Читать онлайн книгу «L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке» автора Габриэле д’Аннунцио

L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке
L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке
L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке
Gabriele D’Annunzio
Lettura classica
Габриэле д’Аннунцио (1863–1938) – небычайно талантливый итальянский поэт и писатель, политик и военный летчик. Его романы «Джованни Эпископо», «Невинный» и «Триумф смерти» били рекорды популярности. Ими зачитывались не только в Италии, но и во Франции и России.
В основу романа «Невинный» лег фрагмент донжуанской биографии д’Аннунцио.
На внешне благоприятном фоне в аристократической итальянской семье между супругами, Туллио и Джулианой, разыгрывается нешуточная психологическая борьба, которая приводит к трагической развязке. Внимательный читатель, несомненно, найдет в тексте романа целый ряд параллелей с творчеством русских классиков, Ф. М. Достоевского и Л. Н. Толстого.
Роман был экранизирован Лукино Висконти.
Произведение печатается без сокращений и адресовано любителям итальянского языка.

Gabriele D'Annunzio / Габриэле д’Аннунцио
L’Innocente / Невинный. Книга для чтения на итальянском языке
Beati immaculati…

© КАРО, 2019

* * *
Andare davanti al giudice, dirgli: “Ho commesso un delitto. Quella povera creatura non sarebbe morta se io non l’avessi uccisa. Io Tullio Hermil, io stesso l’ho uccisa. Ho premeditato l’assassinio, nella mia casa. L’ho compiuto con una perfetta lucidità di conscienza, esattamente, nella massima sicurezza. Poi ho seguitato a vivere col mio segreto nella mia casa, un anno intero, fino ad oggi. Oggi è l’anniversario. Eccomi nelle vostre mani. Ascoltatemi. Giudicatemi”. Posso andare davanti al giudice, posso parlargli così?
Non posso né voglio. La giustizia degli uomini non mi tocca. Nessun tribunale della terra saprebbe giudicarmi.
Eppure bisogna che io mi accusi, che io mi confessi. Bisogna che io riveli il mio segreto a qualcuno.
A CHI?

Il primo ricordo è questo.
Era di aprile. Eravamo in provincia, da alcuni giorni, io e Giuliana e le nostre due bambine Maria e Natalia, per le feste di Pasqua, in casa di mia madre, in una grande e vecchia casa di campagna, detta La Badiola. Correva il settimo anno dal matrimonio.
Ed erano già corsi tre anni da un’altra Pasqua che veramente m’era parsa una festa di perdono, di pace e d’amore, in quella villa bianca e solinga come un monasterio, profumata di violacciocche; quando Natalia, la seconda delle mie figliuole, tentava i primi passi, uscita allora allora dalle fasce come un fiore dall’invoglio, e Giuliana si mostrava per me piena d’indulgenza, sebbene con un sorriso un po’ malinconico. Io era tornato a lei, pentito e sommesso, dopo la prima grave infedeltà. Mia madre, inconsapevole, con le sue care mani aveva posto un ramoscello d’olivo a capo del nostro letto e aveva riempita la piccola acquasantiera d’argento che pendeva dalla parete.
Ma ora, in tre anni, quante cose mutate! Tra me e Giuliana era avvenuto un distacco definitivo, irreparabile. I miei torti verso di lei s’erano andati accumulando. Io l’aveva offesa nei modi più crudeli, senza riguardo, senza ritegno, trascinato dalla mia avidità di piacere, dalla rapidità delle mie passioni, dalla curiosità del mio spirito corrotto. Ero stato l’amante di due tra le sue amiche intime. Avevo passato alcune settimane a Firenze con Teresa Raffo, imprudentemente. Avevo avuto col falso conte Raffo un duello in cui il mio disgraziato avversario s’era coperto di ridicolo, per talune circostanze bizzarre. E nessuna di queste cose era rimasta ignota a Giuliana. Ed ella aveva sofferto, ma con molta fierezza, quasi in silenzio.

C’erano stati pochissimi dialoghi tra noi, e brevi, in proposito; nei quali io non avevo mai mentito, credendo con la mia sincerità diminuire la mia colpa agli occhi di quella dolce e nobile donna che io sapevo intellettuale.
Anche sapevo che ella riconosceva la superiorità della mia intelligenza e che scusava in parte i disordini della mia vita con le teorie speciose da me esposte più d’una volta in presenza di lei a danno delle dottrine morali professate apparentemente dalla maggioranza degli uomini. La certezza di non essere giudicato da lei come un uomo comune alleggeriva nella mia conscienza il peso dei miei errori. “Anch’ella dunque – io pensavo – comprende che, essendo io diverso dagli altri ed avendo un diverso concetto della vita, posso giustamente sottrarmi ai doveri che gli altri vorrebbero impormi, posso giustamente disprezzare l’opinione altrui e vivere nella assoluta sincerità della mia natura eletta.”
Io ero convinto di essere non pure uno spirito eletto ma uno spirito raro; e credevo che la rarità delle mie sensazioni e dei miei sentimenti nobilitasse, distinguesse qualunque mio atto. Orgoglioso e curioso di questa mia rarità, io non sapevo concepire un sacrificio, un’abnegazione di me stesso, come non sapevo rinunciare a un’espressione, a una manifestazione del mio desiderio. Ma in fondo a tutte queste mie sottigliezze non c’era se non un terribile egoismo; poiché, trascurando gli obblighi, io accettavo i benefizi del mio stato.
A poco a poco, infatti, di abuso in abuso, io era giunto a riconquistare la mia primitiva libertà col consenso di Giuliana, senza ipocrisie, senza sotterfugi, senza menzogne degradanti. Io mettevo il mio studio nell’esser leale, a qualunque costo, come altri nel fingere. Cercavo di confermare in tutte le occasioni, tra me e Giuliana, il nuovo patto di fraternità, di amicizia pura. Ella doveva essere la mia sorella, la mia migliore amica.
Una mia sorella, l’unica, Costanza, era morta a nove anni lasciandomi in cuore un rimpianto senza fine. Io pensavo spesso, con una profonda malinconia, a quella piccola anima che non aveva potuto offrirmi il tesoro della sua tenerezza, un tesoro da me sognato inesauribile. Fra tutti gli affetti umani, fra tutti gli amori della terra, quello sororale m’era sempre parso il più alto e il più consolante. Io pensavo spesso alla grande consolazione perduta, con un dolore che la irrevocabilità della morte rendeva quasi mistico. Dove trovare, su la terra, un’altra sorella?

