Read online book «Lia» author Delio Zinoni

Lia
Delio Zinoni



Delio Zinoni



LIA
Publisher:
Tektime - Traduzionelibri.it
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Indice dei contenuti

DEDICA (#ue80a4f76-4f4e-54f8-b943-e1a718fc4e5b)
(0) NEL DESERTO (#u56681c54-3bb8-5d70-ab1d-a8b7c4ef53c6)
(1) LA STRADA (#u3a6f1491-c9b2-59fe-8926-25971931a115)
(2) IL TEATRO (#u566c1c70-299f-5fd0-a426-3987a5b03ebb)
(3) LA RECITA (#u64ec8c45-e32b-547d-b6a9-b664c154c793)
(4) LIA (#u42a4f40c-a91c-579c-ac39-588c88731351)
(5) LA TORRE (#ud13235e1-2fc3-5f77-8c5c-ff9fd73590b0)
(6) ESTATE (#uf6300575-c877-5454-8e85-7cd587932996)
(7) LA PROVA (#u587260f5-d015-5a70-9013-d2f7bd4c5383)
(8) L'ALCHIMISTA (#u989330fa-cb68-5cec-8167-10aa99d0432e)
(9) IL CORTILE SENZA NOME (#uf96a850a-5cfd-55f7-9332-53e73e042c9d)
(10) LA MAPPA (#uf39a87a9-7ade-5748-a91b-4f36902bf53a)
(11) STORIE TRAGICHE (#u96ae70e7-3d83-5e90-a06e-06130f4e643e)
(12) LA FALENA LUNARE (#u1630466d-0d33-5032-a1cc-f9af7cc8bb7c)
(13) LA FESTA DELLE MASCHERE (#u5e4593ef-9591-5cef-a766-e5986766df8a)
(14) LA SIRENA (#u308ba2dd-6e75-5bb4-bc5b-e47aeb5d373a)
(15) OCCHI DI GATTO (#ubc056c06-b2d0-5c59-b69c-e290370a5e3b)
(16) L'INDAGINE (#uc8439e04-a309-500c-ac7b-ec884101ddeb)
(17) LA LEZIONE DELL'ACQUA (#ua19a8573-141e-5b52-a9db-c128e371835e)
(18) LA CISTERNA (#uf1bf84ab-1396-50d8-a2b1-a28b43c9f7d1)
(19) IL CARRO (#ud3700a3e-9727-57f8-9044-0869f86f939f)
(20) ARQUIN (#u5400ab8f-9732-5d82-a4fb-15420439d259)
(21) MYRTILLA (#u91e5948a-5c8f-51df-802c-c708152a3c02)
(22) LARISSA (#u85ddb0e0-65bf-5ee3-97a0-cce259ebe79c)
(23) GRENDEL (#uf4ac39b1-d81e-5ca8-9f8f-594a41ca5141)
(24) I CACCIATORI (#ub9fd391d-18ce-5dae-8b38-3ec0702e9c85)
(25) I DUE AMANTI (#u3c02c391-c7e1-5d1c-a38e-48bc505bad11)
(26) LA STORIA DI LY (#ubb8fe6b1-ddd6-5d22-8127-435520acaa3b)
(27) LA LEZIONE DI BARAN (#ub636a37a-e58d-5f78-a674-0c2c8668cddd)
(28) GYENNA (#u8fd9d4dd-2f0f-57f5-a669-bbdcea89fbaf)
(29) IL MERCATO (#u9dc4fdd7-4baa-5072-816b-e8e6d2a9e919)
(30) LA STORIA DI GERTRID (#litres_trial_promo)
(31) OSSA (#litres_trial_promo)
(32) ARGYRIA (#litres_trial_promo)
(33) L'IMPRESA SI ANNUNCIA PIÙ DIFFICILE DEL PREVISTO (#litres_trial_promo)
(34) GYON BALASCO (#litres_trial_promo)
(35) I BURATTINAI (#litres_trial_promo)
(36) IL BALLO (#litres_trial_promo)
(37) SPECCHI (#litres_trial_promo)
(38) LA SALA DELLE MAPPE (#litres_trial_promo)
(39) L'ORCHESTRA (#litres_trial_promo)
(40) LA BIBLIOTECA (#litres_trial_promo)
(41) GLYSS (#litres_trial_promo)
(42) LA SECONDA LUNA (#litres_trial_promo)
(43) IL MAESTRO (#litres_trial_promo)
(44) LE CAMPANE DI MORRAINE (#litres_trial_promo)
(45) GLI UCCELLI (#litres_trial_promo)
(46) ALTRI UCCELLI (#litres_trial_promo)
(47) AQUILA E SPARVIERO (#litres_trial_promo)
(48) LA STORIA DI QROM (#litres_trial_promo)
(49) SULLE MURA (#litres_trial_promo)
(50) IL CIMITERO DELLE MACCHINE (#litres_trial_promo)
(51) LA CATTEDRALE (#litres_trial_promo)
(52) LA LAGUNA (#litres_trial_promo)
(53) XON (#litres_trial_promo)
(54) CADAVERI (#litres_trial_promo)
(55) LA FORESTA (#litres_trial_promo)
(56) IL CAVALIERE (#litres_trial_promo)
(57) L'EREMITA (#litres_trial_promo)
(58) IL DUELLO (#litres_trial_promo)
(59) ALLA LOCANDA DEL PORCOSPINO (#litres_trial_promo)
(60) DOMANDE (#litres_trial_promo)
(61) MAEZEL (#litres_trial_promo)
(62) IL CAPITANO D KYROS (#litres_trial_promo)
(63) APPARIZIONI (#litres_trial_promo)
(64) FOGLIE (#litres_trial_promo)
(65) I LEMURI (#litres_trial_promo)
(66) TOMBE (#litres_trial_promo)
(67) ALMIDAVILLA (#litres_trial_promo)
(68) BARKARA (#litres_trial_promo)
(69) ISOLE (#litres_trial_promo)
(70) LA STORIA DI LIA (#litres_trial_promo)
(71) OSIANNA (#litres_trial_promo)
(72) PIRATI (#litres_trial_promo)
(73) LA SIRENA MASCHERATA (#litres_trial_promo)
(74) L'UCCELLO DALLE PIUME D'ORO (#litres_trial_promo)
(75) LA LEZIONE DI MACCUS (#litres_trial_promo)
(76) LARKIN (#litres_trial_promo)
(77) ALL'INSEGNA DEI DUE SERPENTI (#litres_trial_promo)
(78) DARSHANI (#litres_trial_promo)
(79) JUES (#litres_trial_promo)
(80) IL TRONO SULLA TORRE (#litres_trial_promo)
(81) IL LAGO DELLE ANIME PERDUTE (#litres_trial_promo)
(82) NOTTE SUL FIUME (#litres_trial_promo)
(83) COME NUOTATORI (#litres_trial_promo)
(84) CONGEDI (#litres_trial_promo)
(85) EREC (#litres_trial_promo)
(86) L'OMBELICO DELLA DEA (#litres_trial_promo)
(87) FENISSA (#litres_trial_promo)
(88) QETTA (#litres_trial_promo)
(89) NAUFRAGI (#litres_trial_promo)
(90) DAR-MOR (#litres_trial_promo)
(91) OCCHIO DI GIADA (#litres_trial_promo)
(92) IL MONASTERO (#litres_trial_promo)
(93) ORG-MARNA (#litres_trial_promo)
(94) CHAN DRA (#litres_trial_promo)
(95) LA LUNA SPEZZATA (#litres_trial_promo)
(96) CONGIUNZIONE (#litres_trial_promo)
(97) IL COLOSSO (#litres_trial_promo)
(98) LA NAVE DI VETRO (#litres_trial_promo)
(99) CORONA E SERPENTE (#litres_trial_promo)
(100) PIANTARE UN SEME NELL'ANIMA (#litres_trial_promo)
(101) COLPIRE IL BERSAGLIO NELLA MENTE (#litres_trial_promo)
(102) JAG (#litres_trial_promo)
(103) LA TEMPESTA (#litres_trial_promo)
(104) LA CASA DELLE STORIE (#litres_trial_promo)
(105) L'ALBERO DEGLI SPIRITI (#litres_trial_promo)
(106) LA FARFALLA (#litres_trial_promo)
(107) KHETA (#litres_trial_promo)
(108) LA PORTA (#litres_trial_promo)
(109) L'UCCELLO GARUMA (#litres_trial_promo)
(110) LA MADRE (#litres_trial_promo)
(111) ENIDE (#litres_trial_promo)
(112) VENT'ANNI DOPO (#litres_trial_promo)
(113) L'ARAZZO (#litres_trial_promo)
(114) DEMONI (#litres_trial_promo)
(115) L'OSSERVATORIO (#litres_trial_promo)
(116) AURORA SORGENTE (#litres_trial_promo)
(117) NEL GIARDINO (#litres_trial_promo)
(118) LA CRIPTA (#litres_trial_promo)
(119) ANYA (#litres_trial_promo)
(120) TUTTE LE STORIE DEL MONDO (#litres_trial_promo)
APPENDICI (#litres_trial_promo)
Ringraziamenti (#litres_trial_promo)

DEDICA

a E. Z. ... multa per aequora

(0) NEL DESERTO
Il foglio bianco è simile a un mare di insondabile profondità. Da esso può affiorare qualsiasi cosa: sirene e leviatani, perle e vecchie scarpe.
La somiglianza non era sfuggita agli antichi, che spesso hanno paragonato la scrittura ad un viaggio marino; e a navi, vascelli e barche il loro ingegno avventuroso.
Altri, all’opposto, hanno affermato che tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto. Perciò hanno preferito un’altra metafora, e altre onde: quelle del deserto. Infatti, a differenza del mare, il deserto non nutre nel suo fondo creature vive, e ciò che affiora sono solo i relitti di civiltà trascorse. Elmi di guerrieri, ossa di giganti, pietre di fortezze. Tutto ciò che un tempo era splendido, viene macinato dalla sabbia e ridotto a sua sembianza. Solo quanto è già stato fatto dagli uomini ricompare fra le dune.
Questi due oceani sono perciò opposti? Forse no. Poiché alcuni saggi sostengono che un tempo i deserti erano mari di acqua. E portano a dimostrazione di questa loro affermazione rocce in cui compaiono impronte di conchiglie e di pesci. E se un tempo i deserti erano colmi di vita forse un giorno ne produrranno ancora, di nuova.
Inoltre, senza cercare con lo sguardo epoche lontane del passato o del futuro (poiché la brevità della vita umana impone moderazione anche al pensiero), non esistono forse nel deserto le oasi? Come questa dove sto scrivendo. Nel grande mare del deserto, la vita fiorisce: fontane sgorgano, dove nuotano pesci; ci sono alberi da frutto, e prati dove brucano le capre. Giardini chiusi da mura, e uccelli di ogni specie fra i rami. E le acque di questa oasi, come tutte le acque del mondo, torneranno prima o poi in quell'immenso Oceano che abbraccia tutte le terre.
Perciò, forse, questi due emblemi non sono troppo dissimili.
In entrambi i casi, per chi non cerca l’attenzione di un’ora, o l’orecchio distratto del mercante, accingersi a scrivere suscita sgomento nel cuore; la sensazione di essere in bilico fra lo smarrirsi e la futilità.
E tuttavia, la storia che ho sentito raccontare quando ero giovane da uno straniero che aveva attraversato il mare e il deserto, e in cui io stesso ho avuto una piccola parte, non appare indegna di essere narrata nuovamente e scritta, affinché non cada nell'oblio. Perciò, giunto ormai al mezzo della mia vita e avendo troppo indugiato, io, Djab ab-Varani, con l’aiuto del Signore, mi accingo a mettere sulla carta per la prima volta la storia degli amori di Arquin e Lia.



(1) LA STRADA



Lungo la strada che dalle montagne conduce al mare cambiò il mio destino.
La strada è in salita in quel punto, e io correvo per raggiungere il vecchio cimitero dove mi attendevano i miei amici e compagni, cavalieri di ventura fra i boschi e i casolari abbandonati intorno a Morraine.
Avevo compiuto da poco dieci anni.
Qui l’uomo si interruppe, scrutando fra le braci, e noi, ai margini del cerchio di luce arancione, trattenemmo il respiro, in attesa.
Come inizio di una storia non era in verità molto promettente. Ma noi naturalmente non potevamo fare a meno di chiederci quali avventurose vicende avessero mai portato l’uomo dalla folta barba grigia a naufragare nel nostro mare di sabbia.
Correvo, riprese l’uomo con la sua pronuncia incerta, rallentando spesso per cercare le parole di una lingua che gli era estranea, e il cuore mi batteva forte, un po’ per la corsa, un po’ per l’ansia dei giochi, e il sangue mi pulsava nelle orecchie, e fu per questo che non sentii il carro che arrivava da dietro una curva, lungo la discesa. Il guidatore tirò le redini, i cavalli sbuffavano scalpitando, nel tentativo di fermarsi, i sassi schizzavano sotto gli zoccoli, ma il carro era grande e pesante.
Poi mi trovai sospeso a qualche braccio di altezza e guardavo tutta la scena: io steso a terra, il carro che si era messo per traverso sulla strada, la gente che scendeva correndo verso il mio corpo.
L’uomo spalancò le braccia, guardandoci con occhi grandi che riflettevano le fiamme, e quel suo sorriso che allora non riuscivo a definire, ma che è la cosa che ricordo meglio di lui, e ripensandoci, aveva questa qualità: che riusciva ad essere malizioso e infantile insieme. E in quel momento ci sfidava a credere alle sue parole.
Ero morto, disse con voce più profonda, balzando in piedi e facendo un passo verso di noi che eravamo più piccoli, cosicché io feci un mezzo balzo indietro da dove ero seduto, per terra, e mi aggrappai a mia sorella. E sebbene lei avesse tre anni più di me, sentii che anche il suo cuore batteva forte.
Le foglie del bosco erano nitide come se un artista le avesse ritratte una per una dopo un temporale, in quella primavera calda che riempiva l’aria di pollini ed esplodeva di verde. E sul fianco del carro, che sembrava una casa su ruote, con tetto e piccole finestre, c’era una scritta.
DOTTOR LELIUS ABRAMUS

Mago, Veggente e Burattinaio

e il suo straordinario spettacolo di

Trapezisti Giocolieri Domatori Saltimbanchi

Prestigiatori Equilibristi Pagliacci Pirofaghi

Sul retro del carro, un emblema: una sirena, con la faccia per metà nera per metà bianca, per metà triste per metà lieta. Ma non era la faccia: era una maschera. E non era sul volto, ma sulla nuca, perché guardando bene i particolari anatomici, si poteva capire che la sirena volgeva la schiena.
Qualcuno era chino su di me, cioè su di me steso a terra: un uomo vestito di scuro, con una grande barba. Io ero molto pallido, e fu solo in quel momento che ebbi paura, sebbene mi sentissi molto bene sospeso in aria. “Mamma, mamma,” pensai.
– Ho tanto male. – Perché ero di nuovo sulla strada, e la testa, dove uno zoccolo mi aveva colpito mi faceva davvero un male terribile. E aprendo gli occhi vidi tre facce chine su di me: quella con la barba; una donna non più giovane ma molto bella, dai capelli rossi; un vecchio dai capelli bianchi.
– Non preoccuparti, non ti sei fatto niente di grave. Ti portiamo noi dalla tua mamma – disse la signora. Poiché era vestita da signora. Il vecchio mi appoggiò una pezza bagnata sulla fronte. Ma io fissavo gli occhi dell’uomo con la barba, che erano neri e molto profondi. E il dolore, come d’incanto, sparì davvero.
Mi alzai a sedere. Mi dispiaceva di non volare più come prima. Ma siccome il mio demone è sempre stato la curiosità, chiesi: – Cosa vuol dire pirofaghi? – L’uomo sorrise. Cioè, mosse appena i muscoli ai lati della bocca, e le rughe attorno agli occhi si approfondirono. Ma era un sorriso sufficiente per il dottor Lelius Abramus.
– Sai leggere – disse. Mi accarezzò la testa. – Vuol dire mangiatori di fuoco. – Si voltò a guardare il carro. Che come ho detto si era messo di sbieco, e l’unica parte che si poteva vedere da lì era il retro. Il dottore tornò a voltarsi, e mi fisso stringendo gli occhi.
La signora mi circondò le spalle con le braccia. – Ce la fai ad alzarti? – Mi alzai.
– Come fanno a starci dentro tutti?
– Tutti chi? – chiese la donna.
– I trapezisti, giocolieri, domatori, saltimbanchi, prestigiatori, equilibristi, pagliacci, pirofagi – dissi tutto d’un fiato.
La donna rise. Aveva una risata cristallina, e una voce molto melodiosa. – Questo è un segreto – disse.
Il vecchio salì a cassetta. Il dottore prese i cavalli per le briglie, e fra nitriti e nuvole di polvere rimisero il carro dritto. Così potei leggere per la seconda volta la scritta sul fianco.
La donna continuava a reggermi. Sentivo il suo profumo, di qualche fiore di cui non sapevo il nome, mescolato a quello del sudore. Per qualche ragione, mi sentii imbarazzato e mi scostai leggermente.
Lelius Abramus tornò da me. – Dove abiti, ragazzo?
– Posso tornare da solo – mi affrettai a dire. In realtà mi ero ricordato di Jues e Lucibello, i miei amici, che mi stavano aspettando. – Sto bene adesso, davvero. – E poi temevo di essere rimproverato, a casa.
I tre si guardarono. Il vecchio mi tastò la testa. Doveva esserci un grosso bernoccolo. Mi accorsi che la pezza bagnata era sporca di sangue. – Sei sicuro? – disse. Era la prima volta che sentivo la sua voce. Aveva una accento straniero, ma sebbene passino molti viaggiatori per Morraine, venendo da Aix o dalle montagne, non lo riconobbi.
– Sì, certo.
Il dottore si frugò in una tasca del farsetto di velluto nero. – Prendi questi. – Erano tre foglietti di carta. Biglietti d’ingresso, per lo spettacolo del Dottor Lelius Abramus, Mago, Veggente e Burattinaio. – Con le nostre scuse.
– Domani sera, in città. Nel teatro! Ci saranno i manifesti – disse la donna, stringendomi il braccio. – Non mancare!
– No, certo... Grazie!
Il vecchio mi mise in mano la pezza bagnata. Il dottore mi fissò ancora negli occhi. Poi i tre risalirono sul carro.
Io rimasi lì sulla strada, con i tre biglietti in una mano, la pezza nell’altra, guardando il carro che si rimetteva in cammino, chiedendomi dove mai potesse esserci un teatro a Morraine.
E in quel momento, i lembi di una tenda che copriva la finestrella sul retro, e sui quali era dipinta la maschera della sirena, si scostarono un poco e vidi un viso di un ovale perfetto, bianchissimo, un naso piccolo e appena appuntito, una bocca rossa a forma di bocciolo, due grandi occhi neri che mi fissavano.

(2) IL TEATRO



Non andai a nessun teatro quella sera. La testa riprese a farmi male poco dopo la partenza del carro e mi fece male per tutto il pomeriggio, e quando arrivai a casa con un bernoccolo mia madre si arrabbiò molto perché non ero tornato subito, e rischiai pure di prenderle. Mi infilò a letto e mi mise sulla testa una pezza bagnata con l'acqua gelata del pozzo, che cambiava di tanto in tanto. Io raccontai dell'accaduto in maniera piuttosto generica, e non dissi niente dei biglietti. Sapevo che quella sera non c'era speranza di uscire.
Però li conservai.
Quattro anni dopo, la compagnia di Lelius Abramus tornò a Morraine.
Fu Lucibello ad accorgersi dei manifesti. Non ce n'erano molti in giro, per la verità. Mi portò a vederne uno, all'imboccatura del passaggio dell'Anguilla, nel cortile dell'Unicorno. C'era scritto:
SOLO PER QUESTA SERA

diciotto del Mese-delle-Farfalle

nel Cortile del Serpente di Morraine

LA COMPAGNIA DEL FAMOSO

LELIUS ABRAMUS

RECITERÀ

la Storia di Phenissa

PRECEDUTA E SEGUITA

DA ALTRI

PIACEVOLISSIMI INTRATTENIMENTI
La data, il luogo e il titolo della rappresentazione erano scritti a mano, il resto era stampato.
– E dove sarebbe questo cortile del Serpente? – chiese Jues.
Nessuno di noi disse niente, anche se ciascuno in cuor suo covava un segreto pensiero.
Io corsi a casa, e frugai in una scatola di latta dove tenevo le mie cose più preziose di bambino, di cui ancora non avevo voluto disfarmi. In fondo trovai tre biglietti ingialliti, stampati su cartoncino. Che come ben ricordavo non avevano nessuna data, ma solo il nome della compagnia, con l'immagine della sirena mascherata di spalle, e scritta a mano la parola “Omaggio” seguita da una firma illeggibile.
Quella sera, io e i miei due amici ci mettemmo alla ricerca del Cortile del Serpente.
Dovete sapere, proseguì il nostro ospite, naufrago e paziente, che Morraine è l’unica città al mondo formata da una sola casa.
Molti fecero smorfie incredule, ma il marinaio guardò dalla nostra parte, e immagino che vedesse occhi spalancati. Benché parlasse a tutti, infatti, sembrava però rivolgersi in particolare a noi che eravamo ancora bambini o non ancora adulti (come preferivo pensare io di me stesso), e la cosa allora mi pareva del tutto naturale: forse perché raccontava una favola; anche se una favola vera, come ho detto; o forse perché parlava di sé come bambino. Dopo tanti anni non ne sono ancora sicuro, ma mi pare naturale lo stesso.
Quante persone possono abitare in una casa? Dodici rispose subito il piccolo Roti, che viveva con tre nonni, due zie e quattro fratelli, oltre ai genitori. Nella casa di Hani il falegname ci stanno in sedici, disse il vecchio Ohid. Be’, disse lo straniero alzando una mano, nella casa di Morraine ci abitano più o meno sedicimila persone.
Questa era grossa davvero.
Morraine è una sola casa. Ciò significa che non ci sono strade, ma corridoi, non piazze ma cortili; terrazze, soffitte, scale, cantine, formano una sola complicatissima ragnatela, che nessuno ha mai potuto, o voluto ridurre ad una mappa. Si possono distillare varie spiegazioni razionali per dar conto dell’architettura complessa di Morraine, prendendo a pretesto la sua geografia o la sua storia. Ma nessuna potrà cancellare quella più semplice di tutte: che Morraine è così perché i suoi abitanti sono così. In una città normale ci sentiamo spersi, impauriti. Troppo poco, per noi, un tetto e quattro mura. Ci mancano sedicimila coinquilini. Ecco perché gli abitanti di Morraine viaggiano poco, e la nostra città è meno conosciuta di quanto meriti.
Vista da fuori assomiglia a tante altre città: mura e torri in pietra grigia; orti all’intorno; alte porte alla fine di strade polverose. Dentro, gli stranieri cercano invano vie, vicoli, piazze. Alcuni sono presi dall’angoscia e si sentono soffocare. Tutti hanno bisogno di una guida; non esiste un tragitto in linea retta, né semplici indicazioni, come “il terzo vicolo a sinistra, il secondo portone a destra”. Per noi che ci siamo nati, è semplice, naturalmente: in luogo di vie o piazze, si usano come indirizzi gli unici luoghi aperti, e gli androni che li collegano.
Qualcuno potrebbe dire: in fondo non è molto diversa da qualsiasi altra città. Al posto delle strade e dei vicoli ci sono androni e passaggi che sono come strade coperte; al posto delle piazze cortili. Perché parlare di una sola casa?
Perché il meraviglioso, unico, complicatissimo labirinto si trova in realtà dentro Morraine, nel suo inestricabile intrico di corridoi, scale, stanze… Da qualsiasi ambiente chiuso di Morraine si può raggiungere un altro qualsiasi ambiente, e senza mai uscire all'aperto. A meno che questo non sia chiuso a chiave, ovviamente.
Si dice che ogni stanza possiede almeno due uscite. E questo a maggior ragione vale per ogni abitazione, cioè ogni insieme di stanze dove vive una famiglia, o una singola persona. Naturalmente costoro non desiderano che degli estranei possano transitare a piacere nelle loro stanze, e perciò le chiuderanno in qualche modo. Ma dovete considerare due particolari: che in ogni modo i corridoi sono comuni a tutti, e collegati l'uno con l'altro, anche se a volte nelle maniere più bizzarre; in secondo luogo che amici o parenti stretti possono benissimo bussare, entrare, attraversare una di queste abitazioni, uscire da un'altra parte, se questo serve ad accorciare il cammino che devono percorrere, per esempio. Naturalmente nel farlo si fermeranno a scambiare due chiacchiere con i padroni di casa. Sopratutto le donne. Per questa ragione si dice da noi che la strada più rapida fra due punti non è mai quella più breve…
Morraine è cresciuta dentro se stessa da innumerevoli generazioni. I proprietari di ogni singola abitazione hanno cambiato, ampliato, venduto… I vari piani degli edifici poi sono posti di solito su livelli non identici, perciò innumerevoli sono i gradini e le scale. I cortili, e al piano terra gli androni, interrompono la continuità dei passaggi… È quasi impossibile, per chi non è mai stato a Morraine immaginare la complessità, la frammentarietà, la quasi infinita varietà di questi passaggi interni. Certi corridoi poi sono stati resi più o meno privati dagli abitanti che vi si affacciano, e solo loro di solito li usano. Altri sono molto grandi, e ospitano anche negozi o bancarelle. Nessuno, credo, può dire di conoscere Morraine in tutti i suoi meandri. Forse qualche vecchio agente della guardia, o qualche pubblico ufficiale si avvicina a questa conoscenza, ma neppure lui avrà mai messo piede in ogni stanza, in ogni corridoio di Morraine.
Anche perché ogni giorno, ogni ora si può dire, qualcuno da qualche parte nelle sue viscere starà costruendo un muro, abbattendone un altro, aprendo un varco nuovo o chiudendone uno vecchio...
Ma non dovete pensare che, essendoci una sola casa, Morraine manchi di luce. Tutt’altro. Le sue terrazze e i suoi cortili sono i più belli del mondo. E ogni cortile è diverso dall’altro. Per esempio, c’è il Cortile delle Cento Colonne, il Cortile delle Quattro Fontane, il Cortile dei Tessitori, quello dei Beccai e quello dei Baccellieri, il Cortile del Paradiso, quello degli Uccelli e quello dei Gatti, la Corte delle Lavandaie e il Campo dei Miracoli, e il Cortile dell’Unicorno, del Porcospino, dei Maghi, dei Bottai, quello Rotondo, quello Stretto, quello dei Cinque Cantoni, della Luna Piena e della Luna Calante, quello dei Cavalieri, e di Nostra Signora del Parto, e dei Desideri Perduti. Per muoversi fra di essi ci sono androni e corridoi, e sugli archi che li introducono sono scolpiti stemmi o simboli che servono al posto dei nomi delle vie in altre città. Ci sono anche corridoi segreti e soffitte segrete e cantine segrete.
E soprattutto c’è il Cortile Segreto. Che, ne eravamo ormai certi, altro non era che il Cortile del Serpente indicato sul manifesto.
Nessuno di noi aveva mai visto il Cortile Segreto, che come dice il nome non era un posto dove chiunque potesse entrare come si fa in una piazza. Poiché questa è la differenza fra una piazza e un cortile: nella prima sboccano strade accessibili a tutti: vagabondi e carrettieri, dame e merciai, cani randagi e bambini. In un cortile si entra da una porta, e dipende da quelli che ci abitano tenerla chiusa o aperta.
Quella sera la porta era spalancata.
Lelius doveva essere una persona davvero importante per avere avuto il permesso di dare il suo spettacolo nel Cortile Segreto!
Entrammo, dunque. Dopo che un servo in livrea ebbe esaminato con attenzione non priva di sospetto i nostri biglietti.
Mi aspettavo, è ovvio, di vedere meraviglie: fontane zampillanti e piante esotiche, statue di marmo e gabbie piene di uccelli rari.
Ma ciò che in realtà vedemmo ci lasciò senza fiato. Era un palazzo splendido e sfavillante: marmi di ogni venatura, e colonne come alberi secolari. Statue simili a persone vere immortalate in atti eroici, teneri, strazianti. Affreschi con scene di caccia e di battaglia, flotte a vele spiegate...
Questa visione durò un attimo. Poi un tremolio parve percorrere le mura del palazzo, e avvertii una folata di vento. Come se un terremoto stesse scuotendo Morraine, ma senza alcuna vibrazione sotto i piedi. Chiusi forte gli occhi. Quando li riaprii, il palazzo non c’era più. Era un palcoscenico. Molto più piccolo di quanto mi fosse apparso, perché ingigantito dalla prospettiva; costruito in tela e legno, ma con tale maestria pittorica, e così abilmente illuminato, che l’occhio ne rimaneva volentieri ingannato.
Passato quell’attimo, tutto riacquistò le sue dimensioni normali. Trovammo posto su una delle panche nella quarta o quinta fila. Proprio davanti al palcoscenico, vidi, c'erano delle poltrone riservate a personaggi d'autorità. Ci eravamo da poco seduti che lo spettacolo iniziò. Annunciato da un rullo di tamburi, si presentò un saltimbanco, in un costume giallo e rosso da pagliaccio, che eseguì svariate mirabili capriole le quali finivano, di tanto in tanto, in comici capitomboli da cui si rialzava con aria perplessa, guardando il pubblico con grandi occhi tristi. Fu in una di queste occasioni che la riconobbi, sotto il trucco: era la signora del carro, quella che mi aveva abbracciato quella mattina di quattro anni prima
Poi ci fu un suono di cembali, e strumenti a fiato e a corde che non riconobbi. Apparvero una mezza dozzina di marionette, che eseguirono una pantomima velocissima, senza che si potesse scorgere quali fili le muovessero. Avevano le teste nascoste da larghi cappelli a cono, sotto i quali si scorgevano occhi luminosi e gialli, come candele. La danza che eseguirono era molto elaborata, e non doveva essere priva di qualche significato simbolico, poiché gli spettatori delle prime file, intenditori senza dubbio, applaudivano con convinzione nei momenti più significativi.
Terminò così il prologo, lasciandoci, intendo dire io e i miei due amici, un po’ interdetti ma pieni di aspettativa. Fu solo allora, guardandoci intorno, che ci accorgemmo di essere quasi gli unici ragazzi presenti fra il pubblico, del resto non molto numeroso. Benché attori girovaghi, Lelius e i suoi parevano dunque fare della propria arte un esercizio raffinato, poco adatto al volgo.
E il Cortile Segreto? Catturato dapprima dalla magia del palazzo di tela, e poi dalle capriole della signora e infine dalle evoluzioni della marionette, non avevo neppure pensato di guardarmi intorno. Eppure quello era il luogo delle fantasie di ogni bambino di Morraine! In realtà tutto ciò che si vedeva era poco più che il contorno dei tetti. Poiché il Cortile Segreto non era molto grande, o meglio non era grande come la mia immaginazione lo aveva dipinto; le panche lo occupavano per metà, e il palcoscenico nascondeva i piani bassi. Pilastri di marmo sbrecciato e frammenti di archi incastonati in una facciata alludevano ad un edificio molto più antico. Al riflesso delle lampade, presero forma dei fregi che percorrevano tutto il cornicione: molto corrosi, resi enigmatici dalla luce un po’ vacillante che li colpiva dal basso, anziché da quella del sole per cui erano stati scolpiti. Intuii che rappresentavano delle allegorie, e ne riconobbi alcune: la Verità, sotto forma di una fanciulla quasi nuda, che appoggiata ad una clessidra (emblema del tempo che fugge) mostra con la sinistra il sole e con la destra un serpente che si morde la coda; l’Ambiguità dal volto velato tiene un gatto accovacciato in grembo, e sembra osservare un bambino che gioca con uno specchio. E molte altre.
Poi d’improvviso, e misteriosamente, come se un forte vento avesse soffiato, le lanterne si spensero tutte insieme. Ci furono alcuni istanti di buio, e quando gli occhi si stavano abituando alla luce delle stelle, e scorgevano ombre muoversi sul palcoscenico, ecco di nuovo la luce. Il palazzo aveva subito una parziale metamorfosi: un’ala intera si era aperta, mostrando il mare e un porto magnifico. Una folla di donne era raccolta sui moli, e i marinai salutavano dalle navi, le vele già spiegate al vento. Ma come potevano essere così lontani? Il Cortile non era grande tanto da contenere un porto... Ancora un’illusione: si trattava delle marionette, in un nuovo costume, vicine ma piccole.
In primo piano, un sacerdote di venerabile aspetto. Con voce triste ma ferma narrò l’antefatto. L’isola di Nexus era devastata da pestilenza e sterilità: una maledizione della dea del mare, irata perché i suoi abitanti avevano lasciato perire i naufraghi di una nave senza prestare loro soccorso, onde potersi impadronire del ricco carico... Era la storia di Phenissa e di Teseius.
Il naufrago si interruppe e ci guardò.
Forse non la conoscete. Appartiene ad una terra lontana da qui. Bene dunque: ve la racconterò così come venne rappresentata quella sera da Lelius e dalla sua compagnia, nel Cortile Segreto di Morraine.

