e irripetibile. Differenze imposte da diverse influenze: quelle interne alla famiglia, quelle dovute all’ambiente scolastico e quelle imposte dalla società e dal territorio. Tutte insieme determinano lo sviluppo cognitivo, fisico e spirituale dell’individuo. Attraverso queste influenze, l’individuo si forma e da adulto sceglie come agire. Distinguere il bene dal male e scegliere di agire nel bene, accettando l’esistenza del male e rifiutandolo, è un atto che dimostra la comprensione della dualità e la possibilità di muoversi con maggiore sicurezza e consapevolezza nel viaggio dell’esistenza terrena.
Del male, gli esseri umani ne discutono da sempre e attraverso le epoche affrontando la tematica partendo da presupposti differenti. Potremmo dire che ogni epoca ha il suo male, che va affrontato ed è impossibile girargli le spalle facendo finta che esso non esista.
Ma il male, esistendo, è veramente un’alternativa al bene? È veramente una scelta?
C’è la possibilità che esso si determini per una serie di privazioni, attraverso il (con)cedere a qualcosa che fa leva su una qualche carenza dell’essere umano, ma per affrontare questa discussione bisognerebbe andare oltre le risposte legate alla materia, preferendo scegliere un sentiero sensibile, di differente comprensione.
L’essere umano nella sua completezza e quindi anche e soprattutto nella sua dimensione spirituale, è l’unico criterio possibile e manifesto, che può discernere il bene dal male. Quando questa completezza non è raggiunta del tutto, discernere diventa difficile, talvolta impossibile.

Dalton Clark camminava all’alba tenendo la moglie per mano. Amava l’aria fresca dei Medford Lakes ed era felice di vivere da pensionato in quei luoghi.
«Abbiamo atteso tanto amore mio, ma finalmente è giunto il giorno che tanto aspettavamo e sarà meglio farci trovare pronti. Vedrai che un po' di movimento ci farà bene, sia al corpo che alla mente…» Disse Dalton, quando lui e la moglie arrivarono sulla banchina. Poi lasciò la mano della donna per liberare la canoa a due posti dalla staccionata di legno, dove era legata con una corda e assicurata tramite un nodo barcaiolo.
Samantha Monroe lo guardò senza rispondere. Era solita assecondare sempre quell’uomo, che anni prima l’aveva salvata e riportata in vita. Dalton l’aveva ascoltata e compresa come nessun altro aveva saputo fare, anche più dei suoi figli e del suo primo marito; per questo lei gli era tanto devota e si fidava ciecamente di lui. Dalton era un uomo gigantesco, grosso e grasso e si muoveva senza alcuna agilità, ma era forte fisicamente e duro di carattere; spesso lo era anche con i figli di Samantha, ma nonostante questo, lei sapeva che dietro quella spigolosità d’animo, batteva il cuore di un uomo buono, che sapeva come affrontare cose e situazioni che invece avrebbero atterrito e vinto la maggior parte delle persone.
Dalton mise la canoa per oltre metà in acqua, Samantha gli passo la pagaia e lui, ansimando, si sistemò per primo sulla canoa, sedendosi dietro.
«Sali amore, non avere paura, la tengo ferma io».
Samantha si arrotolò i pantaloni di lino sotto le ginocchia e salì a bordo della canoa non senza difficoltà, le sue articolazioni non erano più quelle di una ragazza e la sua schiena era spesso dolorante, ma voleva ardentemente trovarsi a galleggiare in mezzo al lago in compagnia del suo Dalton, attendendo che in quel fatidico giorno, tutto si predisponesse come avevano immaginato e stabilito da anni o meglio, come Dalton aveva stabilito e come lei e i suoi figli, fiduciosi, avevano accettato. Forse, quel giorno, tutte le sofferenze della sua esistenza sarebbero finalmente scomparse e lei si sarebbe vendicata di quanto la sua intera famiglia, negli anni, aveva dovuto subire senza mai potersi difendere.
Dalton aveva certezze che Samantha non possedeva, sapeva cose che altri non avrebbero mai neanche potuto immaginare e soprattutto aveva soluzioni, che anche se potevano sembrare apparentemente sconcertanti, erano le uniche possibili e andavano messe in pratica.
-Esistono forze che agiscono al di là della nostra comprensione di cosa siano il bene e il male, e a queste forze bisogna rispondere nell’unico modo che esse comprendono… Devi accettarlo se vuoi liberarti Samantha, altrimenti Esse torneranno più forti di prima e finiranno il loro lavoro, quello che hanno iniziato da tempo contro te e la tua famiglia…- Le diceva sempre così Dalton quando lei mostrava timidamente dei dubbi, ma senza mai giudicare l’uomo per le sue teorie e le sue convinzioni. Dalton l’aveva già salvata una volta e l’avrebbe fatto ancora. Samantha era solo una povera ignorante e sapeva di non poter comprendere tutto, ma sapeva di doversi fidare per dare una nuova chance a lei e soprattutto ai suoi figli.
Quando Samantha si sistemò sedendosi saldamente sul posto anteriore della canoa, Dalton tenendo la pagaia in equilibrio sulle gambe, fece leva con entrambe la braccia, affondando le sue mani gigantesche sul fondo melmoso della riva e spinse con tutta la forza che possedeva, fino a liberare la canoa nell’acqua.

In pochi minuti, mentre il sole sorgeva e con i suoi raggi iniziava a scaldare la natura intorno, Dalton e Samantha si ritrovarono a galleggiare in silenzio al centro del lago, ascoltando il canto mattutino degli uccelli nascosti tra le fronde degli alberi, mentre i riflessi brillanti della luce solare danzavano delicati sulle innocue onde che il moto della canoa aveva procurato, spezzando la piattezza pneumatica di quel lago ancora addormentato.