Spontaneamente, questa aspirazione sentimentale si volse verso Giuliana. Sdegnosa di mescolanze, ella aveva già rinunziato ad ogni carezza, a qualunque abbandono. Io già da tempo non provavo più neppur l’ombra d’un turbamento sensuale, standole accanto; sentendo il suo alito, aspirando il suo profumo, guardando il piccolo segno bruno ch’ella aveva sul collo, io rimanevo nella più pura frigidità. Non mi pareva possibile che quella fosse la donna medesima che un giorno io aveva veduto impallidire e mancare sotto la violenza del mio ardore.
Io le offersi dunque la mia fraternità; ed ella accettò, semplicemente. Se ella era triste, io era più triste ancóra, pensando che noi avevamo sepolto il nostro amore per sempre, senza speranza di resurrezione; pensando che le nostre labbra non si sarebbero forse unite mai più, mai più. E, nella cecità del mio egoismo, mi parve che ella dovesse in cuor suo essermi grata di quella mia tristezza che io già sentivo immedicabile, e mi parve che ella dovesse anche esserne paga e consolarsene come d’un riflesso del lontano amore.
Ambedue un tempo avevamo sognato non pur l’amore ma la passione fino alla morte, usque ad mortem. Ambedue avevamo creduto al nostro sogno e avevamo proferito più d’una volta, nell’ebrezza, le due grandi parole illusorie: Sempre! Mai! Avevamo perfino creduto all’affinità della nostra carne, a quell’affinità rarissima e misteriosa che lega due creature umane col tremendo legame del desiderio insaziabile; ci avevamo creduto perché l’acutezza delle nostre sensazioni non era diminuita neppure dopo che, avendo noi procreato un nuovo essere, l’oscuro Genio della specie aveva raggiunto per mezzo di noi il suo unico intento.
L’illusione era caduta; ogni fiamma era spenta. La mia anima (lo giuro) aveva pianto sinceramente su la ruina. Ma come opporsi a un fenomeno necessario? Come evitare l’inevitabile?
Era dunque gran ventura che, morto l’amore per le necessità fatali dei fenomeni e quindi senza colpa di alcuno, noi potessimo ancora vivere nella stessa casa tenuti da un sentimento nuovo, forse non meno profondo dell’antico, certo più elevato e più singolare. Era gran ventura che una nuova illusione potesse succedere all’antica e stabilire tra le nostre anime uno scambio di affetti puri, di commozioni delicate, di squisite tristezze.
Ma, in realtà, questa specie di retorica platonica a qual fine tendeva? Ad ottenere che una vittima si lasciasse sacrificare sorridendo.
In realtà, la nuova vita, non più coniugale ma fraterna, si basava tutta su un presupposto: su l’assoluta abnegazione della sorella. Io riconquistavo la mia libertà, potevo andare in cerca delle sensazioni acute di cui avevano bisogno i miei nervi, potevo appassionarmi per un’altra donna, vivere fuori della mia casa e trovare la sorella ad aspettarmi, trovare nelle mie stanze la traccia visibile delle sue cure, trovare sul mio tavolo in una coppa le rose disposte dalle sue mani, trovare da per tutto l’ordine e l’eleganza e il nitore come in un luogo abitato da una Grazia. Questa mia condizione non era invidiabile? E non era straordinariamente preziosa la donna che consentiva a sacrificarmi la sua giovinezza, paga soltanto di essere baciata con gratitudine e quasi con religione su la fronte altera e dolce?
La mia gratitudine talvolta diveniva così calda che si espandeva in una infinità di delicatezze, di premure affettuose. Io sapevo essere il migliore dei fratelli. Quando ero assente, scrivevo a Giuliana lunghe lettere malinconiche e tenere che spesso partivano insieme con quelle dirette alla mia amante; e la mia amante non avrebbe potuto esserne gelosa, allo stesso modo che non poteva esser gelosa della mia adorazione per la memoria di Costanza.
Ma, sebbene assorto nell’intensità della mia vita particolare, io non sfuggivo alle interrogazioni che di tratto in tratto mi sorgevano dentro. Perché Giuliana persistesse in quella meravigliosa forza di sacrificio, bisognava ch’ella mi amasse d’un sovrano amore; e, amandomi e non potendo essere se non la mia sorella, doveva portar chiusa in sé una disperazione mortale. – Non era dunque un forsennato l’uomo che immolava, senza rimorso, ad altri amori torbidi e vani quella creatura così dolorosamente sorridente, così semplice, così coraggiosa? – Mi ricordo (e la perversione mia di quel tempo mi stupisce) mi ricordo che tra le ragioni che io dissi a me stesso per acquietarmi, questa fu la più forte: “La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati, perché ella avesse occasione d’essere eroica era necessario ch’ella soffrisse quel ch’io le ho fatto soffrire”.
Ma un giorno io m’avvidi ch’ella soffriva anche nella sua salute; m’avvidi che il suo pallore diveniva più cupo e talvolta si empiva come di ombre livide. Più d’una volta sorpresi nella sua faccia le contrazioni d’uno spasimo represso; più d’una volta ella fu assalita, in mia presenza, da un tremito infrenabile che la scoteva tutta e le faceva battere i denti come nel ribrezzo di una febbre subitanea. Una sera, da una stanza lontana mi giunse un grido di lei, lacerante; e io corsi, e la trovai in piedi, addossata a un armario, convulsa, che si torceva come se avesse inghiottito un veleno. Mi afferrò una mano e me la tenne stretta come in una morsa.
– Tullio, Tullio, che cosa orribile! Ah, che cosa orribile!
Ella mi guardava, da presso; teneva fissi nei miei occhi i suoi occhi dilatati, che mi parvero nella penombra straordinariamente larghi. E io vedevo in quei larghi occhi passare, come a onde, la sofferenza sconosciuta; e quello sguardo continuo, intollerabile, mi suscitò d’un tratto un terrore folle. Era di sera, era il crepuscolo, e la finestra era spalancata, e le tende si gonfiavano sbattendo, e una candela ardeva su un tavolo, contro uno specchio; e, non so perché, lo sbattito delle tende, l’agitazione disperata di quella fiammella, che lo specchio pallido rifletteva, presero nel mio spirito un significato sinistro, aumentarono il mio terrore. Il pensiero del veleno mi balenò; e in quell’attimo ella non poté frenare un altro grido; e, fuori di sé per lo spasimo, si gittò sul mio petto perdutamente.
– Oh Tullio, Tullio, aiutami! aiutami!
Agghiacciato dal terrore io rimasi un minuto senza poter proferire una parola, senza poter muovere le braccia.
– Che hai fatto? Che hai fatto? Giuliana! Parla, parla… Che hai fatto?