(3) LA RECITA



Il sacerdote uscì, accompagnato da una solenne melodia di tube e di polifanti. Dalla parte opposta del palcoscenico entrò un eroe in splendida armatura. Anch’egli, nella generale sventura, aveva da portare il suo fardello. Si era sposato appena il giorno prima con la fanciulla più bella dell’isola. Aveva trascorso con lei appena una notte, ed ora doveva partire insieme agli ultimi uomini validi rimasti sull’isola, per cercare una nuova patria. Ed ecco giungere la diletta sposa, per l’ultimo saluto.
Voi già immaginerete chi era la fanciulla che interpretava la parte di Phenissa. Ed io pure, quella sera nel Cortile Segreto di Morraine. Era colei che avevo atteso di vedere, fin da quando il carro si era allontanato lungo la strada. L’ovale bianco e perfetto del viso. Le labbra rosse come corallo. È inutile che mi dilunghi.
Ma la sposa era velata. Come l’Ambiguità allegorica nel fregio del cortile, non mostrava il suo volto.
Ma non poteva che essere lei! La grazia pudica dei movimenti, la figura esile e flessuosa sotto il ricco vestito in velluto porpora e verde smeraldo. E le mani: il loro roseo pallore sembrava imprigionare la luce delle lampade.
A questo punto il viaggiatore rimase assorto qualche momento.
Quando lei si sollevò il velo, i miei occhi erano così pieni di lacrime che non riuscii a distinguere il suo viso, e dovetti sbattere più volte le palpebre. Le labbra si muovevano. Stava parlando. Mi ero dimenticato di ascoltare. Con espressioni di tenero amore e di strazio per l’imminente separazione, si rivolgeva al marito Teseius, all’attore Lelius. Come può capitare a qualsiasi adolescente, sentivo quelle parole rivolte a me.
Ma torniamo alla storia.
Al pari delle altre donne, Phenissa giura al marito eterna fedeltà. Fosse pure fino alla fine dei loro giorni, attenderanno i loro uomini, tenendo acceso un fuoco in cima alla torre del faro. Teseius scompare dietro le quinte. Le navi partono, su un mare di tela azzurra ondeggiante.
Termina così il primo atto. Cambia la scena: la città adesso è sullo sfondo; in primo piano una spiaggia deserta. Ricompare il sacerdote narrante: lunghi anni sono trascorsi in vana attesa. Esce il sacerdote ed entra Phenissa.
Se prima avevo visto solo il suo viso, questa volta non potei fare a meno di guardare il suo corpo. Mi sentii avvampare. Il vestito della fanciulla era candido e piuttosto trasparente. E anche succinto. Era la prima volta in vita mia che vedevo tanto di una donna. In altri luoghi è diverso, ma Morraine è una città alquanto morigerata. D’altra parte, era l’abito consono alla situazione: Phenissa era venuta sulla spiaggia a bagnarsi, ma soprattutto a scrutare il mare e a sospirare per lo sposo lontano.
In maniera del tutto naturale, il suo dolore si esprime attraverso il canto. Non cercherò di descrivere la sua voce. A che serve dire che era limpida come un ruscello montano, struggente come vento su una foresta innevata... Rammento solo il ritornello:
Passò la rondine sopra le onde.
Passò l’estate e passò l’inverno.
Poi Phenissa si alza di scatto. Cosa ha visto? Scruta il mare... Le navi che tornano? Lancia un grido strozzato. Non è di gioia, piuttosto di angoscia. Corre sulla spiaggia. Mediante qualche macchina scenica, fra le finte onde appare una zattera, con una figura riversa a bordo.
È un naufrago, uno straniero. Phenissa è impaurita, eccitata, incerta. Ma un pensiero più di ogni altro la sprona: ecco, questa è forse l’occasione di fare ammenda dell’offesa recata alla Dea del Mare, causa di tutte le pene della sua gente. Un naufrago da salvare! Lo prende fra le sue braccia, lo rianima. Poi, forse per pudore o forse per timore, forse per un oscuro desiderio di possesso (anche se di tutto questo allora non compresi nulla), lo nasconde nella sua casa. Non osa rivelare alle altre donne la sua presenza.
E a questo punto, immaginate il seguito. Chi di voi potrebbe rimproverare Phenissa: sposa per una sola notte ad un uomo che forse non sarebbe più tornato? Giovane, bella, piena di tenerezza, avendo accanto a sé un uomo dalle molte avventure?
Si innamorò di lui. Resistette a lungo, ma Teseius lontano e appena conosciuto lasciò a poco a poco spazio nel suo cuore allo straniero, presente e salvato dalle acque.
Non dalla furia delle altre donne, però. Poiché il frutto del loro amore non poté restare celato. In un’isola abitata solo da vecchi, donne e bambini, ecco Phenissa attendere un figlio! Lei non poté, non volle nasconderlo.
Il giuramento violato, la gelosia, forse l'invidia, infiammano le donne, che decretano la morte degli adulteri. A stento il vecchio sacerdote riesce a salvare dalla loro furia il bimbo appena partorito.
E per la seconda volta, nel tempo di una sola generazione, un naufrago sacro alla Dea del Mare (che nella sua triplice forma è anche Signora del Cielo Stellato e Ispiratrice del Desiderio Amoroso) veniva ucciso sull’isola di Nexus.
La Dea medesima appare sulla scena, fra abbaglianti lampi di luce e fumi multicolori e musica minacciosa. La sapienza scenica di Lelius raggiungeva qui il suo culmine. La Dea, impersonata dalla signora del carro, maestosa nella sua furia. lancia la sua maledizione contro l’isola. Chiama in suo aiuto i venti di ponente e di occidente, di settentrione e di mezzogiorno. Evoca perfino le oscure potenze della terra profonda, il cui nome non è lecito pronunciare.
Un maremoto tremendo squassa l’isola. Ondate immense la sommergono. Uccidendone tutti gli abitanti superstiti.
Una tenebra rossastra calò sul palcoscenico. Poi, con la lentezza di un’alba primaverile, la luce si fece azzurra, limpidissima. Apparve l’isola: rigogliosa di piante, che ricoprono rovine un tempo maestose.
Ed ecco una vela appare all’orizzonte. È una nave solitaria, male in arnese, che approda a fatica. I marinai sbarcano (sono le marionette), e due uomini avanzano sul proscenio. Sono anziani, la pelle scura e incartapecorita dal sole e dalla salsedine. Con accenti di gioia incredula e stanca salutano la loro buona stella. Finalmente hanno trovato una terra vergine per il loro popolo!
Poi scorgono le rovine. Incertezza, angoscia, orrore si susseguono mentre riconoscono i palazzi, i fori, le case della loro giovinezza. Il vecchio Teseius esce di scena, disperato, quasi folle per il dolore della lunga, inutile separazione. Nella scena successiva è solo. Stringe in una mano qualcosa, che contempla fra le lacrime. È il monile che ha dato alla moglie come dono di nozze e pegno di fedeltà. Nell’altra mano, tiene un secondo monile: è di foggia straniera. Li ha trovati accanto a due scheletri, abbracciati nella morte, sotto un cumulo di pietre.
I segni sono chiari, e Teseius è come annichilito da essi. L’altro vecchio cerca di confortarlo, di insinuare dei dubbi, ma la sua voce è priva di convinzione. Teseius piange, impreca, maledice la sorte, gli dei, Phenissa, lo straniero, gli anni perduti, gli stenti e i pericoli trascorsi sul mare... tutto per nulla. Peggio che nulla. Poi il suo sfogo si quieta fra i singhiozzi. Raccoglie le ossa della moglie, aiutato dal compagno, appresta per esse una sepoltura. Infine vi pone accanto quelle dello straniero. L’unico conforto è perdonare.
La notte cala sui due, senza che si scorga un barlume di speranza.
Ed ecco l’epilogo.
Da una macchina scenica cala sul palco la Dea del Mare, Astar in persona. Fra le braccia stringe un fanciullo di grande bellezza. Teseius è steso a terra, addormentato. Forse si tratta di un sogno.
La dea spiega che l’amore di Phenissa e il perdono di Teseius hanno placato la sua ira. Nel maremoto il figlio di Phenissa e dello straniero si è salvato: la sua culla ha galleggiato sulle acque, ed è stato raccolto. Egli fonderà una nobile città, e la sua stirpe avrà lunga vita fra gli uomini.
Cala il sipario. La dea scompare. Termina il dramma.
Era davvero una bella storia, piena di tragica grandezza e di tenera passione, e l’apprezzammo tutti. Qui, nell’oasi, siamo sempre avidi di nuove storie, e i bravi narratori sono grandemente onorati.
Lì, nel Cortile Segreto (proseguì il naufrago), piansi per Phenissa. Avrei voluto essere Teseius, avrei voluto essere lo straniero. Avrei, soprattutto, voluto essere Lelius, che aveva abbracciato la fanciulla nelle vesti di entrambi.
– Iko... Iko...! – Era Jues che mi chiamava. Io ero già arrivato in fondo alla fila di panche, disturbando parecchi spettatori. – Dove vai?
Già: dove andavo? Il fatto è che non lo sapevo neppure io. Quasi non mi ero accorto di essermi alzato.
Ci accostammo ad un pilastro, nell’ombra, cercando di non farci notare troppo. Lo spettacolo stava proseguendo con un duetto musicale, eseguito da Lelius e dalla signora, con viola e archimboldo.
– Dovete aiutarmi – dissi. Anche Lucibello ci aveva raggiunti.
– A fare cosa?
– A vederla!
– Chi?
– Lei... Phenissa.
– Sei impazzito?
Doveva essere così.

(4) LIA


– Insomma, perché vuoi vederla? – chiese Jues.
– È bella... – balbettai io.
– È innamorato – rise Lucibello.
Mi fermai. Detto così, faceva ridere.
Eravamo sotto il palcoscenico. Lame di luce penetravano fra le tavole, insieme alla musica. Nella luce danzavano innumerevoli particelle di polvere, sollevate dal nostro passaggio. Grosse travi incrociate reggevano l'assito del palco, perdendosi in una geometrica foresta. C'era a stento spazio per stare in piedi.
Anche gli altri due si fermarono. Scrutammo attorno a noi, e ormai non potevamo più avere dubbi: né il palcoscenico né tutta quella polvere erano stati portati lì dal carro. Il Cortile Segreto era un teatro. Guardandoci a vicenda, nelle strisce di luce e di buio, ci colse un brivido. Sentivamo di avere svelato un grande mistero. Questo fece tacere Lucibello, che altrimenti avrebbe continuato a prendermi in giro, e mi evitò di riflettere sulla domanda di Jues.
– Andiamo avanti! – dissi.
Le viscere del palcoscenico parevano senza fine. Ben presto ci trovammo in una zona dove nessuna lama di luce tagliava il buio, e anche la musica filtrava a fatica. Incontrammo ostacoli imprevisti e dolorosi. Infine, ci si parò dinanzi qualcosa che dovemmo aggirare a tentoni. E mentre lo facevamo, si mosse! Si sollevò cigolando. In alto, una botola si aprì e ci inondò di luce. La macchina scenica eruttò forme misteriose.
Qualcuno doveva pur azionarla, pensai. Rischiavamo di essere scoperti. Mi gettai a terra, perdendo di vista i miei due compagni. Il fragore della macchina era enorme, la luce bianchissima e implacabile. Arrancai fra i pali, in cerca di un riparo, e mi ero appena fermato quando vidi un grande sacco rigonfio calare verso di me. Rotolai via appena in tempo per evitare il contrappeso, che si afflosciò a terra fra una nuvola di polvere.
Mi sentivo soffocare. A pochi passi da me, un mastodontico ingranaggio di legno prese a girare con poderosa lentezza.
Non osavo chiamare i miei amici. Avevo paura a proseguire, e mi vergognavo a tornare. Dopo un tempo indefinito, tornò il silenzio sotto il palcoscenico. Da lontano, giungevano le voci e la musica di una nuova rappresentazione.
Decisi di proseguire a gattoni. Non ci volle molto: la foresta di travi terminò bruscamente. Sopra di me c’erano le stelle. E davanti, il carro!
Mi arrestai, nascosto dietro l’ultimo puntello. Che fare adesso? Dove poteva esser Phenissa? Fra le voci che giungevano dal palcoscenico non mi sembrava di udire la sua. E mi venne in mente una cosa: lei era stata l’unica, di tutta la compagnia, ad aver recitato una parte sola. Allora forse poteva essere nel carro...
Le gambe mi tremavano a tal punto che per un po’ non riuscii a muovermi. E quando mi misi a correre, inciampai contro non so cosa e finii rovinosamente per terra. Per farla breve: arrivai al carro, ci girai attorno, sbirciai attraverso ogni apertura. Non vidi niente.
Con un misto di delusione e di sollievo (cosa avrei fatto se l’avessi vista?), mi sedetti con la schiena appoggiata ad una ruota, ansimando e sentendomi molto stupido.
Una finestra si illuminò, davanti a me, di un chiarore giallo e tremolante. Andai a guardare: che avevo da perdere? Dovetti arrampicarmi, perché la finestra era posta in alto, e protetta da una grata di ferro. Scorsi un deposito: grande e cavernoso, con alte volte sorrette da pilastri che la luce fioca della candela non riusciva a raggiungere. Quelli che mi parvero attrezzi teatrali di ogni genere erano ammucchiati fino al soffitto. La fonte della luce era nascosta. Mi arrampicai sulla grata. C’era uno spazio vuoto, al centro del magazzino, ma ne potevo scorgere solo un angolo. Di tanto in tanto in quell’angolo compariva uno dei burattini, facendo capriole impossibili. Per una marionetta, s’intende. Era solo? No: sul pavimento si proiettava un’ombra allungata e indecifrabile...
Scesi, trovai la porta, che mi sembrò enorme, l’aprii con grande cautela, mentre il battito del mio cuore soverchiava il fragore degli strumenti musicali che giungeva dal palcoscenico, e che sembrava preannunciare la fine dello spettacolo.
Scivolai dentro, richiusi la porta. La luce della candela, da quel punto, era quasi invisibile, e sembrava molto lontana; dovetti attendere qualche istante perché i miei occhi si abituassero al buio.
Un leviatano mi guardava da dietro la chiglia di una nave rovesciata. Avanzando, inciampai in un elmo piumato: per fortuna era di cartapesta, e il rumore non fu troppo forte. Accanto c'era una spada spezzata. Trovai poi un leone spelacchiato, un trono senza una gamba, un forziere spalancato. Il ritratto di una dama antica per un attimo mi fece balzare il cuore in gola, tanto sembrava vera nella penombra. Scavalcai alcune colonne cave fatte di legno, riverse a terra, aggirai a debita distanza uno scheletro penzolante, mi infilai sotto un carro trionfale... e fra i raggi dorati di una ruota scorsi finalmente la marionetta che danzava. Per qualche attimo attrasse tutta la mia attenzione: perché senza dubbio, non era manovrata da filo alcuno, né da altro congegno visibile. Pensai: forse è un nano, o una scimmietta travestita...
Ma perché guardavo quello sciocco burattino? Come se avessi paura ad alzare lo sguardo...
Allungando una mano, quasi avrei potuto toccarla. Ma muovere un solo muscolo pareva impresa più ardua che attraversare a nuoto un oceano.
Lo straniero si interruppe. Fissava le fiamme con lo sguardo perso e la fronte aggrottata, come se cercasse nella memoria qualcosa che gli sfuggiva.
Dire che ero innamorato, riprese infine, è troppo. O troppo poco. A quattordici anni non si è veramente innamorati. Era qualcosa di più... primordiale. Come se avessi atteso per tutta la mia vita quel momento, senza saperlo. E il momento mi sfuggiva fra le dita.
Ma vorrete sapere cosa vidi, suppongo. È presto detto: Phenissa seduta su uno sgabello, immobile. Indossava l’ultimo abito di scena, quello in cui era stata lapidata, che era anche lo stesso della scena sulla spiaggia. Teneva gli occhi fissi nella direzione della marionetta, ma senza seguirla nel suoi movimenti. Le labbra erano socchiuse, e sembrava che neppure un alito ne uscisse. Il volto chino, appena velato da una ciocca di capelli neri, aveva un’espressione di quasi impercettibile sorpresa. Per cosa, non avrei potuto immaginare.
Tutto questo durò forse il tempo di dieci respiri o di cento battiti di cuore, il tempo per la marionetta di eseguire una serie completa di capriole.
– Non dovresti essere qui.
Il terrore fu tale che per un attimo la vista mi si annebbiò. Era la voce di Lelius. Mi aveva scoperto! Quando tornai a vedere, la marionetta si era fermata, Phenissa aveva alzato gli occhi, e Lelius era davanti a lei.
– Lia.
Allungò una mano e le toccò la spalla. La fanciulla ebbe un sobbalzo, e nello stesso istante la marionetta balzò in avanti, come... se volesse difenderla. Ma era assurdo. E comunque si fermò.
Phenissa... Lia mosse la bocca come per parlare, e con un’espressione che forse era di dolore chiuse gli occhi. Un gemito quasi impercettibile le uscì dalle labbra.
Lelius si voltò a guardare la marionetta, con irritazione.
– Non devi giocare con questi... – Lia dondolava la testa da destra a sinistra, lentamente.
– Domani reciterai la parte di Issadee – disse Lelius, con voce severa, ma anche, quasi, con... compassione. – Vieni.
Lia, che non aveva ancora riaperto gli occhi, si alzò. Lelius prese con una mano la candela e con l’altra un braccio della fanciulla, e a passi lenti, come un cieco e la sua guida, i due sparirono dietro una statua colossale, alata ma priva di testa. Nel buio, qualcos’altro si mosse. L’ultimo bagliore della fiamma si riflesse sui bottoni dorati delle spalline della marionetta, che seguiva a passi rapidi i suoi padroni. Poco dopo, sentii la porta chiudersi, la chiave girare nella toppa.
Ci misi un po’ prima di capire che ero prigioniero.

(5) LA TORRE



Il cortile era deserto. Tutti gli spettatori se n’erano andati, i commedianti si erano ritirati le scene smontate, i servitori avevano spento le lampade.
Io avevo provato la porta e le finestre, senza fortuna. Avrei potuto chiamare aiuto, gridare. E rendermi ridicolo agli occhi di Lia. Non l’avevo fatto, e ormai era troppo tardi. Avevo voglia di piangere. Anzi: lo stavo facendo. Pensavo a Jues e a Lucibello che se ne tornavano alle loro case, senza dubbio dopo avermi cercato. Pensavo a mia madre, e al mio letto.
Infine mi riscossi, balzai giù dalla finestra. Dovevo uscire, e c’era un unico posto dove cercare: nelle viscere del magazzino. Nel buio più completo. Doveva esserci un’altra porta: a Morraine, diceva un proverbio, nessuna stanza ha una porta sola.
Il buio si rivelò meno completo di quanto avevo pensato. Si era levata la luna, e una pallida luminescenza disegnava contorni di oggetti, per la maggior parte incomprensibili. Iniziai il giro della stanza, muovendomi a tentoni lungo le pareti. Sotto le mie dita l’intonaco umido si sbriciolava, cadendo con un fruscio di minute foglie morte, lasciando affiorare mattoni e pietre. Quando mi fermavo, e dovevo farlo spesso per superare o aggirare qualche ostacolo, sentivo altre cose muoversi nel magazzino: topi, speravo. Morraine è piena di favole sugli abitatori delle sue cantine. Cercai di convincermi che non credevo più alle favole.
La prima cosa che trovai non fu una porta, ma una botola: me ne accorsi dal risuonare a vuoto dei miei passi. Favole o no, non presi nemmeno in considerazione l’idea di aprirla e di scendere: è più difficile uscire da una cantina che da qualsiasi altro posto, mi dissi. E poi, un’altra porta doveva pur esserci!
Non ne trovai una, ma tre. Tutte chiuse. Ero quasi tornato al punto di partenza, quando inciampai contro una scala. I gradini di pietra salivano lungo la parete, senza balaustra. Si infilavano nel soffitto, piegavano, salivano ancora. A questo punto neppure la luce della luna mi aiutava più. Ogni tanto, nelle pareti, si apriva una porta, invariabilmente chiusa.
Poi le rampe presero un andamento regolare, piegando ogni volta a sinistra: ero dentro una torre. Una serie di feritoie me lo confermò. Tutte troppo strette per uscire.
Alla fine della scala trovai un’ultima porta. Mi sedetti sui gradini, ansimando. Non osavo toccarla. Non sapevo cosa avrei fatto se l’avessi trovata chiusa. Infine mi alzai, tirai un profondo respiro, cercai il catenaccio, lo tirai... spinsi.
La porta non si mosse.
Preso dal panico e dalla rabbia la scossi. E mi diedi dello stupido. Si apriva verso l’interno: era ovvio. La scala proseguiva ancora per qualche gradino e terminava su una terrazza coperta.
Era la più bella notte di luna.
Attorno a me si stendeva tutta Morraine, in argento e seppia. Avrei potuto contare tutte le sue 120 torri, e perfino i 3600 merli delle mura, e le 480 campane, i 600 cipressi, e le 72 bandiere e gli 840 segnavento... Naturalmente non lo feci. Ma una cosa mi colpì, mentre facevo il giro del terrazzo, passando da una colonna di mattoni all’altra: la città pareva estendersi egualmente in tutte le direzioni. Mi trovavo al centro di Morraine. E proprio sotto di me, nel cuore dunque della città, c’era un magazzino di attrezzi teatrali. La cosa mi parve, in quel momento, piena di qualche arcano significato. E nel magazzino c’era una botola... Se solo ci fossero stati con me Jues e Lucibello! Se solo non fosse stato quasi mezzanotte, e chissà cosa pensavano a casa mia! Se solo avessi avuto una lampada... E dopo un attimo pensai: se solo avessi meno paura.
I pipistrelli tentavano voli inquieti attorno alla torre. L’aria era fresca, ma carica della promessa dell’estate, e di odori che arrestavano il respiro. Su alcune terrazze le lampade erano ancora accese, si scorgevano delle figure, e adesso che il mio respiro si era calmato, potevo sentire perfino brandelli di musica e di voci.
Cercai i punti di riferimento della mia casa: la Torre degli Unicorni; un vecchio pino dalla cima piegata, che si alzava al centro del Cortile dell’Uovo; e sullo sfondo, la cima ancora innevata dell’Yiril...
Dovevo solo calarmi dalla torre. Una volta sui tetti, tornare non sarebbe stata un’impresa impossibile: come ho detto, Morraine è una sola casa.
Mi sporsi. La torre non era molto alta, ma c’erano almeno venti braccia per arrivare al tetto sottostante. Senza appigli di cui mi fidassi. Serviva una corda. A malincuore ripresi le scale, tornai nel deposito, frugai nei pressi delle finestre, dove c’era un poco di luce, trovai delle corde che non sembravano troppo sottili né troppo vecchie, le legai ad una grata e diedi qualche strattone per essere sicuro che non si rompessero, me le caricai sulle spalle.
Risalendo lungo la scala, giunto ad un pianerottolo, vidi qualcosa che mi fece fermare: una striscia di luce sotto una porta, alla mia sinistra. Prima, di certo, non l’avevo notata. Forse avevo richiamato l’attenzione di qualcuno, con i rumori che avevo fatto nel cercare le corde. E forse, in questa maniera, sarei uscito più in fretta... No: ormai potevo andarmene da solo. Superai la striscia di luce in punta di piedi, girai un angolo... E tornai indietro: ero penetrato nel Cortile Segreto, e non avevo intenzione di andarmene senza vedere tutto quello che c’era da vedere!
Ma non c’era niente da vedere: solo una lama sottile di luce. Nessuna serratura, e nessun buco per la chiave. Appoggiai l’orecchio al legno. Mi pareva di udire delle voci, ma non ero sicuro che non fosse il pulsare del mio sangue. Il tempo passava veloce. Dovevo andare.
Ripresi la salita. Altre due curve della scala... e di nuovo la luce! Questa volta non si trattava solo di una fessura, ma di una finestrella ovale, protetta da una grata a croce. Mi fermai un attimo a riflettere. Doveva corrispondere alla medesima stanza a cui dava accesso la porta che avevo incontrato prima. Una stanza attorno a cui giravano le scale. Nel cuore della torre.
Mi avvicinai. E vidi: un soffitto a volte ogivali. L’apertura attraversava orizzontalmente una delle volte, e ben poco si vedeva della stanza sottostante. Ma abbastanza per farmi trattenere il respiro. Dunque: uno scaffale altissimo, pieno di vasi in vetro e ceramica; quelli in ceramica con disegni e scritte in caratteri arcaici; quelli di vetro che lasciavano intravedere... non sapevo bene cosa, ma parevano bizzarri animali sospesi in un liquido trasparente. Appeso al soffitto, uno scheletro di mirabili dimensioni, con la coda dotata di aculei e mascelle in grado di stritolare un bue. Il collo di un alambicco, che saliva a spirale fin quasi alla finestrella. Un mantice gigantesco, appoggiato ad una parete. L’angolo di un tavolo ingombro di pergamene, libri, strumenti di ottone e vetro.
Un uomo passò davanti al tavolo. Un giovane: corti ricci biondi, carnagione pallida, lineamenti affilati. Le labbra strette, in un’espressione malinconica e sprezzante insieme. Indossava pantaloni neri, aderenti, una camicia bianca, dalle maniche a sbuffo, farsetto viola, alti stivali neri.
Gettò qualcosa sul tavolo, con un gesto brusco. Era uno dei burattini. Senza il costume blu con gli alamari e i bottoni d’oro, sembrava un bambino. Per un attimo provai una sensazione di orrore indicibile. Era davvero un bambino! Guardai meglio. No, non poteva essere. La distanza, la luce, l’angolazione mi avevano tratto in inganno. Era proprio un burattino: grassoccio, gambe e braccia corte, faccia dai lineamenti esagerati, privo di sesso, dalla pelle biancastra.
L’uomo parlò. Aveva una voce secca, un po’ troppo acuta, con un accento vagamente straniero. – Non c’è niente da fare – disse. Sembrava infastidito dalla cosa. Un’altra figura entrò nella fetta di stanza visibile.
Era Lelius. Si chinò sul burattino e lo toccò, con un gesto quasi di affetto. Il burattino si mosse. Tese un braccio, agitò le gambe in un patetico tentativo di eseguire una capriola.
– Solo lei potrebbe... – cominciò il giovane biondo. Lelius scosse la testa, e il giovane alzò le spalle.
Poi Lelius sparì alla vista, tornò con il costume, rivestì con cura la marionetta. Senza aspettare che avesse finito, il giovane si avviò verso la porta, impaziente. Giunto sulla soglia si girò e disse: – Tu non vieni?
Pensavo si riferisse a Lelius. Invece una terza figura fece la sua apparizione, invisibile fin'ora perché si era trovata proprio sotto la finestrella. E perciò la vidi solo di spalle. Ma era inequivocabilmente una donna, e apparentemente giovane: lunghi capelli lisci e biondi, quasi bianchi, trattenuti da una coroncina con delle pietruzze scintillanti; alta, movimenti flessuosi. Una lunga gonna di velluto verde e corpetto uguale su una camicia bianca. Si arrestò un momento accanto al corpo del burattino. Si chinò su di lui, come per parlargli o per... baciarlo. Poi raggiunse l'uomo sulla porta. Che l'aprì per farla passare e...
Sentii la porta aprirsi, e contemporaneamente il rumore mi giunse anche dalle scale. Per un attimo rimasi paralizzato dal terrore. Poi sentii i passi scendere. Poco dopo una chiave girare in una delle porte del deposito. Lelius, intanto, aveva terminato la vestizione, e preso in braccio la marionetta. Questa, con un movimento improvviso, l’abbracciò. E di nuovo, per un istante, mi parve orribilmente simile a un bambino. Poi anche Lelius uscì, portando con sé la lampada.
Io raggiunsi la sommità della torre con passo ancora più felpato. Non sapevo cosa pensare della scena a cui avevo assistito, ma ero certo che quella stanza fosse un laboratorio alchemico. Il Cortile Segreto si rivelava sempre più colmo di misteri.
Calarmi sui tetti non fu molto difficile. È il genere di esercizio che i genitori di Morraine cercano in ogni modo di scoraggiare, e che i ragazzi imparano prestissimo. Il difficile cominciò dopo. Da che parte dirigermi lo sapevo, ma sui tetti di Morraine le linee rette hanno scarso significato. Anche perché i proprietari dei tetti non amano che qualcuno calpesti le loro tegole, magari le rompa, e frappongono ogni genere di ostacoli ai trasgressori. Ostacoli che rendono i tetti di Morraine oltremodo vari e pittoreschi, e mai su uno stesso livello: inferriate e muretti, siepi degne di giardini pensili e punte metalliche sporgenti. Ostacoli che i bambini di Morraine imparano a superare in tenera età (i tetti sono costruiti in maniera tale che è molto difficile cadere), ma non fra le ombre ingannevoli della luna. Queste sono riservate ai ladri e agli amanti, e a me procurarono non poche escoriazioni.
Trovai infine un lucernario aperto, una soffitta abbandonata, una scala scricchiolante... e alla fine di questa uno dei cortili più malfamati della città, in cui intravidi ombre di donne e di uomini intente ad enigmatici commerci.
Da lì, arrivai a casa di corsa.
Trovai mio padre pallido come non l’avevo mai visto. Mia nonna e le zie parlavano tutte insieme, frastornandomi le orecchie. Mio zio non c’era: era uscito a cercarmi. Quanto a mia madre, corse ad abbracciarmi, in lacrime, salvandomi così da una immediata e dolorosa punizione.
Mia sorella, ancora alzata, mi guardava con grandi occhi pieni di stupore e di una certa invidia.

(6) ESTATE



Le successive notizie su Lia mi giunsero sotto forma di un foglio appallottolato. Me lo portò mia sorella Denize tre giorni dopo, insieme al pranzo. L’aveva appallottolato, con precauzione eccessiva, per passarmelo di nascosto. Diceva:
“Il carro di Lelius è partito questa mattina, all’alba. Non si sa per dove. Nessuno di noi è più riuscito ad entrare.”
Firmato: Jues.
Quanto a me, negli ultimi tre giorni ero rimasto rinchiuso in una stanza priva di finestre, larga tre passi per cinque, con un letto, una sedia, un tavolo, innumerevoli cose vecchie, e mia sorella che mi portava da mangiare. Anche questa stanza aveva almeno due porte: una era quella da cui ero entrato. L’altra, un buco che precipitava verso le cloache. Non era abbastanza largo da indurmi a prenderlo in considerazione come via di fuga. Di notte faticavo a dormire, e ascoltavo il lavorio dei tarli in una vecchia trave del soffitto. Mi faceva pensare all'inenarrabile trascorrere del tempo.
La punizione scadeva il giorno dopo. Dovevo ritenermi fortunato se non era stata più lunga: la mia reticenza sui particolari della serata nel Cortile Segreto, e la confusione sospetta dei resoconti forniti da Jues e Lucibello non erano stati gran che adatti a suscitare clemenza.
Ma così: addio Lia.
In compenso, sul tavolo c’era un libro con i Canti di Pridery, il mitico fondatore di Morraine. Obbligo: impararli a memoria. Ricordo ancora alcuni frammenti:
“Per sei giorni, per sei notti
cavalcò nella steppa.
Volavano i corvi sulla sua testa
correvano i lupi sulle sue tracce.
Si fermò in un campo di neve.
Due gocce di sangue caddero
sul candido manto.
Due giorni rimase a guardarle:
le guance della bella Yrine.”
Io non avevo a disposizione un campo di neve, ma il viso di Lia affiorava dal buio della stanza, ogni volta che spegnevo la lampada. Mi ossessionava. Mi perseguitava. Mi incantava. La prima notte non dormii. La seconda cercai di fuggire: fu un tentativo maldestro e rumoroso, bloccato sul nascere con mio grave scorno. La terza crollai in un sonno inquieto, pieno di sogni sfuggenti. Quando arrivò il biglietto di Jues ero troppo stanco per disperarmi.
Il giorno dopo venni rimesso in libertà. I miei due amici mi aspettavano.
Senza una parola, di comune intesa, raggiungemmo il Cortile delle Rondini, prendemmo una scala di pietra che diventava di legno all’ultimo piano, e finiva con un pianerottolo privo di porte, illuminato da due abbaini contrapposti, da cui entravano e uscivano le rondini. Uno dei muri terminava prima del culmine del tetto, ed era dotato di appigli sufficienti perché dei ragazzini come noi potessero arrampicarsi. Da lì, uno stretto pertugio dava accesso ad una soffitta piena di piccole aperture quadrate, con un minuscolo caminetto in un angolo: una piccionaia abbandonata. Era il nostro rifugio segreto, santuario ed osservatorio (dalle feritoie si scorgeva buona parte di Morraine). Avevamo costruito una panca e un tavolo. Un baule, lì da prima che giungessimo noi, conteneva le nostre cose più preziose: un coltello a serramanico, un rotolo di corda, un vecchio libro con figure araldiche, varie immagini di pietra intagliata, alcuni pezzi di vetro che facevamo passare per pietre di gran pregio, altri oggetti che non ricordo. Avevamo una lampada ad olio, e d’inverno, quando riuscivamo a procurarci la legna, accendevamo il caminetto.
Ci sedemmo con grande solennità, ed io raccontai tutto quello che mi era successo quella sera nel Cortile Segreto, dopo che l’improvviso mettersi in moto della macchina scenica ci aveva separati. Non nascosi nulla ai miei amici... se non per attenuare un poco la paura provata.
Ciò che più di tutto li affascinò, fu il laboratorio di alchimia (come io lo definii senz’altro), e il burattino. Io pensavo soprattutto a Lia, ma ero contento di non doverne parlare troppo. Sulla natura magica delle marionette, nessuno nutrì dubbio alcuno. Neppure Lucibello, che ci teneva a passare come il più disincantato di noi. Che Lelius fosse un mago, anche questo pareva cosa scontata; che Lia fosse soggetta ad un incantesimo, in mancanza di prove decisive suscitò qualche dubbio, ma nessuno volle contraddirmi fino in fondo su questo punto.
Essendo sparito Lelius con il suo carro, la cosa che interessava di più i miei amici era il Cortile Segreto. E soprattutto quella torre, con la corda che forse ancora penzolava su qualche tetto, accessibile a qualunque ragazzino intraprendente!
Erano tutti e due in piedi. Lucibello aveva aperto il baule, si era impadronito della corda e del coltello. Jues si stava arrampicando verso l’uscita.
Ormai non c’era più modo di trattenerli. Partimmo alla ricerca della torre.
L’impresa si rivelò ben presto più difficile del previsto. Per prima cosa, raggiungemmo la cima del Belvedere Dorato, uno dei punti di osservazioni più celebri di Morraine, in cima ad un’altura situata nell’angolo nord-est della città, un tempo mastio di una fortezza trasformata ormai in giardino pubblico: vi si svolgono fiere e spettacoli all’aperto; nei giorni festivi vi dà spettacolo la banda cittadina, sotto gli alberi secolari bancarelle vendono dolci, frittelle, bibite; di sera vi passeggiano gli innamorati. Scrutammo per un’ora buona il panorama, ma non riuscii ad individuare la torre. Molte erano più o meno quadrate, coperte da un tetto, ma nessuna mostrava tracce di corde. Del resto, non mi ero soffermato troppo ad osservarla dall’esterno, mentre fuggivo, e la luce della luna era ingannevole...
Decidemmo di cercare un punto di osservazione più vicino, anche se più basso. Ne provammo vari: la Torre dell’Unicorno per prima, perché mi pareva di ricordarne esattamente la posizione, rispetto al Cortile Segreto: nuova perdita di tempo. Poi, il Panspherion, con uguale insuccesso. I custodi della Torre degli Sguardi ci costrinsero a sloggiare dopo qualche minuto; la Terrazza dei Profumi, oltre ai suoi famosi fiori, possedeva dei cannocchiali: lunghi tubi in ottone dalle lenti imperfette; inutili alla nostra bisogna; e poi l’angolazione era probabilmente sbagliata.
Nel frattempo era giunto il tramonto, e la luce incerta non permetteva di proseguire le ricerche.
La sera mi era stato tolto il permesso di uscire. Forse fra un paio di settimane... e nel frattempo la luna sarebbe stata nuova.
Il giorno successivo scegliemmo un approccio ancora più ravvicinato: battemmo i cortili circostanti a quello Segreto. Ma erano tutti piuttosto stretti, le case alte, e la torre ci si negò anche questa volta. Provammo varie scale, ma tutte si interrompevano prima di raggiungere i tetti, come se formassero una prima linea difensiva intorno al Cortile stesso.
Il terzo giorno decidemmo di provare la via più ovvia, ma che avevamo fino ad allora rimandato, per le ragioni che capirete subito: il cortile in cui ero sceso quella notte.
Era un cortile, ma aveva un nome singolare per Morraine: si chiamava piazza: Piazza dei Miracoli.
Vi sono alcuni luoghi a Morraine che si fregiano di indicazioni tipiche di tutte le normali città: vie, piazze, viali, vicoli. I più ritengono che ciò dimostri semplicemente che un tempo Morraine era stata una città come le altre, cresciuta poi dentro se stessa, occupando tutti gli spazi disponibili. Portano a riprova di questo le tracce di giunture fra edifici un tempo separati, che mostrano materiali e tecniche costruttive diverse, e appaiono distribuite secondo tracciati più o meno rettilinei. Altri oppongono spiegazioni più fantasiose, di cui riferirò solo una: che Morraine sia in realtà un solo, gigantesco edificio (per la precisione un tempio), unico sopravvissuto di una città immensa che un tempo occupava tutta la pianura fino alle pendici dei monti Yiril.
Sia come sia, la Piazza dei Miracoli (anche sull’origine di questo nome esistono varie ipotesi), era uno spazio di forma più o meno ellittica, con due fontane ornate di statue mutile, usate comunemente per lavare la biancheria, un acciottolato irregolare, pieno di erbacce, nessun albero, nessun porticato, ma numerosi androni. La facciate delle case vantavano tracce di anteriori, ciclopiche costruzioni, sotto forma di pietre squadrate alte due braccia e larghe quattro; innumerevoli balconi disposti in apparente disordine; file di panni stesi ad asciugare.
Entrando mi resi conto di due cose: la prima, che non ero in grado di riconoscere l’androne dal quale ero sbucato, quella notte; la seconda: che un gruppo di ragazzini, fra cui alcuni più grandi di noi, ci stavano guardando con aria poco amichevole. Iniziammo un cauto circuito del cortile. Gli altri interruppero il loro gioco, che consisteva nel gettate dei sassi contro un muro e farli rimbalzare il più vicino possibile ad una linea segnata in terra con il gesso, e cominciarono a seguirci, dapprima con lo sguardo e poi con i piedi. Noi tre ci guardammo, scrutammo gli androni. Nessuno sembrava promettente. Affrettammo il passo. Arrivammo ad un quarto di giro. Gli altri erano vicini, il loro aspetto sempre meno rassicurante: sporchi, gli abiti rappezzati, i più piccoli a piedi nudi. Tenevano ancor in mano i sassi con cui avevano giocato.
– La fontana – disse Lucibello, e senza aspettare risposta, partì di corsa. Lo seguimmo senza esitare. In effetti, una delle due fontane era vicinissima, e ci arrivammo nel giro di qualche battito di cuore, prendendo alla sprovvista i nostri avversari.
Le donne che stavano lavando si misero a ridere. Avevano le gonne sollevate, che lasciavano scoperte gambe grassocce e rosee, magre e pelose, e ogni via di mezzo. Cominciarono a spruzzarci di acqua insaponata, e Jues scivolò sulle pietre bagnate, finendo disteso per terra. Una delle lavandaie lo sollevò di peso, e con una pacca sul sedere lo spedì nella direzione della porta opposta a quella da cui eravamo entrati. Un’altra gridò ai ragazzini della Piazza dei Miracoli di lasciarci in pace. Io e Lucibello seguimmo Jues senza bisogno di incoraggiamenti.
In breve: trascorremmo l’intera estate a cercare la torre del Cortile Segreto. Provammo ogni tetto, ogni campanile, ogni terrazza, ogni torre accessibile. Penetrammo in ogni androne (diciamo: quasi ogni androne), salimmo ogni scala, uscimmo da ogni abbaino. I proprietari dei tetti avevano ormai imparato a riconoscerci, e si lamentarono con i nostri genitori. Fummo puniti; tornammo liberi; ricominciammo da capo. In piena estate, ci aggiravamo sui tetti nelle prime ore del pomeriggio, quando il sole a picco teneva tutti lontani dalle terrazze, e le tegole bruciavano i nostri piedi nudi.
Provammo anche l'intrico dei corridoi interni, dopo essere penetrati negli edifici più vicini al cortile segreto. Come in un labirinto, ci perdemo irrimediabilmente in un intrico di di passaggi spesso ciechi.
Avvistammo la Torre varie volte. Ma senza alcuna corda che ne penzolasse. O era stata ritirata, o nessuna di esse era la vera Torre.
Alla fine, diventò una sorta di miraggio, un fuoco fatuo, un fantasma, un sogno. Ci aiutava a trascorrere le lunghe e pigre giornate estive. O meglio: aiutava i miei due amici. Per me la Torre era solo un possibile ma remoto contatto con Lia, con le sue marionette, con Lelius.
Ci appostavamo per lunghe ore, al tramonto, presso la porta del Cortile Segreto. Non la vedemmo mai aprirsi; le finestre rimanevano sempre buie. Seguimmo varie figure dall’aria misteriosa che passarono davanti ad essa: scoprimmo pescivendoli e sellai, tintori e ciabattini, garzoni di bottega e servette. Cercammo più volte di esplorare la Piazza dei Miracoli, anche di sera, senza scoprire la scala da cui ero disceso.
Interrogammo tutti quelli da cui ci aspettavamo qualche risposta circa il Cortile Segreto e i suoi abitanti. Ottenemmo risposte ambigue, ironiche, irritate, alzate di spalle e risolini. In qualche caso anche il consiglio di desistere.
Lucibello, che era il meno ingenuo ma anche il più audace di noi tre, propose ad un certo punto di provare i sotterranei. Si dice infatti che nel sottosuolo di Morraine esista una seconda città, una rete di passaggi analoga a quella che conduce da un cortile all'altro, da un corridoio all'altro, da un tetto all’altro. Lucibello stesso affermava di aver trovato una porta nella cantina della sua casa. Chiusa, peraltro.
Il piano era emozionante e inattuabile (e sospetto che Lucibello ce l’avesse proposto perché sapeva che l’avremmo rifiutato): nessuno di noi aveva mai provato a percorrere i sotterranei; non avremmo saputo come orientarci; infine, c’erano leggende sugli inquietanti abitanti del sottosuolo...
Scartammo l’idea. Del resto, l’estate stava ormai finendo, e quel gioco che ci aveva occupato per tanto tempo cominciava a perdere un po’ del suo fascino.
Mentre i pomeriggi si accorciavano, cominciammo a riprendere le nostre occupazioni normali. Con l’approssimarsi della vendemmia, Jues accompagnava sempre più spesso suo padre nella vigna. Lucibello fu spedito a fare il garzone presso un panettiere: si alzava in piena notte per impastare e infornare, dormiva durante il pomeriggio; la mattina ci portava pezzi di focacce, dolci, pane ancora caldo.
Quanto a me, aiutavo mio padre, che faceva il falegname e teneva bottega nel Cortile del Nano, così detto a causa di una figura incurvata, dalle fattezze indecifrabili, che reggeva un obelisco posto al centro del cortile.
Nel frattempo, io conducevo una mia indagine personale. Volevo sapere se Lelius era già venuto a Morraine altre volte, a parte le due che conoscevo; e di conseguenza, se ci sarebbe tornato. Poiché a me, molto più del Cortile Segreto, interessava Lia.
Appresi pochissimo. Quasi nulla. La cosa più singolare fu questa: non trovai nessuno che avesse assistito alla rappresentazione della storia di Teseius e Phenissa, o che ne avesse sentito parlare.
Taluni ricordavano un attore che poteva o non poteva essere Lelius, venuto a Morraine tre, quattro, o forse sei anni prima. Del resto, molti attori girovaghi capitavano ogni anno in città, e chi poteva ricordarli tutti?
Ogni volta che arrivava una compagnia di comici, cercavo anche presso di loro notizie sul dottor Lelius Abramus. Impresa non facile: gli attori, scoprii, sono per natura e professione gelosi e maldicenti dei loro colleghi. La fama di un attore è la sua principale fonte di guadagno, e per evitare che quella dei rivali si diffonda, preferiscono affettare ignoranza, piuttosto che suscitare curiosità dicendone male. In breve: nessuno conosceva o voleva ammettere di conoscere Lelius e la sua compagnia di trapezisti, giocolieri, domatori, saltimbanchi, eccetera. Una sola volta, un vecchio capocomico, sentendo il nome, sputò a terra.
Non osai chiedere altro.
Ma ormai una cosa era chiara: restando a Morraine non avrei potuto apprendere molto di più.