Capitolo 1
primo giorno



Era un venerdì mattina troppo caldo per indossare sotto la tuta da meccanico la vecchia felpa dei New Jersey Nets, così Jim Lewis tirò fuori dall’armadio una camicia jeans non troppo sgualcita e se la infilò sopra la canottiera di cotone rossa che aveva due buchi sul lato destro dovuti alla bruciatura di una sigaretta fumata maldestramente chissà quanti anni prima.
Amava quella canottiera Jim, nonostante fosse lisa e il rosso non fosse più fiammeggiante. Indossarla lo faceva sentire ancora giovane e gli piaceva come evidenziava le forme della sua muscolatura nervosa, che su quella struttura ossea sottile, veniva risaltata dalle vene che si intravedevano decise sotto la pelle del suo corpo e che scendevano dal collo fino a diramarsi lungo le braccia.
La considerava un’armatura, qualcosa di inseparabile: “Jim -canottiera rossa- Lewis”.
Dopo averla indossata tutto il giorno, la prima cosa che faceva quando tornava a casa, era lavarla a mano e stenderla, in modo da poterla indossare, nel peggiore dei casi, entro un paio di giorni.
Una volta abbottonata la camicia, Jim si infilò la tuta da lavoro, agganciò le bretelle e si mise ai piedi le solite scarpe da ginnastica macchiate di grasso.
Non erano neanche le sette e suo figlio Henry dormiva serenamente nella sua stanza.
Jim scese in cucina e per colazione si preparò il solito hamburger con una fettina sottile di formaggio squagliato sopra; non prima però di essersi stappato una Red Bull e aver acceso la TV sul notiziario del mattino.
Sulla NBC passavano immagini di una manifestazione per i diritti degli omosessuali, che era terminata con qualche disordine tra i pacifici e colorati manifestanti e una fazione ristretta di omofobi con le teste rasate e qualche simbolo filo- nazista tatuato addosso. Uno di quelli arrestati urlava qualcosa contro il pericolo dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, paragonandolo ad un biglietto di sola andata per una sicura discesa all’inferno. Lo diceva urlando con gli occhi sgranati e le pupille talmente dilatate, che probabilmente l’inferno a cui si riferiva, in realtà gli scorreva nelle vene sotto forma di stupefacenti. Insieme a lui la polizia aveva arrestato un manipolo di neo-nazi fanatici della famiglia tradizionale, che avevano la paranoia di dover difendere la verginità del culo degli altri.
Jim Lewis non aveva nessuna simpatia per i gruppi di estrema destra, gli sembravano degli esaltati mentecatti, ma aveva una vera e propria avversione verso tutto ciò che non apparteneva alla sfera dei gusti eterosessuali. “Se la cercano sempre quei froci e quelle lesbiche, è normale che scatenino la rabbia di quelle teste calde.” Pensò Jim, completamente incapace di formulare una riflessione abbastanza profonda da fargli comprendere l’importanza di una manifestazione per i sacrosanti diritti di quelle persone, ree solamente di avere gusti sessuali differenti dai suoi.
Quando al notiziario erano giunti alle previsioni del meteo, Jim aveva già divorato il suo pasto. Sarebbe stata una giornata quasi estiva e questo lo rendeva di buon umore.
Si alzò da tavola portando il piatto al lavello. Da quando era rimasto vedovo, aveva imparato che era meglio lavare tutto subito per non trovarsi con pile di piatti incrostati e maleodoranti.
L’orologio della cucina segnava le sette e venti e tra poco avrebbe dovuto svegliare Henry e portarlo a scuola.
Dal frigorifero prese una bottiglia di latte e dalla credenza i cereali preferiti da suo figlio.
Preparò la tavola cercando di dargli quell’aspetto gradevole che riusciva sempre a dargli Bet, sua moglie, quando era ancora in vita.
Tirarsi su un figlio da solo non era stato facile per Jim, ma dopo la morte di sua moglie non aveva più voluto relazioni fisse. Si era accontentato di qualche avventura notturna con le ragazze rimorchiate durante le lunghe serate del sabato passate al “Road to Hell”, dove Jim aveva sempre una consumazione gratis per aver rimesso in strada la vecchia “883” del proprietario, dopo che era stata ridotta come latta da un camionista ubriaco, che per uscire dall’area di parcheggio del locale, l’aveva schiacciata su una parete andando alla cieca in retromarcia.
Chiunque l’avrebbe buttata aspettando i soldi dell’assicurazione per ricomprarla, ma quella moto per Steve Collins era l’unico ricordo che lo legava a suo padre, che gliela regalò quando ancora Steve non aveva l’età per guidarla, come incentivo per impegnarsi di più nello studio ai tempi del college.
Il sabato Jim lasciava suo figlio a casa di Jasmine, sua sorella maggiore, che nonostante i problemi di salute che la affliggevano da anni, aveva sempre cercato di essere una mamma per il piccolo Henry.
Prima di andare a svegliare suo figlio, Jim entrò nel bagno e si guardò allo specchio, toccandosi la barba che da un paio di giorni aveva dato al suo volto spigoloso un’aria più vecchia e dura. Si sfilò le bretelle della tuta abbassandola sotto le ginocchia e si sedette sulla tazza. Prima di liberarsi, gli venne in mente Shelley, l’ultima puledra poco più che ventenne che si era portato a casa di ritorno dal “Road to Hell”.
Si masturbò velocemente. Ormai era diventato un professionista nell’organizzazione delle tempistiche per sbrigare le faccende casalinghe e se c’era una cosa alla quale non avrebbe mai rinunciato, era la sua sega mattutina.
“Shelley, Shelley… Dovremmo proprio rivederci.” Pensò Jim strappando la carta igienica dal rotolo per pulirsi.
«Ehi trottola, è ora di svegliarsi!» gridò da basso Jim mentre tornava in cucina.
«La colazione è in tavola e ti sta aspettando!».
Il piccolo Henry scese pochi minuti dopo, con la faccia stropicciata dal sonno e il solito sorriso sulle labbra.
«Ti prenderai un raffreddore a forza di andare in giro per casa a torso nudo!» Lo ammonì Jim, mentre mescolava i cereali nel latte per ammorbidirli come piacevano a Henry.
«Fa caldo anche oggi papà, non ho freddo…»
«Si trottola, le previsioni dicono che oggi raggiungeremo quasi venticinque gradi, se continua così domenica prossima ci facciamo una bella gita al lago o andiamo direttamente in spiaggia. Che scegli?»
«Spiaggia!» rispose Henry addentando il primo cucchiaio di quella poltiglia di cereali intrisi di latte.
«Ti ricordi che devi passare dalla zia Jasmine dopo scuola?» Chiese Jim al figlio con tono serio.
«Sì papà, ho già preparato lo zaino ieri sera. Ho messo tutto dentro e nel verso giusto».
«Bene. Mi dispiace non poter passare a prenderti e lasciarti con quel peso sulle spalle, ma gli Howard hanno bisogno della loro macchina entro l’ora di pranzo e prima devo dare una sistemata alla jeep di Ted.» Disse l’uomo nel tentativo di giustificarsi.
«Sono abbastanza grande per cavarmela da solo» rispose Henry con un tono che lasciava trapelare un certo orgoglio.
«Non hai ancora fatto gli esami delle elementari figliolo, c’è tempo per diventare grandi…»
«Gli esami sono tra un mese, quindi non devi più considerarmi un bambino!»
«Allora ne riparleremo dopo gli esami, c’è tempo per crescere Henry. Goditi i tuoi dieci anni, perché dopo tutto si complica…» Rispose l’uomo, senza nascondere una certa amarezza.
«Non può complicarsi più del compito di matematica che mi aspetta oggi. Odio la signorina Anderson e la sua faccia da trota…» Rispose Henry divertito.

«La matematica non è stata mai il mio forte ragazzo, ma ti conviene impararla bene… Almeno fino a quando non potrai permetterti una calcolatrice! Finisci di mangiare ora», disse ridendo Jim, prima di tornare davanti al televisore.

Capitolo 2


Puntuale come sempre, Jim lasciò il figlio davanti scuola e si fermò qualche istante a guardare quella moltitudine di ragazzini tra i cinque e gli undici anni entrare dentro il grande edificio scolastico tra risate, chiacchiere e grida, che mischiandosi tra loro emanavano un brusio delicato e gioioso, che sapeva di vita. Gli piaceva quell’eco, gli ricordava la sua infanzia e soprattutto gli regalava il buon umore. Se ne stava così Jim Lewis, come ipnotizzato, nascosto tra gli altri genitori, a osservare le mamme degli altri ragazzini parlare tra loro e fantasticava che tra quelle ci fosse sua moglie, immaginando come sarebbe stato bello essere lì in compagnia di sua moglie Bet e scambiare poi due chiacchiere con gli altri genitori prima di andare al lavoro.

Quella era una delle tante esperienze che la vita, dopo la prematura scomparsa della moglie, gli aveva negato per un destino beffardo. Un destino che Jim, a distanza di tanti anni non aveva ancora del tutto accettato.