Sorpresa dalla profonda alterazione della mia voce, ella si ritrasse un poco e mi guardò. Io dovevo avere la faccia più bianca e più sconvolta della sua, perché ella mi disse rapidamente, smarritamente:
– Nulla, nulla. Tullio, non ti spaventare. Non è nulla, vedi… Sono i miei soliti dolori… Sai, è una delle solite crisi… che passano. Càlmati.
Ma io, invasato dal terribile sospetto, dubitai delle sue parole. Mi pareva che tutte le cose intorno a me rivelassero l’avvenimento tragico e che una voce interna mi accertasse: “Per te, per te ha voluto morire. Tu, tu l’hai spinta a morire”. E io le presi le mani e sentii che erano fredde, e vidi scendere dalla sua fronte una goccia di sudore…
– No, no, tu m’inganni, – proruppi – tu m’inganni. Per pietà, Giuliana, anima mia, parla, parla! Dimmi: che hai… Dimmi, per pietà: che hai… bevuto?
E i miei occhi esterrefatti cercarono intorno, su i mobili, sul tappeto, dovunque, un indizio.
Allora ella comprese. Si lasciò cadere di nuovo sul mio petto e disse, rabbrividendo e facendomi rabbrividire, disse con la bocca contro la mia spalla (mai, mai dimenticherò l’accento indefinibile), disse:
– No, no, no, Tullio; no.
Ah, che cosa nell’universo può uguagliare l’accelerazione vertiginosa della nostra vita interiore? Noi rimanemmo in quell’atto, nel mezzo della stanza, muti; e un mondo inconcepibilmente vasto di sentimenti e di pensieri si agitò dentro di me, in un sol punto, con una lucidità spaventevole. “E se fosse stato vero?” chiedeva la voce. “Se fosse stato vero?”
Un sussulto incessante scoteva Giuliana, contro il mio petto; ed ella ancóra teneva celata la faccia; ed io sapeva che ella, pur soffrendo ancóra nella sua povera carne, non ad altro pensava che alla possibilità del fatto da me sospettato, non ad altro pensava che al mio folle terrore. Una domanda mi salì alle labbra: “Hai tu mai avuta la tentazione?” E poi un’altra: “Potrebbe essere che tu cedessi alla tentazione?” Né l’una né l’altra proferii; eppure mi parve ch’ella intendesse. Ambedue oramai eravamo dominati da quel pensiero di morte, da quell’imagine di morte; ambedue eravamo entrati in una specie di esaltazione tragica, dimenticando l’equivoco che l’aveva generata, smarrendo la conscienza della realtà. Ed ella a un tratto si mise a singhiozzare; e il suo pianto chiamò il mio pianto; e mescolammo le nostre lacrime, ahimè! che erano così calde e che non potevano mutare il nostro destino.
Seppi, dopo, che già da alcuni mesi la travagliavano malattie complicate della matrice e dell’ovaia, quelle terribili malattie nascoste che turbano in una donna tutte le funzioni della vita. Il dottore, col quale volli avere un colloquio, mi fece intendere che per un lungo periodo io doveva rinunziare a qualunque contatto con la malata, anche alla più lieve delle carezze; e mi dichiarò che un nuovo parto avrebbe potuto esserle fatale.
Queste cose, pure affliggendomi, mi alleggerirono di due inquietudini: mi persuasero che io non avevo colpa nello sfiorire di Giuliana e mi diedero un modo semplice di poter giustificare davanti a mia madre la separazione di letto e gli altri mutamenti avvenuti nella mia vita domestica. Mia madre appunto era per arrivare a Roma dalla provincia, dove ella, dopo la morte di mio padre, passava la maggior parte dell’anno con mio fratello Federico.
Mia madre amava molto la giovine nuora. Giuliana era veramente per lei la sposa ideale, la compagna sognata pel suo figliuolo. Ella non riconosceva al mondo una donna più bella, più dolce, più nobile di Giuliana. Ella non concepiva che io potessi desiderare altre donne, abbandonarmi in altre braccia, dormire su altri cuori. Essendo stata amata per venti anni da un uomo, sempre con la stessa devozione, con la stessa fede, sino alla morte, ella ignorava la stanchezza, il disgusto, il tradimento, tutte le miserie e tutte le ignominie che si covano nel talamo. Ella ignorava lo strazio che io avevo fatto e facevo di quella cara anima immeritevole. Ingannata dalla dissimulazione generosa di Giuliana, credeva ancóra nella nostra felicità. Guai s’ella avesse saputo!
Io era ancóra in quell’epoca sotto il dominio di Teresa Raffo, della violenta avvelenatrice che mi dava imagine dell’amasia di Menippo. Ricordate? Ricordate le parole di Apollonio a Menippo nel poema inebriante? “O beau jeune homme, tu caresses un serpent; un serpent te caresse!”
Il caso mi favorì. Per la morte d’una zia, Teresa fu costretta ad allontanarsi da Roma e a rimanere assente qualche tempo. Io potei con una insolita assiduità presso mia moglie riempire il gran vuoto che la “Biondissima” partendo lasciava nelle mie giornate. E non era ancóra svanito in me il turbamento di quella sera; e qualche cosa di nuovo, indefinibile, da qualche sera ondeggiava tra me e Giuliana.
Poiché le sofferenze fisiche di lei aumentavano, io e mia madre potemmo con molta fatica ottenere che ella si sottoponesse all’operazione chirurgica richiesta dal suo stato. L’operazione portava per seguito trenta o quaranta giorni di assoluto riposo nel letto e una convalescenza prudente. Già la povera malata aveva i nervi estremamente indeboliti ed irritabili. I preparativi lunghi e fastidiosi la estenuarono e la esasperarono al punto che ella più d’una volta tentò di gittarsi giù dal letto, di ribellarsi, di sottrarsi a quel supplizio brutale che la violava, che l’umiliava, che l’avviliva…
– Di’, – mi chiese un giorno, con la bocca amara – se tu ci pensi, non hai ribrezzo di me? Ah, che brutta cosa!
E fece un atto di disgusto su sé medesima; e s’accigliò, e si ammutolì.
Un altro giorno, mentre io entravo nella sua stanza, ella si accorse che un odore mi aveva ferito. Gridò, fuori di sé, pallida come la sua camicia:
– Vattene, vattene, Tullio. Ti prego! Parti. Ritornerai quando sarò guarita. Se tu rimarrai qui, mi prenderai in odio. Sono odiosa così; sono odiosa… Non mi guardare.
E i singhiozzi la soffocarono. Poi, in quello stesso giorno, dopo qualche ora, mentre io tacevo credendo ch’ella fosse per assopirsi, uscì in queste parole oscure, con l’accento strano di chi parla in sogno:
– Ah, se davvero l’avessi fatto! Era un buon suggerimento…
– Che dici, Giuliana?