(7) LA PROVA



Nel mese della Nebbia-fra-i-rami-spogli, come viene chiamato a Morraine il periodo in cui l’autunno declina nell’inverno, presi la mia decisione. La decisione più importante della mia vita.
Qui il nostro narratore si interruppe e sorrise. Senza di essa, infatti, non sarei fra di voi. Ma è necessaria una spiegazione.
Come già sapete, Morraine è un’unica casa, racchiusa nelle mura di una normale città. Ciò significa che tutto il suo spazio interno è in gran parte già occupato. E data l’indole dei suoi abitanti, nessuno ha mai costruito la sua abitazione fuori dalle mura.
Per un raggio di venti leghe intorno a Morraine ci sono solo capanne per gli attrezzi agricoli, o per trascorrere qualche notte nella stagione del raccolto. Oltre, cominciano i villaggi e i paesi di coloro che vengono a Morraine per i mercati settimanali: gente che parla con la voce forte e alta di chi ha intorno alla sua casa uno spazio vuoto, e che noi ragazzini guardavamo con un misto di timore e sufficienza.
Ma a parte questo, che c’entra poco o niente, quello che voglio dire è che lo spazio, a Morraine, è limitato. Le possibilità di costruire nuove abitazioni sono prticamente nulle, per motivi igienici ed estetici, come minimo. Con qualche piccola eccezione, come vi racconterò a suo tempo...
Ma Morraine è ragionevolmente ricca e prospera: la sua pianura fertile, i fiumi abbondanti di acque, i suoi artigiani famosi anche dove gli uomini parlano altre lingue.
E a seconda delle circostanze (o dell’influsso degli astri, come vogliono alcuni), la sua popolazione aumenta.
Che fanno coloro che sono in eccesso? Se ne vanno, naturalmente. O non tanto naturalmente. Leggende antiche alludono a sparizioni misteriose, a rapimenti da parte di gnomi o di fate, e in queste leggende un ruolo importante giocano i cunicoli sotterranei della città. Ma ai miei tempi, posso giurarlo, nulla di tutto questo accadeva.
Chi se ne va è detto Portatore-della-lampada, perché al momento di lasciare la città, i suoi parenti gli affidano una lampada e dell’olio, che serviranno ad illuminargli la via.
I motivi per cui i portatori abbandonano Morraine sono molteplici e tutti convincenti. Perché una simile categoria di persone faccia la sua apparizione proprio nei momenti di sovrappopolazione, nessuno è mai riuscito a spiegarlo in maniera definitiva.
È come se una segreta inquietudine pervadesse la gioventù di Morraine, un desiderio di cose nuove, un’insofferenza verso i costumi dei padri, tanto forte da superare l’avversione per i luoghi dove “i muri non si incontrano”.
Nel mio caso, il desiderio si chiamava Lia. Il tempo, era quello dell’Abbondanza di Figli. Come le due cose coincidessero, è un mistero che non presumo di risolvere.
Il Portatore della Lampada è segnato, è quasi sacro. I cinici dicono che è il benvenuto: uno in meno! Comunque, nessuno contesta la sua decisione, e tutti si prodigano in aiuti.
Io avevo quattordici anni, che è giusto l'età minima per partire. Però non desideravo solo andarmene: desideravo andarmene per trovare Lia. Non potevo sopportare l’idea di aspettare, a Morraine, che Lelius riapparisse con il suo carro... fra un anno, o forse dieci, o forse mai.
Ma... lasciare Morraine! Viaggiare per il mondo! La prospettiva mi sgomentava. E c’erano anche un paio di ostacoli di ordine pratico. Primo fra tutti: come mi sarei guadagnato da vivere, durante il viaggio? Poiché la speranza di partire con ricchezze sufficienti appariva remota. La mia non era una famiglia ricca, e Morraine non offre occasioni di facili guadagni. Per non dire del fatto che la prospettiva di viaggiare con molto denaro era più inquietante che rassicurante: l’ignoranza ingigantisce i pericoli, soprattutto per chi, come me, era sempre vissuto entro le mura di una sola città-casa. No: una dignitosa povertà appariva più praticabile.
Che fare? Un’idea si presentò naturale alla mente: diventare io stesso attore! Farmi assumere da qualche compagnia di comici, percorrere le stesse strade di Lia!
L’idea mi riempì di entusiasmo. Presi a frequentare con assiduità ancora maggiore di prima tutti gli attori girovaghi che capitavano in città, e anche i saltimbanchi, i funamboli, i suonatori, perfino quelli che fanno ballare orsi e scimmie. Talvolta, soprattutto le compagnie più numerose hanno bisogno di qualcuno che dia una mano per allestire il palco e le scene, in cambio di qualche soldo o di un posto nelle prime file di panche. Ma ahimè, nessuno era interessato ad un ragazzino della mia età come attore: i pochi ruoli di giovinetto, nella severa economia dei teatranti di strada, venivano assunti da una delle donne.
Mi convinsi, mio malgrado, alla pazienza. Dovevo prepararmi, attendere il momento opportuno, raccogliere informazioni. E chissà che nel frattempo a Morraine non ricomparisse Lelius...
Sarei diventato un attore! Nel mio entusiasmo, riuscii a trascinare e i miei due amici, e accarezzai perfino l’idea di formare con loro una compagnia: qualche ragazza l’avremmo trovata, accumulando risparmi avremmo comprato un vecchio carro, i cavalli e qualche costume, e poi... le vie di tutte le Terre di Mezzo sarebbero state nostre! Da Seth ad Aix, da Aiguerre a Kaliphrene, dalle montagne al mare, e magari oltre...
Nella nostra soffitta segreta allestimmo un teatro: Jues rubò una vecchia coperta di broccato blu a sua madre, per fare da fondale. Lucibello, grazie ai suoi soliti, misteriosi espedienti, arrivò un giorno con un costume da Artefice di Multiformi Metamorfosi. Il nome doveva esserselo inventato lui, ma il costume era senza dubbio impressionante: ampie brache verde cobalto, camicia che assumeva varie sfumature di viola a seconda di come la luce la colpiva, farsetto nero in cui erano intessute minute pagliuzze d’oro, scarpe nere con fibbia d’argento, cappello a cono con tre tese rivolte all'insù e uno stravagante pennacchio. La stoffa aveva il difetto di strapparsi ad ogni gesto un po’ brusco: ma questo era un segno della sua venerabile antichità.
Jues poi, che aveva una folta schiera di sorelle, venne costretto suo malgrado a procurarsi (e ad indossare) un improbabile costume da principessa. Il mio contributo al guardaroba fu piuttosto scarso: un cinturone di cuoio irrigidito, una spada che avevo fabbricato e dorato nella falegnameria di mio padre, il vecchio elmo di mio zio, che aveva servito qualche tempo nel corpo di guardia di Morraine. Ma soprattutto: un copione. Frugando in un baule dove erano conservati vecchi libri di mia zia, trovai alcuni scartafacci ingialliti, fragili, mangiati dai topi, formati da poche decine di fogli cuciti, con rozze incisioni sulla copertina e titoli come: La mirabile Historia dei Dodici Cavalieri, Le Due Figlie del Peccato, Il Mago di Qom, La Freccia insanguinata, Il volo dell’Uccello Fatato, Il Messaggero del Re, e altri ancora. Purtroppo, non trovai ciò che più avrei desiderato: la storia di Teseius e Phenissa.
La scelta ci occupò a lungo. La Mirabile Historia aveva evidentemente un numero eccessivo di personaggi, e nelle Due figlie ce n’era una di troppo. Il volo dell’uccello comportava l’uso di complicate macchine sceniche e così via.
Alla fine, anche per via del costume di Lucibello, la nostra scelta cadde sul Mago di Qom, che presentava anche il vantaggio di avere solo tre personaggi principali. La storia è semplice: il malvagio mago Zarkos costringe alle sue voglie la bellissima Zeryna, minacciando di orribili tormenti il suo fidanzato Glyon se la fanciulla non acconsente. Per salvare l’amato, Zeryna in uno straziante colloquio lo ripudia, simula amore per Zarkos; Glyon medita alternativamente vendetta e suicidio, maledice il momento in cui è nato. Ma nel giorno stesso delle nozze, già abbigliata nell’abito da sposa, Zeryna sceglie di morire di propria mano, eccitando così gli animi di tutta la cittadinanza di Qom contro la folle superbia di Zarkos. Glyon si fa artefice della giustizia, uccide il mago, viene proclamato eroe.
La versione in nostro possesso abbondava di monologhi patetici, declamati da Zeryna e Glyon (ossia: Jues ed io), che mi incaricai di accorciare ed accomodare, trasformando ad esempio le “perle distillate dall’amara rugiada del ricordo” in semplici “lacrime di rimorso”.
I preparativi si trascinarono fino ad inverno inoltrato, anche perché nessuno di noi aveva molto tempo libero. Il giorno della prima prova aveva gelato. Le fontane nei cortili sembravano candelabri rovesciati, e l’acqua poteva essere attinta solo dai pozzi. Avevamo portato della legna per accendere il caminetto nella nostra soffitta segreta, e le feritoie per i piccioni erano state otturate con stracci e paglia.
Ciascuno si era imparato a memoria le parti del primo atto. Iniziava Lucibello, nella parte del mago, e ci lasciò senza fiato: nella luce rossastra e balenante delle fiamme, che mettevano in risalto al meglio il suo costume, sembrava un’apparizione infernale, mentre il vento che soffiava dalle fessure caricava le sue parole di orrore. Il suo fisico poi era perfettamente adeguato al ruolo: magro, quasi ossuto, il viso affilato dal naso aquilino e dalle sopracciglia nere e folte. Jues ed io applaudimmo con convinzione.
Toccava poi alla vergine Zeryna. Jues, devo dire, se la cavò con onore, malgrado le vesti lo impacciassero non poco e la parte lo imbarazzasse. Fu sufficientemente patetico, senza scadere nel lacrimoso; evitò la trappola del falsetto, accontentandosi della sua voce normale, e comunicando il senso della femminilità tramite un gestire sobrio, il capo pudicamente reclinato. Anche lui ebbe applausi meritati. Jues (mi accorgo adesso di non aver mai descritto i miei due amici, e colgo l'occasione per rimediare) al contrario di Lucibello era un tipo bene in carne, con riccioli color carotae e carnagione pallida, non priva di qualche lentiggine. Cosa di cui all'epoca si vergognava parecchio
Toccava a me. Sebbene non avessi praticamente pubblico, il cuore mi batteva forte, mi pareva di soffocare. Le prime parole mi uscirono a fatica. Mi ripresi, prosegui brandendo la spada; arrivato al verso “non resterà questo ferro in ozio”, mi interruppi per un vuoto di memoria. Lucibello mi sibilò le parole. Riattaccai. Alzai con troppa foga la spada, che si spezzo contro una trave del tetto. Lucibello dovette aiutarmi altre due volte. Finii in fretta e furia. Dopo qualche secondo, Jues provò ad applaudire, senza convinzione. Lucibello si era già tolto il costume.
– Io devo scappare – disse.
Jues si districò dalle gonne. – Allora ci vediamo... domani? – propose.
Feci un vago cenno col capo. Jues uscì. Io mi tolsi elmo e cinturone, raccolsi i pezzi della spada, riposi tutti i costumi nel baule. Del fuoco non restavano che poche braci. Spensi la lampada e me ne andai.
Quella sera avevo capito che non sarei mai diventato un attore.

(8) L'ALCHIMISTA



Quando uscii nel Cortile delle Rondini, cadevano fiocchi di neve, larghi e radi. La prima neve d’inverno.
Mi fermai un momento a guardane la neve che scivolava attraverso la luce delle finestre.
Il cortile era quasi deserto, a quell'ora e con la neve. Avrei potuto tornare a casa passando per i corridoi interni di Morraine, ma non mi andava di incontrare gente.
Dovevo fare in fretta, altrimenti rischiavo una punizione. Poi pensai: che importa? Tanto non avrò niente da fare domani...
Ma forse voi vi starete chiedendo cosa sia la neve. Vi rispondo: è una specie di pioggia soffice e bianca, come la lanugine di certe piante; si posa sulle cose e le ricopre, e più cade più si accumula, anche parecchie braccia in certi posti, e non se ne va finché il caldo non la scioglie...
Così presi a camminare, senza meta, da un cortile all’altro, ciascuno più bianco del precedente. I negozi e le botteghe stavano chiudendo. Le donne, avvolte negli scialli, correvano a fare gli ultimi acquisti per la cena. Alcuni bambini cominciavano a lanciarsi palle di neve, ma io non ero certo dell’umore adatto. E in ogni caso non ero più un bambino.
La sconfitta era tanto più cocente perché giungeva imprevista. Mi diedi mille volte dello stupido, ripensando a tutti gli errori commessi. Ma in quel momento, l’ultima cosa che mi sentivo di fare era riprovarci. Odiavo il teatro con tutte le mie forze.
Mi fermai sotto la neve che ormai cadeva fitta. Mi trovavo nel Cortile della Fenice. Come le mie speranze: bruciate. La rinascita?... Ebbi un brivido. Rischiavo di prendermi una malattia. Tanto meglio: avevo una gran voglia di essere compatito.
Mi infilai nell’androne che portava nel Cortile Dorato, e aveva sulla chiave di volta una mezzaluna con un uccello fra i due corni. Una sola luce tagliava a metà il lungo corridoio buio. Doveva essere la vetrina di un negozio, ma conoscevo poco quella zona di Morraine, che era piuttosto distante da casa mia.
Davanti alla vetrina pendeva un'insegna a malapena illuminata dalla luce della vetrina: decifrai a fatica una civetta che stringeva fra gli artigli un rotolo di carta o pergamena; una scritta che non riuscii a leggere. Sbirciai dentro. Una bottega di libraio, con un cliente di spalle, che esaminava qualcosa su un bancone, e il proprietario in cima ad una scaletta, che gli porgeva dei rotoli. Il cliente si voltò per dire qualcosa al proprietario. E lo riconobbi.
Era il giovane biondo, che avevo visto nella torre insieme a Lelius.
Non ricordo cosa pensai, né quanto tempo rimasi lì davanti alla vetrina. So che mi ritrovai dentro, fingendo di rovistare fra i libri. Il proprietario mi lanciò un’occhiata sospettosa. Il giovane biondo non mi degnò di uno sguardo.
Trovai uno scaffale di libri di seconda mano, non molto lontano dal bancone e dal giovane, che anche quella sera vestiva di nero. Non osavo guardarlo, sebbene di certo lui non mi potesse riconoscere, ma sbirciai sul banco. Era coperto di atlanti e di mappe.
– Ecco, questa è molto antica – disse il proprietario, porgendo un foglio ripiegato più volte al suo cliente. Il giovane alchimista lo aprì con cura. Sul bancone si spalancò un mare. Era tale l’illusione di profondità, che mi misi a fissarlo come incantato. In mezzo alla carta spuntava un’isola, verde smeraldo, ocra e madreperla; da un lato della mappa, coste frastagliate protendevano cinque dita di roccia che formavano una mano, e vene di fiumi versavano le loro acque nel mare. Sottili nervature grigie rivelavano la presenza di strade, e minuti rettangoli rossi quella delle case. Per attimo mi ricordai di quel pomeriggio in cui il carro mi aveva investito, e mi ero ritrovato sospeso in aria: sebbene da un’altezza minore, le cose mi erano apparse con la stessa nitida precisione della mappa.
Il giovane spianò il foglio con un gesto brusco della mano. E di colpo il mare, le terre, i fiumi, le strade, tornarono ad essere solo chiazze di colore, mescolate a parole in un alfabeto sconosciuto, che prima non avevo notato.
L’alchimista osservò a lungo la mappa, con le sopracciglia aggrottate. Il padrone sulla sua scala, io in basso con un libro in mano, attendevamo nel massimo silenzio. Infine il giovane scosse la testa. – No, non può essere – mormorò fra sé.
Il venditore di libri emise un sospiro deluso. Scese dalla scala. – Non ho altro – disse. Si voltò bruscamente dalla mia parte. – Tu cosa vuoi?
Io sollevai un libro che avevo in mano. – Quanto costa?
– Nove piastre. – Mi sembrò che avesse detto un prezzo a caso.
– Quando ne avrete altre? – chiese l’alchimista.
– Ah, voi mi chiedete troppo! – Il negoziante agitò le mani davanti a sé. Era un ometto grassoccio, la faccia rotonda e bianca su cui sembrava dipinta una barba nera e cortissima; indossava una sorta di caffettano color ruggine e un berretto con dei ricami in oro. – Queste sono cose rare, antiche... entrarne in possesso è concessione della sorte e frutto di pazienza.
– Bah! – Il cliente non pareva impressionato. – Comunque, non c’è niente che mi interessi. – E senza aggiungere altro, girò sui tacchi e uscì.
Io contai in fretta e furia nove monetine quadrate di rame, le misi in mano al libraio, che mi guardò con aria perplessa, e uscii a mia volta. Non sapevo nemmeno cosa avessi comprato.
Nell’androne buio, non c’era traccia del giovane vestito di nero. Non era possibile! Poi intravidi una macchia chiara che si muoveva alla mia sinistra. I suoi capelli! Corsi quanto più silenziosamente potevo.
Ormai tutti i negozi e le botteghe erano chiusi, le uniche luci venivano dalle finestre. I bambini avevano smesso di giocare a palle di neve, ed erano andati a casa a mangiare. Io e l’alchimista sembravamo le uniche creature rimaste ad aggirarsi nei cortili di Morraine.
Seguirlo sulla neve era facile, grazie alle impronte e al mantello nero. Ma quando prendeva per corridoi e androni, si confondeva con le ombre, ed io non osavo avvicinarmi troppo, per paura di essere scoperto.
Almeno tre volte temetti di perderlo. Ormai non sapevo più dov’ero: la neve fitta, il buio, l’affanno dell’inseguimento mi avevano completamente disorientato.
Entrammo infine in un cortile piccolissimo, in realtà poco più che un pozzo quadrato, che non conoscevo, e c’era da dubitare perfino che avesse un nome. Il vento, che soffiava attraverso l’androne, stretto come un cunicolo, aveva accumulato la neve da un lato del cortiletto. Intravidi per un attimo la forma nera dell’alchimista, dall’estremità del passaggio. Quando arrivai nel cortile, scoprii sulla neve le sue impronte; ma queste sparivano poco più in là, su un pezzo di acciottolato umido e quasi oleoso, sgombro di neve. Con orrore, mi accorsi che il cortile non possedeva una seconda uscita: questo era quasi inconcepibile per Morraine! E dell’alchimista biondo non era rimasta alcuna traccia. Mi ritrassi nel buio dell’androne, cercando di calmare l’affanno e i brividi. Ci misi un po’ a riprendere coraggio. Nessuna luce filtrava dalle finestre del cortile. A tentoni ne percorsi il perimetro, e mi ritrovai all’imboccatura dell’androne, senza aver scoperto alcuna porta.
Rimasi lì ancora un po’, in attesa non so di cosa. Poi tornai indietro, cercai di decifrare la figura sulla chiave di volta all'ingresso dell'androne, ma era troppo buio, e l'unica soluzione fu tenere a mente il percorso fino al primo punto di riferimento noto. Fu solo allora che mi resi conto di non trovarmi molto distante dal Cortile Segreto.
Arrivai a casa con i piedi e i capelli inzuppati. Raccontai che ci eravamo fermati a giocare con la neve, e me la cavai senza una punizione troppo severa.
Andai a letto subito dopo cena, con un senso di stordimento, che nel corso della notte si trasformò in febbre.
Ma prima mi ricordai del libro che avevo acquistato per nove piastre. Lo presi e ne lessi il titolo.
FIORI DI CANDIDO GIARDINO
Ovvero
DELL’ARTE RETORICA
Libri cinque Illustrati con sceltissimi e perpetui essempli degli Autori dell’Età Aurea
Composti dal Venerabile ed Eccellentissimo
Maestro ALOYSIUS ALEXIDES
Protoscriba dell’Accademia di Tutte le Lettere
Con l’aggiunta delle
ISTITUZIONI POETICHE
Recentissimamente redatte dal
Dottissimo Reggitore DYEGIS MACRINUS
Della medesima Accademia

(9) IL CORTILE SENZA NOME



Mi svegliai nel silenzio che segue una fitta nevicata, che è diverso da ogni altro silenzio perché la neve pare assorbire ogni suono, e impossibile da descrivere a chi è sempre vissuto nel deserto.
Mi svegliai da una serie confusa di sogni, di cui ricordavo solo un’immagine inquietante e affascinante insieme: una grande massa di acqua che aveva invaso Morraine, trasformandola in una città di canali e piscine, sotto un cielo grigio ma luminoso, come in attesa di nuova pioggia. Un grande lago si stendeva intorno alle mura.
Avevo trascorso la prima parte della notte rivoltandomi per la febbre, poi ero caduto in un sonno profondo, e adesso mi sentivo fresco e pieno di energia, il che può apparire strano, considerando la delusione della sera precedente. Ma forse mi sentivo solo libero per aver abbandonato un sogno che, in cuor mio, avevo sempre saputo impossibile.
Mi precipitai alla finestra. Non avevo mai visto tanta neve in vita mia. Una coltre spessa un braccio ricopriva i tetti, e perfino i muri delle torri apparivano incrostati di minute scaglie di ghiaccio, così che il bianco uniforme era interrotto solo dal grigio appena più scuro del fumo che si alzava dai comignoli. E mentre guardavo, uno squarcio si aprì fra le nuvole, e il sole appena sorto colpì di sbieco tutti quei cristalli, traendo da ciascuno un fantasma di arcobaleno.
Battei le mani di gioia e spalancai la finestra. Prima la nuvola del mio fiato, poi quelle del cielo coprirono il sole. Rinchiusi in fretta la finestra, ma considerai la visione apparsami di buon auspicio.
Essendo Morraine una città di corridoi e di cortili, a loro volta quasi sempre circondati da portici, le sue attività non sono particolarmente influenzate dagli eventi atmosferici. Perciò dovetti andare come ogni giorno ad aiutare mio padre nella bottega di falegname. Versò metà mattina, accorgendosi di come guardavo la neve nel Cortile del Nano, e immaginando che volessi andare a giocare, mio padre mi spedì a fare qualche commissione, con la tacita intesa che sarei tornato solo all’ora di pranzo. Io mi precipitai verso il Cortile della Mezzanotte, dopo aver scartato l’idea di cercare Jues e Lucibello: sia perché mi avrebbe portato via troppo tempo, sia perché, dopo il fiasco penoso della recita, preferivo non vederli. Da lì, cercai di ripercorre il tragitto della sera prima, quando inseguivo l’alchimista.
La cosa si rivelò meno facile del previsto. Prima di tutto, era giorno di mercato nel Cortile della Mezzanotte, e a causa della neve le bancarelle erano tutte ammassate sotto i portici. Bisognava scavalcare ad ogni passo mucchi di castagne, noci, fichi secchi, gabbie di uccelli da cortile, e schiere di uccelli selvatici morti, portati dai cacciatori delle colline: gente dalla pelle scura, che sedeva accovacciata sui talloni, avvolta nei mantelli marroni con cui si mimetizzavano per meglio cogliere le loro prede, e che li rendevano simili a cumuli di terra. Dai ganci infissi nelle volte penzolavano file di salsicce fresche, tranci di carne affumicata di natura incerta. E per fortuna, molti a causa della neve avevano rinunciato a venire; in compenso, i cittadini di Morraine erano accorsi numerosi, allarmati dalla medesima neve. I venditori cercavano di approfittarne, e il vociare delle contrattazioni risuonava sotto le volte.
Ma dov’era l’androne che cercavo? Il primo androne, cioè, poiché da questo se ne dipartiva un altro, più stretto, che raggiungeva il cortile senza nome. La luce del giorno e la confusione del mercato rendevano tutto diverso. Mi fermai frastornato. Era come la ricerca della torre, pensai. Non l’avrei mai trovato. Una ragazzina mi si avvicinò offrendomi vasetti di miele, ma desistette subito. Dietro un mucchio di pelli appese, scorsi un arco di pietra sormontato da una testa di unicorno. Mi feci strada fra buoi, conigli, castori, ghibetti, volpi, tutti ridotti a piatti simulacri, da cui emanava l’odore acre della concia. Mi addentrai nell’androne. Ecco: a destra un arco tanto basso che alzando la mano quasi riuscivo a toccarne la sommità. In fondo, sulla parete di sinistra, si scorgeva un vago riflesso di luce. Ricordavo che il passaggio piegava bruscamente a destra. Come se si perdesse nelle viscere stesse di Morraine...
La neve, adesso, ricopriva per intero il selciato del cortiletto, e formava quasi una barriera all’uscita del corridoio, che alla luce del giorno appariva ancora più simile a un pozzo.
Mi fermai sotto l’arco. Non si sentiva il più piccolo rumore: come se Morraine fosse diventata una città morta... no: immersa in un sonno magico, come in una favola che mi era stata raccontata da bambino.
Alzai gli occhi. Un uccello nero attraversò obliquamente il quadrato di cielo grigio. Da un davanzale si staccò una falda di neve, che atterrò con un tonfo fragile. La finestra era protetta da una inferriata, dietro cui si intravedevano dei vetri sporchi, come di una stanza disabitata da molto tempo.
Anche alla luce del giorno non si scorgeva alcuna porta nel perimetro del cortile. Il muro del fianco destro era interrotto verticalmente da un contrafforte, che ricordavo di aver incontrato avanzando a tentoni nel buio. Era anche la direzione verso cui avevo visto sparire le impronte dell’alchimista.
Adesso il manto di neve era uniforme, e provavo una vaga riluttanza a disturbarlo.
Iko, mi dissi: è solo un cortile. E mi spinsi in mezzo alla neve.
Giunto al centro del cortile vidi: un gradino che spuntava dalla neve, nell’angolo fra il contrafforte e il muro; una porticina di legno annerito, larga non più di tre palmi, sopra il gradino; sopra la porta, molto in alto, una fenditura larga altrettanto, che saliva fino al tetto (anzi: i tetti, come se ci fossero due case separate!); e in fondo alla fessura, una torre che poteva o non poteva essere quella da cui ero fuggito qualche mese prima, e che avevamo cercato invano per tutta Morraine.
Dopo un tempo indefinito, ma sufficiente perché la neve sciogliendosi mi penetrasse nelle scarpe, mi avvicinai al contrafforte, e ripetei più o meno i gesti della sera prima. La mia mano passò dalla pietra dello spigolo a quella del muro, saltando la porta.
Tirai un sospiro. Un mistero, almeno, era risolto. Restava da spiegare come avesse fatto l’alchimista ad aprire la porta, che appariva priva di qualsiasi serratura. La spinsi, con una certa riluttanza, ma non si mosse di un’unghia. Fantasticai di qualche meccanismo segreto e tastai il muro intorno alla porta, e anche il gradino fin sotto la neve, trovando solo pietre molto corrose, con la malta fra gli interstizi quasi del tutto dilavata.
Mi resi conto che quella doveva essere una delle costruzioni più antiche di Morraine.
Alzai gli occhi, con un senso quasi di vertigine, e guardai nel varco fra i due edifici. Era un corridoio strettissimo... anzi... cercai nella memoria la parola che dovevo aver letto sui libri, perché non si usa a Morraine... un vicolo. Un uomo dalle spalle larghe avrebbe potuto percorrerlo solo di sbieco. La lunga striscia di cielo, fra i muri privi di finestre, sembrava una spada sul punto di calare.
Tornai al centro del cortile, da dove si poteva scorgere la torre. Forse era davvero quella del Cortile Segreto: la posizione corrispondeva. La piccola porzione visibile non mostrava comunque alcuna corda.
Un’altra falda di neve, cadendo vicino, mi fece sobbalzare. Mi guardai alle spalle. Il vetro di una finestra mandò un bagliore di luce grigia, come se si fosse mosso.
Non c’era altro da fare, lì. Con un senso di sollievo, abbandonai il cortile senza nome e ritrovai il consueto trambusto di Morraine.

(10) LA MAPPA



L’insegna diceva semplicemente:
ARNO BORISSEIN

Libri nuovi e usati
Sotto era dipinto il gufo, o la civetta, che già avevo visto. Nella vetrina erano esposti volumi polverosi, alcuni aperti per mostrare le illustrazioni. Molti erano in lingue straniere o in alfabeti sconosciuti. Non riconobbi nessun titolo.
Tirai un sospiro ed entrai.
Nessuna traccia del proprietario. Dalla porta socchiusa del retrobottega filtrava una luce. Mi avvicinai al bancone. Le mappe non erano state ancora rimesse al loro posto, e giacevano ammucchiate in un angolo. Allungai una mano.
– I libri usati non si cambiano.
Ritirai la mano di scatto, come se fossi stato scoperto a rubare. Il libraio era apparso da tutt’altra direzione che il retrobottega, forse da dietro qualche scaffale.
– Cosa credevi che fosse? – L’uomo indossava lo stesso abito della sera prima. Che non era eccessivamente pulito, come del resto la sua bottega.
Finalmente capii di cosa stava parlando.
– No, non volevo cambiarlo – dissi. – Cercavo... dei libri di teatro.
Arno Borissein mi guardò con sospetto. – Nuovi o usati?
– Usati...
– In questo caso, devi cercarteli da solo. Sono tutti alla rinfusa. – Indicò con un ampio gesto della mano la scaffalatura dove già avevo rovistato la sera prima. – Non posso certo metterli in ordine. La gente crede che fare il libraio sia facile. Nulla di più errato! Ci sono milioni di titoli, antichi e moderni; decine di migliaia di autori. Stampatori, editori, lingue e alfabeti. Occorre discernimento e cultura, pazienza e acume. E poi, di fronte al modesto prezzo di poche lire, o di misere piastre, storcono il naso! Ma un libro è stato pensato e scritto in lunghe notti di veglia; la carta macerata e pressata, i caratteri composti, ordinati, impressi. Le pagine cucite e rilegate. Il volume trasportato per mare e per terra, fino alla bottega del povero Arno di Morraine. Può essere letto e riletto da un numero illimitato di persone per un numero illimitato di volte. Eppure lo pagano una volta sola! – Alzò le mani al cielo, come chiamandolo a testimone di un’ingiustizia.
Io mi dedicai allo studio dei libri usati. Titoli ed autori mi erano per la maggior parte ignoti. Alcuni che suscitarono la mia curiosità li estrassi e li sfogliai. Arno Borissein, nel frattempo, aveva deciso di fidarsi di me e si era nuovamente eclissato.
Nel ripiano più basso scorsi un titolo promettente: Tragiche Historie. Si trattava di una raccolta di canovacci, scheletri di tragedie, senza alcuna grazia di stile o ricchezza di concetti, ma non privi di un fascino che derivava dalla loro essenzialità. Una cosa la rendeva preziosa ai miei occhi: la presenza, fra le sue pagine, della storia di Teseius e Phenissa.
Portai il volume sul bancone, per sfogliarlo meglio, e i miei occhi furono nuovamente attratti dalle mappe. Alcune erano arrotolate, altre ripiegate più volte; la carta era spessa, ma in genere ingiallita, con i bordi frastagliati; alcune mostravano i fili di un tela sottostante, che serviva a renderle più resistenti. Una sola appariva in buono stato; la presi, e la riconobbi subito: era quella che aveva studiato da ultimo l’alchimista.
Quando la toccai, mi parve di avvertire un brivido lieve: era liscia ma leggermente morbida, come un velluto finissimo. L’aprii, sperando di vedere il mare azzurro e profondo... I colori erano vividi, come appena stampati, ma dopo tutto era una normale mappa, e per di più illeggibile, a causa dei caratteri stranieri. Provai a inclinarla in varie maniere rispetto alla luce della lampada, ma la mappa continuò a negarmi le sue meraviglie.
Non mi ero ancora deciso a ripiegarla, quando riapparve Arno Borissein.
– Fai attenzione. Le mappe sono fragili.
– Questa... quanto costa? – mi sorpresi a chiedere.
– Ancora non hai deciso cosa vuoi? Ti avverto: è cara. Appartiene alla Prima Era. Non meno di otto lire!
Era una cifra esorbitante, per una mappa inutile, e lo feci notare al libraio.
– Inutile! – Arno alzò le mani al cielo. – Che ne sai tu?
Prese il volume delle Tragiche Historie. – Forse che queste servono a qualcosa? Ma la gente accorre a vederle, paga per sentirle recitare su un palcoscenico, magari da attori privi di talento!
L’argomento era doloroso, e preferii lasciarlo cadere. Tuttavia c’era qualcosa che non mi convinceva nel ragionamento di Arno.
– Le commedie sono fatte per essere recitate, le mappe per trovare dei posti – obiettai.
Arno Borissein sbuffò esasperato. Ma dopo un attimo, come fra sé, mormorò: – Alla fine, il teatro e le mappe sono solo degli espedienti per sognare.
Di nuovo Arno Borissein se ne andò, ed io di nuovo rimasi solo. La mappa mi attirava in maniera incomprensibile. La spostavo sul bancone, mi rimettevo nella posizione di due sere prima, cercando inutilmente l’abisso del mare e l’asprezza degli scogli e il tremolio delle foglie. Forse, dopo tutto, aveva ragione Arno, e me l’ero solo sognato...
Entrò un cliente. Arno lo servì, poi tornò da me con aria impaziente. E ancora una volta, come mi stava accadendo troppo spesso negli ultimi tempi, mi accorsi di aver parlato prima di pensare.
– Chi era quel signore che voleva acquistarla, l’altro giorno? – Arno ci mise un momento prima di rispondere. Il tempo che impiega una falda di neve per cadere da un tetto.
– Ah... l’Adepto. – Alzò le spalle. – No, non voleva comprare nessuna mappa. È sempre così. Chiedono le cose più strane, fanno perdere tempo, poi non comprano niente.
Non capii se parlava in particolare dell’alchimista, o in genere dei suoi clienti.
– Ma... viene spesso?
– Oh, no. Molto raramente. Rimangono quasi sempre chiusi in casa. I maestri, poi, non si fanno mai vedere.
Stavo per chiedere dove rimanevano chiusi, ma poi pensai che non ce n’era bisogno.
E alla fine, dopo aver molto mercanteggiato, uscii dalla bottega di Arno Borissein con la mappa e le Tragiche Historie, al prezzo complessivo di cinque lire e sei piastre. Che era più o meno tutto quello che avevo in tasca.
Chiuso nella mia stanza, mi misi a studiare la mappa. Era diventata quasi un’ossessione per me. La guardavo sotto ogni angolazione, alla luce del sole e della luna, dalla lampada ad olio e della candela. Niente...
O quasi.
Mi ero messo in testa l’idea impossibile di decifrarne la lingua sconosciuta. Avevo compilato un elenco di segni, che raggiungeva un numero esorbitante per qualsiasi normale alfabeto. Molti dovevano essere simboli, e infatti comparivano più volte sulla mappa vera e propria, e di solito una volta sola nelle iscrizioni lungo i bordi. Ma c’erano singolari discrepanze che rendevano impossibile riconoscere una vera e propria legenda. Alcuni segni, poi, si presentavano in forme diverse ma simili: mere varianti grafiche, o lettere diverse? In base all’oggetto indicato, decifrai in via ipotetica tre parole: fiume, monte, e baia.
Avevo diviso la mappa in settori, che non corrispondevano peraltro a quelli tracciati sulla carta, e che presentavano una bizzarra e apparentemente inutilizzabile combinazione di linee verticali, orizzontali e radiali: queste ultime che si dipartivano da due centri situati in maniera apparentemente arbitraria.
La notte era inoltrata e l’olio della lampada stava per finire. Chiusi gli occhi per la stanchezza. Forse mi assopii per qualche momento. Quando li riaprii, volavo. Sotto di me c’era il mare, attraversato da una striscia abbagliante di sole nascente. C’era l’isola verdeggiante, a forma di testa di cigno, con una laguna che si insinuava formando quasi il suo occhio, un molo e bianchi fili di strade. Al centro dell’isola, sul punto più alto, un grande edificio circolare, forse un tempio. Accanto ad esso, una guglia sottile gettava una lunga ombra sulle cime degli alberi.
Ero un uccello che scendeva ad ali distese, in una lenta spirale. Vidi le ombre girare lentamente, l’isola avvicinarsi... sbattei le palpebre, e il mare tornò ad essere di carta.
Il lucignolo della lampada sfrigolava. Emise ancora qualche scintilla e si spense.
Una lenta luce biancastra cominciò a filtrare dalla finestra: la luce della neve sotto un cielo notturno e nuvoloso.
Quel mare, pensai, poteva essere agli antipodi esatti di Morraine.