Capitolo 3

Alle nove e trenta del mattino, il sole che filtrava dalla saracinesca dell’officina, era già una condizione di fastidio per Jim, che in quanto a produzione di sudore non era secondo a nessuno.
Il Mercedes degli Howard era un pezzo raro d’antiquariato: un 300 SL del 1954 con le ali di gabbiano come sportelli. Jim aveva dovuto attendere mesi prima di trovare la marmitta originale da sostituire, oltre a dover risolvere alcune problematiche meccaniche secondarie. Aveva in officina una macchina che valeva oltre quattro milioni di dollari e quel lavoretto gli avrebbe fatto guadagnare ben diecimila dollari. Gli Howard erano ricchi sfondati e Jim aveva avuto la fortuna di farsi amico Ronald Howard fin dai tempi del college, molto prima che sposasse Carol Spencer, la sua ricchissima e ancora più brutta moglie. Carol era probabilmente tra le donne più brutte di tutti gli Stati Uniti e neanche la chirurgia estetica era stata in grado di aiutarla, ma tutto questo per Ronald era sempre stato secondario, a lui interessava solo la ricchezza: -Non c’è bella fica che possa competere con un jet privato!- Rispondeva sempre così, quando qualcuno degli amici gli chiedeva come facesse a dormire con quella donna.
Jim, su consiglio e a spese di Ronald, si era rivolto a “Mr. Frankie -ricambi per auto di lusso”, uno che sapeva veramente trovare tutto e che si faceva pagare per il suo valore in quel campo. Quel Frankie aveva amici e clienti collezionisti da generazioni e tutti gli sfasci e i ladri d’auto degli Stati Uniti erano suoi fedeli collaboratori. Ovviamente Frankie era il soprannome di suo bisnonno Franco, figlio di genitori italiani immigrati negli Stati Uniti alla fine del 1800, esattamente dal 1882. Franco si era fatto da solo in modi probabilmente non troppo leciti ma efficaci, al punto che con i suoi ricambi di lusso, aveva reso la vita facile a tutti i suoi discendenti, compreso Tommy, che ora gestiva la ditta e che tutti chiamavano Frankie, come il suo bisnonno.
“Non voglio immaginare quanto tu abbia pagato questa marmitta Ronald, ma montarla non è stato affatto semplice”. Pensò Jim grondando di sudore sdraiato sotto l’auto.
Quei diecimila dollari erano una manna dal cielo. Jim Lewis non poteva permettersi assistenti nella sua officina, faceva tutto da solo, perché doveva risparmiare per mettere da parte i soldi per pagare i futuri studi del figlio e il mutuo della casa, che con la crisi aveva iniziato a pesargli oltre ogni previsione.
Quella di Jim, era una piccola officina e la maggior parte dei suoi pochi clienti gli portavano vecchi bidoni da riparare. Clienti come gli Howard erano rari come trovare un quadrifoglio su un prato. Chi aveva auto nuove e di lusso andava nelle officine autorizzate dalle case di produzione, così a Jim restavano solo i clienti amici o quelli che se la passavano peggio di lui e gli battevano uno sconto anche su una spesa di qualche decina di dollari. Discorso completamente diverso per il vecchio Wrangler di Ted Burton, quello era la vera occupazione di Jim Lewis: se lo trovava in officina almeno due mesi l’anno, non tanto perché la jeep avesse grandi problemi, ma perché Ted era un vecchio amico e da quando era andato in pensione non aveva meglio da fare che passare in officina una o due volte a settimana per far controllare il motore della sua jeep e farsi due chiacchiere con Jim.
Quel Wrangler era un mezzo da battaglia, rude e combattivo come il suo proprietario e il suo motore sarebbe andato avanti per altre cinquantamila miglia nelle peggiori condizioni atmosferiche, anche se borbottava da quando Ted una volta si scordò di rabboccare il liquido di raffreddamento e fece una grandiosa fumata bianca sull’Ocean drive, cosa che da quel giorno lo costrinse ad andare avanti con bottiglie di liquido nel bagagliaio e continui controlli presso l’officina dell’amico.
Faceva già un caldo boia, quando Jim tirò indietro il carrello sul quale era sdraiato di schiena per lavorare a quella dannata marmitta. Il suo volto e le mani erano sporche di grasso nero. Jim non si era mai tolto quel brutto vizio di asciugarsi il sudore della fronte con il palmo delle mani invece di utilizzare i polsi: unica soluzione per non sporcarsi la faccia quando si lavora senza guanti.
Una volta in piedi, Jim andò a controllare delle carte nel piccolo stanzino in fondo all’officina che fungeva contemporaneamente da ufficio, segreteria e stanza relax. Era l’unico diversivo che quell’ambiente offriva, oltre il piccolo cesso col quale confinava.
“Bollette, bollette e ancora bollette. Dannazione!” Pensò Jim mentre rimetteva in ordine le carte. Poi prese la cornetta dal telefono fisso posto sulla piccola scrivania quadrata attaccata alla parete e compose il numero di sua sorella Jasmine.
La avvertì che sarebbe passato Henry a pranzo, le chiese come si sentiva e le disse che prima o poi avrebbe voluto farsi un viaggio in Irlanda per rivedere il verde smeraldo delle colline e per far respirare a suo figlio l’aria fresca e ossigenante del suo Paese. Non che fosse un poeta Jim Lewis, ma aveva una sua sensibilità, che troppo spesso restava celata dietro l’espressione contratta della fronte, che gli avvicinava le sopracciglia e lo faceva sembrare un duro, tenendo così nascosta la gentile malinconia del suo sguardo.
Jim era cambiato molto dopo la morte di Bet, aveva perso lo smalto dei vecchi tempi, quello che gli faceva vedere tutto con una luce diversa, sicuramente positiva. Era molto legato a sua sorella Jasmine, anche se tra loro passavano quindici anni. Lui andava per i quarantotto e lei aveva superato i sessanta, con la differenza che Jim era in perfetta salute, mentre Jasmine era costretta a respirare con un solo polmone già da molti anni.
Arrivò prima Jim negli Stati Uniti, dopo aver passato i primi dieci anni di vita a Cork, in Irlanda. Suo padre era americano e aveva sposato una bella irlandese con la quale aveva avuto due figli a distanza di quindici anni. Poi sua madre morì quando Jim aveva ancora dieci anni e il padre tornò a vivere negli Stati Uniti portandosi dietro il piccolo Jim, mentre Jasmine, che aveva già un lavoro arrivò solo verso i quaranta, quando la sua salute era già compromessa e suo padre in fin di vita. Morgan Lewis morì lentamente, consumato dal morbo di Alzheimer, all’età di sessantadue anni, lasciando da soli i suoi figli, senza nessuna eredità rilevante e costringendoli alla conquista di una vita americana.
Gran parte dei soldi guadagnati attraverso la vendita del casa paterna, Jim li utilizzò per l’assistenza sanitaria di sua sorella e questo, nonostante i milli difetti del suo carattere gretto e la fissità del suo cervello non proprio illuminato, lo rendeva agli occhi della gente una persona degna di stima.
Accese la radio e la sintonizzò su una stazione che dava musica country. Gli piaceva quella musica, ancora di più da quando aveva imparato a ballarla bene a forza di frequentare il “Road to Hell” il sabato sera.
Si mise a trafficare sul motore della Wrangler di Ted. Come al solito era stato sufficiente dargli una controllata veloce, per poi rabboccare l’olio e il liquido di raffreddamento.
La sua concentrazione era tutta per la Mercedes-Benz di Ronald Howard, dopo la marmitta doveva occuparsi di rendere fluida l’alzata dello sportello del guidatore.
Ci lavorò un paio d’ore, dopodiché quell’ala di gabbiano tornò a levarsi in aria fluida, come quando uscì per la prima volta dalla fabbrica, ai bei vecchi tempi di quel mondo pieno di speranza, che era uscito da un decennio a petto in fuori dagli orrori della seconda guerra mondiale.
Subito dopo, Ted Burton si presentò in officina con due sacchetti di pollo fritto e una confezione da quattro di birre.
«Cavolo Jim, quel gioiellino vale più di casa tua e casa mia messe insieme! Si è fermata ad un Rockefeller in gita?» Esordì Ted con il suo timbro baritonale.
«È la preferita della collezione di Ronald Howard…» Rispose Jim sorridendo.
«Quel tuo amico sposato col mostro di Loch Ness?»
«Già, proprio lui…»
«E ti lascia quella banca ambulante nella tua officina? Al posto tuo avrei già pensato a farla sparire!» Disse Ted, scoppiando poi in una risata grassa.
«Non ti nego di averci pensato Ted, ma voglio farti vedere una cosa. Guarda lì, dall’altra parte della strada…» Rispose Jim, indicando con l’indice una vettura blindata nera con due uomini a bordo.
«Avevo notato l’auto. Chi sono quei due dentro?» Chiese curioso Ted.
«Guardie private ingaggiate dagli Howard. Stanno qui fuori da tre giorni, notte e giorno. Si sostituiscono ogni otto ore con altre due guardie. Ma non sono i soli, vieni a vedere dalla finestra del bagno. C’è un’altra auto blindata che sorveglia il retro…»
«Diavolo cosa non fanno i soldi!» Borbottò Ted seguendo l’amico nel piccolo bagno.
«Forse sposare quella donna non è stata un’idea così malvagia. Non trovi?» Chiese Jim a Ted sfilandogli dalle mani uno dei sacchetti di pollo fritto.
«Puoi giurarci amico, anche se avrà dovuto abbonarsi al Viagra, quella canaglia!»
«Magari a lui piace…»
«È peggio che andare con un uomo, Jim. Non può piacergli, è solo interesse!» Disse Ted dandosi un tono da maestro di vita.
«Peggio che andare con un uomo non c’è niente. Per quanto mi riguarda piuttosto preferirei una pecora, almeno è femmina!» Disse Jim con un’espressione di disgusto.
«Ho sentito dire dalla mia ex moglie che gli omofobi in realtà sono degli omosessuali repressi, amico…» Rispose Ted addentando un pezzo di pollo fritto per nascondere una risata.
«Non è il mio caso. Non che abbia nulla contro di loro, ma devono starmi a dieci metri di distanza. Facessero quello che vogliono del loro culo, ma io non devo saperlo e al mio non devono avvicinarsi… Ah grazie per il pollo e la birra, amico, e non strozzarti!» Disse Jim prima di assaggiare il primo boccone di pollo, mentre Ted tossiva per il suo, che ridendo gli era andato di traverso.
«Bevici sopra, amico. Non vorrei trovarmi un cadavere in officina…» Disse ironicamente Jim, mentre Ted si riprendeva da quell’accenno di soffocamento tracannando la lattina di birra per metà.
«La mia jeep come sta?» Chiese Ted, dopo essersi buttato giù l’altra metà della birra e aver buttato la lattina in un cestino.
«Una bomba Ted, è resistente come un carro armato!»
«Sapevano farle le cose una volta, amico… Ora è tutta robaccia!» Disse Ted prima di stappare un’altra lattina di birra e dare un lungo sorso.
«Già…» Rispose Jim guardando l’orologio, che segnava quasi le dodici.