Ella non rispose.
– A che pensi, Giuliana?
Non rispose se non con un atto della bocca, che voleva essere un sorriso e non poté.
Mi parve di comprendere. E un’onda tumultuosa di rammarico, di tenerezza e di pietà mi assalse. E tutto avrei dato perché ella avesse potuto leggermi l’anima, in quel momento, perché ella avesse potuto raccogliere intera la mia commozione irrivelabile, inesprimibile e quindi vana. “Perdonami, perdonami. Dimmi quello che io debbo fare perché tu mi perdoni, perché tu dimentichi tutte le cattive cose… Io tornerò a te, non sarò d’altri che di te, per sempre. Te sola veramente io ho amata, nella vita; amo te sola. Sempre la mia anima si volge a te, e ti cerca, e ti rimpiange. Te lo giuro: lontano da te, non ho provato mai nessuna gioia sincera, non ho avuto mai un attimo di pieno oblio; mai, mai: te lo giuro. Tu sola, al mondo, hai la bontà e la dolcezza. Tu sei la più buona e la più dolce creatura che io abbia mai sognata: sei l’Unica. E ho potuto offenderti, ho potuto farti soffrire, ho potuto farti pensare alla morte come a una cosa desiderabile! Ah, tu mi perdonerai, ma io non potrò mai perdonarmi; tu dimenticherai, ma io non dimenticherò. Sempre mi parrà d’essere indegno; neppure con la devozione di tutta la mia vita mi parrà di averti compensata. Da ora innanzi, come un tempo, tu sarai la mia amante, la mia amica, la mia sorella; come un tempo, tu sarai la mia custode, la mia consigliera. Io ti dirò tutto, ti svelerò tutto. Sarai la mia anima. E guarirai. Io, io ti guarirò. Tu vedrai di quali tenerezze io sarò capace per medicarti… Ah, tu le conosci. Ricòrdati! Ricòrdati! Anche allora tu fosti malata e me solo volesti per medicarti; e io non mi mossi mai dai tuo capezzale, né di giorno, né di notte. E tu dicevi: – Sempre Giuliana se ne ricorderà, sempre. – E tu avevi le lacrime negli occhi, e io te le bevevo tremando. – Santa! Santa! – Ricòrdati. E quando ti leverai, quando sarai convalescente, andremo laggiù, torneremo a Villalilla. Tu sarai ancóra un poco debole, ma ti sentirai tanto bene. E io ritroverò la mia gaiezza d’una volta, e ti farò sorridere, ti farò ridere. Tu ritroverai quelle tue belle risa che mi rinfrescavano il cuore; tu ritroverai quelle tue arie di fanciulla deliziose, e porterai ancóra la treccia giù per le spalle come mi piaceva. Siamo giovani. Riconquisteremo la felicità, se tu vorrai. Vivremo, vivremo…” Così, dentro di me, le parlavo; e le parole non uscivano dalle mie labbra. Pur essendo commosso e avendo gli occhi umidi, io sapevo che la commozione era passeggera e che quelle promesse erano fallaci. E anche sapevo che Giuliana non si sarebbe illusa e che mi avrebbe risposto con quel suo tenue sorriso sfiduciato, già altre volte comparsole su le labbra. Quel sorriso significava: “Sì, io so che tu sei buono e che vorresti non farmi soffrire; ma tu non sei padrone di te, non puoi resistere alle fatalità che ti trascinano. Perché vuoi tu che io m’illuda?”
Tacqui, in quel giorno; e nei giorni che seguirono, pur ricadendo più volte nella stessa confusa agitazione di ravvedimenti e di propositi e di sogni vaghi, non osai parlare: “Per tornare a lei, tu devi abbandonare le cose in cui ti compiaci, la donna che ti corrompe. Ne avrai la forza?” Io rispondevo a me stesso: “Chi sa!” E aspettavo di giorno in giorno questa forza che non veniva; aspettavo di giorno in giorno un evento (non sapevo quale) che provocasse la mia risoluzione, che me la rendesse inevitabile. E m’indugiavo a imaginare, a sognare la nostra vita nuova, la lenta rifioritura del nostro amore legittimo, il sapore strano di certe sensazioni rinnovate. “Noi andremmo dunque laggiù, a Villalilla, nella casa che conserva le nostre più belle memorie; e saremmo noi due soltanto, perché lasceremmo Maria e Natalia con mia madre alla Badiola. E la stagione sarebbe mite; e la convalescente si appoggerebbe sempre al mio braccio, pei sentieri conosciuti, dove ogni nostro passo risveglierebbe una memoria. Ed io vedrei di tratto in tratto sul suo pallore diffondersi qualche lieve fiamma subitanea; ed ambedue saremmo, l’uno verso l’altra, un poco timidi; sembreremmo qualche volta pensierosi; eviteremmo qualche volta di guardarci negli occhi. Perché? E un giorno, sentendo più forte la suggestione dei luoghi, io ardirei parlarle delle nostre più folli ebrezze di quei primi tempi. – Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi? – E a poco a poco ambedue sentiremmo in noi il turbamento crescere, divenire insostenibile; e ambedue, nel tempo medesimo, perdutamente, ci stringeremmo, ci baceremmo in bocca, crederemmo venir meno. Ella, ella sì verrebbe meno; e io la sosterrei nelle mie braccia chiamandola con nomi suggeriti da una tenerezza suprema. Ella riaprirebbe gli occhi, leverebbe tutto il velo del suo sguardo, fisserebbe un istante su me la sua stessa anima; mi parrebbe trasfigurata. E così saremmo ripresi dall’antico ardore, rientreremmo nella grande illusione. Ambedue saremmo tenuti da un pensiero unico, assiduo; saremmo agitati da un’ansietà inconfessabile. Io le chiederei tremando: – Sei guarita? – Ed ella dal suono della mia voce comprenderebbe la domanda celata in quella domanda. E risponderebbe, senza potermi nascondere il brivido: – Non ancóra! – E la sera, dividendoci, rientrando nelle nostre stanze separate, ci sentiremmo morire d’angoscia. Ma una mattina, con uno sguardo impreveduto, i suoi occhi mi direbbero: – Oggi, oggi… – Ed ella, paventando quel divino e terribile momento, con qualche pretesto puerile mi sfuggirebbe, protrarrebbe la nostra tortura. Direbbe ella: – Usciamo; usciamo… – Usciremmo: in un pomeriggio velato, tutto bianco, un poco snervante, un poco soffocante. Cammineremmo a fatica. Comincerebbero a cadere, su le nostre mani, sul nostro viso, gocce di pioggia tiepide come lacrime. Io direi, con la voce alterata: – Rientriamo. – E, presso la soglia, all’improvviso, la prenderei su le mie braccia, la sentirei abbandonarsi come esanime, la porterei su per le scale senza avvertire alcun peso. – Dopo tanto! Dopo tanto! – La violenza del desiderio in me attenuata dalla paura di farle male, di strapparle un grido di dolore. – Dopo tanto! – E i nostri esseri, all’urto di una sensazione divina e terrribile, non provata né imaginata mai, si struggerebbero. Ed ella, dodpo, mi parrebbe quasi morente, con la faccia tutta molle di pianto, pallida come il suo guanciale.”