(11) STORIE TRAGICHE



L’anno giunse al punto più basso della sua ruota. Nella Notte del Grande Cerchio d’Ombra, com’è tradizione, i bambini di Morraine ricevono doni, portati da una fanciulla cieca
Quell’anno ebbi una cintura di cuoio, con una borsa, che ho poi usato per buona parte delle mie peregrinazioni; carta e inchiostri colorati; un flauto in legno di bosso intagliato, che non ho mai imparato a suonare con qualche competenza.
Qui il viaggiatore scosse la testa con rimpianto.
E altre cose che non ricordo.
Ah, sì: da una zia alcune lire, con cui tornai nella bottega di Arno Borissein, uscendone con certi romanzi a poco prezzo e una malconcia Storia Universale dei Viaggi, ossia Atlante delle Terre Antiche e Moderne, ricco di mappe su cui cercai invano la mia isola.
Ogni volta che avevo qualche soldo in borsa (che mi accadeva quando lavoravo meglio o più del solito nella bottega di mio padre, oppure grazie alle misteriose leggi della generosità degli adulti), andavo da Arno, o in un paio di altre botteghe che avevo scoperto nel frattempo, dove vendevano libri di seconda mano.
La sera, mi ritiravo nella mia camera a leggere.
La chiamo camera, anche se in verità non lo era, esattamente. Forse vi interesserà sapere com’era fatta
All’angolo sud-ovest del Cortile del Nano si leva una torre massiccia, non tanto importante da meritare un nome. A ridosso di questa, una fetta di tetto era stata rialzata da qualche nostro antenato, onde ricavare le stanze dove abitavamo. Qualcuno, in seguito, aveva trasformato parte di questo tetto in una terrazza. E mio padre, quando nacqui, aggiunse la mia stanza. Così cresce Morraine: non allargandosi, ma innalzandosi e aggiungendo con grande parsimonia cellule al proprio tessuto di tetti. C’è da aggiungere che noi di Morraine, forse proprio perché viviamo tutti in una stessa casa, ci teniamo molto a potercene stare da soli, quando vogliamo. Ed è un privilegio che i genitori, appena possono, cercano di accordare anche ai loro figli. Io poi ero il primo.
Così mio padre, quando avevo compiuto appena qualche mese, andò insieme a parenti ed amici sulle colline ai piedi dell’Yiril, dove solitamente si procurava il legno per la sua bottega, e abbatté un pino non troppo alto. Ne ricavò due robuste travi, che a forza di braccia, di muli e di un carretto trasportò a Morraine. Nella sua bottega le scorticò, le piallò, le lavorò. Dal Cortile del Nano le travi vennero issate sul tetto con grande concorso degli abitanti del cortile stesso, e posate di sbieco fra il muro della nostra casa e due sostegni sporgenti dalla torre: una per reggere il pavimento, l’altra il tetto. E così, quando fui un po’ più grande, mi ritrovai con una stanza trapezoidale, il letto che occupava uno dei lati (e per quanto ne so lo occupa ancora), un armadio quello opposto, un piccolo tavolo sotto la finestra, che guardava il sorgere del sole. Non avevo da lamentarmi: esistono stanze ancora più piccole o più bizzarre, a Morraine.
La forma della mia stanza e la sua storia, devo dire, non sono affatto importanti per capire gli eventi successivi del racconto. Servono solo a farvi immaginare meglio quel ragazzino magro e sgraziato, mentre alla luce di una lampada studia la mappa che genera sogni di uccello.
Una di quelle sere, in mancanza di meglio, affrontai perfino i Fiori di bianco prato. Scoprii così che il prato in questione era il foglio e i fiori le parole. Appresi anche che si trattava di una metafora. O forse di un enigma: la distinzione non era del tutto chiara. Malgrado la prosa arcaica, trovai la lettura non priva di interesse, in parte grazie alla moltitudine vertiginosa di esempi, in parte grazie a quel fascino inquietante che è proprio dell’astuzia combinatoria.
Concepii così il primo germe di un piano temerario, ma come si vedrà in seguito non del tutto infruttuoso.
Ricordavo, infatti, a proposito di quel penoso tentativo di rappresentazione, su cui nessuno di noi era più tornato, che l’unico mio contributo a non aver suscitato imbarazzo era stato l’adattamento della ridondante versione del Mago di Qom in nostro possesso. Di qui la mia idea: se non sapevo recitare, la strada della scrittura non mi era preclusa! E chissà, un giorno Lia avrebbe perfino potuto recitare i miei versi!
Visto in questa nuova luce, l’acquisto del tutto casuale dei Fiori, seguito da quello, più deliberato, delle Tragiche Historie, acquistava l’apparenza di una predestinazione. Quale occasione migliore per mettere alla prova le mia capacità poetiche, che fornire le ossa dell’eloquenza, la carne della passione, il respiro del sentimento, a quegli scarni canovacci? Come vedete, avevo già cominciato a pensare per immagini.
Rilessi da capo i Fiori, e cominciai ad addentrarmi nei sentieri impervi della versificazione. I metri teatrali, nelle terre dove si parla la lingua yld, richiedono per tradizione un intreccio fra quantità e rima, reso complicato dal fatto che sono ammesse molte, ma non arbitrarie, licenze poetiche.
Si trattava poi di scegliere l’opera in cui cimentarmi. Scartai subito il Teseius e Phenissa, non osando misurarmi col ricordo, ancorché impreciso, di ciò che avevo udito recitare dalle labbra di Lia. Il Mago di Qom lo evitai per ragioni facilmente comprensibili. Altre trame erano troppo lunghe, altre ancora non eccitavano la mia fantasia.
Mi decisi alla fine per La schiava di Palaphon, storia di un amore infelice e di un mago: una combinazione che mi attirava per le affinità che immaginavo con le vicende di Lia. Una mago prevedibilmente crudele aveva rapito una fanciulla. Di lei si innamora un suo discepolo; il mago gliela concede, come dono per la sua fedeltà. Anche la fanciulla, forse, si innamora di lui. Ma quando scopre di attendere un figlio dal mago, preferisce darsi la morte.
Poiché la tragedia mi appariva eccessivamente cupa, decisi di introdurre qualche brano più leggero. Ispirandomi al burattino che avevo visto danzare per Lia, scrissi un intermezzo comico, in cui un buffone cerca di far sorridere la fanciulla.
Rileggendo il manoscritto dopo qualche tempo, scoprii che quella era la scena migliore (forse l’unica degna di essere salvata) della mia versione di Palaphon.
Suppongo avessi allora intuito, pur senza rendermene conto, che se il teatro deve essere uno specchio della vita, allora non può mai essere né del tutto tragico né del tutto comico.
Che non sarà forse un pensiero così originale, ma allora a me venne per la prima volta.

(12) LA FALENA LUNARE
Esitando, le giornate si fecero più lunghe. Qualche volta dalla pianura dell’Araq, il fiume che scorre parecchie leghe a occidente di Morraine, giungeva un vento che sibilava fra le fessure delle finestre, ma portava il profumo appena percettibile, e forse solo immaginato, della primavera.
– Quale maschera indosserai? – mi chiese Jues un pomeriggio, mentre sedevamo tutti e tre nella nostra soffitta, ascoltando il vento che si insinuava nelle feritoie per i colombi, insieme ai raggi obliqui di un sole arancione. La domanda era particolarmente seria. Quell'anno, per la prima volta, noi tre avremmo indossato le nostre vere maschere.
E io dissi: – Una falena lunare.
– Tutte le falene sono lunari – disse Lucibello. – Escono di notte.
– Una falena lunare è una falena che vive sulla Luna – precisai io.
– E come sarebbe fatta? – chiese Jues.
Qui ebbi qualche esitazione. – Non lo so bene, ancora.
– E come farai a saperlo? Andrai sulla Luna? – mi prese in giro Lucibello.
Non mi degnai di rispondere.
– Ma cosa significa? – chiese Jues.
Questa era la domanda più difficile.
Dovete sapere che a Morraine nel Mese-delle-Maschere si celebra la Festa delle Maschere.
In quasi tutti i paesi che ho conosciuto esiste una festa di questo tipo; alcuni sostengono che sia la più antica del mondo, poiché per quanto lontano si risalga nel tempo conosciuto, gli uomini hanno sempre amato indossare una maschera. Una maschera, per sua natura, serve a nascondere il volto. Ma noi, a Morraine, riteniamo che una maschera debba essere più vera del volto che copre. Come uno specchio magico, che svela la verità.
Ma poiché la verità, soprattutto su noi stessi, è insopportabile se affrontata quotidianamente, essere saggi è lecito solo una volta all’anno.
Tale, benché bizzarra, è la Festa della Maschere di Morraine.
Ma ciò non le impedisce di apparire a un qualsiasi viaggiatore che la osservi (e molti giungono appositamente anche da città abbastanza lontane in questa occasione) non molto diversa dai normali carnevali.
Perché dunque questa immaginaria falena lunare si era impossessata di me?
In primo luogo perché era immaginaria, in secondo perché era lunare, in terzo perché era una falena. Questo fu quanto spiegai ai miei due amici, che com’è ovvio non rimasero molto soddisfatti della risposta.
– Il fatto che sia immaginaria significa che stai inseguendo una chimera – suggerì Jues.
– Questo lo sapevamo anche prima – sbuffò Lucibello, prevedibilmente.
– Ma perché lunare?
– Perché è lunatico. Cioè matto!
– E la falena?
Lucibello batté le mani. – Perché vola solo di notte. Cioè nei sogni!
Io ero rimasto zitto.
Le spiegazioni dei miei due amici non erano prive di fondamento. Ma al contempo, non erano del tutto vere, o almeno così mi pareva. Quale fosse la verità, d’altra parte, sfuggiva anche a me.
Mi misi comunque al lavoro.
Alcuni si costruiscono le maschere interamente da soli. Pochi se le fanno fare su ordinazione da artigiani specializzati. Molti utilizzano quelle dell’anno prima, o quelle dei loro padri, o dei loro nonni, e così via per molte generazioni. Nessuno le affitta: la maschera, come ho detto, è un affare troppo personale. Si può mentire agli amici o ai parenti; non alla propria maschera.
Poi ci sono negozi che vendono una grande varietà di larve (come vengono chiamate): maschere molto semplici e stilizzate, che riproducono dei tipi fissi e tradizionali, di cui però ogni artigiano e ogni negoziante si vanta di possedere varianti uniche; queste sono a loro volta rielaborate ed arricchite da ciascun compratore, e vengono offerte ad ogni prezzo e in molti materiali: cartapesta, legno intagliato, strati di stoffa irrigidita da colle, gusci di madreperla cuciti, cuoio pressato, lamine di rame, d'oro perfino... eccetera. All’approssimarsi della Festa, lungo i portici di Morraine, file e file di larve guardano i passanti con orbite vuote.
Mancandomi l’abilità necessaria per fabbricare la mia maschera, i soldi per servirmi di un artigiano, e non avendo ereditato alcuna falena lunare, restava una sola alternativa.
Trovai dopo molte ricerche un corridoio che si dipartiva dal Cortile della Luna Piena (il nome mi parve propizio), abbastanza nascosto da avere prezzi più bassi di altri. La vetrina, nient’altro che una finestra in realtà, era interamente occupata dalle maschere: alcune di forma piuttosto insolita, e tutte accomunate da una qualità che non riuscii a definire subito; forse perché si tratta di un sentimento estraneo alla fanciullezza: la malinconia.
L’insegna di legno dipinto diceva:
Adropalus & Charios - Costumi teatrali

Uno dei due stava servendo un cliente, il secondo non era in vista, così ebbi modo di guardarmi intorno. Le maschere erano state disposte sopra la normale mercanzia del negozio, con effetti che apparivano, forse di proposito, grotteschi: c’era un guerriero con la faccia pallida di un fanciullo piangente, un astrologo con quella di un vecchio ubriaco; dall’abito della festa di una contadina spuntava una testa di insetto: ma era piuttosto uno scarafaggio che una falena.
– Che tipo di maschera cerchi?
– Ah... Qualcosa che assomigli a una falena...
Charios, o Adropalus, mi guardò attraverso due lenti rotonde, con la montatura d’oro.
– Le falene non vanno molto, quest’anno – disse, con tanta serietà che per un momento non capii se stesse scherzando o no.
– Deve solo assomigliare a una falena.
L’uomo sorrise. Aveva abbastanza rughe da sembrare anche lui una maschera, e il sorriso aveva l'effetto di ridefinire tutte le rughe del suo viso.
– Vediamo... – Accarezzò con le dita varie maschere appese, come se la loro natura gli si svelasse meglio al tatto che alla vista. Aveva dita lunghe e ossute, come il resto del suo corpo.
– Qui non c’è nessuna falena, temo... Ma vieni.
Una porticina, in fondo al negozio, era chiusa da una pesante tenda nera. Il vecchio dovette chinarsi per passare. Dietro la tenda c’era il suo laboratorio: un lungo bancone illuminato da qualche lampada appesa al soffitto, e da una finestrella che si apriva chissà dove. Sul bancone, una gran quantità di maschere in vari stadi di lavorazione; altre, appese ad asciugare, ci scrutavano come teste mozzate di fantasmi. Sulla parete opposta al bancone, file sovrapposte di costumi, appesi a delle grucce. Un garzone, che poteva avere un anno più di me, comprimeva strati di cartapesta ancora umida su forme di legno.
– Che dici, Beniz, abbiamo qualche falena? – Il ragazzo alzò gli occhi ma non disse niente. Evidentemente non ci si attendeva una risposta da lui.
Il padrone passò in rassegna le maschere sul soffitto. Poi prese una scala, e sparì quasi in mezzo ad esse, fra gli strati superiori già asciutti. Ne discese con una larva oblunga, grandi occhi sporgenti, la bocca simile ad un tozzo becco.
Me la porse.
– Questa è la Formica Saggia. – Le larve hanno tutte dei nomi tradizionali.
Presi la maschera, me la rigirai fra le mani. Poteva andar bene? La fissai negli occhi.
– Non costa molto. E ti posso dare questi...
L’uomo frugò in una scatola, sotto il bancone. Ritirò la mano e me la porse. Era piena di scintillanti pietruzze color smeraldo.
– Incollate sugli occhi fanno un grande effetto.
Ne presi una. Era di vetro, a facce irregolari. Alzai gli occhi. Anche il garzone mi stava guardando, come se la mia decisione rivestisse un qualche arcano significato. Del resto le maschere, a Morraine, sono una faccenda molto seria.
– Va bene.
Il proprietario versò le pietre in un pezzo di carta, lo ripiegò, appoggiò il pacchetto nel lato concavo della maschera.
Prima di uscire dal retrobottega mi fermai a guardare i costumi. Molti sembravano usati.
– Li affittiamo spesso – spiegò il negoziante, senza che gli avessi chiesto alcunché – alle compagnie di attori girovaghi. Ogni città ha dei personaggi favoriti, e non possono portarsi dietro tutti i costumi necessari.
Vidi degli alamari d’oro, e una giacca blu...
– Questo...?
– Guardia di corte.
Scostai i costumi vicini, per accertarmi.
Sì, era uguale.
– C’è anche più piccolo?
– Per te?
– No... Per una marionetta.
– Ah. – Il vecchio fece una pausa. Poi disse, a bassa voce: – Come quelle di Lelius?
Era la prima volta che sentivo qualcuno, a Morraine, pronunciare quel nome.
– Ho visto la sua rappresentazione, la primavera passata... – dissi.
Il vecchio parve sorpreso. Mi ricordai che non c’erano stati molti ragazzini, a parte noi tre, a quello spettacolo. Mi guardò comunque con maggiore rispetto. Forse immaginò che abitassi nel Cortile Segreto.
– Un teatrante di grande talento – disse.
– Non viene spesso a Morraine, vero?
– No. – Si sentì la campanella sulla porta del negozio. Il vecchio si mosse per uscire dal retrobottega.
Io lo seguii. – E dove...?
Le dita ossute scostarono la tenda nera. – Mah! Questi attori non sai mai dove siano. Ma Lelius, credo che preferisca le città della costa: Aspix, Brizern, Narina... Gyenna.
Lasciai che Adropalus (o Charios) servisse il suo cliente, tenendo fra le mani la mia maschera con l’involto di pietruzze smeraldo.
Il prezzo che mi fece fu molto contenuto.
Prima di andarmene dissi: – Grazie, signor...
– Lyian.
Alzai gli occhi, perplesso.
– Adropalus e Charios sono morti da un pezzo – mi spiegò Lyian.

(13) LA FESTA DELLE MASCHERE



La Festa quell’anno cadeva il tredicesimo giorno del Mese-delle-Maschere.
I bambini escono la mattina; i ragazzi si uniscono a loro nel pomeriggio; la sera, la festa raggiunge il suo culmine, con i giovani e gli adulti che esibiscono le maschere più fantastiche, sfarzose, enigmatiche. È proprio indossando la prima vera maschera che a Morraine si raggiunge la maturità.
Io trascorsi la mattina negli ultimi preparativi, che consistevano nel cucire le ali del costume. La maschera stessa era già pronta da qualche giorno. Dal Cortile del Nano giungevano risate di bambini, voci in falsetto, colpi secchi, brontolii cupi: per tradizione nel nostro cortile, la mattina della Festa, si teneva uno spettacolo di burattini. In mezzo ai bambini doveva esserci anche mia sorella.
E d’improvviso fui afferrato dalla tristezza.
Aprii la finestra, montai su una sedia. Dalla mia camera potevo vedere solo i tetti. Uscendo sulle tegole, cosa che avevo fatto molte volte, avrei potuto sbirciare nel cortile. Ma non mi mossi. Ascoltai le voci dei burattinai, riconobbi la storia. Dopo un po’ richiusi la finestra.
L’anno prima ero stato anch’io in mezzo a quei bambini. Niente ansie, niente misteri, niente desideri inappagati. Niente Lia.
Incredibilmente, sentii i miei occhi gonfiarsi di lacrime. Per la prima volta, guardavo la mia infanzia come una cosa che apparteneva al passato.
La falena, per parte sua, mi guardava con occhi smeraldo. Io la guardavo attraverso due fessure tagliate sotto gli occhi della maschera.
Mossi la testa e le antenne della falena ondeggiarono.
Lo specchio che avevo in camera era molto piccolo, e dovetti eseguire vari contorcimenti per esaminare la falena nella sua interezza. L’insetto mi imitava in una sorta di balletto. Le ali, un velo di organza steso su un’intelaiatura di canne, sbattevano in maniera convincente. Non sapevo quanto avrebbero resistito fra la folla del carnevale, ma ne ero molto orgoglioso.
Indossavo, come si addice ad una falena, una corta tunica di un colore marrone arsiccio, di panno spesso e consunto, ritrovata in qualche cassapanca. Ma sul petto avevo disegnato tre spirali concentriche, in rosso, giallo e azzurro.
Ma cosa significava? mi chiesi ancora una volta.
Se l’avevo creata dovevo saperlo. Semplicemente, non l’avevo ancora scoperto. Forse ci sarei riuscito prima di sera. Alcuni trascorrono una vita intera con la stessa maschera, senza mai riuscire a penetrarne il segreto. Altri cambiano maschera spesso, magari da un anno all'altro, alla ricerca del medesimo segreto.
Tornai ad aprire la finestra. Il cielo era coperto, ma le nuvole alte non minacciavano pioggia. Un gatto dal pelo striato e rossiccio ebbe un sobbalzo, sulle tegole. Poi qualche felina percezione lo convinse che ero solo io, e venne a strofinarsi contro la mia mano.
– Ciao, Tigre – dissi.
L’appuntamento era sotto l’orologio del Cortile Rosso, nell’ora in cui il folle con il martello batte due tocchi sulla campana. Perché, vi chiederete, è un matto a battere le ore? Forse perché tenere il conto di tutte le ore di tutti i giorni del tempo è un’operazione di suprema follia.
Comunque arrivai in anticipo, perché non c’erano né Jues né Lucibello. O meglio: non c’erano le loro maschere. Che quel giorno erano Jues e Lucibello.
Mi sedetti sul bordo di una delle panche di pietra ai piedi della torre dell’orologio, per non rovinare le mie ali, e osservai le maschere che mi passavano davanti. Vidi un liocorno e una salamandra, un giullare e un buffo anatroccolo. Forse dietro ciascuno di quei gusci di carta, o cuoio o metallo, c’era un viso noto. Poiché la Festa delle Maschere è innanzi tutto un mistero.
Da lontano vidi una forma nera che avanzava con passo lento e ondeggiante. Sopra il mantello che la copriva fino ai piedi, una maschera con un lungo becco di uccello, e un cappello a larghe tese.
Mi alzai. Quando la maschera dal mantello nero mi fu vicina, vidi che era molto più alta di me. I suoi passi producevano un rumore secco sul selciato di pietra.
– Lucibello? – mormorai a voce molto bassa. Durante la Festa delle Maschere è sconveniente pronunciare i nomi normali delle persone in maniera che altri possano sentirli.
La maschera chinò il becco verso di me. Doveva avere delle specie di trampoli per essere così alta.
– Gli ubu sono ghiotti di falene – disse.
Forse non ci crederete, ma quella frase mi gelò il sangue. Poiché durante la Festa sono le maschere a guidare le persone.
L’arrivo di Jues mi salvò dall’imbarazzo. Era vestito da Pagliaccio Assorto: una maschera bianca, dalla bocca un po’ triste, gli occhi che guardavano in basso, un sobrio costume bianco e nero.
Ci osservammo a vicenda. Come succede fra amici molto stretti, ci eravamo svelati in anticipo la natura delle nostre maschere, ma non le avevamo mai viste.
– Perché i colori? – mi chiese Lucibello. – Le falene sono grigie, o marroni.
– Non sulla Luna – dissi. – Sulla Luna tutto è al contrario. Le falene sono grandi e colorate. E mangiano gli ubu.
L’uccello mi colpì col becco sulla spalla.
– Ma qui siamo sulla Terra!
– No – dissi io. – Siamo alla Festa delle Maschere di Morraine.
E per la prima volta da che mi ricordassi, Lucibello non ebbe nulla da replicare.
Iniziammo così ad aggirarci fra cortili e corridoi.
È impossibile descrivere la Festa delle Maschere a chi non l’abbia mai vista. O meglio, diciamo che io non ne sono capace. Basti sapere questo: ogni cortile dei 240 che compongono la città offre uno spettacolo proprio, allestito a cura dei suoi abitanti. Duecentoquaranta spettacoli in un solo giorno! Nessuno potrebbe vederli tutti. E dunque, ciascun maschera non può che seguire il proprio istinto.
Ciò significa che ben presto, io, Jues e Lucibello ci separammo.
Ma la Festa delle Maschere non solo separa, unisce. Sì, perché una medesima maschera incontrata in più cortili allude ad una segreta affinità. Tanto più che una sola cosa, per inflessibile convenzione, le maschere non osano nascondere: il sesso di chi le indossa. Si dice perciò che la maggior parte dei fidanzamenti, a Morraine, avvengano durante la Festa delle Maschere. Come la maggior parte delle separazioni.
Jues lo lasciammo nel Cortile dell’Ombra, preso da uno spettacolo di mimi dai gesti lenti e misurati, il cui significato sfuggiva alla comprensione mia e di Lucibello, ma evidentemente non a quella del Pagliaccio Assorto.
Procedendo, io e l’ubu scambiammo occhiate con altre maschere, cercando qualche segno... Di cosa, neppure noi sapevamo. Alcuni, nella folla, erano privi di maschera: si trattava invariabilmente di stranieri, poiché è considerata una grave sconvenienza per un abitante di Morraine uscire a volto scoperto in questa occasione. Ma anche molti di coloro che indossavano qualche costume erano stranieri; facilmente riconoscibili, tuttavia, dalla grossolana banalità delle loro scelte, che non sfuggiva neppure a noi ragazzini, benché, temo, sia quasi impossibile da spiegare a chi non è nato e cresciuto nella mia città.
Giungemmo nel Cortile Dorato, che è uno dei più grandi e ornati della città. Qui si esibiva una compagnia venuta da fuori, come capita nei cortili ricchi, dove gli abitanti raccolgono somme a volte ingenti per ingaggiare attori famosi. Segretamente speravo di trovare... ma è inutile che ve lo dica.
Su un palcoscenico illuminato da lampade colorate, benché fosse ancora giorno, personaggi in abiti di seta, rasi e velluti di gran pregio, con ornamenti che sembravano, a chi li guardava dalla platea, di autentico oro e pietre preziose, eseguivano complicate evoluzioni, lanciando di tanto in tanto grida modulate, in cui con qualche fatica riconobbi delle parole, accompagnate da una musica stridente.
Dopo poco, entrò in scena un eremita, la lunga barba bianca, l’abito grigio cenere a brandelli, e misteriosamente, forse proprio per la sua incongruenza, o forse per l’abilità dell’attore, attirò su di sé tutta l’attenzione. L’eremita diede inizio ad un lungo sermone religioso, a cui gli altri personaggi reagirono in varie maniere, a seconda delle loro indoli: scherno, noia, ozioso interesse, fastidio; solo la Principessa, una eterea creatura quasi interamente ricoperta di gioielli, parve commossa e turbata.
Con mia grande sorpresa, Lucibello decise di fermarsi. Per conto mio, ero in preda ad una confusa irrequietezza. Mi allontanai silenziosamente, e voltandomi vidi l’ubu proteso con il lungo becco giallo verso l’eremita, la nera figura che sovrastava di una testa gli altri spettatori.
Trovai, in successione: saltimbanchi che costruivano piramidi umane; un giullare che narrava un cantare cavalleresco aiutandosi con pannelli dipinti e percussioni di vario genere; un cortile semivuoto, mentre gli artisti si riposavano fra un numero e l’altro; dei trapezisti su una corda tesa fra i tetti; nella Piazza dei Miracoli (in cui non avevo più messo piede dall’estate), un corsa di cavalli montati da cavallerizze scarsamente vestite, che avevano come mete le due fontane; una pantomima di orsi ammaestrati. E altri. Le maschere che incontrai erano troppo varie per essere descritte: ci vorrebbe tutta la sera. Notai comunque che la falena lunare suscitava un certo interesse, soprattutto fra maschere ugualmente notturne, che erano poi quelle da cui lei stessa era attratta.
Giunsi infine nel Cortile della Luna Piena.
La sera era già calata su un cielo screziato di viola e di rosso, mentre gli adulti, con le maschere più ricche, avevano cominciato ad uscire.
Lo spettacolo non era ancora iniziato, forse in attesa del buio completo. Su un lato del cortile si alzava un semplice telone bianco, che nascondeva quasi interamente le facciate delle case.
Mi fermai incuriosito, notando la presenza di molte maschere notturne, come del resto si addiceva al luogo.
Poi il telone si illuminò. L’ombra di un drago alato si stagliò su di esso. Vidi che la luce giungeva da dietro il telone. Dalla coda del drago nacque un fiore, da cui crebbe un muso di tigre, poi un volto di fanciulla, poi...
Mi addentrai fra il pubblico. Nel frattempo era iniziata una musica lenta, ma con esplosioni improvvise di cembali, piatti e campane. Terminata la virtuosistica introduzione, destinata ad attirare gli spettatori, iniziò la rappresentazione vera e propria. Quale fosse esattamente la storia, non saprei dire: c’erano solo la musica e le ombre, e forse le ombre erano solo un commento alla musica. O meglio: era un teatro che aspirava a diventare pura immagine, privandosi delle voci e dei corpi. Riconobbi comunque gli indizi di una favola mitologica, in cui un giovane eroe cerca di conquistare l’amore della sacerdotessa di una gelida divinità lunare.
Ma seppi, fin dal primo momento, che era quanto andavo cercando, nella mi identità di Falena Lunare.
Ci fu un’altro evento, in verità, che mi impedì di seguire con attenzione la storia. Fra la folla, scorsi una maschera che sembrava guardarmi: si trovava esattamente di fronte a me, e dunque doveva voltare le spalle alla scena; era metà bianca e metà nera, gli occhi due buchi scuri e insondabili, la bocca leggermente aperta.
Mi pareva di averla già vista, ma non riuscivo a ricordare dove.

(14) LA SIRENA



Avanzando con cautela per non disturbare gli spettatori, e soprattutto per non rovinare le ali della falena, mi avvicinai.
Era una maschera senza dubbio femminile. Come lo sapessi, sarebbe troppo lungo da spiegare: basti dire che vi sono segni indubitabili e certissimi, per un abitante di Morraine.
Ma prima che potessi raggiungerla, essa si ritrasse con sorprendente rapidità, considerando che doveva camminare all’indietro.
Fu allora, credo, che intuii dove avevo già visto quella maschera. Ma non ebbi il tempo di pensarci. Lo spettacolo, senza che me ne fossi accorto, era terminato, e gli spettatori stavano lasciando il cortile. Intravidi l’ovale bianco e nero dirigersi verso un corridoio, mi lanciai all’inseguimento, creando qualche trambusto fra le maschere che, a quell’ora e in quel cortile si muovevano con languida flemma. Quando la ritrovai, non fu una sorpresa scoprire che aveva il corpo di una sirena. E che la maschera, in realtà, le copriva la nuca. Gli occhi, naturalmente, erano chiusi.
Era la stessa figura che avevo vista dipinta sul carro di Lelius, o almeno le assomigliava molto.
Ora che mi trovavo a pochi passi da lei, non sapevo più cosa fare. La seguii per tutto il corridoio, e giunta alla fine, lei si voltò. Per la prima volta vidi la faccia della maschera. Se quella sulla nuca aveva gli occhi chiusi, questa mi guardava con due grandi pupille che sembravano brillare di luce propria, come quelle di un gatto. La falena fece ondeggiare le sue antenne, e lei sollevò il viso di sirena.
Disse: – Perché mi segui, falena?
– Tu mi guardavi con la tua faccia lunare.
Come aveva potuto riconoscere immediatamente la falena, e perché io avevo chiamato lunare la sua maschera posteriore?
Questi sono i misteri della Festa delle Maschere di Morraine.
Lei rise e si voltò, tornando a mostrarmi il volto dagli occhi chiusi. Ricominciò a camminare, ed io mi affiancai.
Passeggiammo in silenzio fino ad un cortile in cui ballerini dai costumi floreali eseguivano complicate coreografie. Lo attraversammo senza soffermarci più di qualche momento. Sbucammo quindi in un cortile quasi deserto: gli attori già se n’erano andati, con i loro arnesi, e restava solo un palco disadorno, qualche panca; sparsi a terra, frammenti caduti dai costumi e carte che avevano contenuto dolciumi. Al centro del cortile gorgogliava una fontana ottagonale. Ci sedemmo sui gradini. Solo qualche finestra gettava nel cortile un chiarore giallastro. Nell’ombra dei portici si aggiravano ombre furtive. Ci guardammo.
Gli occhi della sirena erano molto verdi, luminosi, incredibilmente grandi. Dovevano esserci delle lenti di vetro inserite nelle orbite. La maschera era coperta di minute scaglie di madreperla, e senza dubbio doveva essere molto costosa. In quel momento mi vergognai un poco della mia, fabbricata in casa partendo da una larva di cartapesta.
– Perché i colori? – chiese lei. Per un attimo, ebbi il tremendo sospetto che Lucibello mi avesse giocato uno scherzo. Ma no: la voce, in ogni modo, non poteva essere la sua.
– Sono quelli di una falena lunare – risposi io, in mancanza di meglio. Ma la spiegazione, almeno a lei, dovette apparire sufficiente. Seduta accanto a me, nell’oscurità, il vestito argenteo da sirena la faceva assomigliare ad un fantasma.
– Perché hai due facce? – chiesi io.
– Una guarda in avanti, l’altra indietro.
– Ma una ha gli occhi chiusi.
– Perché guarda dentro.
– Indietro e dentro?
La sirena si stiracchiò senza rispondere.
– Guarda... i ricordi? – azzardai dopo un momento.
Lei si voltò verso di me. – Forse i sogni – rispose.
Scossi la testa. – I sogni non sono dietro, sono davanti.
– No – sibilò lei con singolare veemenza, ma non volle fornire ulteriori spiegazioni.
Cambiai argomento. – Ho già visto quella maschera...
– Impossibile! È il mio primo anno.
– No... l’ho vista su un carro.
La sirena sollevò la testa e mi fissò.
– Quando?
– Cinque primavere fa.
– Un carro di attori?
– Sì. Come...
– Mentre passava per Morraine?
– No, fuori. E poi... nel Cortile Segreto.
Lei si alzò. – Camminiamo.
Ci avviammo verso un cortile da cui proveniva una musica dolce e triste. Ci soffermammo sotto i portici ad ascoltare.
La sirena non rimaneva mai ferma a lungo. Come un pesce, sembrava doversi muovere senza sosta, sospinta da impercettibili correnti abissali. Mi rivolse la sua faccia lunare e si avviò lungo il porticato, senza una parola.
La seguii, in un girovagare apparentemente senza meta.
O forse no. Intuii ad un certo punto che stavamo girando in cerchio sempre più stretti; e che al centro di questi doveva esserci, più o meno, il Cortile Segreto.
Quando raggiungemmo il Cortile della Mezzanotte ne ebbi la certezza. Con l’assenza di stupore propria dei sogni, la vidi dirigersi verso l’androne sormontato dalla testa di unicorno.
Nel cortile, su un palco, dei pagliacci cadevano a terra rovinosamente, giacevano come morti, si rialzavano con immutata foga.
Un gruppo di maschere uscì dall’androne, con risate da ubriachi. Le lasciammo passare, ma mentre la sirena stava per infilarsi nel passaggio arrivò di corsa un ultimo personaggio, la faccia formata da un dorato disco solare, raggiante, con due grandi occhi spalancati. Il sole urtò la sirena. La maschera solare, segno infausto!, quasi cadde, l'uomo la raddrizzò. Non prima che scorgessi dei corti ricci biondi, quasi bianchi. Per un attimo i due rimasero immobili, fissandosi, e io da dietro vidi il sole parzialmente eclissato dalla luna. Poi il sole corse ad unirsi agli altri, e la sirena si addentrò nell’androne.
Dove si apriva il passaggio che conduceva al cortile senza nome, trovammo il cadavere. Un’unica lanterna, sul soffitto a volte illuminava la faccia nuda e livida, contratta in una smorfia. Non ebbi alcun dubbio che fosse morto. Era la cosa più oscena che avessi mai visto. La maschera giaceva poco lontano: un grifone dal becco crudele, inutilmente minaccioso.
Solo quando la sirena mi diede uno strattone, mi accorsi che le stavo stringendo la mano. Non so chi di noi due avesse preso quella dell’altro. Cercava di trascinarmi verso il passaggio. In quel momento, altri cominciarono a giungere, dalla parte opposta dell’androne. Non mi mossi; non so se fosse per istinto, o perché l’avevo sentito dire da mio zio (che come ricorderete era stato soldato nella Guardia), ma sapevo che fuggire era il modo migliore per essere indiziati. Con le mie ali bianche e la sua maschera di madreperla, di sicuro qualcuno si sarebbe ricordato di noi.
Una donna gridò. Io agitai un braccio. – Sta male! – dissi.
Un orsacchiotto rosa si chinò sul cadavere. – È morto – disse.
Cedendo alla pressione della sirena, mi accostai poco a poco all’imboccatura del passaggio. Un coniglio dalle orecchie rosa e bianche disse: – Bisogna avvertire la Guardia.
Arrivarono gli spettatori che erano nel cortile, poi anche i pagliacci. Ormai noi due eravamo giunti sotto la bassa volta del passaggio, e la sirena continuava a tirarmi.
Scorsi le divise rosse e blu della guardie. Anche loro indossavano maschere, ma erano semplici cappucci neri, con i buchi per gli occhi e per la bocca.
Nel passaggio il buio era quasi totale. La sirena mi stringeva la mano tanto forte da farmi male, ma mi rifiutai di correre finché non superammo l’angolo a metà del corridoio.
Non avevo alcun dubbio che lei sapesse dove stava andando.
Quando arrivammo alla porta la sirena estrasse una chiave; brillò argentea nella luce di una mezza luna che nel frattempo era sbucata da uno squarcio fra le nuvole, e insinuava i suoi raggi entro lo stretto cortile. Ricordavo di non aver visto alcun buco di serratura nella stretta porticina, ma la chiave era molto piccola, poco più di un’asta con quattro nervature dentellate, e in effetti nel legno c’era un buco altrettanto minuscolo.
Quando la sirena fu entrata, richiuse la porta e si appoggiò contro un muro, ansimando. La fenditura era stretta come avevo immaginato da fuori. Ci tenevamo ancora per mano, e quasi senza volerlo, l’abbracciai. Poi lei mi lasciò la mano e si avviò lungo il passaggio.
Le mie ali erano irrimediabilmente rovinate.
Attraversammo, ricordo, quello che mi parve un numero interminabile di corridoi e sale. Solo una era illuminata. Mi arrestai sulla soglia, ma la sirena mi trascinò dentro, impaziente. La sala era deserta. Poi mi arrestai di nuovo. Una delle pareti era coperta da una grande mappa. Una città. Era Morraine e non era Morraine. Riconobbi il Castello, alcuni dei cortili, dei passaggi. Altri invece erano diversi dalla realtà, ne ero certo. Ma la cosa più singolare, era che l’insieme della mappa formava un disegno, come un fiore complicato ma regolare.
La mia guida mi toccò un braccio. – Adesso andiamo – disse. Con una seconda chiave aprì una piccola porta di quercia, in un angolo della sala.