Ted Burton si lasciò andare ad un rutto liberatorio, che attraverso quella sua imponente cassa toracica, risuonò al punto che fece girare anche le due guardie private ingaggiate da Ronald Howard per sorvegliare la sua Mercedes.

Capitolo 4


Henry aveva passato la prima delle due ore a disposizione per svolgere il compito di matematica, compiendo quattro azioni ripetitive, caratterizzate da movimenti regolari del collo: il primo a sinistra guardando fuori dalla finestra, il secondo poco a destra per sbirciare cosa Nicolas, il suo compagno di banco, stesse elaborando sul suo foglio a quadretti, il terzo in avanti per assicurarsi che la signorina Anderson guardasse altrove e il quarto in avanti a destra per cercare con lo sguardo la complicità di Joanna, che invece era concentratissima, con la testa china sul banco, a scrivere velocemente calcoli impossibili per Henry.
«Non so proprio farlo…» Sussurrò Henry a Nicolas.
«Allora cerca di copiare», gli rispose Nicolas sottovoce senza neanche girarsi a guardarlo.
Avrebbe anche copiato Henry, ma Nicolas era già impegnato a scrivere la terza pagina di calcoli e lui era ancora fermo alla prima.

“Chi se ne frega”, pensò Henry girando pagina e iniziando a copiare quel poco che riusciva a sbirciare dal foglio di Nicolas.

Capitolo 5


A New York, Barbara Harrison stava attraversando di corsa il Central Park da nord a sud. Non c’era caldo o gelo che la facesse rinunciare al suo allenamento quotidiano, anche se in certe occasioni era costretta a saltarlo per complicate questioni di lavoro e in quel caso si accontentava del tapis roulant nel suo appartamento o di quelli che trovava nelle palestre degli alberghi quando era fuori città.
Alle tredici aveva appuntamento con Robert, avrebbe pranzato con lui -si erano riappacificati al telefono la sera precedente- e nel pomeriggio sarebbero partiti insieme per passere il week end nel Maine, dove Robert aveva un cottage nei boschi, che Barbara considerava il loro rifugio romantico.
Robert aveva già quarantasette anni, una carriera avviata e avrebbe voluto che la relazione con Barbara prendesse una piega più seria. Non che a lei non piacesse Robert e non avesse pensato a spingere oltre il rapporto, ormai si frequentavano da qualche anno, ma lui sembrava non avere più troppa comprensione per gli orari lavorativi della donna. Lei poteva essere presente una settimana intera e poi sparire improvvisamente per giorni o nel peggiore dei casi per settimane. Questo faceva impazzire Robert, ma per Barbara il suo lavoro veniva prima di tutto, anche se da qualche settimana, proprio dopo che Robert si era allontanato da lei, aveva riconsiderato le priorità della sua vita.
Barbara aveva già quarantadue anni e se avesse deciso di diventare madre, avrebbe dovuto darsi una mossa, per non sembrare negli anni successivi la nonna di suo figlio accompagnandolo al suo primo giorno di scuola.

A lei piaceva stare sul campo, era una donna che amava spostarsi e preferiva l’azione alla sedentarietà dell’ufficio, ma in fin dei conti, dalla sua carriera aveva già ottenuto tutto quello che desiderava e allo stesso tempo, raggiungere quell’obiettivo, gli aveva sottratto dalla vita privata più di quanto avesse potuto immaginare. Era pronta a cambiare le carte in tavola perché amava quell’uomo e sapeva che non ne avrebbe trovato un altro come lui e alla lunga, si sarebbe ritrovata o avrebbe preferito rimanere da sola. “Una zitella vestita come un maschio e con un pessimo carattere. Ecco cosa sarò!” Pensò Barbara lungo la West drive, mentre girava a sud del Central Park allungando il passo della sua corsa per raggiungere la Est drive, da dove poi sarebbe uscita sulla settantaduesima strada, in direzione del suo appartamento, avendo giusto il tempo di farsi una doccia e chiudere la valigia.

Capitolo 6


Robert Brown aveva prenotato da Erminia, un ristorante italiano nell’Upper East Side, che da qualche tempo era finito nella top ten della Eyewitness travel.
Barbara era di origine italiana e Robert sapeva che avrebbe apprezzato quella cucina, anche se le sue origini risalivano solo alla sua nonna materna e lei non era mai stata nel “bel paese”.

Nel Maine, Robert le avrebbe chiesto di sposarlo e voleva che fosse tutto perfetto. Amava quella donna e voleva che lei diventasse sua moglie. Lo aveva confidato anche a suo padre, proprio quella mattina, in una telefonata prima di uscire dall’ufficio e lui gli aveva risposto che questa era la più grande cretinata che avesse sentito dire da suo figlio in tutta la sua vita: “Hai retto alla grande fino adesso e ora vuoi incastrarti figliolo?” Il ricordo delle parole di suo padre fece ridere Robert, intento da qualche minuto a passarsi il filo interdentale davanti lo specchio del bagno. Robert aveva un’ossessione per i denti, se li lavava almeno dieci volte al giorno e si passava il filo interdentale anche se mangiava un paio di olive per accompagnare un aperitivo. Aveva sempre con se la sua fedele scatolina bianca del filo interdentale. Da adolescente aveva perso tre denti sbattendo la faccia a terra dopo essere volato dalla bici: aveva preso male una curva alla fine di una ripida discesa condotta a velocità folle. Si era anche rotto un braccio, il naso e aveva escoriazioni profonde su entrambe le ginocchia. Era rimasto vivo fortunatamente, ma guardarsi senza denti per tre mesi, fu per lui un trauma senza eguali. Aveva perso un canino e i premolari, e per uno che della sua risata faceva un must per rimorchiare le ragazze, quello era stato un vero e proprio dramma esistenziale, che sarebbe potuto diventare generazionale, considerando che era stato uno dei tre ragazzi più belli del college. Poteva farseli rimettere prima, ma il padre lo volle punire per far capire al figlio che tutti sono fatti di carne e ossa e che non esistono i supereroi. La lezione gli servì, perché Robert di guai in quegli anni ne aveva combinati molti, ma dopo quell'esperienza il ragazzo mise la testa sulle spalle, fino a divenire Robert Brown: il titolare di una delle migliori ditte di ristrutturazione della città di New York, dove poteva contare sul miglior carpentiere in circolazione: suo fratello James. Quei due, insieme alla loro squadra, erano in grado di entrare in un appartamento fatiscente e farlo diventare di lusso in poche settimane.