Ah, così me parve, morente mi parve, quella mattina, quando i dottori l’addormentavano col cloroformio ed elle, sentendose sprofondare nell’insensibilità della morte, due o tre volte tentò di alzare le braccia verso di me, tentò di chamarmi. Io uscii dalla stanza, sconvolto; e intravidi i ferri chirurgici, un specie di cuchiaio tagliente, e la garza e il cotone e il ghiaccio e le altre cose preparate su un tavolo. Due lunghe ore, interminabili ore, aspettai, esacerbando la mia sofferenza con l’eccesso delle imaginazioni. E una disperata pietà strinse le mie viscere d’uomo, per quella creatura che i ferri del chirurgo violavano non soltanto nella carne miserabile ma nell’intimo dell’anima, nel sentimento piu delicato che una donna possa custodire: – una pietà per quella e per le altre, agitate da aspirazioni indefinite verso le idealità dell’amore, illuse dal sogno capzioso di cui il desiderio maschile le avvolge, smanianti d’inalzarsi, e così deboli, così malsane, così imperfette, uguagliate alle femmine brute dalle leggi inabolibili della Natura; che impone a loro il diritto della specie, sforza le loro matrici, le travaglia di morbi orrendi, le lascia esposte, a tutte le degenerazioni. E in quella e nelle altre, rabbrividendo per ogni fibra, io vidi allora, con una lucidità spaventevole, vidi la piaga originale, la turpe ferita sempre aperta “che sanguina e che pute”…
Quando rientrai nella stanza di Giuliana, ella era ancóra sotto l’azione dell’anestetico, senza conoscenza, senza parola: ancóra simile a una morente. Mia madre era ancóra pallidissima e convulsa. Ma pareva che l’operazione fosse riuscita bene; i dottori parevano soddisfatti. L’odore del iodoformio impregnava l’aria. In un canto, la monaca inglese empiva di ghiaccio una vescica; l’assistente ravvolgeva una fascia. Le cose tornavano nell’ordine e nella calma, a poco a poco.
L’inferma rimase a lungo in quel sopore; la febbre comparve leggerissima. Nella notte però ella fu presa da spasimi allo stomaco e da un vomito infrenabile. Il laudano non la calmava. E io, fuori di me, allo spettacolo di quello strazio inumano, credendo ch’ella dovesse morire, non so più che dissi, non so più che feci. Agonizzai con lei.
Nel giorno seguente, lo stato dell’inferma migliorò; e poi, di giorno in giorno, andò ancóra migliorando. Le forze lentissimamente tornavano.
Io fui assiduo al capezzale. Mettevo una certa ostentazione nel ricordare a lei, con i miei atti, l’infermiere d’una volta; ma il sentimento era diverso, era sempre fraterno. Spesso io avevo lo spirito preoccupato da qualche frase d’una lettera dell’amante lontana, mentre leggevo a lei qualche pagina d’un libro preferito. L’Assente era indimenticabile. Talora però, quando nel rispondere a una lettera mi sentivo un po’ svogliato e quasi tediato, in certe strane pause che nella lontananza ha anche una passione forte, io credevo questo un indizio di disamore; e ripetevo a me stesso: “Chi sa!”.
Un giorno, mia madre disse a Giuliana, in mia presenza: – Quando ti leverai, quando ti potrai muovere, andremo tutti insieme alla Badiola. Non è vero, Tullio?
Giuliana mi guardò.
– Sì, mamma – risposi, senza esitare, senza riflettere. – Anzi, io e Giuliana andremo a Villalilla.
Ed ella di nuovo mi guardò; e sorrise, d’un sorriso impreveduto, indescrivibile, che aveva una espressione di credulità quasi infantile, che somigliava un poco a quello d’un bambino malato a cui sia fatta una grande insperata promessa. Ed abbassò le palpebre; e continuò a sorridere, con gli occhi socchiusi che vedevano qualche cosa lontana, molto lontana. E il sorriso s’attenuava, s’attenuava, senza estinguersi.
Quanto mi piacque! Come l’adorai, in quel momento! Come sentii che nulla al mondo vale la semplice commozione della bontà!
Una bontà infinita emanava da quella creatura e mi penetrava tutto l’essere, mi colmava il cuore. Ella stava nel letto supina, rialzata da due o tre guanciali; e la sua faccia dall’abondanza dei capelli castagni un poco rilasciati acquistava una finezza estrema, una specie d’immaterialità apparente. Aveva una camicia chiusa intorno al collo, chiusa intorno ai polsi; e le sue mani posavano sul lenzuolo, prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino.
Presi una di quelle mani (mia madre era già uscita dalla stanza); e dissi sottovoce:
– Torneremo dunque… a Villalilla.
La convalescente disse:
– Sì.
E tacemmo, per prolungare la nostra commozione, per conservare la nostra illusione. Sapevamo ambedue il significato profondo che nascondevano quelle poche parole scambiate sottovoce. Un acuto istinto ci avvertiva di non insistere, di non definire, di non andare oltre. Se avessimo parlato ancóra, ci saremmo trovati davanti alle realtà inconciliabili con l’illusione in cui le nostre anime respiravano e a poco a poco s’intorpidivano deliziosamente.
Quel torpore favoriva i sogni, favoriva gli oblii. Passammo un intero pomeriggio quasi sempre soli, leggendo a intervalli, chinandoci insieme su la stessa pagina, seguendo con gli occhi la stessa riga. Avevamo là qualche libro di poesia; e noi davamo ai versi una intensità di significato, che non avevano. Muti, ci parlavamo per la bocca di quel poeta affabile. Io segnavo con l’unghia le strofe che parevano rispondere al mio sentimento non rivelato.
Je veux, guidé par vous, beaux yeux aux flammes douces,
Par toi conduit, ô main où tremblera ma main,
Marcher droit, que ce soit par des sentiers de mousses
Ou que rocs et cailloux encombrent le chemin;
Oui, je veux marcher droit et calme dans la Vie…
Ed ella, dopo aver letto, si riabbandonava per un poco su i guanciali, chiudendo gli occhi, con un sorriso quasi impercettibile.