(15) OCCHI DI GATTO



La Festa delle Maschere di Morraine non è priva di un suo lato oscuro. Essa, infatti, è anche il momento ideale in cui regolare conti in sospeso, rancori accumulati, vendette meditate. Per il resto, devo aggiungere, la nostra è una città molto tranquilla.
La Festa delle Maschere è la situazione ideale per l’assassino: nessuno può riconoscerlo, e far perdere le proprie tracce è facilissimo. D’altra parte, è anche la situazione ideale per la vittima, poiché può camuffarsi in maniere pressoché infinite. La maschera fornisce a tutti un alibi, e fa di tutti degli indiziati. Innumerevoli sono i trucchi a cui può ricorrere l’assassino per uccidere impunemente la sua vittima, e altrettanti quelli della vittima per sfuggirgli.
Tuttavia, in maniera del tutto incontrollabile, la maschera determina anche l’assassino e la sua vittima. La maschera è l’assassino e la sua vittima. Così come io ero la falena lunare, e Lucibello un ubo, e la mia compagna una sirena con due facce.
Ma poiché si è vittime ed assassini per infiniti e spesso futili motivi (anche se alcuni ascrivono a pochi e imperativi moventi l’impulso omicida, o addirittura a due soli: amore e denaro, nelle loro varie forme), non esiste una maschera da omicida ed una da vittima, ma esiste sempre qualcosa, per quanto indecifrabile, che le collega.
Rintracciare questi segni permette di introdurre un certa logica in indagini altrimenti disperate. A condizione di scoprire di quale logica si tratti.
La sirena disse: – Non dovrai dire nulla di me...
La sirena era seduta sul trono.
Io dissi, con assoluta ed immediata sincerità: – Non dirò nulla di te.
– ... se mai dovessero interrogarti – finì.
Il trono era quello, privo di una gamba, che si trovava nel deposito di attrezzi teatrali del Cortile Segreto. La maschera di madreperla appariva sospesa nel buio come una mezza luna. Al posto della gamba era stata messa una scatola di legno.
Non pensai neppure di chiederle il perché. Dissi, invece: – Sono già stato qui – prima di potermene pentire.
Nel silenzio che seguì, le scaglie di madreperla emisero un fruscio di gusci vuoti, mentre lei girava la testa.
– Quando? – Senza alcuna traccia di incredulità.
– Non dovrai dire nulla.
La sirena unì in un cerchio pollice ed indice della sinistra, se li appoggiò alla fronte, in segno solenne di giuramento.
– Non dirò nulla di te.
Mi feci più vicino, e lei chinò verso di me il viso di madreperla. Potevo sentire il suo alito.
– È stato quattro anni fa, quando Lelius ha dato il suo spettacolo...
– Ah!
Quando ebbi finito, lei disse: – È Lia, dunque, che ti ha stregato – con grande serietà. Alzò una mano e toccò gli occhi della falena. – Capisco, adesso...
– Cosa?
– La tua maschera.
– Perché?
– Non posso spiegare. E tu non mi hai detto tutto.
Come se n’era accorta?
– No... non voglio saperlo – aggiunse, vedendomi esitare.
Cambiai argomento. Quello che non le avevo racconto era di aver visto l’adepto e Lelius dalla finestrella, e la donna bionda. – Tu abiti qui?
Un movimento della macchia bianca. Sì.
– Anche tu hai visto lo spettacolo di Lelius?
– Da un balcone. E ho visto tre ragazzi che si sono alzati disturbando gli spettatori. – Per la prima volta la sentii ridere. – Uno aveva ricevuto tre biglietti in regalo per essere stato investito dal carro di Lelius, molti anni fa.
– Tu hai parlato con lui. Forse anche con Lia...
Un doppio ondeggiare della testa. Sì. No.
– Lei parla solo sulla scena.
Alzai di scatto la testa. I miei peggiori sospetti di stregoneria trovavano conferma. – È Lelius che l’ha stregata!
– No. Non è così... semplice.
– Cosa, allora?
– Lelius dice che Lia è sua figlia.
Sua figlia. Chissà per quale ragione, non mi era mai venuto in mente.
– E tu credi che sia vero?
– Non so.
Sbuffai irritato, e, temo, con una certa petulanza.
– Non è semplice la natura degli uomini – disse la sirena, con un tono di bonario rimprovero. E aggiunse: – Questa è una delle prime cose che si apprendono nello studio dell’Arte.
Quale arte? Mi chiesi. Poi pensai: lei abita nel Cortile Segreto. L’Arte può essere una sola.
– Sei adepta?
– No. Apprendista.
– È un grado diverso?
– No. Una gerarchia diversa.
Compresi dal suo tono che non avrei ottenuto maggiori informazioni sull’argomento.
Mi prese la mano. – Vieni.
Come se vedesse nel buio, mi condusse fra quei relitti di favole, fino alla scala.
Anche questo non mi stupì troppo.
Questa volta, nessuna luce filtrava dalla finestrella.
Raggiungemmo la sommità della torre. In un angolo, era arrotolata una corda.
– Ci siamo chiesti a lungo chi l’avesse usata – commentò lei in tono quasi scherzoso.
– Temete per i vostri segreti? – chiesi.
– No. I nostro segreti sono... ben protetti.
La luna era un mezzo disco rossastro, tagliato come da un colpo di spada.
La sirena la indicò, e senza che le avessi chiesto niente disse: – Lia è lontana come lei.
Ebbi un brivido. La notte era fredda.
Per un attimo, provai il folle desiderio di scavalcare il parapetto e di volare verso la luna. Era la falena in me.
– Vuoi dire che è irraggiungibile? – Pensai di aver sussurrato la domanda a voce troppo bassa, perché la sirena non rispose. Ma dopo il tempo di tre sospiri, disse: – Dicono che un tempo gli uomini potessero volare sulla Luna.
Attesi, ma non mi spiegò altro. Pensai: io sono una falena lunare, ma non lo dissi.
– Dove si trova adesso?
– Con Lelius... in questa stagione girano le città della costa, credo.
Era la stessa risposta che mi aveva dato Lyian, il venditore di costumi.
Eravamo appoggiati alla balaustra, molto vicini. Le presi la mano.
– Ci rivedremo? – chiesi.
– Chissà... Forse la prossima Festa delle Maschere.
Un tempo enorme, a quell’età!
Non sapevo cosa fare. Era la prima volta che mi trovavo solo con una ragazza.
Ancora una volta, lei mi prevenne.
– L’Arte richiede dei sacrifici a chi intraprende la sua via. – Lo disse con una certa malinconia, ma anche con molta convinzione. Fino ad allora mi era sembrata più matura di quanto fossi io. Ma in quel momento mi parve straordinariamente giovane, e insieme straordinariamente vecchia.
Si voltò e attraverso le fessure delle maschere i nostri occhi si incontrarono. O almeno così mi sembrò.
– Come ti chiami? – mi chiese.
– Iko... Nykos, per intero – Scambiarsi il nome, durante la Festa delle Maschere, è un pegno solenne, di massima intimità. – E tu?
– Puoi chiamarmi... Occhi di Gatto.
– Posso vederti?
La sirena sollevò una mano e mi sfiorò gli occhi di pietruzze smeraldo. Mi tolsi la maschera. Lei si portò le mani ai lati della testa. Non so perché, in quel momento chiusi gli occhi. Sentii il frusciare delle scaglie di madreperla.
Aprii gli occhi. La luce rossastra della luna illuminava il viso della sirena, che aveva il mento appuntito e gli zigomi alti, i capelli molto corti e biondi. Gli occhi lucevano cerulei.
Le pupille erano dilatate, ma oblunghe, come quelle di un gatto.

(16) L'INDAGINE



Il Conestabile disse: – Dunque eri solo nel Cortile della Mezzanotte?
– Sì, certo.
Il Conestabile mi guardò. Si chiamava Darko Gravosten, indossava una casacca di panno color ruggine, un poco consunta ai polsi. Il suo ufficio era pieno di vecchi schedari di un colore simile a quello della casacca, a parte le maniglie di ottone lucidate dall’uso.
Era la prima volta che mi guardava. Durante tutto l’interrogatorio aveva mantenuto un’aria distratta, rovistando fra le carte sulla scrivania. Ma io non mi ero lasciato ingannare; mi aveva avvertito zio Uri: “Non lasciarti ingannare da Darko.” Lui e Darko erano stati insieme nella Guardia, poi mio zio se n’era andato e il Conestabile aveva fatto carriera.
– E non hai notato niente di strano nel gruppo che è uscito dal passaggio dell’Unicorno? – Ero talmente deciso a non lasciarmi ingannare che anche il fatto che Darko non insistesse sull’argomento, se cioè fossi solo o no, mi parve sospetto.
– No... Però, uno di loro è arrivato qualche momento dopo gli altri.
– Com’era? – Riprese a sfogliare le carte. Cominciavo a sospettare che quanto più la domanda fosse importante, tanto più il Conestabile sfogliava le sue carte.
– Un sole. Aveva una maschera di ottone, raggiante. Grandi occhi. – Non dissi dell’eclisse.
– E gli altri? Sembravano ubriachi, vero? – Parve controllare degli appunti presi in precedenza.
– Sì.
– Non c'era una donna per caso? Capelli biondi?
– Io non l'ho vista. Con le maschere poi...
Darko sospirò. – Già... Ma sei sicuro che... il sole fosse insieme a loro?
– Sembrava di sì.
Sembrava. E pensai: se loro non avevano visto il cadavere, e se il sole era stato l’ultimo a uscire prima che io e la sirena lo scoprissimo...
– La maschera, quella da Grifone... ti sembrava fosse caduta da sola? O che fosse stata strappata?
Non ci avevo pensato fino a quel momento. Le nostre maschere di solito sono bene assicurate al volto.
– Non ho guardato bene... e non c'era molta luce. – E l'orrore di quella faccia livida aveva attirato troppo la mia attenzione. Ma questo non lo dissi.
Darko sospirò. – Puoi andare.
Mi sentii deluso. Dopo che mi ero presentato spontaneamente... (Non del tutto: era stato mio zio a convincermi, quando avevo raccontato in casa quello che mi era successo la sera prima. Lasciando da parte la sirena, si capisce.)
– Forse dovrò risentirti – aggiunse.
Mi alzai con una certa riluttanza. Darko mi accompagnò alla porta. Mi strinse la mano.
– Salutami tuo zio.
– Sissignore.
Aveva una mano enorme, le dita grosse come il mio polso, o quasi. Prima di lasciare la mia, aggiunse: – Sei un bravo ragazzo.
E chissà perché, io pensai che si riferisse alla sirena, e al fatto che non avessi detto niente di lei.
Uscimmo, io e mio zio, per una porta diversa da quella per cui eravamo entrati, e ci ritrovammo in un altro cortile.
Procedura normale, quando l’assassino è ancora in libertà, mi spiegò zio Uri.
Il quale mi tenne anche informato sugli sviluppi dell’indagine. Aveva molti amici nella Guardia, oltre a Darko. Alcuni del gruppo degli ubriachi erano stati rintracciati. Nessuno di loro aveva visto un uomo steso a terra, e nessuno ricordava il sole. Ma erano ubriachi, e le loro testimonianze non sempre coincidevano.
Il mistero più oscuro era quello che circondava il cadavere. Non era stato ancora identificato. Nessuno aveva lamentato la scomparsa di qualche congiunto o amico. Durante quella Festa delle Maschere vi erano stati altri tre omicidi. Tutte queste vittime erano state identificate. Uno degli assassini era già stato catturato. Un altro era stato scoperto, ma si nascondeva, o (cosa più probabile) era fuggito da Morraine. Il terzo si era suicidato dopo il delitto.
L’uomo assassinato nel passaggio dell’Unicorno indossava vestiti di Morraine, fino all’ultimo bottone. La maschera non era stata fabbricata da alcun artigiano, ma molti, come ho detto, se la fanno da soli o la ricevono in eredità. Vestiti e maschera erano stati conservati. Il corpo, dopo essere rimasto alcuni giorni in una cripta sotto l’edificio della Guardia, era stato cremato, le ceneri sepolte fuori dalle mura. Un pittore aveva eseguito un ritratto a carboncino del viso, di fronte e di profilo, per l’archivio color ruggine nell’ufficio di Darko Gravosten.
Anch’io ero stato portato nella cripta, per identificare la vittima. Darko mi aveva chiesto se volevo farlo: era una ben macabra incombenza per un ragazzino. Dissi che non ero più un ragazzino. Il corpo era steso su una lastra di marmo, coperto da un lenzuolo. Scostarono un lembo. Era lui, malgrado la faccia grigia e un po’ gonfia. C’erano altri sei tavoli di marmo nella cripta, tutti vuoti. Il lenzuolo lasciò scoperto l’inizio di un tatuaggio, sul petto, con un uccello a due teste.
Andai alla Biblioteca Canonica di Morraine e consultai alcuni libri di emblemi. Trovai parecchi Soli e Grifoni, ma nulla che li collegasse in qualche maniera. Non ebbi miglior fortuna con gli uccelli a due teste (in gran parte aquile). Darko doveva aver consultato gli stessi libri, o altri analoghi. O forse li conosceva a memoria. Poiché, come ho detto, vittima e assassino sono legati dalle rispettive maschere. In un certo senso, sono le maschere ad uccidere e a morire.
Un giorno, era trascorso circa un mese dalla Festa, mio zio mi prese in disparte. – Sanno dove si trova l’assassino.
– Ah! E non l’hanno ancora catturato?
– Non è così semplice.
– Perché?
– È nel Cortile Segreto.
– Neppure la Guardia può entrarci?
– Oh, sì... avendo delle prove.
– Che non ha?
– No. Non abbastanza.
– Come hanno fatto a identificarlo?
– Non l’hanno identificato. Sanno solo dove cercarlo. E Darko non mi ha detto come c’è riuscito. Vorrebbe parlarti.
– Certamente!
Trovai il Conestabile in un’anonima stanzetta a cui giunsi dopo un giro particolarmente tortuoso, accompagnato da mio zio. L’unica finestra era quella di un abbaiano, da cui scorgevo tetti anonimi.
Nella stanza c’era solo un tavolo e un paio di sedie. Alle pareti, fogli ingialliti, incorniciati senza vetro, con dei ritratti.
Darko e Uri si guardarono per un momento negli occhi, poi mio zio ci lasciò soli.
Il Conestabile slegò i lacci di una cartella appoggiata sul tavolo... Vidi la faccia di un uomo, la barba lunga e lo sguardo corrucciato, disegnata a carboncino.
– Vorrei che tu li guardassi bene – disse Darko. – Nel caso ne conoscessi qualcuno... – Unì le grosse dita sulla pancia, e fissò fuori dalla finestra.
Io cominciai a passare in rassegna i fogli di carta spessa, color avorio. Le facce sembravano tracciate tutte dalla stessa mano: competente ma piatta. I ritratti alle pareti, da parte loro, parevano fissarmi con inquietante intensità.
– Sono ricercati? – chiesi.
Darko vide che guardavo quelli appesi.
– No. – Avevo ripreso a sfogliare i disegni della cartella, quando aggiunse: – Non più.
Dietro ad ogni foglio c’era un sinbolo, una lettera e un numero. Scorsi i ritratti lentamente, soffermandomi su ciascuno circa il tempo di un respiro. Non dedicai più tempo neppure a Torre B 12.
Quando ebbi finito alzai gli occhi. Darko mi stava guardando.
– Vuoi rivederli?
Ripresi a scorrerli, in senso inverso. Indugiai su una Corona, un Unicorno, una Lucertola. Giunto alla Torre ebbi qualche esitazione ulteriore. Alzai la testa, e Darko stava fissando fuori dalla finestra.
– Forse... – Talvolta, una sola parola può cambiare il corso della nostra vita. Un’infinità di cose, del resto, possono cambiare il corso della nostra vita.
Lo straniero pareva molto serio, ma poi sorrise e proseguì.
– Sì? – disse Darko.
– Questo l’ho incontrato, una volta.
– Dove?
– In una bottega di libri.
– Quale?
– Quella di Arno Borissein.
– E poi?
– Poi niente... Mi ha detto che era un Adepto.
– Arno?
– Sì.
– Quando?
– Era inverno... La prima nevicata.
– Ha comprato qualcosa?
– No... Cercava delle mappe.
– Poi?
– Niente. È uscito.
– E tu cosa hai comprato?
– Fiori di bianco prato.
– Cos’è?
– Un manuale di retorica.
Darko sorrise. – Non hai altro da dirmi?
– Il sole... – Ormai non potevo tirarmi più indietro. – Mentre correva quasi perse la maschera. Ho visto dei riccioli biondi. Chiari. Però non vuol dire niente – aggiunsi subito, inutilmente.
Invece di ridiscendere le scale salimmo ancora una rampa. Darko aprì una piccola porta con una grossa chiave.
Strinse la mano di mio zio, poi la mia.
– Non credo che avrò più bisogno di te.
La cosa un po’ mi dispiacque.
Entrammo in una soffitta immensa. Darko rimase fuori e chiuse la porta alle nostre spalle.
Gigantesche travi incurvate ed annerite sostenevano un tetto altissimo, in cui si aprivano rari lucernari che dissipavano appena le tenebre.
Ci incamminammo. Sparsi qua e là, si ergevano ordigni enigmatici, ricoperti da teli polverosi. Di tanto in tanto, a destra e a sinistra, si spalancavano altre soffitte, ancora più buie; incontrammo anche un paio di scale, che salivano ripide verso qualche torre.
Non avevo mai visto spazi chiusi così grandi, a Morraine. Avrebbero potuto viverci decine e decine di famiglie!
Nessuno di noi due parlò per tutto il tragitto.
Infine, mio zio armeggiò intorno ad una botola. C’era un meccanismo a molla, che, immaginai, serviva a non farla aprire dal basso.
Una stretta scala in pietra conduceva ad un ballatoio, con dei panni stesi ad asciugare. Poi delle scale malandate, dove incontrammo bambini non molto puliti e donne che li chiamavano gridando.
Cominciavo ad immaginare dove saremmo finiti.
Attorno ad una delle due fontane c’era un gruppo di ragazzini. Forse erano gli stessi che ci avevano fatto scappare l’estate prima.
Con mia sorpresa, zio Uri si infilò nella porta di un’osteria. L’oste lo salutò come se lo conoscesse. Ci sedemmo ad un tavolo. Mio zio ordinò un boccale di vino. Io avevo fame, e l’oste mi portò due fette di pane scuro, con una salsa indecifrabile e del pesce sotto sale. Per calmare la sete, bevvi qualche sorso del vino di mio zio.
– Hai detto tutto a Darko?
– Sì... Più o meno.
Mio zio finì il vino, e ce ne andammo.

(17) LA LEZIONE DELL'ACQUA



Lucibello fu li primo ad andarsene, dopo tutto.
Era il Mese-del-Passaggio, una giornata di vento e di pioggia, quando ce lo disse, riuniti nel nostro rifugio segreto.
– Luci, tu sei matto – dissi io, senza sapere bene se crederci o no.
Lui era intento ad evocare una fiamma da qualche ramoscello non del tutto secco.
– No, amico mio. Sono forse più pazzo che se inseguissi un sogno recitato su un palcoscenico?
Ricordai quella sera nel Cortile Segreto. Era stato Lucibello, allora, a chiedermi se ero impazzito. Non potei replicare nulla.
– Quando l’hai saputo? – chiese Jues.
Lucibello mi guardò.
– Alla Festa delle Maschere – dissi io.
Lucibello annuì.
– Eravamo rimasti noi due soli – spiegai a Jues. – Nel Cortile Dorato.
– Sì. L’eremita.
– Ma l’ubu...
– L’ubu si leva in volo al crepuscolo. Vola tutta la notte. E trova quiete solo all’alba. Nella luce è il suo riposo.
Jues sbuffò. Faceva fatica a seguirci.
– Si nutre di falene – osservai io.
– Di animali lunari. Ci si ciba di ciò che appartiene alla notte.
Adesso anch’io facevo fatica a seguirlo.
– Allora l’ubu sogna di giorno – provai a cambiare approccio.
– Sì. Nella luce.
– La luce della verità? – propose Jues.
Lucibello sorrise. – Sì.
I ramoscelli finalmente avevano preso fuoco.
– Questo è il racconto di come l’Eremita Ashva apprese la lezione dell’acqua – iniziò il Venerabile dal mantello quasi bianco. Il Venerabile sedeva sull’erba al centro del Cortile dell’Equinozio, che è l’unico in Morraine a non avere un selciato. I membri dell’Immacolata Dottrina non possiedono templi né santuari e preferiscono il contatto con la nuda terra. Forse per questo il loro culto non è molto diffuso a Morraine.
Ed ecco il racconto:
L’Eremita Ashva grazie alla sua grande pietà poteva indossare un mantello del settimo grado di splendore. (Lucibello, accanto a me, era avvolto in un mantello quasi del tutto nero, con pochi fili bianchi, che indicava come avesse appena intrapreso il suo viaggio verso la luce.) Nei lunghi anni della sua vita egli aveva appreso la lezione degli uccelli e del vento, della volpe e del bue, dell’erba e della quercia. Ma ancora gli sfuggiva la lezione dell’acqua.
Così si recò presso le sorgenti del grande fiume Er, il Padre di Tutti i Fiumi, e si sedette a meditare, specchiando i propri pensieri nell’acqua limpida di una pozza. Trascorse così alcuni giorni nella più assoluta immobilità, e alla fine un pesce dalle scaglie dorate sporse la testa dall’acqua e lo fissò a sua volta.
“Cosa cerchi?” chiese il pesce.
“Cerco di apprendere la lezione dell’acqua,” rispose l’eremita.
“Sciocco! L’acqua scorre sempre e tu te ne stai fermo! Come puoi sperare di apprendere la sua lezione?” E il pesce guizzò via.
Immediatamente Ashva si alzò e prese a seguire il corso del fiume.
Incontrò dapprima le capanne dei pastori e i fienili dell’alto Er e dei suoi affluenti. Poi i primi villaggi, con i loro mulini, e i mercati dove vengono scambiate le merci delle montagne con quelle delle valli, e le cartiere dove i pestelli mossi dalle ruote ad acqua triturano stracci. Trovò in seguito la prima città: Ydessa dalle porte di bronzo, dove osservò le donne lavare i panni nelle acque dell’Er, e i bambini tuffarsi dai pontili, e i battelli appesantire le sue onde.
Fu poi la volta di Cheos dai Sette Ponti, su ciascuno dei quali si allineano le botteghe di una delle Sette Arti Meccaniche. Ashva osservò così come l’acqua si mescoli con la creta del vasaio e con il metallo dei fabbri e con la farina dei fornai.
Scendendo ancora lungo il fiume, trovò Yxiana dai mille canali, con il suo mercato galleggiante, ricco dei frutti che provengono dalla pianura circostante, fertile di per sé e resa fertilissima dai miracoli di ingegneria idraulica che fanno giungere l’acqua dell’Er a molte leghe di distanza, e regolano le sue piene.
Dopo Yxiana, il fiume scorre fra dolci colline coperte di vigneti. A Calinissa, nelle notti d’estate le acque si coprono di barche adorne di fiori e di lanterne colorate; i suoni della musica e delle risate si spandono da una riva all’altra; sulle barche, al riparo di tende, coppie di amanti si dilettano cullate dalle onde.
A Dardessa, le concerie di pelli rendono l’acqua maleodorante, ma dopo poche leghe essa torna ad assumere il colore giallastro del basso Er, e le reti dei pescatori incidono trame sulla corrente immensa.
Oltre Irkomenos iniziano i grandi argini e le dighe, costruite per ammansire il fiume nelle sue inondazioni rovinose.
Ashva vide tutte le vie dell’acqua, ne seguì ogni meandro ed ogni rivolo. Impiegò vari anni per seguire tutto il corso dell’Er: in parte perché il fiume è molto lungo, in parte perché Ashva era vecchio, e soprattutto perché conoscenza e meditazione richiedono tempo.
Durante il suo viaggio, com’è costume degli eremiti, il Venerabile Ashva chiedeva l’elemosina del cibo e di un tetto sotto cui dormire. In mancanza di essa, digiunava e si avvolgeva nel suo mantello bianco, con pochi fili neri.
Giunse infine al delta dell’Er, dove il Padre di tutti i fiumi genera i suoi innumerevoli figli. Fra le canne, su barche silenziose dal fondo piatto, scivolavano i cacciatori di uccelli acquatici. E alla fine del labirinto delle paludi, Ashva trovò quel punto delle acque dove il fiume non è più fiume, e il fango si mescola col sale.
Stanco, si sedette su un vecchio pontile di legno, a cui da molto tempo ormai non veniva ormeggiata alcuna barca. Il vento portava l’odore della salsedine.
Era il crepuscolo, e il pesce dorato sporse la testa dall’acqua verde di alghe. Guardò l’eremita, e non pronunciò parola. Ashva disse: “Pesce, ho dato ascolto al tuo consiglio, e ho seguito la corrente del fiume lungo tutto il suo cammino; ho osservato ogni cosa e ho meditato. Eppure so di non avere ancora appreso la lezione dell’acqua.”
“Sciocco!” disse il pesce. “L’acqua presta umilmente il suo aiuto a tutti: lavandaie e pescatori, mugnai e amanti, fabbri e mercanti. E tu cosa hai fatto in tutto questo tempo? Sei vissuto del pane degli altri. Come puoi sperare di apprendere la lezione dell’acqua?”
Il pesce sparì senza aggiungere parola, e Ashva rimase a lungo immobile, in preda allo sconforto. Era vecchio, ormai, e come avrebbe potuto seguire il consiglio del pesce? Infine si fece coraggio. Raggiunse il più vicino villaggio di pescatori. Alla prima casa che incontrò, gli offrirono cibo e riparo, ma Ashva rifiutò. Solo se gli avessero consentito di aiutarli nel loro lavoro avrebbe accettato un compenso. Gli abitanti della casa decisero, un po' per venerazione, un po' nella convinzione che non fosse del tutto in sé, di assecondare il suo desiderio.
Quella notte dormì nella capanna dove il pescatore teneva le reti e gli altri suoi attrezzi. Poco prima che il sole sorgesse lo svegliarono, il pescatore e i suoi due figli, e insieme si misero in mare.
E così nell'inverno della sua vita il Venerabile Ashva, l’Illuminato, imparò il mestiere del pescatore. Il suo mantello quasi bianco puzzava di pesce, le sue mani si coprirono di vesciche, poi di calli.
Poiché era abituato alla parsimonia, riuscì ad accumulare una piccola somma di denaro, con cui acquistò una barca sua. E poiché era un Venerabile e un Illuminato, non smise di predicare, e i discepoli si raccoglievano numerosi intorno a lui. I primi furono i due figli del pescatore.
Un giorno Ashva e il suo discepolo favorito, Izmal, che avrebbe in seguito indossato un mantello del settimo grado di splendore, e a cui dobbiamo questo veridico racconto, si misero in mare. La pesca fu straordinariamente abbondante, e per la grande quantità di pesce le onde sfioravano il bordo della barca.
Volsero la prora verso terra, mentre dense nubi si accumulavano all’orizzonte. Una calma piatta e minacciosa si stese sulle onde. Le vele sbatacchiavano flosce. Izmal afferrò i remi, ma Ashva rimase immobile a prua, fissando l’acqua, come se attendesse qualcosa.
Ed ecco che il pesce dorato affiorò dalle acque. “Ebbene vecchio,” disse, “hai appreso finalmente la lezione dell’acqua?”
“Ho seguito il Grande Padre Er in tutti i suoi meandri, ho osservato le vie del fiume e degli uomini, mi sono sforzato di imitare l’acqua nella sua umiltà. Ma ancora sento di non avere appreso la sua lezione. Aiutami, pesce.”
E il pesce disse: “Sei vecchio e stanco. Non vedi dunque che ogni fiume trova la sua pace nell’Oceano?”
E in quel momento un’onda altissima, giungendo dal largo, afferrò la barca e la fece girare tre volte su se stessa, fin quasi a rovesciarla. Izmal si afferrò al timone con tutte le sue forze, ma Ashva non fece alcun tentativo per salvarsi; cadde fra le onde, e il suo mantello quasi candido impregnandosi di acqua lo trascinò a fondo, dietro al bagliore dorato del pesce.
– Cosa significa la storia di Ashva? – chiesi a Lucibello. Eravamo riuniti nella nostra soffitta, in tre per l’ultima volta.
– Le storie non significano. Accadono. E vengono raccontate.
– Ma l’eremita ha appreso la lezione dell’acqua, alla fine? – chiese Jues.
– Forse sì – disse Lucibello. – Morendo.
– A che serve una lezione appresa in punto di morte?
– A morire.
Jues si diede da fare attorno al fuoco, per nascondere la sua esasperazione.
– Lo scopo dell’Immacolata Dottrina è di imparare a morire, dunque? – chiesi io.
Lucibello scosse la testa. – L’Immacolata Dottrina non ha uno scopo.
E dopo un momento aggiunse: – Del resto, ho ascoltato altre storie, dalla bocca del Venerabile, che dicono cose completamente diverse.
Lo guardai, e compresi che il nuovo Lucibello non era poi così diverso dal vecchio.