Capitolo 7


La signorina Anderson, con quella sua voce stridula e quello sguardo da avvoltoio, faceva sempre sudare freddo Henry e anche se non parlava e si limitava solo a guardarlo, l’espressione della maestra di matematica sembrava dire sempre la stessa cosa: “Non ci arriverai agli esami, te lo posso assicurare”.
La primavera era arrivata da tempo e alla Northfield Elementary School, tutti respiravano già l’aria dell’estate. A confermarlo era quella fastidiosa gara d’inseguimento circolare tra due mosche intente all’accoppiamento. Con la mano destra Henry cacciò le mosche lontano dalla sua faccia, verso il centro dell’aula, dove la classe attendeva che la signorina Anderson ritirasse quel compito irrisolvibile per Henry, che invece dei numeri amava le lettere e con quelle ci sapeva fare.
Lo squillo della sveglia sulla scrivania della maestra, era il segnale che faceva iniziare il conto alla rovescia di sessanta secondi, prima che gli alunni dovessero posare le loro penne sul banco.
«Sessanta, cinquantanove, cinquantotto, cinquantasette, cinquantasei…»
Si divertiva quella stronza a contare all’indietro fino allo zero. Quel sorrisetto la tradiva e sembrava diventare eccitato quando incrociava lo sguardo di qualche alunno in difficoltà, che le implorava pietosamente più tempo.
Quando la maestra era arrivata a contare il numero trenta, Henry aveva già posato la sua penna. Guardava impassibile il foglio, dove oltre un quadrato e qualche moltiplicazione esatta, per il resto non aveva concluso molto, soprattutto con le divisioni: roba impossibile oltre certe cifre.
Joanna disse ad alta voce che le sarebbe bastato solo un minuto in più.
«Il tempo non mente mai! Undici, dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno… Zerooooo!»
La maestra si alzò dalla sedia, superò la cattedra e andò a ritirare per primo il compito di Joanna, che si buttò con le braccia sul foglio protocollo a quadretti, nel disperato quanto inutile tentativo di trattenerlo dalla presa della mano della signorina Anderson.
«Voglio vedere tutte le penne sui banchi. Chiaro?». Disse la maestra sventolando in aria il compito di Joanna.
Joanna Longowa era di origine polacca. Era la più carina della classe con i suoi lunghi capelli biondi, gli occhi blu e quella carnagione chiara che risaltava il rosa delle sue labbra. A Henry era sempre piaciuta, fin dal terzo anno, quando Joanna arrivò nella sua classe dopo essersi trasferita con la sua famiglia nel New Jersey. Era brava in tutte le materie e se aveva un difetto era un eccesso di perfezionismo: Henry era sicuro che lei avesse già finito perfettamente il suo compito e risolto tutti i calcoli e anche il problema, ma che forse voleva consegnarlo con tanto di cornicette per abbellire il foglio protocollo.
«Cos’è questa roba Henry Lewis?»
«È il mio compito…» Rispose timidamente Henry alla maestra. Qualche ragazzino non riuscì a trattenere una risata. Tutti sapevano che Henry era una capra in matematica, ma nessuno aveva il coraggio di prenderlo troppo in giro davanti alla signorina Anderson, perché altrimenti lei avrebbe fatto volare note come chicchi di riso ad un matrimonio o peggio, avrebbe fatto saltare la ricreazione per una settimana all’intera classe.
«Non deve volare una mosca. Chiaro?» Urlò la maestra, mentre levando il braccio in aria e stringendo improvvisamente le dita della mano in pungo, afferrò le due malcapitate mosche che cercavano di accoppiarsi. Poi si diresse verso la finestra aperta e lanciò fuori gli insetti tramortiti, come fossero due molliche di pane da gettare ai passeri.

Quando la signorina Anderson finì il suo giro tra i banchi ritirando tutti i compiti, regnava il silenzio più assoluto e solo la campanella che segnava la fine della lezione riportò la classe al normale trambusto.

Capitolo 8


Ted Burton lasciò l’officina di Jim alla guida del suo vecchio Wrangler intorno a mezzogiorno e in neanche un’ora aveva raggiunto Jersey City per andare a passare qualche ora con gli amici della Firearms Academy. All’ingresso incontrò come al solito Leland Wright, che se ne stava seduto immobile al sole con la naturalezza di una lucertola, senza neanche sembrare accaldato. Leland aveva superato abbondantemente i settanta, ma quella pellaccia secca e il suo look lo facevano sembrare più giovane di quindici anni. Portava un berretto dei marines sui capelli bianchi cortissimi, una maglietta blu con scritto “la mia ragazza è il mio fucile”, pantaloni mimetici a scala di grigi e scarpe tattiche nere.
«Pensavo che non venissi più!» Disse Leland quando gli si presentò davanti Ted.
«Figurati se rinunciavo a sfidarti con l’M4», rispose Burton con il sorriso di un ragazzino.
Leland iniziò a ridere guardando l’amico e si alzò dalla sedia di plastica.
«Vecchio figlio di puttana… Aspetta che chiedo a Charlie di sostituirmi alla porta.» Rispose Leland prendendo la radio dalla tasca laterale della mimetica per contattare l’amico.
Dentro la Firearms Academy non c’era la ressa del week end e si sarebbe potuto sparare al poligono senza fare troppa fila. La faccia di Wayne LaPierre, il vice presidente del National Rifle Associtaion, era ben esposta su un poster incorniciato vicino al bancone delle armi automatiche.
«Vuoi delle mozzarelle sticks?» Chiese Leland a Ted.
«No, capo. Casomai più tardi. Ho fatto colazione giusto un’oretta fa.» Rispose Ted che bramava di impugnare l’M4 da assalto.
«Fai come ti pare, io me le prendo», gli disse Leland avviandosi al grande bancone del bar.
Tutti salutavano Leland con rispetto e tutti, come aveva fatto Ted, lo chiamavano con l’appellativo di “capo”, forse per questo la sua maglietta preferita aveva stampata in giallo la scritta “chief” a caratteri enormi. Quella era la maglietta che Leland portava nei week end, quando alla Firearms arrivavano centinaia di americani amanti delle armi con tanto di famiglie al seguito. Non che venissero tutti a sparare o a fare corsi per un corretto utilizzo delle armi da fuoco, ma l’accademia era uno dei luoghi di socializzazione preferiti dai fanatici del secondo emendamento. La domenica la Firearms era il luogo dove si concentrava un pubblico multietnico ed eterogeneo, un campionario umano variopinto e per la maggior parte composto da persone in disaccordo con l’idea di Obama di discutere al Congresso una legge per impedire l’uso e l’acquisto delle armi automatiche.
«Dai maggiore, vieni a bere una birra per farmi compagnia!» Urlò Leland in direzione di Ted, mentre questo ansimava nell’attesa di impugnare l’M4A1.
«A una birra non dico mai di no!» Rispose Ted avviandosi verso il bancone del bar.
Leland mangiava le mozzarelline fritte ancora bollenti e il suo palato e la sua lingua non sembravano soffrirne affatto.
«Dai prendine una…» Disse il capo Wright a Ted, che non se lo fece ripete due volte e addentò una di quelle mozzarelle stando attento a non ustionarsi la bocca.
«Domenica scorsa è passato un giornalista italiano, sai uno di quei rompi coglioni senza disciplina che sono nati obiettori di coscienza e che pensano di essere più intelligenti degli altri. L’ho individuato subito. Sembrava un pesce fuor d’acqua!»
«Che voleva?» Rispose Ted.
«Sai come sono gli europei, per lo più democratici e alla ricerca di interviste per capire cosa ci spinge a possedere armi».
«E ti ha intervistato?»
«Certo, ma se ci fossi stato avrebbe intervistato anche te» Replicò Leland.
«E che ti ha chiesto?»
«Le solite stronzate che associano il possesso delle armi con le stragi nelle scuole e roba simile… Le armi non sparano da sole, gli ho detto… E se lui avesse ragionato un instante su quanti americani possiedo armi, seguendo la sua teoria avrebbe dovuto trovare gli interi Stati Uniti come una landa popolata dai fantasmi di gente che si è sparata addosso per divertimento. Mi fanno venire il sangue al cervello i paragoni tra quelli come noi, che difendono il secondo emendamento e qualche fottuto svitato. Abbiamo più di trecento milioni di armi in giro e vogliono fare i maestri di etica! Che si fottano, loro e le loro pietre antiche!» Disse rosso di rabbia sul volto il capo Wright.
«Hai fatto bene a cantargliele chief. Me la immagino quella fichetta di giornalista mentre ti faceva le domande con l’intento di farti la morale. Gli europei poi cosa sono? Pensi che qualcuno di loro creda in quella bandiera blu con le stelline? Non capisco cosa aspettano gli inglesi a dargli il ben servito! Quei popoli si sopportano a malapena tra loro e non parlano neanche la stessa lingua, li unisce solo quella stupida moneta, che dovrebbe stare sotto al dollaro tanto per cominciare… Restassero pure disarmati e pronti a farsi fare fottere da qualsiasi governo malato! Sembra si siano già scordati dei loro fottuti dittatori, ma tanto continueranno a non capire l’importanza del secondo emendamento ed a vederci solo come cowboys, anche quando arriverà qualche pazzo esaltato a fargli nuovamente il culo e saranno costretti ad implorare il nostro aiuto…»
«Già, fanno un fischio e parte la cavalleria!»
«E ti dirò di più, sono anche sicuro che si faranno le seghe ascoltando Obama in TV e me li immagino borbottare per qualsiasi cazzo accada nel mondo dando la colpa agli Stati Uniti d’America!»
«Proprio così, Ted!» Disse il capo Wright battendo un pugno sul bancone di legno del bar.
«Certo capo, non ti nego che alla mia età, anche io sto iniziando a pensare che forse sia giusto limitare la vendita delle armi ai civili. Mi riferisco alle automatiche. Quelle dovrebbero averle solo quelli con la testa sulle spalle e tutte le rotelle a posto. Ancora meglio sarebbe limitarle solo a chi ha prestato la sua vita a una divisa e che ha fatto un giuramento: gente fidata, gente che ama questo Paese e la sua bandiera, gente come noi Leland…» Disse Burton prima di dare un lungo sorso alla sua birra.
«Sì, ma bisogna essere sempre pronti a proteggersi nel migliore dei modi…».
«Per proteggersi, una buona pistola è più che sufficiente e certe armi servono solo in guerra.» Rispose Burton, ancora trascinato emotivamente nella discussione dall’impeto precedente di Wright.
«Dipende sempre dal nemico Ted. Come si chiamava quel film western italiano dove Clint Eastwood diceva: “quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto”?»
«Non sapevo gli italiani girassero film!» Rispose Ted scoppiando a ridere fragorosamente insieme a Leland e al barista che li aveva ascolti parlare.
«Sei una canaglia Ted Burton e mi sei sempre piaciuto per questo, ma quello era un gran film te lo posso assicurare!»
Ted e il capo Wright finirono le loro birre in fretta, prima di andare a ritirare i loro fucili da assalto per sfidarsi al poligono.
«Oggi offre la casa, per te maggiore vale quello che c’è scritto su quel cartello.» Disse Leland a Ted, indicando il cartello con su scritto: “kids shoot free”.
«Grazie nonno, ma non serviva il cartello: solo guardarti mi fa già sentire giovane, anche se sono un ufficiale in pensione», rispose Burton con tono ironico.
«Ti farò sentire un poppante, appena confronteremo il risultato dei tiri con l’M4. Puoi scommetterci dieci birre, amico!» Disse Leland a Ted.