Toi la bonté, toi le sourire,
N’es tu pas le conseil aussi,
Le bon conseil loyal et brave…
Ma io vedevo sul suo petto la camicia secondare il ritmo del respiro con una mollezza che incominciava a turbarmi come il fievole profumo di ireos esalato dai lenzuoli, e dai guanciali. Desiderai ed aspettai che ella, sorpresa da un subitaneo languore, mi cingesse il collo con un braccio e congiungesse la sua guancia alla mia così ch’io sentissi sfiorarmi dall’angolo della sua bocca. Ella pose l’indice affilato su la pagina e segnò con l’unghia il margine, guidando la mia lettura commossa.
La voix vous fut connue (et chère?)
Mais à présent elle est voilée
Comme une veuve désolée…
Elle dit, la voix reconnue,
Que la bonté c’est notre vie…
Elle parle aussi de la gloire
D’etre simple sans plus attendre,
Et de noces d’or et du tendre
Bonheur d’une paix sans victoire.
Accueillez la voix qui persiste
Dans son naïf épithalame.
Allez, rien n’est meilleur à l’âme
Que de faire une âme moins triste!
Io le presi il polso; e chinando il capo lentamente, fino a porre le labbra nel cavo della sua mano, mormorai:
– Tu… potresti dimenticare?
Ella mi chiuse la bocca, e pronunziò la sua gran parola:
– Silenzio.
Entrò mia madre annunziando la visita della signora Tàlice, in quel punto. Io lessi nel volto di Giuliana il fastidio, e anch’io fui preso da un’irritazione sorda contro l’importuna. Giuliana sospirò:
– Oh mio Dio!
– Dille che Giuliana riposa – io suggerii a mia madre con un accento quasi supplichevole.
Ella mi accennò che la visitatrice aspettava nella stanza contigua. Bisognò riceverla.
Questa signora Tàlice era d’una loquacità maligna e stucchevole. Mi guardava di tratto in tratto con un’aria curiosa. Come mia madre per caso, nel corso della conversazione, disse ch’io tenevo compagnia alla convalescente dalla mattina alla sera quasi di continuo, la signora Tàlice esclamò con un tono d’ironia manifesta, guardandomi:
– Che marito perfetto!
La mia irritazione crebbe così che mi risolsi, con un pretesto qualunque, ad andarmene.
Uscii di casa. Incontrai per le scale Maria e Natalia che tornavano accompagnate dalla governante. Mi assalirono secondo il solito, con un’infinità di moine; e Maria, la maggiore, mi diede alcune lettere che aveva prese dal portiere. Tra queste riconobbi sùbito la lettera dell’Assente. E allora mi sottrassi alle moine, quasi con impazienza. Giunto su la strada, mi soffermai per leggere.
Era una lettera breve ma appassionata, con due o tre frasi d’una eccessiva acutezza, quali sapeva trovare Teresa per agitarmi. Ella mi faceva sapere che sarebbe stata a Firenze tra il 20 e il 25 del mese e che avrebbe voluto incontrarmi là “come l’altra volta”. Mi prometteva notizie più esatte pel convegno.
Tutti i fantasmi delle illusioni e delle commozioni recenti abbandonarono a un tratto il mio spirito, come i fiori d’un albero scosso da una folata gagliarda. E come i fiori caduti sono per l’albero irrecuperabili, così furono per me quelle cose dell’anima: mi divennero estranee. Feci uno sforzo, tentai di raccogliermi; non riuscii a nulla. Mi misi a girare per le strade, senza scopo; entrai da un pasticciere, entrai da un libraio; comprai dolci e libri macchinalmente. Scendeva il crepuscolo; s’accendevano i fanali; i marciapiedi erano affollati; due o tre signore dalle loro carrozze risposero al mio saluto; passò un amico a fianco della sua amante che portava tra le mani un mazzo di rose, camminando presto e parlando e ridendo. Il soffio malefico della vita cittadina m’investì; risuscitò le mie curiosità, le mie cupidigie, le mie invidie. Arricchito in quelle settimane di continenza, il mio sangue ebbe come un’accensione subitanea. Alcune imagini mi balenarono lucidissime dentro. L’Assente mi riafferrò con le parole della sua lettera. E tutto il mio desiderio andò verso di lei, senza freno.
Ma quando il primo tumulto si fu placato, mentre risalivo le scale della mia casa, compresi tutta la gravità di quel che era accaduto, di quel che avevo fatto; compresi che veramente, poche ore prima, avevo riallacciato un legame, avevo obbligata la mia fede, avevo data una promessa, una promessa tacita ma solenne a una creatura ancóra debole e inferma; compresi che non avrei potuto senza infamia ritrarmi. E allora io mi rammaricai di non aver diffidato di quella commozione ingannevole, mi rammaricai di essermi troppo indugiato in quel languore sentimentale! Esaminai minutamente i miei atti e i miei detti di quel giorno, con la fredda sottigliezza d’un mercante subdolo il quale cerchi un appiglio per sottrarsi alla stipulazione di un contratto già concordato. Ah, le mie ultime parole orano state troppo gravi. Quel “Tu… potresti dimenticare?” pronunziato con quell’accento, dopo la lettura di quei versi, aveva avuto il valore di una conferma definitiva. E quel “Silenzio” di Giuliana era stato come un suggello.
“Ma” io pensai “questa volta ha ella proprio creduto al mio ravvedimento? Non è ella stata sempre un poco scettica a riguardo dei miei buoni moti?” E rividi quel suo tenue sorriso sfiduciato, già altre volte comparsole su le labbra. “Se ella dentro di sé non avesse creduto, se anche la sua illusione fosse caduta subitamente, allora forse la mia ritirata non avrebbe molta gravità, non la ferirebbe né la sdegnerebbe troppo; e l’episodio rimarrebbe senza conseguenza, e io rimarrei libero come prima. Villalilla rimarrebbe nel suo sogno.” E rividi l’altro sorriso, il sorriso nuovo, impreveduto, credulo, che le era comparso su le labbra al nome di Villalilla. “Che fare? Che risolvere? Come contenermi?” La lettera di Teresa Raffo mi bruciava forte.
Quando rientrai nella stanza di Giuliana, m’accorsi al primo sguardo che ella mi aspettava. Mi parve lieta, con gli occhi lucidi, con un pallore più animato, più fresco.
– Tullio, dove sei stato? – mi domandò ridendo.
Io risposi:
– Mi ha messo in fuga la signora Tàlice.
Ella seguitò a ridere, d’un limpido riso giovenile che la trasfigurava. Io le porsi i libri e la scatola delle confetture.