(18) LA CISTERNA



La partenza di Lucibello mi lasciò in preda ad un’inquieta tristezza. La tristezza era dovuta alla perdita dell’amico, l’inquietudine alla mia incapacità di imitarlo.
Poiché, vedete, tutti i miei sogni: Lia e i carri dei teatranti, Lia e il palcoscenico illuminato, Lia e la poesia, Lia... Tutto questo, dovetti ammetterlo, era qualcosa che recitavo solo dentro la mia testa. Quando avevo provato a recitare nella realtà, avevo miseramente fallito. Quanto a scrivere, ero riuscito solo a scopiazzare. E il coraggio di andarmene da Morraine non riuscivo a farmelo venire. Forse, dopo tutto, sarei diventato un altro falegname nel Cortile del Nano.
Dopo il Mese-del-Passaggio giunse anche il Mese-delle-Farfalle. Il quarto giorno trovai una scusa per abbandonare la bottega di mio padre e raggiunsi la strada che portava alle montagne. Esattamente cinque anni prima ero stato investito dal carro di Lelius, e avevo visto Lia.
Mi fermai sul bordo della strada polverosa. Non c’erano Jues e Lucibello ad aspettarmi, nel casolare abbandonato. Uno era partito, l’altro lavorava. L’infanzia era finita, e nient’altro sembrava essere iniziato.
Sentii il rumore di un carro e il cuore mi balzò in gola. Ma era solo un contadino con la sua famiglia, di ritorno dai campi. Mi guardò con curiosità.
Dopo un po’, tornai a casa.
A casa trovai un messaggio. L’aveva consegnato qualcuno a mia sorella, che me lo passò in gran segreto.
Questa volta non era di Jues. Era vergato in uno stampatello ornato, e diceva:
“Sui gradini della fontana, alla stessa ora. Domani.” Non c’era firma.
Dalle finestre aperte filtrava un mormorio di voci, che si mescolava con quello della fontana. Ero arrivato in anticipo, e feci due volte il giro del porticato. Poi attraversai il cortile di sbieco, arrestandomi un momento accanto alla fontana ottagonale. Questa volta era ancora giorno, e distinsi le figure scolpite sulle lastre di pietra: le allegorie delle otto sfere celesti.
Provavo una certa riluttanza a sedermi sui gradini, così raggiunsi l’angolo opposto. Rari passanti attraversavano il cortile. Non era la Festa delle Maschere, e quella era una zona molto tranquilla di Morraine.
Quando mi voltai, vidi che una figura si era seduta sui gradini. Era avvolta in un mantello, il cappuccio che le copriva il volto. Dalla corporatura esile, doveva essere una ragazza.
Tornai indietro. Quando fui giunto a metà strada, la figura si alzò e si diresse verso un androne. La seguii. La riconobbi da come si muoveva.
Non cercai di raggiungerla. Sapevo che si sarebbe fermata a tempo debito.
La spirale del suo percorso questa volta si allargava. Cortile dopo cortile, i cerchi si avvicinavano alle mura. Qui gli spazi erano più grandi, le costruzioni meno ornate. Il Cortile dei Fabbri era pieno del frastuono delle incudini e del nitrito dei cavalli.
Poi la mia guida parve ripensarci, o forse era incerta sulla strada. Tornò verso il centro, vagò apparentemente a caso, prese infine un passaggio in salita, che aveva a destra un muro di grosse pietre, privo di aperture. Erano le mura della città.
Non si voltò mai, ma era come se la sua faccia lunare mi scrutasse sempre.
Il passaggio sbucava in un cortile irregolare e in pendenza. Il lato più lungo formato dalle mura, un altro da un’antica torre di guardia, la facciata interrotta da poche feritoie, il terzo dalla cisterna principale della città. Il quarto, molto stretto, dall’imboccatura di un androne che portava sulla chiave di volta due pesci intrecciati. Da sopra i tetti si scorgeva la torre circolare del Castello, la più alta di Morraine. Quasi metà del cortile era occupato da un orto cintato, probabilmente quello del guardiano della cisterna.
Occhi di Gatto si sedette sui gradini di una porticina che si apriva nello spessore delle mura.
Mi sedetti accanto a lei. Le ultime rondini stavano cedendo il cielo ai pipistrelli.
– Tieni a mente questa porta – disse.
Spalancai gli occhi. Il cappuccio le nascondeva la faccia. Allungai una mano e glielo scostai. Alla luce del sole calante, le pupille erano poco più di due fessure verticali, l’iride di un giallo intenso, screziato d’ambra.
– Perché?
– Domani sera potrai lasciare Morraine da qui.
Lo straniero ci guardò. Spalancò le braccia.
“Voi che avreste pensato?”
Che era pazza. O che scherzava. Lo pensai per il tempo di un battito di ciglia. Poi mi resi conto che era esattamente quello che avrei dovuto fare. Lasciare Morraine. Non dissi niente.
– La tua vita è in pericolo – disse Occhi di Gatto.
– Il Grifone...
– Sì. Sei stato interrogato dalla Guardia.
– Non ho detto nulla di te!
– Lo so. Ti ringrazio. Ma hai detto del Sole.
– Sì, ma...
– E hai riconosciuto l’Adepto.
– E tu come lo sai? – E subito dopo: – Il sole era l’adepto. Ed è anche...?
– Non posso dirtelo. – Che era una risposta ad entrambe le domande.
– Ma...
– Restando a Morraine sei in pericolo. È meglio se te ne vai.
Lasciare Morraine, la mia casa, mia madre, la mia famiglia! A quindici anni! Scossi la testa. Era un sogno. Adesso mi sarei svegliato.
– È quello che volevi, no?
– Cosa?
– Ti aspettarà un carro di teatranti, all’uscita del cunicolo.
Quale cunicolo? Mi presi la testa fra le mani. Mi sembrava di avere la febbre, le orecchie mi ronzavano.
Sentii la sua mano sulla spalla.
– Ascolta. Non abbiamo molto tempo. Ci sono forze all’opera che tu non conosci... e neppure io, del tutto. Forse potresti vivere a Morraine fino alla vecchiaia, o forse no. Ma se te ne vai sarai quasi certamente nessuno ti farà del male. E poi, è quello che volevi, no? – ripeté scrollandomi con forza la spalla.
– Ma tu...
– Io sono al sicuro – mi interruppe. – Se mai... i miei pericoli sono di altro genere.
Un uomo uscì dalla porta della cisterna, portando un secchio di legno e cominciò ad annaffiare l’orto. Dopo un po’ si accorse di noi, e ci salutò con un sorriso complice. Per tutto il tempo la mia compagna lo scrutò con gli occhi socchiusi, credo sospettosamente.
Quando l’uomo rientrò, lei disse: – Ti attenderò qui, a mezzanotte. Da solo. Puoi salutare i tuoi cari, ma attenzione. È necessario il segreto!
L’uomo uscì con un altro secchio d’acqua.
– Il carro... – cominciò Occhi di Gatto, e si interruppe.
– Sì?
– È diretto verso la costa. Gyenna è la sua destinazione, provvisoria.
E con ciò? Pensai. Poi ricordai. Lelius e Lia.
Ma neppure questo riuscì a scuotermi.
Allora Occhi di Gatto mi colpì il braccio con un pugno, e disse con rabbia: – Lo vedi quell’uomo?
– Ehi... certo che lo vedo.
– Vuoi passare il resto della tua vita a chiederti se il primo che incontri è una spia?
Adesso forse stava esagerando. – Ascolta, sono sicuro che il Conestabile...
– Il Conestabile non può fare nulla. Per la semplice ragione che nessuno nel Cortile Segreto lo aiuterà. Neppure io.
Questo mi gelò più di ogni altra cosa avesse detto fino a quel momento.
Ma non mi diedi per vinto. – Ascolta, mi hai detto tu stessa che la Guardia non entrerà nel Cortile Segreto. E dunque l'assassino non corre nessun pericolo. E allora perché dovrei correrlo io, che non posso fargli niente di niente?
Lei non rispose subito. – Ci sono altre ragioni... credo – disse infine. – Lui sa che sei entrato e fuggito dal Cortile, di nascosto. Sa che cerchi Lia.
– E con ciò? – Poi mi ricordai del laboratorio alchemico. Feci per aprire la bocca ma lei mi fermò. – Ascolta, neppure io sono a conoscenza di tutto, capisci? E non so perché esattamente sei in pericolo. Ma so che lo sei. Ti basta la mia parola?
Mi fissò negli occhi. Non mi venne in mente niente da dire.
Infine occhi di Gatto si alzò. – Vieni.
Mentre lasciavamo il cortile, l’uomo che annaffiava l’orto ci salutò con la mano. Ci credeva due innamorati.

(19) IL CARRO



L’addio alla propria terra è un evento straziante per chi se ne va e per chi resta, ma imbarazzante per chi se lo sente raccontare. Perciò vi risparmierò questa parte della mia storia, ci disse lo straniero venuto dal mare di sabbia guardandosi le mani.
Chiesi la lampada e l’olio a mia madre, aggiunse quasi bruscamente. Succede, a Morraine. L’aveva fatto poco tempo prima anche Lucibello. L’unica differenza, nel mio caso, era che non potevo dire la vera ragione per cui me ne andavo. Che poi la chiedessi da un giorno all'altro era inusuale, ma non inaudito. I Portatori della Lampada sono per loro natura imprevedibili.
I Portatori della Lampada, per tradizione, lasciano Morraine nell’ultima ora della notte, in maniera che l’alba li colga sulle pendici dell’Yril, se sono diretti verso le montagne, o nella pianura di Meizin, se la loro destinazione è il mare, o in qualche altra località se seguono strade meno battute, ma da cui comunque la città non è più visibile. E proprio a quell’ora, possono ascoltare per l’ultima volta la campana della Torre dell’Orologio, che batte sei rintocchi.
Questo vuole la tradizione. Quanto a me, forse per via del cigolio del carro, o perché tenevo la testa sotto una coperta, non sentii la campana. La testa la tenevo sotto la coperta perché non volevo che qualcuno mi sentisse piangere. Mi accorsi però del giungere dell’alba perché ogni tanto tiravo fuori il naso per respirare.
Scostai un lembo del telone che copriva il carro. Una luce grigia aveva cancellato le stelle, senza rivelare i particolari della terra.
Tornai a sdraiarmi, appoggiando la testa sulla bisaccia di pelle che mi aveva dato mio padre per metterci le mie cose. Che erano molto poche: un cambio di abiti, della biancheria, le Tragiche Historie, i Fiori di bianco prato, i Canti di Pridery, la mappa dell’isola, alcuni fogli che avevo scribacchiato, naturalmente la lampada e l’olio. A malincuore avevo rinunciato alla maschera della falena lunare, perché troppo fragile. In una piccola borsa di pelle, attorno al collo, avevo alcune monete. E un’altra cosa.
Questa me l'aveva data Occhi di Gatto, prima di salutarmi.
Ero giunto nel Cortile della Cisterna da solo, come lei mi aveva ordinato. Avevo spinto la porta nella mura, e questa si era aperta. Dentro, buio profondo e un odore di terra umida, mescolato a quello di qualche essenza profumata. Il profumo di Occhi di Gatto. Poi la scintilla di un acciarino.
Nella luce fioca della lampada, le sue pupille erano quasi normali. Dei gradini di pietra scendevano alla mia sinistra, perdendosi nel buio. Lei indicò i gradini. – Vieni.
Il cunicolo era lungo non più di trecento passi. Prima di uscire la mia guida spense la lampada, e potei vedere la luce delle stelle, attraverso un’apertura irregolare.
Occhi di Gatto srotolò una corda e la legò ad un tronco che cresceva da una fessura della roccia.
– Questa volta non resterà a penzolare – disse, ed io sorrisi mio malgrado.
Un centinaio di braccia più sotto, quasi a strapiombo, si vedeva la striscia bianca della strada. Eravamo a metà della balza su cui sorgono le mura occidentali della città. A qualche distanza, sotto una macchia di alberi, si intravedeva appena una chiazza più chiara ancora della strada: il telone di un carro, e si poteva sentire un lieve sbuffare di cavalli, fra il frinire dei grilli. Sentii un fruscio, vicino a me, e Occhi di Gatto mi mise fra le mani qualcosa. Una borsa di pelle. Dentro, la forma delle monete.
– No... no, ho già dei soldi.
– Tieni anche questi, sciocco.
Poi mi slacciò la camicia e mi mise qualcosa attorno al collo.
– E anche questa. Attento a non perderla. – Era una sfera, liscia e molto pesante.
– Cos’è?
– Diciamo che è un amuleto.
Ancora pochi secondi e me ne sarei andato. C’era una cosa che non avevo ancora voluto chiedere.
– Potrò mai... tornare?
Le sue mani erano ancora sul mio petto.
– Molte cose sono possibili. Lo saprai.
– Come?
– Ho i mezzi per avvertirti, non temere. E poi... – Indovinai un sorriso, dalla sua voce. – Chissà, forse sarai tu a non voler più tornare.
Non capivo bene cosa volesse dire, perciò non replicai. Lei mi riallacciò la camicia.
– Se tornerò, ci rivedremo?
– Anche questo è possibile.
La sentii muoversi. Poi le sue labbra mi sfiorarono la guancia.
– Buon viaggio, Iko.
Mi misi la bisaccia a tracolla e mi calai lungo la corda.
Quando posai i piedi sulla strada un’ombra si staccò da un cespuglio. Una mano afferrò la mia. L’ombra mi arrivava appena alla vita: un bambino.
– Vieni – disse con voce da adulto.
I miei occhi si erano abituati alla luce delle stelle. Distinguevo il carro, due grossi cavalli, delle figure vicino.
– Eccolo! – disse una voce femminile, che associai ad una macchia chiara di capelli.
– Era ora! – Un grugnito profondo, proveniente da una figura corpulenta, avvolta in un mantello.
– Sbrighiamoci, dunque. – Un uomo, molto alto e magro, che saltò a cassetta. Quello corpulento lo seguì.
Il bambino mi condusse al retro del carro, e saltò su con sorprendente agilità. Qualcuno da dentro allungò una mano e mi aiutò a salire. La donna bionda mi seguì.
Dentro il buio era completo, ma in compenso c’erano molti odori: di stoffe polverose, di sudore, di cosmetici, di cibo. Il carro era coperto da un tendone, a differenza di quello di Lelius che come sapete era tutto di legno. – Mettiti qui. Puoi dormire. – Una seconda voce di donna. Non c’era materasso, ma degli strati di tela grezza, forse fondali di scena.
Qualcuno mi mise in mano una coperta e un cuscino. Venni urtato da vari corpi che si sistemavano per la notte.
– Come ti chiami? – La prima donna.
– Iko... cioè, Nykos.
Lei rise, non so per quale ragione.
– Quanti anni hai?
– Quindici.
– Lascialo stare. Avrà sonno. – La seconda donna.
– Buonanotte, allora!
In verità, fu la notte peggiore della mia vita.
Non avevo mai dormito su un carro. Non avevo mai dormito vicino a tanta gente. Non avevo mai dormito fuori da Morraine. E poi, come ho detto, mancava solo un’ora all’alba.
Accolsi la luce come una liberazione. Anzi, il giorno che nasceva, come spesso accade, risollevò il mio spirito. Avevo perso Morraine, ma il mondo intero si apriva davanti a me! Il mare era la nostra destinazione, le città della costa, i porti! Cominciai a fantasticare di navi e galeoni, che avevo visto solo sulle illustrazioni dei libri. Rimpiansi di non aver portato con me la Storia Universale dei Viaggi, che era troppo pesante e voluminosa. In compenso avevo la mappa: chissà, forse un giorno avrei trovato la mia isola misteriosa...
In quel momento il carro si arrestò. Sentii il cocchiere scendere, e sbirciai da sotto il tendone. Lo vidi allontanarsi di qualche passo, fermarsi sul bordo della strada, armeggiare con i pantaloni.
Questo mi fece venire in mente che avevo bisogno anch’io. Sgusciai fuori dalla coperta. I miei nuovi compagni di viaggio dormivano tutti: cumuli indistinti nella luce fioca.
Saltai a terra. L'aria della mattina era fredda e pulita, dopo quella stantia del carro. L’uomo alto e magro aveva finito, e si stava riallacciando.
– Buongiorno – disse. – Io sono Astrix Palemon. – Aveva un cappello a larghe falde, che si levò con un gesto ampio del braccio. – Guerriero, principe, innamorato, bandito, mago. – Compresi dopo un momento che erano i suoi ruoli.
– Io sono Iko. – Purtroppo, non avevo niente da aggiungere.
Astrix Palemon mi fissò da sotto le folte sopracciglia nere, lisciandosi i lunghi baffi. – Vedremo cosa fare di te – disse, e rimontò sul carro. Io montai dalla parte opposta, pensando a cosa dovevo fare di me.

(20) ARQUIN



– Ecco – disse Gost Baran. – Questi sono gli strumenti.
Da sotto il carro tirò fuori una cassetta di legno, appesa a un gancio. Gost Baran era l’uomo corpulento della sera prima. Aveva anche una folta barba rosso fulvo e il naso rosso violaceo. Era Tiranno, Buffone, Vecchio, Re, Fanfarone e Mangiafuoco. Era anche il capo della compagnia.
La cassetta conteneva: un martello dal manico spezzato, una sega arrugginita, una tenaglia con le ganasce sconnesse, uno scalpello spuntato, un trapano con la punta storta, un assortimento di chiodi usati.
– Non credo che potrò fare molto con questi – dissi io.
– Non vanno bene? – chiese Gost Baran sollevando le sopracciglia rosse e folte come la barba. Possedeva una voce profonda e minacciosa: non sapevo bene se era una cosa naturale, o se gli veniva da qualcuno dei suoi ruoli. Avevo l’impressione che i miei nuovi compagni recitassero sempre, come se i personaggi fossero entrati dentro di loro. Come, mi venne in mente, se vivessero una perenne Festa della Maschere.
Il fatto era che avevano trovato un ruolo anche per me. O più modestamente un lavoro: quello di falegname. Con degli attrezzi inservibili.
– Vedete, signore, questo per esempio non taglia – gli mostrai lo scalpello, passando un dito sulla lama. – E uno scalpello serve per tagliare il legno. Questa è storta – gli mostrai la punta del trapano. – Come può fare i buchi? E poi non c’è neppure una pialla...
Gost alzò le spalle. – Bah! Myrtilla ti darà una pietra per affilare. Un buon artigiano si ripara da solo i suoi attrezzi.
Myrtilla era la ragazza bionda. Servetta, Smorfiosa, Ingenua, Principessa, Scudiero, Garzone. Siccome era anche la cuoca, si occupava dei coltelli. In quel momento stava lavando le stoviglie. Eravamo fermi in una radura, poco lontano dalla strada. Durante il pranzo, avevano passato in rassegna le mie abilità, e avevano deciso che la cosa più utile che potessi fare era di occuparmi della manutenzione degli attrezzi di scena e del carro. Sarei anche potuto comparire sulla scena in qualche parte muta: si erano resi subito conto che come attore non avevo molta stoffa, ed ero troppo vecchio per imparare l’arte del giocoliere o del saltimbanco, a cui bisogna applicarsi fin da bambini.
Potevo anche mischiarmi al pubblico per applaudire, e molte altre cose che mi sarebbero state dette di volta in volta. Tutti lavori non indispensabili, nella rigorosa economia di una compagnia ambulante. Ma suppongo che Occhi di Gatto, o chi per lei, li avesse adeguatamente ricompensati.
– A Larissa potremo comprare gli attrezzi che ti mancano – disse Gost andandosene. Larissa era la nostra prossima, e per me prima, tappa. Gost se ne andò con passo maestoso: si esercitava nella parte del Re Grendel, protagonista della tragedia omonima, che avremmo recitato fra due sere. Avrebbero recitato, cioè.
Non avevo osato dire delle mie ambizioni di poeta: in parte perché temevo di non essere preso sul serio, in parte perché non ero sicuro che a loro servisse un poeta: sembravano recitare più che altro a soggetto.
Così andai da Myrtilla a prendere la pietra per affilare lo scalpello.
– Che te ne pare della tua nuova vita? – mi chiese il nano.
Io ero sdraiato sull’erba e scrutavo una nuvola a forma di muso di tigre, che si andava trasformando in un rospo.
– Non so... È appena cominciata – risposi a bassa voce. Gli altri dormivano sdraiati qua e là sull’erba o sul carro, dopo una notte parzialmente insonne. Per parte mia, non riuscivo a chiudere occhio. Era la prima volta che trascorrevo tanto tempo fuori dalle mura di Morraine.
Dumpy Dum si grattò il naso con le unghie del piede destro. Era lui quello che avevo scambiato per un bambino con la voce di adulto, e usava il piede per grattarsi perché in quel momento le mani gli servivano per tenersi ritto a testa in giù. Come gli altri, usava i momenti liberi per ripassarsi la parte.
– La nostra è la vita più bella che ci sia al mondo – dichiarò Dumpy Dum, che doveva essere un nome d’arte. Aveva i due bicipiti più grossi che avessi mai visto in vita mia, le guance con due pomelli rossi che non capivo bene se fossero dipinti, la barba bionda e rada.
– Che ha di bello ? – chiesi.
Dumpy Dum sollevò un braccio, rimanendo appoggiato sull’altro. – Dipende – disse. Non era la posizione adatta per lunghi discorsi.
– Da cosa?
Il nano tornò su due mani. – Prendi il mio caso. Nessuno ci trova qualcosa di strano in me, vedendomi su un palcoscenico. Anzi: mi applaudono. Nel mondo normale sarei compatito.
Nel mondo normale? In che razza di mondo vivevano gli attori? La conversazione languì, mentre Dumpy Dum eseguiva una serie di capriole. Per riposarsi si rimise sulle mani: per lui sembrava una posizione più naturale che starsene in piedi. Forse era anche naturale che vedesse il mondo al contrario.
– Ma nel caso di Gost? – chiesi. – O di Myrtilla? Vale anche per loro?
– Naturalmente! In che modo potrebbero essere Re o Principesse, altrimenti?
– Ma è solo una finzione.
Il nano alzò (cioè, abbassò) le spalle. – Un sacco di Re o Principesse lo sono per finta.
– Non per i loro sudditi.
– Ecco! Noi facciamo meno danni! Un altro punto di merito.
Non potei fare a meno di ridere. – Questo comunque non risolve il mio problema, visto che come attore sono un fallimento.
– E che ne sai? Hai mai provato davvero?
Oh, se avevo provato! – Sì... una volta.
– Be’, tutto si impara. Ci vuole tempo. – Dumpy Dum amava le sentenze, anche a costo di essere banale.
– Ma non tutti diventano attori.
– Perché mancano di costanza.
– Solo per questo?
Il nano eseguì qualche salto mortale all’indietro, forse per sfuggire alla domanda. Ma io continuai a guardarlo, in attesa, e alla fine rispose: – Molte cose sono necessarie per mettere in scena uno spettacolo, dal poeta che ha scritto la tragedia al falegname che costruisce il palco.
– Certo – non potei trattenermi. – Ma il falegname io lo facevo anche a Morraine.
Con un solo movimento del corpo Dumpy Dum si sedette e mi fissò negli occhi. – Tu non vieni da Morraine. Tu non hai mai abitato a Morraine. Ci sei stato solo di passaggio, insieme a noi. Tu sei nato sulla strada e vissuto sulla strada. Ricordatene sempre. E per non sbagliare la parte, fai come gli attori: ripassatela in continuazione, anche quando sei solo con noi cinque. E cerca di perdere quell’accento in fretta.
Rimase in silenzio qualche momento, poi aggiunse: – Il tuo nome d’ora in poi sarà Arquin. È il nome di un pagliaccio.
Detto questo, se ne andò.
– Sono un falegname – mormorai al nano. – Che ci faccio su un carro di attori? – Eravamo stesi sulle panche accostate della sala da pranzo di una locanda che si chiamava La Luna Nuova. Fra la mia schiena e il legno delle panche c’era un materasso che odorava del sudore di troppe persone, e chissà di cos’altro. Ma dopo di allora, ho dormito in posti peggiori.
La sala era immensa, e odorava a suo volta di fumo, di vino e del grasso colato sul fuoco. Nel camino c’erano abbastanza braci da durare fino al mattino. La luce rossastra mostrava le volte annerite, i tavoli con sopra ancora qualche bottiglia, le forme dei clienti addormentati sotto le coperte. La locanda possedeva anche delle stanze, al piano superiore, occupate dalle donne e da viaggiatori più danarosi.
– Ognuno ha la sua missione – disse Dumpy Dum con ponderosa banalità. Aveva bevuto non poco, e questo lo rendeva più sentenzioso del solito.
– Balle!
– Shh! Vuoi svegliare tutti?
– Questa missione non me la sono scelta io...
– Ragazzo, questo capita alla maggior parte degli uomini.
– ... me l’ha scelta Occhi di Gatto.
A voce ancora più bassa, Dumpy Dum disse: – È bene non parlare mai della Signora. Sotto qualsiasi nome.
Avrei voluto mettermi a piangere. Avrei voluto dire: “Voglio tornare a Morraine, voglio tornare a casa.” Solo la vergogna mi trattenne.
Restammo in silenzio a lungo, tanto che pensai che il mio compagno si fosse addormentato.
– Dumpy Dum? – sussurrai.
– Che vuoi?
– È vero che andremo sulla costa?
– Naturalmente. In autunno tornano i galeoni dalle rotte oceaniche. Le città sono piene di mariani e mercanti, con le tasche gonfie di soldi e una gran voglia di divertirsi.
– Hai mai conosciuto Lelius Abramus?
– Chi?
– Lelius Abramus. Ho visto un suo spettacolo, a Morraine. Teseius e Phenissa.
– Capisco.
Cosa avesse capito, non lo sapevo. Ma evidentemente non aveva intenzione di rispondermi. Quando lo chiamai di nuovo, doveva essersi addormentato.

(21) MYRTILLA



Gost Baran amava ragguagliare i membri della sua compagnia circa leggi, costumi e insidie della città in cui avrebbero recitato. Questo me lo confidò Myrtilla la mattina successiva, quando dopo colazione il nostro capocomico si alzò in piedi guardandoci con aria severa.
– Larissa – esordì – non è molto grande, né molto ricca, né molto bella. In compenso i suoi abitanti sono molto suscettibili, e perciò non è bene fare allusioni alla mediocrità della loro patria, neppure fra voi, caso mai doveste essere sentiti. Ma questo – concesse con un ampio gesto della mano – vale praticamente per tutte quelle città, cioè la maggior parte, che non sono molto grandi, ricche o belle, per cui non mi soffermerò sull’argomento, che ho citato solo a beneficio di chi si è unito a noi solo da poco. – Mi guardò inarcando le sopracciglia, ed io annuii prontamente.
– Ma alcune cose è bene rammentarle a tutti. – Contò sulla punta delle dita. – Innanzi tutto, guardatevi dall’ostentare indumenti verdi. Il verde è il colore della fazione politica attualmente in disgrazia a Larissa; i suoi capi sono stati cacciati in esilio, ma la fazione gialla, al potere in questo momento, sospetta che infiltrino agenti, spie, sobillatori. Secondo – qui guardò con evidenza Astrix Palemon, che affettò un’aria di assoluta indifferenza – evitate con cura di rispondere ai richiami e agli allettamenti, per quanto provocanti, delle donne che incontrerete: vi accuserebbero subito dopo di aver attentato al loro onore, troverebbero testimoni pronti a giurarlo, guardie disposte a crederci, giudici severi nel punire. Per farla breve: scoprireste di poter evitare la galera, o peggio – fece il segno di tagliare qualcosa – solo sborsando un’ingente somma di indennizzo.
Si toccò un quarto dito, e io rifeci mentalmente il conto. – Incontrando qualcuno per strada, se indossa un mantello rosso porpora cedetegli il passo alla sua destra se voi siete una donna; a sinistra se siete un uomo. Viceversa se indossa un berretto di panno azzurro con una piuma di fagiano. Ma spostatevi in ogni caso a sinistra se porta stivali di cuoio amaranto. Nell’incertezza, cambiate strada.
– Circa gli acquisti, Larissa è rinomata per i velluti, le lucerne in bronzo, la carne salata, gli orologi a pendolo, l’inchiostro ocra e le olive verdi in salamoia. Se pensate di aver bisogno di qualcuno fra questi articoli, il posto più conveniente è il mercato nella Piazza degli Incappucciati e nelle vie adiacenti.
Pensai che dei titoli in inchiostro ocra avrebbero ravvivato le mie carte, ma dubitavo che ne valesse la pena.
– Ah, un altro consiglio: è considerata una grave offesa grattarsi il naso mentre si parla con qualsivoglia persona.
Passeggiò un poco lisciandosi i baffi. – In ogni caso – terminò – resteremo a Larissa una sola notte. La passione dei suoi abitanti per il teatro non è grande. La tragedia che rappresenteremo, Re Grendel, è stata da me lievemente modificata in maniera da contenere alcune velate allusioni al tiranno del Partito Verde, cacciato durante l’insurrezione popolare dello scorso autunno. Il suo nome era Lektos Ly, e se doveste sentirne parlare, abbiate cura di mostrare i segni del più grande disprezzo, ad esempio sporgendo la lingua o sputando dietro la spalla destra.
"Mi premurerò personalmente di rendere note queste allusioni agli attuali reggenti della città, con la dovuta discrezione. Vi comunicherò a parte le modifiche da apportare, che non sono numerose né difficili, ma dovranno essere ricordate con esattezza. Spero in tal modo di attirare un pubblico sufficiente a ripagare in maniera adeguata gli sforzi di tutti voi. – Ci guardò con adeguata severità.
Questo discorso venne accolto dai miei compagni con moderato interesse, per non dire con una certa sopportazione. Nessuno di loro, presumibilmente, giungeva a Larissa per la prima volta, e per un attore che recita a soggetto qualche modifica nel canovaccio era cosa da poco.
Ma su di me, le parole di Gost ebbero un effetto profondo, principalmente per due ragioni. La prima, più ovvia, era la novità di quei costumi inauditi. Ripetevo nella mia mente le regole di etichetta, inquietanti in grazia della loro assoluta arbitrarietà.
Ma ancor più, mi dava motivo di pensare, lungo la strada polverosa che ci conduceva verso Larissa, un’altra parte del discorso di Baran: che una tragedia potesse in qualche maniera, che fino ad allora non avevo sospettato, rispecchiare un evento circoscritto e in fondo banale del tempo mondano, quale era la cacciata di un tiranno (ammesso che lo fosse). Questa idea apriva alla mia vista vertiginosi spazi di possibilità: che l’antico autore del Re Grendel (di cui si è perduto il nome) avesse previsto la fine ingloriosa di Lektos Ly; oppure che Ly fosse vissuto inconsapevole secondo un copione già scritto; o ancora che le storie dei tiranni fossero miserevolmente simili l’una all’altra, nella realtà e sulla scena; o infine (cosa più inquietante di tutte) che capocomici e reggenti di piccole città potessero servirsi arbitrariamente dei tesori della letteratura. Senza dubbio altre possibilità potrebbero essere formulate.
Avrei voluto parlarne con Dumpy Dum, ma il nano scelse la mattina e il carro per dormire. Come ho detto, aveva bevuto abbondantemente la sera prima.
Un vento inquieto spirava da sud. Tirai fuori dalla mia bisaccia le Tragiche Historie e rilessi con attenzione il canovaccio di Grendel, scrutando, senza giungere ad alcuna conclusione definitiva, le tracce che conducevano a Ly.
La giornata si era fatta calda e promettente. Per alleviare la noia del viaggio, i commedianti, ad eccezione di Dumpy Dum addormentato e di Gost Baran a cassetta (che aveva l’aria di meditare le sue modifiche), procedevano a piedi: Astrix Palemon immerso nei propri pensieri, Gertrid (che era la più matura e formosa delle nostre attrici) ripassava, muovendo le labbra, la parte della Regina Izaides; i viaggiatori che incontravamo lungo la strada ci guardavano con qualche perplessità o divertimento, e toccava a Myrtilla salutarli con un sorriso, al posto di tutti gli altri. Devo dire che se la cavava egregiamente.
Mi avvicinai a lei.
– Tu farai la parte della principessa Ergrid? – dissi con un tono che voleva essere di affermazione, ma che la timidezza trasformò in una domanda.
– Bravo! Conosci il teatro.
Era un ruolo tragico, quello di Ergrid: andata in sposa a Karmak, principe di Aquilania, la figlia di Grendel viene ripudiata dal marito quando fra i due regni scoppia una guerra, e muore di crepacuore in un monastero.
Lo mostrai il libro delle Historie. – L’ho letto qui.
– Oh! – Prese il libro. Sfogliò le pagine, che minacciavano di staccarsi delle cuciture. Aggrottò la fronte, muovendo le labbra: i gesti di chi è poco familiare con la scrittura. Mi resi conto che Myrtilla doveva sapere tutte le sue parti a memoria, e solo a memoria.
– Ci sono solo le tracce – spiegai.
Mi restituì il libro con un sorriso. In quel momento pensai che non aveva bisogno di leggere nessuna parte. Il sole e il cammino le avevano leggermente arrossato le guance.
– Che modifiche farete per Larissa? – chiesi dopo un po’.
– Ah, non mi riguardano! Una principessa che muore per amore non ha bisogno i modifiche... solo qualche parola in più, sulla crudeltà dei tiranni. – Alzò le spalle, che erano seminude. – “Uno sguardo di basilisco sarebbe per la mia anima un balsamo più dolce dei vostri discorsi assennati.”
Questo era degno dei Fiori!
– Ma che c’entra coi tiranni?
– È detto a Karmak, che mi scaccia.
– Come? – Rimasi confuso. – Non è Grendel il tiranno?
– Ma no! Per Larissa sarà Karmak. Grendel è un padre mosso alla vendetta dall’affronto recato alla figlia. Pare che Lektos Ly abbia ripudiato la moglie, che era figlia di un notabile, perché non gli dava figli maschi.
Proseguimmo in silenzio, mentre io meditavo sulla quasi miracolosa elasticità delle tragedie.
Dopo un po’ chiesi: – Hai mai recitato la parte di Phenissa? – Myrtilla scosse il capo. I capelli, che in quel momento non erano legati, le nascondevano il viso minuto, lasciando vedere solo la punta del naso.
– No, non è nel nostro repertorio. È troppo triste. E non è abbastanza tragica.
Rimasi confuso, per la seconda volta nel giro di pochi minuti.
Intuendo la mia confusione, lei rise.
– Il protagonista invecchia. Cosa c’è di più triste, e di meno tragico?
Non avevo mai considerato la cosa da quel punto di vista.
Dopo averci pensato un poco, dissi: – Io credo che la vera protagonista sia Phenissa, non Teseius.
– Davvero? – Sorrise. – Be’, prova a dirlo a Gost.
Non riuscii a capire se mi stava prendendo in giro.
Si frugò in una tasca della gonna e ne tirò fuori una losanga verde pallido, un dolce di qualche genere.
Me l’offrì sulla punta delle dita.
– Tieni. Per avermi fatto compagnia.
Mi prendeva per un bambino?
Quando lo afferrai fra le labbra, le sue dita mi sfiorarono la lingua. Il dolce sapeva di zenzero.
– Però, mi piacerebbe fare Phenissa...

(22) LARISSA



Giungemmo a Larissa verso mezzogiorno.
Io ero salito sul carro e scrutavo la città (la mia prima città, in un certo senso) da sotto il telone: un po’ a causa di tutti gli avvertimenti di Baran, ma soprattutto per un’angoscia che non osavo confessare a nessuno: quelle case, altissime, senza altre attorno che le reggessero, sembravano sul punto di rovinarmi addosso. Non riuscivo a capire come la gente osasse viverci dentro.
Non ebbi comunque modo di interrogarmi a lungo su questo argomento. Arrivammo in una piazza (che per me era una specie di cortile con dei buchi fra le case). Cominciammo a scaricare il carro, che conteneva una quantità quasi incredibile di oggetti. Doveva essere svuotato degli attrezzi teatrali, ma anche di tutto il resto, perché le sponde, disposte orizzontalmente, con appositi sostegni e opportuni prolungamenti, servivano anche da palcoscenico. Tutti sapevano cosa fare, tranne Arquin. Cioè io. Che non mi ero ancora abituato ad essere chiamato così, e le prime volte non rispondevo neppure.
Venimmo ben presto circondati da una piccola folla di ragazzini, passanti, oziosi e comari, che si divertivano a darci consigli inutili quanto irritanti. Qualche donna lanciò battute oblique all’indirizzo di Astrix, che ostentava un’aria di pensierosa malinconia.
Gost Baran ci lasciò quasi subito, e riapparve dopo un paio d’ore, a lavoro quasi terminato.
– Ho parlato con il Secondo Supervisore del Provveditorato alle Insegne e alle Opere Idrauliche. Mi ha concesso di apporre dei manifesti per il nostro spettacolo esattamente in quattordici incroci della città, che sono indicati su questa carta, sigillata e firmata. – Ci mostrò un foglio ripiegato con cura, che custodiva sotto il farsetto. – L’ho naturalmente ringraziato con le dovute maniere. – Ammiccò e strofinò l’indice della destra contro il pollice. – Mi ha inoltre assicurato che renderà noto il contenuto e l’intento della nostra rappresentazione ai notabili della città, in particolare all’Osservatore dei Costumi. Dobbiamo aspettarci un pubblico scelto, questa sera, e sarà indispensabile la più grande cura dei particolari. Pertanto: Gertrid, Astrix, Myrtilla, ascoltatemi con attenzione... – Fece cenno ai tre di seguirlo dietro il tendone che avevamo appena montato. Prima di sparire, si rivolse a me e a Dumpy Dum. – A voi, un compito di non minore responsabilità. – Tirò fuori da sotto il carro un baule. Dentro, vidi rotoli di carte rozze e ingiallite, di dimensioni diverse. Ne contò quattordici dal rotolo più grande. Erano manifesti, e dicevano:
La celebre compagnia di

GOST BARAN

presenta

Una tragedia di sangue & orrore,

di malvagità svelata & punita
Seguiva un largo spazio bianco.
Questa sera presso

Un secondo spazio.
Lo spettacolo sarà preceduto da

Musica, Danze, Canti & Pantomime

NON MANCATE!!