«Vada per le dieci birre, nonno. Ti batterò solo per non doverti portare a casa in braccio dopo avertele viste bere tutte di fila…» Rispose Burton ridendo e seguendo l’amico fino all’area di tiro con il fucile in spalla e le scatole delle munizioni tenute saldamente con le mani.

Capitolo 9


Henry, nell’intervallo tra una lezione e l’altra, si rilassò e dimenticò subito del suo compito in classe, quando dalla finestra improvvisamente sentì giungere la musica inconfondibile del furgone dei gelati, anzi a dirla tutta non era la solita musica, ma gli somigliava molto. Henry si affacciò e vide che anche il furgone non era il solito.
“Deve aver cambiato furgone il signor Smith…” Pensò il ragazzo, rendendosi conto che al buon vecchio Smith dovevano esser andate male le cose, visto che il grande furgone bianco colorato di rosa, che portava sul tetto un enorme cono gelato di plastica, era stato sostituito da un vecchio furgoncino grigio che aveva giusto qualche modifica su una fiancata. Quel mezzo sembrava uscito da una delle tante fotografie impresse nei volumi di storia sulla Seconda Guerra, che il padre di Henry teneva in bella vista nella libreria del soggiorno e che Bet aveva acquistato in una fiera dell’usato quando era incinta.
“Certo! Sarà stato per colpa della pioggia… La scorsa Estate è durata praticamente solo un mese e il signor Smith non deve aver fatto buoni affari, così si sarà venduto il furgone e l'avrà sostituito con questo!”.
«A che pensi Henry?» Chiese Nicolas infilando il dito indice tra le costole di Henry.
«A niente, guardavo fuori la finestra. Mi è venuta voglia di gelato».
«Perché?» Domandò Nicolas guardando negli occhi Henry.
«Perché è passato il signor Smith col nuovo furgone!»
Nicolas spostò lo sguardo alla finestra, fece due passi avanti e mise il capo fuori, girandolo a destra e sinistra, poi si voltò verso Henry e gli infilò entrambi gli indici tra le costole, proprio sotto al petto. Henry emise un verso goffo di dolore buttando fuori tutta l’aria dai polmoni e piegandosi in avanti. «Volevi farmela Henry Lewis, ma io l’ho fatta a te!» disse il ragazzino dai capelli rossi ridendosela divertito.
«Seduti ragazzi», esordì il vecchio maestro Johnson entrando in classe col solito passo incerto, il berretto da baseball dei NY Yankees e il New York Times sotto braccio.
«Oggi parleremo del Presidente Kennedy e sono sicuro che vi piacerà!»
Mentre Johnson andava a sedersi riponendo prima il quotidiano e poi il berretto sulla cattedra, Henry, che si era ripreso dal doppio colpo micidiale inferto da Nicolas alle sue costole, prima di sedersi tornò a guardare fuori dalla finestra, per vedere se ci fosse ancora il furgone del signor Smith, ma non vide nulla.
“Doveva aver fretta”, pensò Henry andando a sedersi al suo banco e guadando il signor Johnson intento ad aprire il quotidiano per mostrarlo alla classe.
Henry capì che la storia di quel Presidente, non solo gli avrebbe fatto scordare immediatamente la signorina Anderson e il compito di matematica, ma gli avrebbe sedato anche quella irresistibile voglia di cono gelato che la vista del furgoncino gli aveva fatto venire.

KENNEDY ÈSTATO UCCISO DA UN CECCHINO

Era il titolo di quell’edizione del giornale. La lezione sarebbe stata interessante e lo si capiva dagli sguardi assorti degli studenti sul titolo di quel vecchio quotidiano. Nicolas fu talmente sbalordito da non togliersi in tempo il mignolo da una narice nel tentativo di scavare a fondo tra le pietre poco preziose del suo naso lentigginoso.
«Togliti quel dito dal naso Nicolas. Vivo o morto che sia, dobbiamo avere sempre rispetto quando si parla di un Presidente degli Stati Uniti d’America; non c’è caccola che tenga. Se non puoi soffiarti il naso, devi tenerti il fastidio. Devi sopportarlo.» Lo ammonì il maestro Johnson.
Nessuno rise, lo sguardo del vecchio maestro era penetrante e il timbro della voce era quello profondo