– Per me? – esclamò, tutta contenta, come una bambina golosa; e si affrettò ad aprire la scatola, con piccoli gesti di grazia, che risollevavano nel mio spirito lembi di ricordi lontani. – Per me?
Prese un bonbon, fece l’atto di portarlo alla bocca, esitò un poco, lo lasciò ricadere, allontanò la scatola; e disse:
– Poi, poi…
– Sai, Tullio, – m’avvertì mia madre – non ha ancóra mangiato nulla. Ha voluto aspettarti.
– Ah, non t’ho ancóra detto… – proruppe Giuliana, divenuta rosea – non t’ho ancóra detto che c’è stato il dottore, mentre eri fuori. Mi ha trovata molto meglio. Potrò alzarmi giovedì. Capisci, Tullio? Potrò alzarmi giovedì…
Soggiunse:
– Fra dieci, fra quindici giorni al piú, potrò anche mettermi in treno.
Soggiunse, dopo una pausa pensosa, con un tono minore:
– Villalilla!
Ella non aveva dunque pensato ad altro, non aveva sognato altro. Ella aveva creduto; credeva. Io duravo fatica a dissimulare la mia angoscia. Mi occupavo, con soverchia premura, forse, dei preparativi pel suo piccolo pranzo. Io medesimo le misi su le ginocchia la tavoletta. Ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole che mi faceva male. “Ah, se ella potesse indovinare!” D’un tratto, mia madre esclamò, candidamente:
– Come sei bella stasera, Giuliana!
Infatti, un’animazione straordinaria le avvivava le linee del volto, le accendeva gli occhi, la ringiovaniva tutta quanta. All’esclamazione di mia madre, ella arrossì; e un’ombra di quel rossore le rimase per tutta la sera su le gote.
– Giovedì mi alzerò – ripeteva. – Giovedì, fra tre giorni! Non saprò più camminare…
Insisteva col discorso su la sua guarigione, su la nostra partenza prossima. Chiese a mia madre alcune notizie su lo stato attuale della villa, sul giardino.
– Io piantai un ramo di salice vicino alla peschiera, l’ultima volta che ci fummo. Ti ricordi, Tullio? Chi sa se ce lo ritroverò…
– Sì sì, – interruppe mia madre, raggiante – ce lo ritroverai; è cresciuto; è un albero. Domandalo a Federico.
– Davvero? Davvero? Dimmi dunque, mamma…
Pareva che quella piccola particolarità in quel momento avesse per lei un’importanza incalcolabile. Ella divenne loquace. Io mi meravigliavo ch’ella fosse così a dentro nell’illusione, mi meravigliavo ch’ella fosse così trasfigurata dal suo sogno. “Perché, perché questa volta ella ha creduto? Come mai si lascia così trasportare? Chi le dà questa insolita fede?” E il pensiero della mia infamia prossima, forse inevitabile, mi agghiacciava. “Perché inevitabile? Non saprò dunque mai liberarmi? Io debbo, io debbo mantenere la mia promessa. Mia madre è testimone della mia promessa. A qualunque costo, la manterrò.” E con uno sforzo interiore, quasi direi con una scossa della conscienza, io uscii dal tumulto delle incertezze; e mi rivolsi a Giuliana, per un moto dell’anima quasi violento.
Ella mi piacque ancóra, eccitata com’era, vivace, giovine. Mi rammentava la Giuliana d’un tempo, che tante volte in mezzo alla tranquillità della vita familiare io aveva sollevata d’improvviso su le mie braccia, come preso da una follia repentina, e portata di corsa nell’alcova.
– No, no, mamma; non mi far più bere – ella pregò, trattenendo mia madre che le versava il vino. – Già ho bevuto troppo, senza accorgermene. Ah questo Chablis! Ti ricordi, Tullio?
E rise, guardandomi dentro le pupille, nell’evocare il ricordo d’amore su cui ondeggiava il fumo di quel delicato vino amaretto e biondo ch’ella prediligeva.
– Mi ricordo – io risposi.
Ella socchiuse le palpebre, con un leggero tremolio dei cigli. Disse poi:
– Fa caldo qui. È vero? Ho gli orecchi che mi scottano. E si strinse la testa fra le palme, per sentire il bruciore. Il lume, che ardeva a lato del letto, rischiarava intensamente la lunga linea del viso; faceva rilucere tra il folto de’ capelli castagni alcuni fili d’oro chiaro, ove l’orecchio piccolo e fine, acceso alla sommità, traspariva.
A un punto, mentre io aiutavo a sparecchiare (mia madre era uscita, e la cameriera anche, per un momento, e stavano nella stanza attigua), ella chiamò sottovoce:
– Tullio!
E, con un gesto furtivo attirandomi, mi baciò su una gota.
Ora, non doveva ella con quel bacio riprendermi interamente, anima e corpo, per sempre? Quell’atto, in lei così sdegnosa e così fiera, non significava che ella voleva tutto obliare, che aveva già tutto obliato per rivivere con me una vita nuova? Avrebbe potuto ella riabbandonarsi al mio amore con più grazia, con maggior confidenza? La sorella ridiventava l’amante a un tratto. La sorella impeccabile aveva conservato nel sangue, nelle più segrete vene, la memoria delle mie carezze, quella memoria organica delle sensazioni, così viva nella donna e così tenace. Ripensando, quando mi ritrovai solo, ebbi interrottamente alcune visioni di giorni lontani, di sere lontane. “Un crepuscolo di giugno, caldo, tutto roseo, navigato da misteriosi profumi, terribile ai solitarii, a coloro che rimpiangono o che desiderano. Io entro nella stanza. Ella è seduta presso alla finestra, con un libro su le ginocchia, tutta languida, pallidissima, nell’attitudine di chi sia per venir meno. – Giuliana! – Ella si scuote, si risolleva. – Che fai? – Risponde: – Nulla. – E un’alterazione indefinibile, come una violenza di cose soffocate, passa nei suoi occhi troppo neri.” Quante volte, dal giorno della triste rinunzia, ella aveva patito nella sua povera carne quelle torture? Il mio pensiero s’indugiò intorno alle imagini suscitate dal piccolo fatto recente. La singolare eccitazione mostrata da Giuliana mi rammentò certi esempi della sua sensibilità fisica straordinariamente acuta. La malattia, forse, aveva aumentata, esasperata quella sensibilità. Ed io pensai, curioso e perverso, che avrei veduto la debole vita della convalescente ardere e struggersi sotto la mia carezza; e pensai che la voluttà avrebbe avuto quasi un sapore di incesto. “Se ella ne morisse?” pensai. Certe parole del chirurgo mi tornavano alla memoria, sinistre. E, per quella crudeltà che è in fondo a tutti gli uomini sensuali, il pericolo non mi spaventò ma mi attrasse. Io m’indugiai ad esaminare il mio sentimento con quella specie di amara compiacenza, mista di disgusto, che portavo nell’analisi di tutte le manifestazioni interiori le quali mi paressero fornire una prova della malvagità fondamentale umana. “Perché l’uomo ha nella sua natura questa orribile facoltà di godere con maggiore acutezza quando è consapevole di nuocere alla creatura da cui prende il godimento? Perché un germe della tanto esecrata perversione sàdica è in ciascun uomo che ama e che desidera?”