Da uno scomparto della cassa, Baran estrasse una boccetta di inchiostro nero e un pennellino.
– Tu sai scrivere – mi disse. – Il nome della tragedia lo conosci. Questo posto si chiama Foro delle Capre. Un nome poco dignitoso, ma quella di adattarsi è la prima virtù di chi esercita la nostra difficile arte. – Prese la carta del Secondo Supervisore, eccetera. – Questa è la licenza per appendere i manifesti. I luoghi sono esattamente indicati, ed è inutile che vi raccomandi il massimo scrupolo. Qualsiasi multa verrà sottratta dal vostro stipendio. – Consegnò la carta a Dumpy Dum, e raggiunse gli altri dietro il tendone.
– Quale stipendio? – chiesi a Dumpy Dum.
Il nano mi strizzò un occhio. – Un modo di dire.
Di dire cosa? Ma non feci altre domande. Presi inchiostro e pennello.
– Che caratteri devo usare? – chiesi stendendo i manifesti sul palco.
Dumpy Dum si grattò la testa. – Di solito noi usiamo un normale stampatello maiuscolo. Tu conosci qualcosa di meglio?
– A Mor... – Dumpy Dum mi mise una mano sulla bocca, e con l’altra mi tirò un orecchio. – ... Nei miei viaggi – mi corressi – ho appreso i dodici stili canonici: semplice, corsivo, floreale, uncinato, quadrato, atrabantico minore e maggiore...
Dumpy Dum alzò le braccia. – Basta, basta! Scegli il più adatto secondo il tuo giudizio.
Meditai un attimo. – Io opterei per un quadrato: è chiaro, leggibile da lontano... Magari leggermente uncinato nelle terminazioni... – Intinsi il pennello nell’inchiostro e mi misi senz’altro al lavoro, mentre Dumpy Dum mi guardava da sopra la spalla.
Ero giunto a metà dei manifesti, quando Gost Baran sporse la testa dal tendone. – Come? Ancora qui? Ad ogni momento che trascorre, chissà quanti cittadini di Larissa passano per la strada senza vedere i nostri manifesti! E chi può dire quanti di costoro sarebbero altrimenti venuti al nostro spettacolo?
Dumpy Dum gli fece cenno con la mano di avvicinarsi. Gost Baran esaminò i manifesti già completati. – Ah... – disse. – Certo, un lavoro ben fatto richiede tempo, e l’eleganza della forma è motivo di attrazione. Ma nelle cose umane, e in particolare in quelle del teatro, ottima cosa è contemperare varie esigenze. In una parola: affrettati. – Tornò dietro il tendone, e Dumpy Dum mi strizzò un occhio.
Completai il lavoro, arrotolai i manifesti e me li infilai sotto un braccio. Dumpy Dum prese pennello e colla. – Avviamoci! – disse il nano, esaminando la lista.
– Sai dove si trovano questi posti?
– Quasi tutti. Per gli altri, chiederemo.
– Sei già stato a Larissa?
– Molte volte... Che stai aspettando?
– Pensavo... tutte quelle regole di etichetta, non sono sicuro di ricordarle.
Dumpy Dum rise. – Non è il caso di preoccuparsi. Un ragazzo e un nano: nessuno baderà a noi. Siamo troppo piccoli! – Stavo per protestare: io non sono piccolo! Ho già indossato la mia prima maschera alla Festa di Morraine! Poi pensai: questa non è Morraine. Io non sono nato a Morraine. Non ho mai abitato a Morraine.
Imboccammo una strada. Alzai lo sguardo, e quasi incespicai. Dumpy Dum mi afferrò per un braccio. – Attento! Che ti prende?
La strada era lunga e dritta. In fondo, si scorgevano le montagne. Le case formavano un imbuto in cui si riversava la luce del sole. In alto, i tetti si inclinavano gli uni verso gli altri. Mi aveva preso una specie di vertigine a rovescio: come se il cielo minacciasse di risucchiarmi in alto. Voltai gli occhi da una parte: uno stretto vicolo, le grondaie che si sovrapponevano, e a metà altezza un arco che doveva servire a far sì che le due case non rovinassero l’una sull’altra.
Chiusi gli occhi. Abbassai la testa. Li riaprii e li tenni fissi sul selciato di ciottoli.
– Andiamo – dissi. Da quel momento mi concentrai sui particolari: gli abiti dei passanti, che erano in genere più fantasiosi, ma spesso anche più stracciati, di quelli abituali a Morraine; le grate delle cantine, che avevano quasi tutte una forma ovale; i rifiuti abbandonati agli angoli delle strade, fra cui frugavano i cani (ci sono pochissimi cani a Morraine: a nessuno piace vedere il proprio cortile sporco, o attraversare androni puzzolenti). Soprattutto osservavo le porte e i portoni: il tipo di legno e le finiture, la grandezza delle teste dei chiodi, la forma delle cornici e degli intagli. La lavorazione non mi sembrava particolarmente curata. Avevo aiutato mio padre a fabbricare o a riparare molti portoni, nella nostra bottega. Quasi tutti i cortili hanno uno stile proprio; c’era un vecchio artigiano, nel Cortile del Nano, che sapeva dire il nome del cortile dopo una sola occhiata ad un portone che gli fosse stato portato per riparare. Si chiamava Arsinon, e aveva delle mani straordinariamente deformate dal lavoro e dall’artrite, ma in qualche modo abilissime. Quando eravamo bambini, ci nascondevamo nella sua bottega, e lui faceva finta di non averci visto...
Basta, mi dissi. Non devo pensare a Morraine. Basta con la nostalgia. Guardati intorno, Iko... no: Arquin. Questa è la tua prima città.
Alzai la testa per guardarmi intorno, e in quel momento Dumpy Dum si fermò. – Ecco: questo è il primo. – Un muro ricoperto da strati di manifesti, nessuno dall’aspetto molto nuovo. Avvisi di spettacoli, annunci di fiere, propaganda politica (questa molto stracciata).
– Saltami sulle spalle – disse Dumpy Dum. Obbedii. Aveva i muscoli duri come pietra. Strappai pezzi di manifesti non bene aderenti, poi il nano mi passò la cola e attaccai il nostro.
Quando fui sceso, Dumpy Dum cominciò a raccogliere i pezzi caduti. – Aiutami – disse.
– Non mi sembra che qui badino molto alla pulizia – osservai.
– Loro no, ma agli stranieri capita di dover pagare pesanti multe per una disattenzione.
Mi misi a raccogliere con lena. Arrivato all’ultimo pezzo, mi fermai. C’erano solo sei lettere leggibili, a caratteri rossi: IUS ABR.
– Che ti succede? – chiese il mio compagno.
Gli mostrai il frammento. – Potrebbe essere Lelius Abramus? – Dumpy Dum sogghignò. – Un Lelius Abramus a corto di soldi potrebbe anche fermarsi a recitare a Larissa. Non è impossibile. – Ci incamminammo.
E così aveva ammesso di conoscerlo, almeno di nome.
– Questa è la strada principale – disse poco dopo Dumpy Dum.
– Come si chiama?
– Campi Elisi.
– Che nome sarebbe?
Dumpy Dum alzò le spalle. – Non lo so.
Sui Campi Elisi la gente vestiva con particolare sfarzo. C’erano molti carri. “Carrozze”, mi corresse Dumpy Dum. Servivano ai signori per passeggiare. A Morraine non c’erano carrozze: a chi poteva venire in mente di passeggiare su un carro per un cortile?
Avevamo gettato i manifesti stracciati in un vicolo dove nessuno poteva vederci, ma io avevo conservato in una tasca il frammento con IUS ABR. Come se potesse servirmi a qualcosa. Avevo incollato altri sette manifesti senza trovare fra gli strati precedenti alcuna reliquia di Lelius. Ormai mi ero abituato alle fenditure vertiginose fra le case, e riuscivo a guardarmi intorno.
Sui Campi Elisi il passeggio assomigliava a un balletto: signori con una piuma di fagiano sul cappello e mantello rosso, donne con le gonne listate di carminio, paggi in livree con gli alamari dorati, servette con cappelli di paglia, dignitari in stivali di vari colori, alti fino al ginocchio. Vidi un signore con il cappello nero, a punta, farsetto marrone da cui spuntavano i pizzi bianchì della camicia, brache di velluto antracite, stivali ocra, spostarsi prima a destra, poi a sinistra, per essere costretto infine ad una giravolta, davanti a piume di fagiano, mantello porpora, e altro che non ricordo.
Due uomini vestiti in maniera perfettamente identica si fronteggiarono a lungo, scrutandosi, fino a quando uno di loro decise di spostarsi a sinistra, in forza di qualche sottile segnale dell’abbigliamento dell’altro.
– Qual è la pena se qualcuno non si comporta secondo le regole? – chiesi a Dumpy Dum.
– Nessuna.
– Perché lo fanno, allora?
– Nella tua città... cioè, in un'altra città ti metteresti a pisciare in pubblico?
– Certo che no!
– Qui è lo stesso: solo un po’ più complicato. Ma c’è da dire che in molte strade i signori non vengono così riveriti. E in certe altre, non ci vanno proprio per niente, perché rischierebbero di ritrovarsi senza borsa e senza mantello.
Mi sembrò che questo, in qualche modo, riequilibrasse l’ordine delle cose, a Larissa.
Le donne indossavano abiti molto scollati, le sommità dei seni cosparse di polveri di vari colori. Molte tenevano in mano cordicelle di cuoio o catenine dorate, a cui erano attaccati cagnolini, mediante un anello attorno al collo. Gli animali erano di fogge e taglie quanto mai bizzarre, tanto che alcuni sembravano a stento cani, e forse non lo erano. Certuni, in maniera che non avrei saputo dire se più penosa o ridicola, avevano il pelo rasato o colorato. Ne vidi parecchi sollevare una zampa contro un muro e fare i loro bisogni, mentre le dame attendevano ostentando indifferenza.
– Noi non lasciamo certo pisciare i cani contro i muri! – mi scappò.
– Questa è Larissa – disse Dumpy Dum.

(23) GRENDEL



Incollato l’ultimo manifesto, Dumpy Dum mi diede una gomitata e con una strizzatina d’occhio e un cenno del capo indicò un’osteria. – Gost può aspettare un po’ – disse.
Ci sedemmo ad un tavolo vuoto. Gli avventori non erano molti, ma l’oste se la prendeva comoda. Forse perché eravamo un nano e un ragazzo, forse perché eravamo stranieri.
Dumpy Dum chiese d’improvviso: – Perché ti interessa Lelius Abramus?
– Oh... Quando ero a... in un posto, ho visto Teseius e Phenissa, rappresentata dalla sua compagnia. Era molto bella.
Dumpy Dum mormorò: – Sì, un’ottima compagnia. Chi erano gli attori?
– Non ricordo i nomi di tutti. Ma Phenissa era interpretata da una certa Lia, mi pare...
Dumpy Dum non disse nulla.
– Poi c’erano delle specie di burattini.
– Ah! Questo è un segreto di Lelius. Nessuno sa come li faccia muovere... Vino di Lark e prosciutto di cinghiale. – Questo all’oste, che era finalmente arrivato.
Quando tornammo al Foro delle Capre, il sole era quasi tramontato ed io leggermente ubriaco. Myrtilla stava danzando sul palco, accompagnata da Gertrid ed Astrix, rispettivamente all’arciliuto e al flauto. Baran, dietro le quinte, aveva già indossato il costume da tiranno. Ci accolse come se volesse farci tagliare la testa.
– Perché un simile ritardo? È inammissibile! Dumpy Dum, un’altra come questa e verrai cacciato! Preparati subito per il tuo numero! Arquin, la puntualità è essenziale nella nostra professione! Riempi d’olio quelle lampade, prendi dal baule il costume di Astrix, quello nero, c’è una manica da cucire, alza il fondale con la scena di palazzo.
Corse ad osservare il pubblico da dietro le quinte. A mia volta sbirciai da sopra le sue spalle. Si erano raccolte forse cento persone. Gli uomini osservavano con molto interesse Myrtilla, che indossava un’ampia veste color smeraldo, con lunghi spacchi. A mo' di introduzione intonò una canzoncina che diceva:
Ecco arrivano i pupazzi,
un due tre, via!
con i musici e i pagliacci.
Tutti bravi in fede mia,
nonostante i loro stracci.
Hanno grande fantasia,
dategli un soldo per cortesia!
Dumpy Dum mi tirò per la giacca. Mi strizzò un occhio e indicò con un cenno del capo le lampade e la fiasca dell’olio. Mi misi al lavoro.
Si sentirono degli applausi. Myrtilla aveva terminato il suo numero, e Dumpy Dum salì sul palco. La musica si fece più veloce, accompagnata da tamburi. Baran era sparito, e doveva essere lui a suonarli.
Myrtilla, arrossata ed ansimante, mi sorrise e mi diede un buffetto sulla guancia. Poi si infilò dietro un paravento per cambiarsi. Sbirciai dentro e arrossi, poi mi allontanai prima che potesse vedermi.
Dal palcoscenico provenivano tonfi frequenti: Dumpy Dum che eseguiva le sue capriole. Ogni tanto delle risa e qualche applauso.
Il nano tornò dietro le quinte con un salto mortale rovesciato. Si sedette su una cassa per riprendere fiato, ma Gost non gliene lasciò il tempo.
– Presto! La musica! – Gli porse uno strumento a fiato che non avevo mai visto, con una specie di mantice di pelle e dei tubi forniti di buchi, mentre lui stesso imbracciava un olifante e Astrix una bombarda.
Attaccarono una melodia vivace e allegra, ma il cui impeto si smorzava proprio nei momenti culminanti, come per una segreta incertezza del futuro.
Myrtilla sbucò dal paravento, allacciandosi l’abito da principessa. Si fermò dietro alle quinte, tirò un profondo respiro, poi uscì sul palco.
Sentii applaudire. Scostai un lembo del fondale. Con la coda dell’occhio vidi Gost Baran che mi guardava torvo, ma era troppo occupato a soffiare nel suo strumento per richiamarmi, ed io feci finta di niente.
Myrtilla attaccò il suo monologo. Alla luce delle lampade i vetri colorati dei suoi gingilli scintillavano come gioielli veri, e il trucco che si era data sulle guance pareva trasformarla in qualche creatura non terrestre.
Parlò delle sue speranze d’amore, di sposa promessa ad un principe straniero, famoso per prodezza e cortesia. Senza averlo mai visto prima, ella già cominciava ad amarlo.
La recitazione mi lasciò un po’ deluso. Forse perché la paragonavo, inevitabilmente, a Lia? La voce, pensai, la voce è ciò che più conta in un attore. La voce di Myrtilla non era abbastanza... da principessa. Da principessa appena adolescente e quasi sposa. La dizione era un po’ troppo veloce, talvolta leggermente stridula. Forse pretendevo troppo. E forse, ponendomi dalla parte del pubblico, avrei ricevuto un’impressione diversa.
Un brusco strattone pose fine alle mie riflessioni teatrali. Un viso tremendo mi minacciò: occhi di brace, sopracciglia nere come carbone e gigantesche, una bocca crudele.
Era Gost Baran, nel suo costume e trucco da tiranno, che con una mano dai lunghi artigli mi indicava certi tamburi e gong che dovevo battere al suo ingresso in scena. Avevo scordato le mie istruzioni. Astrix e Dumpy Dum soffiarono dentro le loro trombe. Gertrid era ancora dietro la sua tenda, ad abbigliarsi.
Pestai sui miei strumenti con convinzione sufficiente a favorire un maestoso ingresso per Grendel, che si guadagnò una buona accoglienza dalla platea. Visto che adesso Gost era sul palco, tornai senza timori al mio posto di osservazione.
Dovetti ammettere, con qualche riluttanza, che la recitazione di Gost era di un livello superiore a quella di Myrtilla. Forse un poco caricata, ma suppongo fosse quanto si aspettava il pubblico di Larissa.
Mentre il duetto proseguiva, mi resi conto di una particolare che aumentò il mio rispetto per l’attore: insensibilmente, il tiranno non era più tiranno. Padre affettuoso, ancorché severo. Monarca inflessibile, ma giusto. Guerriero coraggioso, seppure spietato. Tutto questo espresso mediante l’inflessione della voce, la scelta delle parole, la mimica: minime alterazioni rispetto al canovaccio corrente, ma sufficienti.
Gli sforzi di Baran non furono spesi invano. Gli applausi scattavano nei momenti giusti. Anche se, come potei constatare dopo essere scivolato giù dal carro-palcoscenico per poter meglio osservare il pubblico, l’iniziativa veniva sempre presa da un gruppetto di spettatori in prima fila: personaggi dall’aspetto dignitoso, vestiti riccamente, e seduti su seggi che dovevano essersi fatti portare appositamente dai servi, perché di sicuro non erano saltati fuori dal nostro carro.
Il primo atto si concluse felicemente, come testimoniarono anche le facce distese degli attori. Gost Baran arrivò a sorridermi e a darmi un colpetto di approvazione sulla spalla.
Il secondo atto si apriva nel castello del re Karmak di Freija, interpretato da un Astrix Palemon cui la magrezza conferiva una subdola malignità.
Ma, sorpresa! Al suo apparire, dal fondo della piazza, vicino all’imboccatura di un vicolo, si udì uno scroscio di applausi. Costernazione fra il pubblico, soprattutto della prima fila. I dignitari si voltarono corrucciati. Uno di loro, dotato di una pesante catena d’argento intorno al collo, si alzò in fretta e furia e si allontanò.
Io mi arrampicai sulla sponda del carro per vedere meglio. Il dignitario che si era alzato faceva grandi gesti, mentre gli applausi continuavano. La zona da cui provenivano era scarsamente illuminata, ma il gruppetto non poteva comprendere più di una dozzina di persone. Da qualche parte, forse richiamate dal gesticolare dell’uomo con la catena d’argento, giunsero delle guardie, che accorsero con un tintinnio di armi verso il vicolo buio. Prima che potessero agguantarli, i dissidenti si erano dati alla fuga. Evidentemente il piano era stato preparato con cura.
Per tutta la durata dell’incidente, Astrix non perse una battuta, né tradì esitazione alcuna.
Il dignitario con la catena tornò verso la fine dell’atto, con un’espressione scornata. Anch’io tornai al mio posto, e trovai un Gost Baran con un’aria molto meno soddisfatta di prima, benché gli applausi a Grendel, forse per fare dimenticare quelli tributati a Karmak, fossero stati abbondanti e insistenti.
Sentii il nostro capocomico consigliare agli altri di tagliare certe scene.
L’atmosfera di tensione si allentò solo alla fine, quando Myrtilla (cioè Ergrid) morì. Forse per caso, o forse per calcolo, nel lasciarsi cadere la veste le si aprì lungo un fianco, e la fanciulla rimasse stesa sul palco con le gambe scoperte. Questa volta gli applausi mi parvero spontanei. Del resto il monologo finale era stato recitato in maniera quasi perfetta, con la giusta dose di strazio e rassegnazione, quantunque mancasse delle espressioni di perdono per l’ex-sposo, e di ogni accenno ad un amore non ancora spento, come nell'originale (ma quale poteva dirsi l'originale?).
Calai il sipario. Mentre gli attori si apprestavano a ringraziare il pubblico, io uscii con un piattino per intercettare quelli che cercavano di svignarsela in anticipo. Non avevo modo di fare paragoni, ma non mi parve che le offerte fossero particolarmente generose.
Intravidi Gost Baran che parlava con i notabili, e Dumpy Dum che a sua volta raccoglieva l’obolo.
Quando tornai, Gost neppure guardò il denaro. Lo infilò in una borsa e disse: – Partiamo.
Gli altri si stavano già togliendo i costumi.
Mi toccò andare a prendere i cavalli, che erano stati messi in una stalla non lontana.
Quando tornai il carro era già stato caricato, in qualche maniera.
Aggiogammo i cavalli e partimmo. Le strade erano deserte e buie. Una lanterna accanto alla cassetta e una luna incerta ci aiutarono a ritrovare la strada. Due volte incontrammo una ronda. Baran mostrò loro una carta, che le guardie fecero finta di esaminare: forse non sapevano leggere, ma riconobbero il sigillo.
Raggiungemmo la porta opposta a quella da cui eravamo entrati. L’ufficiale di servizio lesse con attenzione, volle ispezionare il carro, ma rinunziò ben presto ad addentrarsi nella massa disordinata degli attrezzi di scena. Io osservavo tutto con un’ansia che non sapevo spiegarmi, se non che la respiravo nell’aria.
Due guardie sollevarono la sbarra, che era di rovere largo un palmo. La porta si aprì lamentosamente. Uscimmo.
Solo quando la porta si fu richiusa alle nostre spalle, mi sentii di chiedere: – Perché tanta fretta? – (ma pur sempre con un sussurro) a Dumpy Dum, che camminava vicino a me.
Poi Baran, che sedeva a cassetta, sferzò i cavalli e noi tutti che seguivamo a piedi, perché a causa del disordine non c’era posto sul carro, fummo costretti ad affrettare il passo fin quasi a correre, e la mia risposta dovette attendere.
Per la seconda volta lasciavo una città di notte.

(24) I CACCIATORI



– Ma noi che colpa potevamo avere?
– Si erano preparati, non ti pare? Dovevano saperlo in anticipo.
– Avevamo attaccato manifesti per tutta la città! – Dumpy Dum alzò le spalle, o immagino che lo facesse, nel buio.
– I nuovi regimi sono sempre sospettosi. – Dopo un istante aggiunse: – E anche quelli vecchi.
Sebbene fosse trascorsa da tempo la mezzanotte, il carro non si era ancora fermato. Procedeva lento sulla strada tortuosa e in salita, in una notte appena rischiarata dalle stelle, fra le colline a sud di Larissa.
– Gost ha paura che ci inseguano?
– Che ci ripensino – rispose laconico il nano.
Ad una lega dalla città, il nostro impresario aveva abbandonato la strada maestra, quella che conduceva ad oriente, verso il regno di Ichomene, per imboccare un viottolo che, sospettavo, neppure lui conosceva bene, perché ad ogni bivio o incrocio si fermava, e poi aveva l’aria di riprendere il cammino a caso.
– Dove stiamo andando?
– Credo che voglia trovare la strada per il mare.
Il mare!
All’alba, ci eravamo appena svegliati, ricevemmo la visita di due cacciatori. Apparvero nel nostro campo come un lento manifestarsi di ombre e di foglie e di rocce, finché non assunsero forma umana. Uno era anziano e piccolo e nodoso. L’altro giovane e piccolo e magro. Non dissero una parola. Il primo ci porse una sorta di collana: uccelli infilati per il collo in un giunco, già spennati.
Gost Baran, con notevole prontezza di spirito, li ringraziò e fece segno a Myrtilla di tirare fuori le nostre provviste, quel poco che c’era. Invitò i due cacciatori a sedersi. Il più giovane, con poche mosse, risveglio di muovo le fiamme dalle ceneri della notte. Myrtilla infilò gli uccelli in uno spiedo, insieme a dei pezzi di lardo, e li pose sul fuoco; poi tagliò il pane e del formaggio che aveva acquistato a Larissa la sera prima. Baran cavò da un nascondiglio del carro una bottiglia di vino e la stappò con sussiego, come avevo visto a fare da certi camerieri nelle locande dei cortili ricchi di Morraine.
I due non dissero nulla, mentre gli uccelli rosolavano. Ringraziarono con cenni del capo per il vino e il pane, bevvero, aspettarono. Avvolti nei loro mantelli grigio-verdi, assomigliavano a quei cacciatori che venivano a Morraine nei giorni di mercato.
Risposero ad una sola domanda: i loro nomi. Riskrill il vecchio, Paradin il giovane. Ben presto, anche la loquacità di Baran si arrese.
Una sola volta si mossero: il vecchio sfiorò con la mano il polso del suo compagno più giovane, con l’altra indicò un punto sopra la cima di certi alberi. Dopo qualche battito di cuore, un uccello dalla lunga coda bianca si alzò in volo.
Mangiammo. Del primo uccello, Riskrill gettò nel fuoco la testa, si lanciò alle spalle le ossa, seppellì in un buco praticato in terra con un dito il fegato. Paradin lo imitò con cura.
Il giovane era seduto vicino a me.
– Perché? – chiesi, senza molta speranza di ricevere una risposta. Ma forse il cibo e il vino, oppure l’esecuzione della cerimonia, avevano rotto la consegna del silenzio.
– Per conciliare. Il loro spirito – rispose. La sua voce era bassa, leggermente roca, come il fruscio del vento fra le foglie secche. Mi venne in mente che era come il suo mantello: adatta a confondersi con il bosco. – Lo spirito degli animali. Ha quattro forme. Fuoco. Aria. Terra. Acqua – aggiunse inaspettatamente.
Ci misi un momento a capire. Ma... – Acqua? – chiesi, parlando anch’io a voce bassa.
– La saliva – rispose lui.
Il ragazzo aveva più o meno la mia età. – È tuo padre?
– No. Maestro.
– Come faceva a sapere che quell’uccello si sarebbe levato?
– Il maestro è un grande cacciatore. Conosce la natura degli animali. – E dopo una pausa, a voce ancora più bassa: – Un giorno anch’io sarò un grande cacciatore.
Osservai il giovane Paradin con una certa invidia. Lui sapeva cosa sarebbe diventato. O almeno cosa voleva diventare. Il suo sguardo incrociò il mio.
Baran disse: – Stiamo cercando la strada per il mare.
Riskrill disse: – Vi accompagneremo. Per un tratto.
– Da dove vieni? – chiesi a Paradin.
– Gaskill. È un piccolo villaggio. – Indicò una direzione. Non chiese da dove venissi io.
Notai un movimento con la coda dell’occhio. Riskrill si era alzato, senza produrre il più piccolo rumore. Paradin lo imitò dopo la pausa di un respiro.
Il vecchio indicò – Di lì. Vi raggiungeremo. Volete comprare cibo?
– Sì, certo! – disse Myrtilla.
I due se ne andarono senza voltarsi. Appena superati i primi alberi, svanirono del tutto alla nostra vista.
Due ore dopo, e una lega circa di strada, ad un crocevia: eccoli ad attenderci.
Paradin appoggiò a terra un involto di pelle. Lo srotolò. Carni rosse, scuoiate. Forse due lepri e qualche uccello che non riconobbi. Alcune radici e delle erbe, raccolte in mazzi.
Myrtilla si inginocchiò per guardare. – Quanto? – chiese.
Il maestro nominò una cifra, molto modesta. Baran lo pagò senza mercanteggiare, e Myrtilla mise cacciagione e vegetali in un cesto. Paradin riavvolse la pelle. I due presero per una delle strade e noi li seguimmo. Non si voltarono mai a guardarci, né ci rivolsero la parola. Di tanto in tanto si scambiavano occhiate, segni, forse un paio di volte una parola sussurrata. Nessuno di noi osò turbare i loro misteriosi colloqui. I pochi contadini che incontrammo salutarono i cacciatori come se li conoscessero, ricevendo in cambio un cenno del capo.
Poco prima di mezzogiorno raggiungemmo una sorta di passo fra le colline. La vegetazione era rada: ginepro, ginestre quasi in fiore, qualche quercia. Molte altre piante di cui un abitatore della città, come me, non conosceva il nome, e probabilmente non lo conoscerà mai.
Oltre il crinale, le colline si adagiavano nella pianura. La calura rendeva indistinti i contorni, ma si intravedeva il nastro grigio-argento di un fiume, macchie più scure che forse erano città, tratti più chiari di strade.
Riskrill indicò. – Ah! – disse Baran, come riconoscendo i luoghi.
Paradin era sparito. Tornò poco dopo con della legna secca. Come per incanto, il fuoco era già acceso. Myrtilla gli sorrise grata e prese le provviste, gli attrezzi da cucina.
Ricordo che faceva molto caldo, le cicale cantavano forte fra l’erba secca, e la strada polverosa aveva accresciuto la nostra sete. Myrtilla prese un fiasco di vino che aveva tenuto in fresco nella botticella dell’acqua.
Paradin si sedette di nuovo accanto a me, per mangiare. Io mi ero tolto la giacca, e l’amuleto di Occhi di Gatto mi usciva dalla camicia slacciata. Me lo tolsi dal collo e lo mostrai a Paradin. Forse perché era l’unica cosa che avessi che potesse interessarlo, pensai.
Lui lo prese e se lo rigirò fra le dita. Era una sfera perfetta, nera, di un materiale opaco e liscio, che non avevo mai visto e di cui non sapevo il nome. Vidi che anche Riskrill la fissava.
– Questo – disse Paradin. – Possiede un grande potere.
– Come lo sai? – chiesi.
– Noi... cacciatori. – Con un movimento degli occhi cercò forse l’approvazione di Riskrill. – Conosciamo la magia. La caccia è magia. Il cibo è magia. La magia... – Non gli avevo mai sentito fare un discorso così lungo. – È sapere le cose.
Riskrill si alzò. Paradin teneva ancora fra le dita la sfera magica. Me la restituì, e nel farlo la sua mano si strinse attorno alla mia.
– Vi ringraziamo – disse Baran.
Fra i cespugli bassi, i due sparirono, in un tempo sorprendentemente breve.

(25) I DUE AMANTI



Il villaggio si chiamava Ardzilla, ed era davvero piccolo. Non doveva capitare molto spesso che vedessero un carro di teatranti, lì fra le Colline Ventose, a parecchie leghe dalla Strada del Mare.
C’era una locanda passabilmente pulita, con una sala comune per gli ospiti e un cortile piuttosto grande, che d’estate doveva servire anche per trebbiare il grano.
Baran fece i suoi calcoli. Si accordò con l’oste. Non c’era bisogno di manifesti, ad Ardzilla. Al calar della sera, il villaggio si era riunito quasi al completo nel cortile della locanda, senza riuscire a riempirlo.
Allestimmo uno spettacolo senza scene, usando come palcoscenico i tavoli della sala comune. In programma: la farsa di Galapin e Pandeimon, con intermezzi musicali e danzati. Astrix faceva Galapin, Myrtilla la servetta astuta, Baran l’avaro. Gertrid era andata a dormire presto, lamentando un mal di testa, e Dumpy Dum suonava una quantità impressionante di strumenti, anche contemporaneamente.
I tre sulla scena improvvisavano quasi tutto. Pandeimon venne abbindolato come di dovere, Galapin e Yvette si sposarono.
I bambini, seduti per terra in prima fila, guardavano con grandi occhi seri, ridendo solo ad imitazione dei grandi. Quello era probabilmente il primo spettacolo della loro vita. Non avevano mai visto la Festa delle Maschere, con duecentoquaranta spettacoli in una sola sera!
Il pubblico adulto rise con moderazione: anche loro non dovevano essere molto abituati alla finzione teatrale. Nondimeno, ci ricompensarono con maggiore generosità dei cittadini di Larissa, in proporzione al loro numero e alla loro ricchezza.
Alla fine, l’oste e Baran divisero il guadagno, con reciproca soddisfazione.
Andammo a letto quando il sole era tramontato da poco, e fummo svegliati all’alba per la colazione: latte cagliato e miele. Cominciavo a pensare che la vita del comico di campagna fosse ciò che faceva per me, dopo tutto.
Phainon è molto diversa da Larissa: posta all’incrocio di due grandi vie di comunicazione, affacciata sulla riva di un fiume pieno di chiatte e di barche, accoglieva chiunque vi entrasse come un’osteria i suoi avventori, come un bazar i clienti, come una fiera i curiosi. Per la verità Dumpy Dum usò un altro paragone, che qui non riferisco.
Non contava moltissimi abitanti, ma, sdraiata ai piedi delle Colline Ventose, occupava la pianura senza curarsi dello spazio: grandi strade, case bianche con giardini davanti e orti dietro, larghe piazze per i mercati e locande, affollate di stranieri; non avevo mai visto tanti abiti di fogge così diverse.
– Qui non dobbiamo badare ai regolamenti – ci comunicò Baran. – Ma alle borse sì: i ladri abbondano.
La locanda dove ci fermammo si chiamava Il Cinghiale Azzurro, e aveva un’insegna con quell’animale e quel colore. Intorno, qualche albero, alla cui ombra riparammo il carro.
Per essere un posto dove i ladri abbondavano, pareva che gli osti non volessero rendere a costoro la vita troppo difficile. – Non sarebbe meglio un cortile chiuso e un paio di cani? – chiesi a Dumpy Dum.
– Aspetta – rispose.
Poco dopo, un garzone dell’osteria si offrì di sorvegliarci il carro durante la notte, in cambio di una modica cifra.
A Phainon rappresentammo Il principe folle, una tragedia che non compariva nella mia raccolta, e che non avevo mai sentito raccontare. Il giovane principe di Erez si finge pazzo per smascherare lo zio che ha ucciso il re suo padre. Ma finisce per immedesimarsi a tal punto nella sua finzione, da compiere atti di vera follia, come uccidere la sua promessa sposa e profanare un cimitero. Alla fine, l’unica salvezza per il regno pare essere la permanenza sul trono dello zio assassino. Ma è veramente un assassino? O è forse la madre ad avere architettato l’uccisione del marito, per gelosia? Oppure la follia del principe è reale, fin dall’inizio? Preso dalle mie varie incombenze, suppongo di essermi perso qualche battuta, perché non riesco tuttora a giungere ad una conclusione.
La storia riscosse comunque molti applausi, tanto che la rappresentammo per due sere. Cominciavo a capire che Baran possedeva il dono principale per un capocomico: quello di saper indovinare i gusti del pubblico.
– Dove ha trovato questa storia? – chiesi a Myrtilla, dopo che era stata trasportata fuori dal palcoscenico, priva di vita.
Lei alzò le spalle. – Ogni capocomico ha il suo repertorio esclusivo. Da quando sono con lui, l’abbiamo sempre rappresentata. Aiutami a slacciare il vestito.
– Cioè da quanto tempo?
– Tre anni.
– Prima cosa facevi?
– Quello che devo fare adesso: la serva. – Rise. – Dammi il costume.
– E come...
– Un cavaliere si era innamorato dell’attrice giovane. Lei ha colto l’occasione al volo, e li ha piantati in asso. Si chiamava Jaline: bionda, la bocca a forma di cuore. – Sospirò. – Era molto bella.
– Anche tu sei bionda, e sei molto bella. Scapperesti con un cavaliere?
– Certamente! – Mi diede un bacio sulla guancia. – Ma tornerei subito!
Di nuovo sulla strada del mare. La sosta a Phainon era stata remunerativa, la mattina limpida e ventosa. Il vento portava un odore sconosciuto, che io immaginai fosse quello della salsedine, finché non scoprii che soffiava dalla parte sbagliata.
Ed ecco, seduti sul ciglio della strada, all’ombra di una quercia, un uomo e una donna.
Lui era biondo, di aspetto gentile, né giovane né anziano, una cicatrice sulla tempia che gli conferiva un’espressione perennemente triste. Lei, reclinata sulla sua spalla, aveva il viso nascosto dai capelli, ma tutta la sua posa suggeriva una qualche forma di sofferenza.
Astrix, che guidava, fermò il carro. L’uomo si alzò. Indicò la sua compagna. – Mia moglie... – disse.
Gertrid si era avvicinata alla donna, seguita da Myrtilla. Lei sollevò il viso, e ci accorgemmo che era molto giovane, pallida, di una bellezza stanca e tenera.
Gertrid le chiese qualcosa che non sentii. La fanciulla mosse le labbra per rispondere.
– Poverina! – esclamò Myrtilla.
– Deve salire sul carro – disse Gertrid con fermezza.
La donna guardò il suo compagno, che non aveva più aperto bocca. Questi guardò Baran e Astrix, poi fece un piccolo cenno col capo. La fanciulla si alzò.
Solo allora mi accorsi che era incinta.
La sera alloggiammo in una locanda a cinque leghe dalla città più vicina, in ritardo sui nostri piani di marcia. La donna soffriva per le scosse del carro, anche se non aveva mai emesso un lamento. Il marito, se tale era, la guardava mordendosi le labbra. E Astrix, anche lui senza dire parola, aveva lasciato che i cavalli se la prendessero comoda.
Nell’ora più calda del pomeriggio avevamo avuto un incontro che ci aveva inquietato.
Ad un incrocio, seduti su un muricciolo di pietre a secco, si riposavano due cavalieri, accanto al tempietto della dea del triplice volto, con le candele accese lasciate in offerta dai viaggiatori.
I due ci salutarono. Indossavano quelle cappe marroni, con due spacchi di fianco per le braccia e il colletto alto, che usano i viaggiatori da un capo all’altro delle Terre di Mezzo. Né i vestiti che si scorgevano sotto i mantelli, né l’accento servivano a identificarli meglio.
Ci fermammo, discorremmo un po’ delle strade, del tempo. Concordemente, prevedemmo pioggia imminente. Poi uno dei due cavalieri chiese: – Non avete visto per caso una coppia, lui biondo, lei più giovane, incinta?
Io, scioccamente, mi guardai alle spalle. Ma il marito che di solito camminava dietro il carro, accanto all’apertura del telone, era sparito.
Prima che potessi voltare la testa, sentii Gertrid rispondere: – Certamente.
La fissai. Non capivo.
– A Phainon – proseguì Gertrid. – Erano diretti a Bassidania. Li ricordo perché sono venuti ad uno dei nostri spettacoli, e poi li abbiamo incontrati per strada.
La via per Bassidania, ricordavo, seguiva per un tratto la strada del mare.
– Ah! – disse il più anziano dei due, un uomo con la barba grigia, occhi di un azzurro metallico.
– E perché volete saperlo? – chiese Baran severamente, con la sua migliore voce da Tiranno, lanciando a Gertrid un’occhiata di rimprovero.
L’uomo con la barba grigia sollevò le due palme aperte.
– Per i migliori motivi! Vedete, lui è mio cugino. Si è innamorato di questa fanciulla, ma il padre di lui si opponeva alle nozze. Potete immaginare il resto. Sono fuggiti insieme. Il vecchio ha un caratteraccio, ma in fondo è di buon cuore, e questo figlio è la pupilla dei suoi occhi. Non può sopportare di saperlo lontano, senza un tetto, con un nipote che forse non vedrà mai. In breve: è disposto a perdonarli. Noi li stiamo cercando ovunque. La notizia che ci date ci riempie di speranza!
Io sorrisi e guardai il carro, aspettandomi di vedere il tendone aprirsi, l’uomo e la fanciulla scendere insieme, emozionati, con le lacrime agli occhi. Ecco un caso in cui la vita rivaleggiava con il teatro.
Ma niente di questo accade. Ricevetti solo un calcio negli stinchi da Dumpy Dum, che mi era vicino.
– Correte dunque a raggiungerli! – esclamò Myrtilla, arrossata come se dovesse lei stessa balzare a cavallo.
– Non sappiamo come ringraziarvi – disse l’uomo.
Baran fece un gesto magnanimo. – Di nulla. La coscienza di una buona azione è ricompensa sufficiente. Ma chissà che un giorno non possiate venire ad applaudirci!
– Con piacere! – disse il più giovane dei due, inchinandosi a Myrtilla, con il cappello sul petto.
I due salirono a cavallo, e corsero via fra una nuvola di polvere.
E adesso, nella locanda, in una stanza che avevamo per noi soli, davanti al fuoco acceso nel camino, guardavamo i due amanti, in attesa di una spiegazione.
L’uomo sospirò, e prese la mano della sua compagna.
– Adesso ho tre motivi per ringraziarvi – disse. – Vedete, io sono Lektos Ly.