Capitolo 10

Barbara Harrison, pur non volendolo, era bellissima e quando si vestiva con femminilità, era una di quelle donne che avrebbero fatto perdere la testa a qualsiasi uomo. Era talmente abituata ad essere corteggiata, che già dai tempi del college aveva finito per annoiarsi delle continue avances dei ragazzi ed era schifata da quelle degli adulti, che cercavano spudoratamente di rimorchiarla nonostante fosse ancora minorenne. Tra questi c’era anche un amico d’infanzia di suo padre, Donald Coleman, che durante una vacanza in Florida ebbe la geniale idea di infilarsi nella stanza di Barbara quando lei non aveva neanche quindici anni. Lo fece al terzo giorno di vacanza, mezzo ubriaco e nel cuore della notte, approfittando che sua moglie e i genitori di Barbara fossero rimasti a ballare musica hawaiana durante una noiosa festa sulla spiaggia, organizzata vicino la casa che le due coppie avevano affittato insieme.
Solo l’amicizia di lunga data con il padre di Barbara, salvò Donald da una denuncia per tentata violenza sessuale su una minorenne, ma non lo salvò dall’ira di Barbara, che a quell’epoca aveva già un grande talento per le arti marziali, precisamente il taekwondo, che praticava già da quattro anni. Coleman quella notte aveva vissuto un vero e proprio incubo: si era prima illuso che la giovane fosse disponibile a una sveltina con lui, quando lei lo assecondò alzandosi dal letto con solo gli slip indosso dopo essersi sentita sfiorare maliziosamente le natiche dalle dita avide dell’uomo, e dopo pochi secondi si era ritrovato con un occhio nero e una costola spezzata, riverso sul pavimento. Invece di un bacio, si prese un cazzotto e un calcio che neanche vide partire talmente furono veloci, nel buio della stanza, i movimenti dell’allora giovanissima Barbara Harrison.
Barbara gli disse che non avrebbe detto nulla ai suoi genitori, che sarebbe stato lui a doversi inventare una scusa per quei colpi presi, ma che se ci avesse solo riprovato, lo avrebbe prima ucciso e poi denunciato.
Donald Coleman disse a sua moglie e ai genitori di Barbara che ignoti avevano cercato di rubargli il portafoglio e che nel tentativo di difendersi aveva avuto la peggio. La vacanza in Florida per lui e sua moglie finì il giorno seguente, quando ripartirono poche ore dopo le prime cure in ospedale. Negli anni, poi, le frequentazioni tra i Coleman e gli Harrison diminuirono drasticamente e Barbara non fu mai presente in quelle occasioni. Donald si vergognava di aver fatto quello che aveva fatto e trovava sempre scuse diverse per arginare gli inviti dell’amico Antony Harrison, fino a quando il padre di Barbara si stufò e decise di non chiamare più Donald.
“Fai bene a non cercarlo più papà, quel tuo amico l’ho sempre considerato un viscido e un’idiota… E poi sua moglie è sempre stata invidiosa della bellezza di mamma”, era così che Barbara se ne usciva ogni volta che in casa veniva tirato in ballo l’argomento: “che fine hanno fatto i Coleman?” Fino a quando di loro, col tempo, in casa Harrison non si fece più parola.
Tornando a casa dopo l’ora di corsa a Central Park, il portiere dello stabile fermò Barbara per consegnarle un pacco.
«Chi lo manda?» Chiese curiosa Barbara.
«Viene da un atelier italiano miss Harrison, di più non saprei dirle», rispose il portiere sorridendole.
Salita al quarto piano dello stabile nell’Upper East Side, Barbara chiuse la porta del suo appartamento spingendola dietro le sue spalle con un piede e si affrettò a sistemare il pacco sul tavolo del luminoso soggiorno.
Era indecisa se aprirlo subito o se prima farsi la doccia e anche se in lei era salita una certa eccitazione e quella curiosità tipica, che le ricordò di quando bambina si svegliava prima di tutti il mattino del Natale e senza farsi sentire, camminando sulle punte dei piedi, andava a posizionarsi dietro i vetri fumé della porta scorrevole del salone per sbirciare i pacchi regalo fantasticando su Babbo Natale e poi tornando, sempre silenziosamente, nella sua cameretta a far finta di dormire, prima che si svegliassero suo fratello e i suoi genitori. Come allora, prevalsero la sua pazienza e la sua forza di carattere e razionalmente concluse che farsi freddare il sudore addosso non sarebbe stata una grande idea.
Sotto la doccia calda, avvolta dal vapore, pensava a chi avrebbe potuto inviarle un regalo dall’Italia, era sicura fosse stato Robert, anche se sua madre le aveva promesso un regalo speciale per il suo compleanno, che sarebbe giunto tra un paio di settimane, ma il suo intuito non sbagliò: a far inviare il pacco era stato Robert.
Barbara aprì il pacco solo dopo aver messo le ultime cose nel bagaglio che avrebbe preso più tardi, prima di partire con Robert per il loro week end nel Maine.
Sul biglietto che trovò aprendo il cartone, c’era scritto solo: “per te…”, firmato con le iniziali di Robert Brown: “RB”.
Robert non era uno di quegli uomini che si dilungava a scrivere, preferiva dire le cose a voce, gli veniva più naturale.
Barbara slacciò il nastro di seta rossa che avvolgeva l’elegante scatola bianca dove era stampata la scritta “Atelier Livia Risi”. Dentro c’era uno splendido abito, un unico esemplare chiamato “Pizzo Jersey BuyBy” disegnato e creato dalla stilista italiana. L’abito era tagliato di sbieco e questo rendeva il processo di cucitura dei teli più complicato e imponeva un consumo di stoffa non indifferente, ma solo un abito tagliato di sbieco danza perfettamente con la falcata di una donna. Era di color fucsia, con la scollatura a V nera che arrivava fino allo sterno e si poteva portare anche senza reggiseno grazie all’elastico ricamato di nero, che seguiva il seno e il sotto seno. Quell’abito era un must della stilista italiana, un evergreen, che tornava aggiornato in ogni collezione primavera-estate. Era ricamato di pizzo con teli di strati differenti: doppi sul davanti, dove dovevano coprire di più e singoli dove si poteva lasciare intravedere con eleganza e sensualità la bellezza di un corpo femminile armonioso come quello della Harrison, che quell’abito avrebbe esaltato ancora di più.
«Wow!» Esclamò Barbara quando distese l’abito sul suo letto per ammirarlo.
La Harrison non era solita vestirsi in maniera femminile, dentro di lei batteva il cuore di un maschiaccio e cercava di evitare il più possibile abiti femminili o succinti. Certo qualsiasi cosa avesse indossato sarebbe stata divinamente sul suo corpo, ma lei voleva essere considerata dagli uomini e dalle donne soprattutto per altre qualità, quelle che andavano ben oltre l’apparenza estetica e che alla fine, in un modo o nell’altro, finivano tutti per riconoscerle. Soprattuto sul lavoro non accettava di buon grado gli sguardi di quelli che cercavano di farle una lastra attraverso i vestiti.
“Se non vuoi avere problemi con me, resta concentrato e non perderti in inutili fantasie. Sono stata abbastanza chiara?” Era la frase che ripeteva sempre quando qualcuno che incontrava per la prima volta esagerava a fissarla durante le ore di lavoro.
Portava i suoi quarantadue anni con lo splendore di una magia che aveva fermato il tempo già da un decennio e quando Barbara si vide allo specchio con quell’abito indosso, la sua raffinata bellezza e l’innata eleganza si esaltarono al punto di stupirla.
Robert accettava il lato maschile e talvolta, nel privato, trasandato di Barbara, ma la voleva vedere anche così: affascinate e femminile, una donna eterea e irraggiungibile, capace nella semplicità di qualsiasi gesto il suo corpo compiesse, di ipnotizzarlo e farlo innamorare di nuovo. Quel giorno Barbara lo avrebbe accontentato, così dopo essersi passata un filo di matita sui suoi occhi di gatta e aver trovato i sandali adatti da indossare insieme a quello splendido abito, uscì di casa per recarsi al ristorante dove lui la attendeva.
La Harrison era felice di quel chiarimento telefonico avvenuto il giorno precedente e di come Robert riuscisse sempre a sorprenderla. Alcune settimane senza di lui, avevano allargato quell’insopportabile senso di vuoto che Barbara provava da quando ancora bambina perse suo fratello maggiore a causa di un improvviso e inspiegabile arresto cardiaco avvenuto nel sonno. Da quel giorno, la dolce e sensibile bambina, cambiò il suo carattere e prese le caratteristiche che ricordava fossero le più evidenti nel fratello: la forza e il coraggio, divenendo così la Barbara Harrison capace di incarnare le aspettative che la sua famiglia aveva inizialmente riposto in entrambi i figli, nel tentativo di alleviare quel tremendo dolore che i suoi genitori portavano nel cuore dal giorno della morte di suo fratello Richard.

Nel tempo la Harrison aveva avuto storie con diversi uomini, ma solo con Robert aveva assaporato quel senso familiare, pregno di calore e protezione, che lo rendeva diverso dagli altri. Perdere un uomo così sarebbe stato un errore. Lui la amava alla follia, lei lo sapeva ed a modo suo, sotto tutte le sue corazze, ricambiava quel sentimento. Quell’uomo le chiedeva soltanto di esserci, di vivere il presente per non condizionare il futuro e di viaggiare insieme nel percorso della loro esistenza, almeno finché l’amore li avrebbe uniti, e lui non avrebbe voluto altro che giurarle amore eterno.

Capitolo 11


Ronald Howard lasciò felice l’officina di Jim Lewis alla guida della sua macchina d’epoca, scortato dalle stesse due auto blindate che aveva lasciato da giorni a protezione della sua Mercedes. Jim era felice di essersi sbarazzato così presto di quella situazione, Ronald aveva fretta e lui non chiedeva di meglio. Da adulti, non hanno più molto da dirsi un miliardario e un meccanico, se non rivangare qualche vecchia situazione legata a ricordi sfocati e spesso inventati dei tempi della scuola, che tra l’altro erano sempre e solo ricordi rivisitati dalla fantasia di Ronald, talvolta così lontani dalla realtà, che Jim faticava ad assecondarli con credibilità. Ronald aveva almeno il buon gusto di non parlare di economia e politica, magari lamentandosi, per cercare goffamente di essere solidale con i problemi dell’amico e delle classi sociali meno agiate. Era un cazzaro, ma non un cretino Ronald e questo Jim lo apprezzava, come apprezzava quell'assegno da diecimila dollari che teneva stretto tra le mani.
“Diecimila dollari per montare una marmitta e ridare fluidità ad uno sportello è una rapina con scasso… Che Dio ti benedica Ronald, tu e le tue cazzate sui tempi che furono!” Pensò Jim scoppiando a ridere da solo. Ormai il caldo nell’officina era insopportabile. Dopo aver piegato e assicurato l’assegno nel portafogli, si diresse nel bagno per bagnarsi la testa con l’acqua fredda. Per quel giorno avrebbe chiuso le saracinesche della sua officina, sarebbe andato a prendere Henry a scuola e con suo figlio sarebbe poi andato da sua sorella Jasmine, avrebbero pranzato insieme e poi lui sarebbe andato in banca e avrebbe depositato quell’assegno di tutto rispetto, magari pure cambiandosi d’abito prima.
Sarebbe certamente andata così se uscendo dal bagno e tornando nell’officina, non si fosse trovato davanti ai suoi occhi Shelley Logan a bordo del suo scooter, vestita solo con un paio di infradito, dei pantaloncini cortissimi bianchi e una canottiera rosa, che senza reggiseno sotto, lasciava intravedere le forme di quel seno a coppa di champagne e i suoi capezzoli eternamente turgidi.
«Si ingolfa Jim, puoi aiutarmi?» Disse Shelley con quell’aria sexy e imbronciata, che solo certe ragazze pericolose sanno assumere.
«Forse il tuo scooter ha bisogno di una sturatina, Shelley…»
«Sì, credo di sì Jim, e penso che solo tu puoi aiutarmi. Sai non vorrei rimanere a piedi sotto questo sole…» Rispose Shelley maliziosamente, allargando le gambe e spingendosi indietro sulla sella per azionare il cavalletto.
“Incredibile che tu abbia poco più di vent’anni, Shelley. Youporn ti ha fottuto il cervello insieme a tutta la tua generazione e io mi metto in fila. Avevo perso il numeretto, ma ora credo si giunto nuovamente il mio turno…” Pensò Jim Lewis avvicinandosi allo scooter della ragazza.
«Ti dispiace se abbasso la saracinesca? Sai il caldo qui dentro è insopportabile…»
«Fai pure. Hai qualcosa da bere qui?» Rispose Shelley legandosi i capelli dietro la nuca con un elastico preso dal polso.
«C’è un frigo nell’ufficio. Prendi quello che vuoi e scegli anche per me», disse Jim prima di tirare giù la saracinesca.
Shelley si presentò con due bottiglie piccole di vodka, quelle che si trovano nei frigobar degli alberghi.
«Ehi piccola, te la senti di fartela in un sorso o per te è troppo?»
«Ho una gran sete Jim…» Rispose Shelly, subito prima di brindare con l’uomo e buttarsi giù per la gola tutta la vodka.
“Sei proprio una bambina cattiva Shelley…” Pensò l’uomo prima di avvicinarsi alla ragazza e prenderla con una mano, deciso, per la coda dei capelli, costringendola prima a voltarsi di spalle e poi a inginocchiarsi a terra, fino a vederla carponi agitarsi come una cagnetta in calore.
«È così che fa con te il tuo ragazzo, Shelley?» Disse l’uomo eccitato, sempre tendendola al guinzaglio per la coda dei capelli.
«No, lui mi ama Jim…»
«Èper questo che vieni da me?»
«Sì…»
«Sei una bambina cattiva Shelley, lo sai?» Le domandò eccitato Jim, senza attendere dal lei nessuna risposta, per poi abbassarle contemporaneamente i pantaloncini e gli slip e affondare con la sua faccia tra le natiche della ragazza, che subito si lasciò andare ad un grido strozzato di piacere, quando la lingua di Jim la assaggiò da sotto a sopra, come un feroce predatore prima di divorare la preda.

Capitolo 12


Lungo la Bay Ave di Toms River, nel New Jersey, il limite di velocità è di trentacinque miglia, ma questo non valeva per il fratello maggiore di Joanna: Zibi. Lui guidava più veloce di tutti e ci sapeva fare al volante e anche con il gommone, almeno così diceva la sorella.
Quel giorno, mentre Henry tornava a piedi da scuola lungo la Bay Ave, vide sfrecciare in auto Zibi con la sorella di fianco. I lunghi capelli dorati di Joanna volavano trascinati dal vento, che entrava forte dal finestrino aperto sul lato del passeggero della Ford Capri nero corvo - 3.000cc del ’73.
La macchina frenò bruscamente, poche decine di metri dopo aver superato Henry, che stava camminando lungo il tratto cementato del marciapiede circondato da un irregolare praticello all’inglese.
«Vuoi un passaggio Henry?» Disse Joanna facendo capolino fuori dal finestrino.
“Sì certo e mi piacerebbe anche guidare. Posso fare meglio di tuo fratello al volante”. Pensò Henry prima di rispondere timidamente:
«No grazie, tanto sono quasi arrivato, devo fermarmi dalla zia Jasmine».
Henry in realtà sarebbe voluto salire su quella macchina, ma era preoccupato che Zibi magari l’avrebbe preso in giro per qualche motivo e a Henry non andava di fare una brutta figura davanti Joanna, già ci aveva pensato la signorina Anderson a metterlo abbastanza in imbarazzo per quel giorno, e poi nella testa di Henry i pensieri erano rimasti concentrati al mistero dell’assassinio di Kennedy.
Già, proprio così.
Alla fine della lezione, il maestro Johnson aveva lasciato un velo di mistero su quella storia, dicendo che poteva solo raccontare i fatti per quello che la storia aveva decretato. Concluse però il suo discorso con una sottile allusione, che apriva all’esistenza di interessanti teorie non ufficiali, che una volta adulti, i ragazzi della sua classe avrebbero potuto approfondire documentandosi da soli, visto che a lui, aggiungere altro in quella sede non era consentito dal programma scolastico.
-La verità, non è sempre come sembra-. Aveva terminato il signor Johnson prima di lasciare la classe.
«Va bene Henry, ci vediamo lunedì in classe!» Rispose Joanna, mentre la Ford Capri ringhiava sull’asfalto.
Henry non fece in tempo a rispondere e neanche ad alzare il braccio per salute Joanna. L’auto era già partita. Zibi aveva dato così tanto gas a folle che quando inserì la prima, i pneumatici lasciarono una lunga traccia scodinzolante e puzzolente sull’asfalto. L’auto in pochi secondi era già sparita all’orizzonte.

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