(26) LA STORIA DI LY



Lektos Ly! Il monarca, il tiranno, l’affamatore del popolo, il violentatore di fanciulle!
Guardai con occhi spalancati l’uomo biondo e la sua cicatrice, poi la donna che gli sedeva accanto, con un’espressione allarmata, e infine i miei compagni, che in verità non mi parevano stupiti quanto la situazione sembrava richiedere.
– Ho saputo della vostra recita a Larissa – iniziò il tiranno. – No, no, non dovete scusarvi – (nessuno, mi pareva, aveva accennato a scusarsi). – Questo è il primo motivo per cui devo ringraziarvi. È stata un’occasione per dimostrare che non tutti a Larissa sono disposti a chinare la testa davanti al nuovo regime. Il nome di Lektos Ly non è solo esecrato e vilipeso, il fango della menzogna non l’ha ancora ricoperto del tutto.
Si andava infervorando.
– Scusatemi. So che le vostre intenzioni erano altre, e non posso certo farvene una colpa. Ho imparato anch’io, e molto in fretta, questa lezione: che chi vive sulla strada non può permettersi di guardare se la mano che gli porge il cibo abbia le unghie curate. Forse un giorno potrò ricompensarvi per il rischio che, mi pare di capire, avete corso a causa dell’azione messa in atto dai miei sostenitori. Oltre, naturalmente, ad aver salvato me e la mia compagna dai sicari dei Dieci, poco fa. Suppongo faccia parte della nobile arte dell’attore riconoscere la vera natura degli uomini sotto le apparenze. Voi avete riconosciuto la nostra e ci avete protetto, e quella dei cavalieri, e li avete mandati su una falsa pista. Sì: erano sicari incaricati dai tiranni di Larissa di cercarci. Per uccidermi, suppongo. E non oso pensare a ciò che avrebbero fatto a mia moglie e alla creatura che...
Prese la mano della donna senza finire la frase.
– Non si accontentano più del mio esilio!
La sua compagna gli lanciò un’occhiata che pareva vagamente di rimprovero. Intuii che volesse dire: non sei davanti a qualche assemblea! Sta di fatto che da quel momento l’esposizione di Lektos Ly divenne un poco meno magniloquente.
Ma ecco, così come la ricordo, la sua storia.
Sono stato Tecnarca di Larissa. Non per mio merito, ma per intrighi altrui. Una comparsa destinata a lasciare la scena poco dopo il levarsi del sipario, giusto il tempo di intrattenere con qualche lazzo gli spettatori, mentre dietro le quinte gli attori veri si disputavano la parte principale. Le grandi famiglie che governano Larissa si erano accordate su di me come male minore, burattino, capro espiatorio se fosse stato necessario. Un animale ammaestrato, ecco cos’ero per loro!
Ly tratteneva a fatica la rabbia. Si era alzato, e solo la mano della sua compagna lo indusse a risedersi.
Sono stato Tecnarca di Larissa per nove anni. Gli attori veri non si aspettavano che durassi tanto a lungo. Ma gli accidenti della fortuna, lo stallo delle forze, il favore del popolo... da burattino a burattinaio.
Come sempre l’esercizio del potere crea nemici. Rancore in chi se l’è visto sfuggire di mano, invidia in chi pensa di possedere meriti superiori, e tante altre sfumature di odio.
Concepii, iniziai ad attuare un piano audace: liberare Larissa dalla cappa soffocante della sue tradizioni, dei patetici rituali che ci rendono oggetto di riso nelle città all’intorno, che ci impediscono di trarre giovamento dalle ricchezze del nostro territorio e dall’ingegno del nostro popolo.
Pensavo di poter iniziare quest’opera dai luoghi stessi del potere, dalla cerchia di persone che mi era più vicina, dai costumi che sovrintendono ai legami di parentela della nobiltà.
Dovete sapere questo: diventando Tecnarca mi ero fidanzato. Poiché non ero sposato, la scelta era stata quasi obbligata. La fanciulla apparteneva ad una delle famiglie che avevano stretto il patto sulla base del quale ero giunto al potere. Costei, in effetti, era solo una nipote acquisita del capo di una delle famiglie in questione: segno della considerazione in cui mi tenevano! Comunque, non devo lamentarmi: fra la nobiltà di Larissa, i matrimoni vengono combinati in funzione delle alleanze politiche. Suppongo accada in molti altri posti.
Ho detto fanciulla, ma dovrei dire bambina. All’epoca del nostro fidanzamento lei aveva otto anni. L’età minima per sposarsi da noi è di quattordici, per le femmine. Per sei anni, dunque, il matrimonio rimase una promessa. Un altro trascorse nell’attesa: se l’età minima è quattordici, il costume l’allunga normalmente di un anno. Nel frattempo, lei era cresciuta: una creatura pallida e fragile, che a fatica si poteva immaginare potesse procreare dei figli. Aveva grandi occhi neri e l’ombra violacea delle vene dietro la pelle color cera. Questo è quanto ricordo di lei. Il suo nome non ha importanza.
Le facevo visita una volta alla settimana. In presenza delle sue dame di compagnia, conversavamo: del tempo, di etichetta, dei colori dei vestiti da indossare durante una caccia alla volpe, e di quelli per una gita in collina a mezza estate.
Tra le sue dame di compagnia...
Ly gettò un’occhiata alla sua donna, che arrossì leggermente.
Avrete compreso. I nostri occhi spesso si incontravano. Il suo saluto, cominciai ad immaginare, era diverso da quello che rivolgeva a chiunque altro. Giunsi ad attendere con ansia quegli incontri con la mia fidanzata!
Ly fece una lunga pausa. Poi riprese bruscamente.
In breve: diventammo amanti. Blanche ed io.
La cosa, inevitabilmente, si riseppe. Questo, di per sé, non era motivo di scandalo. A un Tecnarca, come ad ogni potente, sono consentite delle distrazioni, soprattutto se non ancora sposato, e a patto che ad esse indugi con discrezione.
Ma io e Blanche non eravamo solo amanti. Ci amavamo. E questa, questa era una inconcepibile infrazione all’etichetta!
Blanche rimase incinta. Anche questo si sarebbe potuto accomodare. Una periodo di vacanza in qualche villa di campagna... Le famiglie nobili di Larissa sono piene di bastardi.
Fu a questo punto che concepii il mio piano. Audace, folle, ingenuo: giudicate voi.
La mia politica di riforme mi aveva creato molti nemici, ma anche un seguito di sostenitori entusiasti: mercanti, cadetti, qualche nobile dalle idee aperte, letterati imbevuti di antiche dottrine, popolani che non avevano nulla da perdere. Sfidai il Senato. Ripudiai la mia promessa sposa. Contemporaneamente, proposi leggi innovative, rivoluzionarie: dal condono dei debiti, alla ridistribuzione delle terre. Fidavo nel sostegno di chi mi aveva manifestato simpatia durante gli anni di regno, e del popolo che non poteva non vedere in me un difensore, nello scarso peso familiare della mia ex-fidanzata.
Si sa: gli amici si trovano nella buona sorte, si perdono nella cattiva.
Molti che credevo fidati si tirarono indietro. Alcuni presero le parti dei miei avversari. Pochi mi rimasero fedeli. Perfino lei, la mia promessa sposa, trovò parole eloquenti per accusarmi davanti al senato. Tanto può l’orgoglio ferito; o forse qualcuno le aveva preparato il discorso.
Quanto al popolo, per lo più, rimase a guardare. Mi resi conto che per loro ero solo un nobile come gli altri, forse con idee un po’ bizzarre. Non mi avevano mai capito, né io avevo capito loro, suppongo.
Ecco, la mia storia è già finita.
Alzò le spalle.
Hanno decretato il mio esilio, sotto una qualche accusa di tradimento. I pochi amici che mi sono rimasti sono costretti a muoversi nell’ombra... come nell’occasione del vostro spettacolo. Ed ora si cerca anche la mia morte, temo. E forse quella di...
Non riuscì a continuare, forse per le lacrime, ed abbracciò la sua compagna, Blanche.
Il racconto di Lektos Ly ci lasciò grandemente commossi. Myrtilla aveva gli occhi lucidi. Gertrid abbracciò Blanche. Astrix si lisciava i baffi, e Dumpy Dum era singolarmente taciturno. Baran cercò di rincuorare Ly.
– Se davvero cercano di uccidervi, vuol dire che vi temono. Forse i vostri seguaci sono più numerosi di quanto immaginiate.
Ly sospirò. – Ahimè, non credo. Le famiglie di Larissa sono note per la pertinacia dei loro rancori, e l’acutezza dei loro sospetti.
Quanto a me, meditavo con emozione sul fato straordinario di trovarmi ad assistere ad una tragedia vera, non recitata ma vissuta! C’erano tutti gli ingredienti: scontri di potere, intrighi, amore, tradimento, morte...
Morte?
Guardai Blanche. Il suo viso portava i segni di quella bellezza stanca e tenera che è propria delle donne in attesa del loro primo figlio. Osservai Ly: la bella fronte sfigurata dalla cicatrice, che non ci aveva raccontato come si fosse procurato, e che gli dava un’espressione di fiera tristezza. Forse, pensai, era meglio che la vita non assomigliasse in tutto ad una tragedia. A quali spettatori poteva interessare un matrimonio felice, qualche figlio, una tranquilla vecchiaia, la morte nel proprio letto?
Ma se non parlava della vita, di cosa parlava la tragedia? Forse i suoi personaggi vivevano in un altro universo. In quello del mito, o del sogno, o del palcoscenico.

(27) LA LEZIONE DI BARAN



È possibile che queste riflessioni, o altre analoghe, si fossero presentate anche a Baran. Perché quella sera stessa, dopo avere abbondantemente bevuto, e forse anche per distrarre Ly e la sua compagna da pensieri più tristi, ci intrattenne con alcuni ammaestramenti sul teatro e sulla vita.
Non rammento esattamente come ci arrivò, ma ecco il succo della sua lezione, che, benché opinabile non mi pare del tutto priva di interesse.
Se volete che il pubblico pianga (iniziò Baran), è necessario innanzi tutto che gli attori piangano, e prima di loro chi ha trovato la vicenda. Vi chiederete perché abbia usato la parola “trovato” e non “inventato”. È presto detto: creare storie in realtà è come pescare nel fiume immenso dell’esistenza umana. Poeta è chi sa scegliere l’esca migliore, e il punto esatto della corrente.
Ma cosa pesca il poeta? Parole! Nient’altro che parole!
Questo disse Baran, e lo ripeté il naufrago venuto dal deserto, e se ben ricordate non è molto diverso da ciò che ho detto io, il vostro umile scrivano, all’inizio di questa mia relazione.
Cosa ci mette di suo, allora, il poeta? L’ordine. L’ordine è tutto. Ciò che viene prima e ciò che viene dopo. Il fiume della vita scorre confuso e torbido. Il poeta lo rende limpido, come un torrente di montagna in cui potete contare i sassi del fondo.
Ma l’attore può aggiungere qualcosa alle parole del poeta. Qualcosa di unico e irripetibile. Cosa? So già quello che state pensando: il tono della voce, l’espressione del viso, l’incedere e il gesto. Tutto vero. Ma ciò che più conta, ciò che veramente conta, è altro.
Qui fece una pausa d’effetto.
Il silenzio. Il silenzio fra una parola e l’altra. Ossia, tutto ciò che non può essere scritto. Poiché, dovete sapere, la grandezza si ottiene aggiungendo, ma la perfezione togliendo.
Ma vediamo meglio cosa è quest’ordine di cui parlavo. Un’antica massima dice: simile alla pittura è la poesia, ed io per primo non ho ragione di contestarla. Tutti voi sapete quanta cura dedichi ai costumi di scena e ai fondali, e guai se le lampade non distribuiscono nella maniera più efficace luci ed ombre (qui ammiccò nella mia direzione). Vi chiederete cosa c’entra questo con la poesia propriamente detta, ma era solo per darvi l’idea.
(Se Baran non era molto coerente, dovete ricordare che aveva bevuto un po’. Un po’ più di quanto fosse solito, cioè.)
Ma il silenzio? Ecco, questo la pittura non lo sa riprodurre. Allora, dico io, perché non prendere esempio anche dalla musica? Qualcuno oserebbe negare che la poesia è anche simile alla musica?
Nessuno di noi osò negarlo.
Ma passiamo a quelli che sono i dettami più propri della nostra arte.
Se vogliamo che gli spettatori rimangano fino alla fine della recita, e ricompensino generosamente i nostri sforzi, con applausi, e meglio ancora con monete sonanti, prima cura dell’attore deve essere la ricerca del verosimile. E questa si ottiene osservando i costumi degli uomini, mutevoli a seconda degli anni e delle indoli: quelli del fanciullo che ha appena appreso a parlare e nel giro di pochi momenti passa dal riso al pianto; quelli del giovane ancora imberbe che appena libero dalla sorveglianza dei genitori o del tutore, cerca i piaceri della sfida o dell’amore, pronto ad abbandonare oggi ciò che ieri piaceva. Il fiore dell’età e delle forze virili ricerca onori e ricchezze, amicizie e potere: brame dubbiose, che agitano la vita e lasciano insoddisfatti anche chi le ha raggiunte. Da vecchio infine, assediato da molti affanni, ecco che è timoroso di perdere ciò che ha acquistato, ricorda con nostalgia la sua passata gioventù e condanna i giovani del suo tempo.
Osservare, osservare: questo è il primo impegno dell’attore. Al mercato la servetta che compra verdure, sulla piazza l’incedere di un signorotto, all’osteria i discorsi di un ubriaco, sulla strada un viaggiatore incontrato per caso (qui lanciò un’occhiata a Lektos Ly): tutto questo può suggerirvi come muovere una mano o alzare un sopracciglio nella recita successiva.
I particolari: ecco il segreto dell’artista. In null’altro si distingue il grande attore, o il grande poeta, musicista, pittore, dal mediocre mestierante. Nei particolari si nasconde la divinità.
Soddisfatto di quest’ultima massima, Baran si versò un’abbondante dose di vino e bevve con gusto.
Molti, riprese, si sono chiesti se l’arte del poeta risieda nella dote di un ingegno naturale, oppure nell’attenta cura della propria educazione. A questa domanda, amici miei, vi è una risposta semplice e inutile: in entrambe. E una seconda risposta, complicata e altrettanto inutile: nella giusta misura delle due. La complicazione risiede nel fatto che ciascuno può calcolare a suo modo la giusta misura.
Io seguivo con grande attenzione il discorso di Baran. Approfittai di una pausa per guardarmi intorno. Dumpy Dum, in un angolo, dormiva. Myrtilla cuciva qualcosa. Gertrid pareva immersa in pensieri suoi. Astrix era sparito. Blanche, appoggiata sulla spalla di Lektos Ly, teneva gli occhi chiusi. Soltanto l’ex monarca di Larissa dimostrava la mia stessa attenzione.
– Le vostre parole dimostrano competenza, acume e, cosa più rara di tutte, buon senso – disse l’uomo biondo.
Baran chinò la testa, in segno di modesto assenso.
– Ma vogliate concedermi la grazia di un’ulteriore spiegazione. In che senso avete affermato che le risposte da voi citate sono inutili? Quelle, voglio dire, che riguardano la misura esatta di ingegno ed arte in quel composto ineffabile che è la poesia?
Baran sorrise, come se si fosse atteso la domanda.
– Ineffabile, avete detto bene! E qui è già la vostra risposta. Ma procediamo con ordine. Innanzi tutto, ciascuno dovrà riconoscere che lo studio di norme e dottrine, da solo, non ha mai aiutato alcun poeta a diventare tale: altrimenti accanto alle tante scuole, accademie, collegi, atenei che vantano le nostre nobili terre, ne avremmo anche una, o molte, sospetto, che laurea poeti. Il che non avviene. Al massimo, laureano pedanti commentatori di poeti.
“D’altra parte, si è mai visto un qualsivoglia ingegno illetterato produrre opere degne di memoria? Senza l'attenta e quotidiana familiarità con le opere dei grandi Autori passati? Anche in questo caso la risposta non può che essere negativa, e noi sorridiamo giustamente dei banali e ingenui tentativi di giovani che credono basti essere, o immaginarsi, innamorati per scrivere poesie.
“Dunque, se nessuna delle due qualità da sola consente di raggiungere la vetta, o anche le pendici, di questa ardua montagna che assicura un ricordo più perenne del bronzo, e una terza via non è mai stata suggerita, non ci resta che concludere che la misteriosa essenza di cui andiamo in cerca nasca da una qualche commistione delle due. E fin qui siamo nell’ambito del semplice.
“Il difficile, e l’inutile, arrivano ora. Io vi chiedo – (qui Baran si alzò, per dare maggior enfasi alle sue dichiarazioni. Devo dire che la sua mole oscillava leggermente, ma forse era l’effetto dell’unica candela.) – Forse che qualche poeta, o un adepto in qualsivoglia delle Sette Arti Maggiori, ha mai calcolato prima di accingersi a comporre la proporzione fra ispirazione e istruzione, fra sogno e ragione, fra ciò che gli dicono le sue viscere e ciò che gli consiglia il suo cervello? Nossignore! Si mettesse a calcolare queste cose, non scriverebbe mai un rigo!
Soddisfatto delle sue conclusioni, Baran si permise un piccolo rutto, soffocandolo per rispetto a madama Blanche.
– Ma una volta completata l’opera, essa diventa oggetto pubblico – osservò il falso tiranno.
Baran aggrottò la fronte.
– Voglio dire, diventa oggetto di lettura. Cioè di un esame, più o meno approfondito. In cui non è illegittimo distinguere proporzioni e componenti. Come un esperto di vini sa distinguere l’annata, la qualità, la provenienza, la mescolanza eventuale. – Non so se ci fosse una qualche ironia in questa similitudine, del resto non del tutto appropriata, di Ly.
Baran forse preferì non cogliere l’ironia, ma non si lasciò sfuggire l’inconsistenza dell’argomento.
– Verissimo! Se, come nel caso degli esperti di vini, fosse acquisita la concordanza, e verificabile l’esattezza delle diagnosi. Ma vi è mai capitato di trovare due di questi vostri lettori esperti che vadano d’accordo fra loro? O che vi abbiano mai fornito una riprova delle loro affermazioni?
A questo, Lektos Ly non ebbe nulla da ribattere.
– Tuttavia, riflettere sulle proprie creazioni è prerogativa di questo essere razionale che chiamiamo uomo, e ciò che lo differenzia dagli animali.
Ci crediate o no, questa obiezione fui io ad avanzarla.
Baran mi guardò con accigliato stupore. Poi sorrise.
– Il nostro Arquin è un ragazzo sveglio. Del resto già me n’ero accorto. Lo sapete che conosce ben nove stili di scrittura? Ha studiato.
– E dove, posso chiedere? – volle sapere Lektos Ly.
Questo, con mio grande imbarazzo, mi aveva portato al centro dell’attenzione.
– Qua e là... – farfugliai.
– Arquin legge molto – disse Myrtilla.
– La strada e i libri sono la scuola migliore che esista – sentenziò Baran.
Lusingato da questi complimenti, non insistetti per ottenere una risposta alla mia domanda. Blanche, del resto, dava evidenti segni di stanchezza.
Così, dopo che Baran si fu versato ciò che restava nel boccale, ci disponemmo a dormire.

(28) GYENNA



E infine giungemmo al mare.
Ventre immenso della creazione, utero insaziabile
come dice non so più quale poeta.
Il mare, per me, fu Gyenna.
Gyenna era la città più grande che avessi mai visto, e la più sporca. Da allora ho appreso che tutte le città di mare, quale più quale meno, lo sono. Sporche voglio dire. Vi arrivammo dopo inesauribili ed estenuanti salite e discese, valichi che erano solo preludio a valichi successivi, polvere e sassi. Lungo le salite, tutti a piedi a spingere il carro. Nelle discese, a piedi per impedire che rotolasse giù. Solo Blanche veniva risparmiata.
Ed ecco, dalla cima di un crinale come tanti (nessuno mi aveva avvertito, suppongo per sorprendermi), in un limpido pomeriggio, con un sole arancione quasi davanti agli occhi... il mare.
Ciò che distingue un mare da un deserto, lo dico per voi che non l’avete mai visto, non è l’infinita vicinanza dell’orizzonte, né l’equanime diffondersi della luce. No: è il movimento.
Anche quando il mare è calmo, come lo era quella prima sera che lo vidi dalle montagne, il suo respiro è visibile, come quello di un bambino addormentato. Nella tempesta, il suo ansare è terribile, come antiche divinità che fanno l’amore.
Il deserto è polvere. È morto, non fosse che per il vento che da lontano viene a riscuoterlo.
Questo mi apparve da qual valico di cui ho dimenticato il nome: il respiro del mare, che si rivelava attraverso l’infinitesimo frangersi delle onde. Il respiro della nostra grande madre
Gyenna, adesso. Che è una delle città più belle che abbia mai visto.
Gyenna si protende verso il mare su un lungo promontorio ricurvo, che lo abbraccia quasi tornando su se stesso. Non contenta, Gyenna conficca pali nell’acqua, vi getta sopra pontili e passerelle, su cui poi costruisce stravaganti architetture lignee, che a loro volta cedono il posto a barconi, chiatte, semplici zattere, spesso indissolubilmente unite ai pontili, altre volte ormeggiate come se immaginassero ancora di poter salpare.
Su una di queste prendemmo alloggio.
– Costa meno – spiegò Baran.
La Gyenna acquatica è costruita in legno di ibix. Questo legno, mi informò Baran, ha la proprietà di indurire nell’acqua di mare, assumendo al contempo un colore quasi nero, che alla luce della luna diventa argenteo. Gli spioventi dei tetti sono adorni di draghi intagliati e altri animali fantastici, che hanno lo scopo di tenere lontani gli spiriti maligni.
Lasciammo il carro in un deposito, una cavernosa struttura per metà sulla terra e metà sul mare, che odorava di spezie, pesce affumicato e altre cose che non riconobbi. Baran pagò un ometto dalla carnagione giallastra, seduto in una specie di gabbia sospesa al soffitto, da cui poteva dominare tutto il deposito, o almeno quanto si scorgeva di esso alla luce delle lampade ad olio disposte apparentemente a caso. Il guardiano prese i soldi e restituì la ricevuta mediante un cestino calato con una corda.
Percorremmo pontili e passerelle scricchiolanti. Io mi tenevo in mezzo al gruppo, perché non c’erano balaustre e non sapevo nuotare. Era peggio che camminare sui tetti di Morraine, per me.
Lanterne di vari colori punteggiavano l’intrico dei moli. Porte di locande rovesciavano nella notte luci giallastre e suoni di strumenti. L’aria era gonfia di odori: pesce marcio, frittura, incensi. E la salsedine del mare
Nella notte, si aggiravano marinai e prostitute, viaggiatori e mercanti. Indossavano vestiti dalle fogge più strane, parlavano lingue sconosciute.
Il nostro alloggio si chiamava Sirena australe, e costei era rappresentata piuttosto rozzamente con i seni nudi su un’insegna di legno.
Baran, che era conosciuto all’oste, ordinò una cena di pesce per tutti. Il padrone lo invitò in cucina a scegliere. Li seguii. In una grande cesta posata per terra c’erano gli animali più strani che avessi mai visto in vita mia. Alcuni muovevano ancora le branchie, altri le chele; uno di questi venne afferrato e sventrato dal cuoco; altri, più piccoli, tuffati nell’olio bollente. Baran e l’oste discussero del pesce, della cottura, delle salse. Io osservavo le antenne di una creatura grigia, striata di rosso, e pensai: ecco come doveva essere la Tarma Lunare.
Non avevo mai mangiato pesce di mare, ma il vino, che era fresco, e amarognolo, mi aiutò a comprendere i nuovi sapori.
Dovetti berne un po’ troppo, perché al momento di andare a letto cercai di abbracciare furtivamente Myrtilla, che mi respinse ridendo.
La mattina seguente Lektos Ly ci diede il suo addio. Aveva certi amici, a Gyenna. L’avrebbero fatto partire, insieme a Blanche. Per dove? Oltremare. Non poté o non volle essere più preciso.
Ma prima di lasciarci, consegnò a Baran una lettera con il suo sigillo. – In cambio dei favori che mi avete fatto – disse. – È una lettera di presentazione per il Proto-Archivista di Bejzart XII, Arconte di Argyria.
“Come forse saprete, fra sei mesi inizieranno i festeggiamenti per i duemila anni della fondazione dell’Archìa. Il Proto-Archivista, di nome Gyon Balasco, è un mio... amico. Mi deve dei favori, di cui confido non si sia scordato.”
Un silenzio particolare aveva accolto questa dichiarazione. Dire che restammo con il fiato sospeso è poco. Avessimo potuto sospendere il battito del cuore, l’avremmo fatto.
Per parte mia (qui parla il vostro scrivano e notista) potevo ben crederlo. Poiché anche qui nell’oasi, a migliaia di leghe e di dune, a centinaia di fiumi e di foreste, a decine di montagne e di laghi, e a qualche mare di distanza da Morraine e Larissa e Gyenna, e da tutti i luoghi che il viaggiatore ci aveva nominato delle sue Terre di Mezzo (in mezzo a cosa, poi? Se c’è qualcosa che è in mezzo, è questa oasi nel Grande Deserto), anche qui, dico, è noto il nome di Argyria. Anche se, devo aggiungere, la notizia del bi-millenario ci giugeva del tutto nuova. Del resto, il computo degli anni è quanto mai vario da nazione a nazione.
– Ma certo! – disse Baran, e per la prima volta da che l’avevo conosciuto parlò sotto voce. – Argyria! Ho sentito... tutti abbiamo sentito dei duemila anni di Argyria.
– Durante questo viaggio – riprese Lektos Ly – ho potuto apprezzare i vostri meriti... come persone e come artisti. La vastità del vostro repertorio, la molteplicità della vostra esperienza, la qualità della vostra recitazione vi pongono senz’altro al pari delle migliori compagnie itineranti delle Terre. Sono certo che anche il sovrano di Argyria saprà apprezzare i vostri numerosi meriti, e confido che non sfigurerete in quella celebrazione...
– Ly... – Blanche gli sfiorò un braccio con un sorriso di rimprovero.
– Scusate – disse Ly. – Talvolta dimentico di non essere più... – Fece un gesto vago con la mano.
Baran si alzò e gli strinse la mano, con energia. – Non potremo mai ringraziarvi abbastanza! – Aveva ritrovato la sua voce.
Myrtilla lo baciò su una guancia.
Gertrid abbracciò Blanche. – Vedrai, tutto andrà bene! – le disse. Fui sorpreso di vedere due lacrime agli angoli dei suoi occhi.
– Fra sei mesi, ricordate! – disse Ly. Come se fosse possibile che lo scordassimo. – Ad Argyria.
Lektos Ly strinse la mano anche a me, Blanche mi baciò sulla guancia. Ci furono molte altre espressioni di saluto. Poi l’antico Tecnarca di Larissa e la sua compagna uscirono dalla Sirena Australe, e dalle nostre vite.
Quella sera, dopo aver rappresentato con discreto successo Il Mercante di Qom su una piazza della Vecchia Gyenna (quella di terra) né troppo grande né troppo piccola, e piena per metà, disteso su un letto della Sirena Australe, fra il confortevole russare di Baran e quello di Dumpy Dum, ripensai ad Argyria, terra di favole, di principesse e di cavalieri.
Non so qui da voi, nel deserto, ma nella terra di Mezzo non esiste un computo comune degli anni. Molte città, fra queste anche Morraine, prendono come punto di partenza la loro fondazione, reale o leggendaria che sia.
Alcuni regni o principati si affidano a calcoli dinastici. Le repubbliche preferiscono qualche avvenimento decisivo della loro storia. Molte religioni contano gli anni a partire alla nascita di qualche profeta. Fra certi popoli delle montagne è ancora in uso una numerazione che parte da un dio incarnato della Prima Era; la quantità stravagante degli anni così accumulati è per loro argomento di venerazione, per tutti gli altri testimonianza di inattendibilità. Sull’isola di Kyos, gli indovini il primo giorno dell’anno (che naturalmente non è lo stesso primo giorno di altre isole, o città, o nazioni) traggono gli auspici e assegnano a quell’anno un nome particolare. Il sistema è senza dubbio poco pratico, ma per parte mia ho sempre pensato che sia preferibile nascere secondo un nome che secondo un numero.
Per parte sua, il vostro umile copista può aggiungere che qui, nell’oasi, per trovare il luogo che occupiamo lungo il fiume del tempo, noi consideriamo il corso delle stelle e il loro lentissimo declinare.
Ebbene, fra tutti questi calendari, quando ci si deve accordare fra città, principati, confederazioni e repubbliche per trovare una data di riferimento comune, quello di Argyria viene preferito in quanto il più antico e venerabile.
Ma a parte tutto questo, i miei pensieri ruotavano come pianeti attorno ad un’altra stella (se è vero, come sostengono alcuni astronomi, che sono i pianeti a ruotare attorno alle stelle): questa stella era Lia.
Poiché, se alla festa per i duemila anni di Argyria erano davvero invitati (e chi poteva dubitarne?) i più celebri artisti delle Terre di Mezzo, senza dubbio fra questi non sarebbe mancato Lelius Abramus, con i suo carro pieno di giocolieri, saltimbanchi, pagliacci, eccetera, con i suoi burattini. E Lia.

(29) IL MERCATO



Ci fermammo a Gyenna tre o quattro settimane, non ricordo bene.
Una notte prese a soffiare un vento caldo e umido, da sud. Mi svegliai con un senso di oppressione, come se l’aria non bastasse a riempirmi i polmoni.
Gli altri, Baran e Dumpy Dum, dormivano. Astrix aveva trovato alloggio presso amici, a suo dire. Le donne dormivano in un’altra stanza. Non solo avevamo una stanza per noi uomini, ma anche letti singoli. Gyenna è ricca e usa a ricevere molti viaggiatori: benché a buon mercato, la locanda era la più lussuosa in cui mi fossi mai fermato dall’inizio del viaggio.
I miei compagni producevano i soliti rumori di chi dorme; la casa costruita sull’acqua scricchiolava assecondando le onde. Ma c’era un altro suono che veniva da fuori, indefinibile.
Mi alzai, mi vestii in silenzio. Le stanze davano su un ballatoio. La porta aprendosi cigolò, ma non più forte di quanto facesse normalmente la casa.
Fuori, una luna perfettamente rotonda colava la sua luce sul mare, trasformando in argento fino il legno di ibix e le figure di draghi scolpiti, proprio come aveva detto Baran. Alcune nubi, in alto, riflettevano il rosa pallidissimo di un’alba ancora lontana. Io ricordai un’altra luna piena, sui tetti di Morraine.
Mi guardai intorno. All’estremità del ballatoio, nell’ombra di un tetto vicino, una figura era appoggiata alla balaustra. Piangeva. La scrutai a lungo, mentre i miei occhi si abituavano al buio.
Era Gertrid.
Le nuvole si fecero di un rosa più acceso. Gertrid si asciugò le lacrime, rientrò.
Io richiusi la porta alle mie spalle, raggiunsi le scale in fondo al ballatoio, scesi.
Un ragazzo che avrà avuto la mia età stava accendendo il fuoco, sotto un calderone pieno di acqua.
– Non è presto per la colazione? – chiesi.
– È giorno di mercato. I venditori arrivano di buonora, per prendersi i posti migliori. Viaggiano tutta la notte, per mare e per terra, hanno fame. Da noi naturalmente arrivano quelli di mare.
– Da che parte è il mercato?
Il ragazzo mi guardò come se fossi un po’ stupido.
– Dappertutto. Il mercato della luna è il più grande della costa.
– La luna?
– Si tiene il giorno dopo ogni luna piena.
– E cosa si vende?
– Tutto – disse, e mi voltò le spalle, riprendendo il suo lavoro. Io rimasi lì, senza sapere cosa fare.
Dopo un po’ si voltò. – Hai fame?
– Un po’...
Mi portò delle fette di pane, una ciotola di burro giallo. Quando l’acqua del calderone cominciò a bollire preparò del tè. Aveva un profumo di fiori.
– Tu sei con i comici?
– Sì.
– Cosa reciti?
– Oh... – Mescolai il mio tè. – Questo e quello...
– Hai viaggiato molto?
– Oh, sì... Larissa, Phainon... Morraine.
– Io quando sarò più grande mi imbarcherò. Un giorno avrò una nave tutta mia. – Forse vide il mio sguardo sulla sua camicia unta e sporca di cenere, perché dopo un attimo aggiunse: – Spero...
In quel momento entrò il primo cliente, e il ragazzo andò a servirlo. Dalle finestre filtrava la luce dell’alba.
Io uscii, per la prima volta da solo in una grande città.
Recitare a Gyenna rendeva bene: la gabella di ingresso non era troppo esosa, gli spettacoli sempre discretamente affollati. Oltre agli abitanti della città, che è piuttosto grande, c’erano marinai, viaggiatori, mercanti; dopo settimane, talora mesi, confinati su una nave, cercavano svaghi e divertimento. Che non erano in primo luogo quelli del teatro, ma magari in terzo o quarto sì.
Questo per dire che Gost Baran aveva diviso, per la prima volta da quando mi ero unito al carro dei teatranti, i guadagni. Facendo le parti con grande equità, ossia, in misura decrescente: a Gertrid, ad Astrix, a Dumpy Dum, a Myrtilla, e a me. Il resto se l’era tenuto.
Perciò avevo qualche soldo in tasca, oltre a quelli che mi avevano dato i miei genitori alla partenza da Morraine; e quelli di Occhi di Gatto. Questi ultimi avevo giurato di spenderli solo in caso di estrema necessità: per non morire di fame o per salvare qualche principessa in pericolo mortale, ad esempio.
Preferivo pensare che quella borsa appartenesse al passato.
Uscii, dunque.
La città sull’acqua è un unico molo. Accanto alla Sirena Australe due barche stavano scaricando ceste ricolme di pesci che ancora si muovevano, e balle di tela grigia, dal contenuto misterioso, pesanti, che producevano tonfi sordi sulle tavole di legno bagnato.
Mentre il cielo trapassava ad un’altra sfumatura di blu, io raggiungevo il confine fra le due città. Qui barche e carri si contendevano ogni braccio di spazio. I muli soffiavano dalle narici umide. L’acqua oleosa lavava le conchiglie incise sulle pietre.
Dai moli salivano gradini arrotondati da infiniti piedi. La Gyenna di terra è quasi tutta in salita, per chi viene dal mare.
Sorgevano tendoni, alcuni colorati, la maggior parte grigiastri a causa del sale, della pioggia, della sporcizia. I venditori avevano iniziato ad esporre le loro mercanzie, alcuni per terra, altri su bancarelle costruite con i materiali più vari. Le donne cominciavano ad uscire dalle case per le compere.
Lo sguattero della Sirena Australe aveva detto il vero: al Mercato della Luna di Gyenna si vendeva di tutto: ciò che era lecito e, mi parve di intuire, ciò che non lo era; cose che conoscevo e altre che non avevo mai visto; prodotti della terra, del mare, e dell’artificio umano.
Ed ecco, sotto un arco, appese ad una rastrelliera triangolare: delle maschere. Mi fermai, trattenendo il fiato. Erano maschere di Morraine. Non vere maschere, in verità: solo quelle che noi chiamiamo larve. Non mi era mai venuto in mente che potessero diventare oggetto di commercio, in altre città. A che fine, poi? Come ornamento? Per altre feste, in altri luoghi? Non potevo credere che esistesse un’altra Festa delle Maschere, fuori da Morraine.
Feci un passo avanti, con l’intenzione di chiedere al venditore, poi cambiai bruscamente strada. Ero Arquin, adesso. Non dovevo dimenticarlo.
Prima di allontanarmi, lanciai un’occhiata al venditore: un ometto piccolo, dall’aria malaticcia, del tutto anonimo.
Altri individui, molto più singolari ai miei occhi, attirarono ben presto la mia attenzione: uomini dalla pelle nera e lucida, come se fossero stati immersi nell’olio; indigeni delle Isole Orientali, di cui si scorgevano solo neri occhi a mandorla da una fessura del velo; cinocefali, con diamanti incastonati nei canini sporgenti.
Attorno a me, sentivo parlare lingue che neppure avevo mai immaginatio. Per la prima volta mi rendevo pienamente conto di essere nato in una piccola città.
Col sorgere del sole le spezie emanavano più forti i loro odori, e i venditori avevano cominciato a vantare con alte grida la qualità delle loro merci e la modestia dei loro prezzi. Io soppesavo le monete nella tasca, cercando di decidere cosa comprare.
Un coltello, pensai. Non avevo un coltello, e nella mia nuova vita sulla strada poteva essere utile per mille evenienze, non necessariamente drammatiche.
Un mercante dalla pelle gialla, due lunghi codini di capelli intrecciati con amuleti, il mantello color ocra, aveva appoggiato sui gradini di una salita delle cassette, che su un fondo di velluto nero mostravano file di lame di Njard, di ogni lunghezza e forma, alcune cesellate, le impugnature di legno, osso, cuoio. L’acciaio grigio aveva sfumature di perla e azzurro.

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