Questi pensieri, più che il primitivo spontaneo sentimento di bontà e di pietà, questi pensieri obliqui mi condussero in quella notte a raffermare il mio proposito in favore della illusa. L’Assente mi avvelenava anche di lontano. Per vincere la resistenza del mio egoismo, ebbi bisogno di contrapporre all’imagine della deliziosa depravazione di quella donna l’imagine di una nuova rarissima depravazione che io mi promettevo di coltivar con lentezza nella onesta securità della mia casa. Allora, con quell’arte quasi direi alchimistica che io aveva nel combinare i varii prodotti del mio spirito, analizzai la serie degli “stati d’animo” speciali in me determinati da Giuliana nelle diverse epoche della nostra vita comune, e ne trassi alcuni elementi i quali mi servirono a construrre un nuovo stato, fittizio, singolarmente adatto ad accrescere l’intensità di quelle sensazioni che io voleva esperimentate. Così, per esempio, allo scopo di rendere più acre quel “sapore d’incesto” che m’attraeva eccitando la mia fantasia scellerata, io cercai di rappresentarmi i momenti in cui più profondo era stato in me il “sentimento fraterno” e più schietta mi era parsa l’attitudine di sorella in Giuliana.
E chi s’indugiava in queste miserabili sottigliezze di maniaco era l’uomo medesimo che poche ore innanzi aveva sentito il suo cuore tremare nella semplice commozione della bontà, al lume di un sorriso impreveduto!
Di tali crisi contradittorie si componeva la sua vita: illogica, frammentaria, incoerente. Erano in lui tendenze d’ogni specie, tutti i possibili contrarii, e tra questi contrarii tutte le gradazioni intermedie e tra quelle tendenze tutte le combinazioni. Secondo il tempo e il luogo, secondo il vario urto delle circostanze, d’un piccolo fatto, d’una parola, secondo influenze interne assai più oscure, il fondo stabile del suo essere si rivestiva di aspetti mutevolissimi, fuggevolissimi, strani. Un suo speciale stato organico rinforzava una sua speciale tendenza; e questa tendenza diveniva un centro di attrazione verso il quale convergevano gli stati e le tendenze direttamente associati; e a poco a poco le associazioni si propagavano. Il suo centro di gravità allora si trovava spostato e la sua personalità diventava un’altra. Silenziose onde di sangue e d’idee facevano fiorire sul fondo stabile del suo essere, a gradi o ad un tratto, anime nuove. Egli era multanime. Insisto su l’episodio perché veramente segna il punto decisivo.
La mattina dopo, al risveglio, non conservavo se non una nozione confusa di quanto era accaduto. La viltà e l’angoscia mi ripresero appena ebbi sotto gli occhi un’altra lettera di Teresa Raffo, con cui ella mi confermava il convegno a Firenze pel 21, dandomi istruzioni precise. Il 21 era sabato, e giovedì 19 Giuliana si levava per la prima volta. Io discussi a lungo, con me stesso, tutte le possibilità. Discutendo, incominciai a transigere. “Sì, non c’è dubbio: è necessaria una rottura, è inevitabile. Ma in che modo io romperò? con quale pretesto? Posso io annunziare il mio proposito a Teresa con una semplice lettera? La mia ultima risposta era ancóra calda di passione, smaniosa di desiderio. Come giustificare questo mutamento subitaneo? Merita la povera amica un colpo tanto inaspettato e brutale? Ella mi ha molto amato, mi ama; ha sfidato per me, un tempo, qualche pericolo. Io l’ho amata… l’amo. La nostra grande e strana passione è conosciuta; invidiata anche; insidiata anche… Quanti uomini ambiscono a succedermi! Innumerevoli.”
Numerai rapidamente i rivali più temibili, i successori più probabili, considerandone le figure imaginate. “C’è forse a Roma una donna più bionda, più affascinante, più desiderabile di lei?” La stessa accensione repentina, avvenuta la sera innanzi nel mio sangue, mi percorse tutte le vene. E il pensiero della rinunzia volontaria mi parve assurdo, inammissibile. “No, no, non avrò mai la forza; non vorrò, non potrò mai.”
Sedata la turbolenza, proseguii il vano dibattito, pur avendo in fondo a me la certezza che, giunta l’ora, non avrei potuto non partire. Ebbi però il coraggio, uscendo dalla stanza della convalescente, essendo ancóra tutto vibrante di commozione, ebbi il supremo coraggio di scrivere a quella che mi chiamava: “Non verrò”. Inventai un pretesto; e, mi ricordo bene, quasi per istinto lo scelsi tale che a lei non sembrasse troppo grave. – Speri dunque che ella non curi il pretesto e t’imponga di partire? – chiese qualcuno dentro di me. Non sfuggii a quel sarcasmo; e un’irritazione e un’ansietà atroci s’impadronirono di me, non mi diedero tregua. Facevo sforzi inauditi per dissimulare, al conspetto di Giuliana e di mia madre. Evitavo studiosamente di trovarmi solo con la povera illusa; e ad ogni tratto mi pareva di leggere nei suoi miti umidi occhi il principio di un dubbio, mi pareva di veder passare qualche ombra su la sua fronte pura. Il giorno di mercoledì ebbi un telegramma imperioso e minaccioso (non era quasi aspettato?): “O tu verrai o non mi vedrai più. Rispondi”. E io risposi: “Verrò”.
Sùbito dopo quell’atto, commesso con quella specie di sovreccitazione inconsciente che accompagna tutti gli atti decisivi della vita, io provai un particolare sollievo, vedendo gli avvenimenti determinarsi. Il senso della mia irresponsabilità, il senso della necessità di ciò che accadeva ed era per accadere divennero in me profondissimi. “Se, pur conoscendo il male che io faccio e pur condannandomi in me medesimo, io non posso fare altrimenti, segno è che obbedisco a una forza superiore ignota. Io sono la vittima di un Destino crudele, ironico ed invincibile.”
Nondimeno, appena misi il piede su la soglia della stanza di Giuliana, sentii piombarmi sul cuore un peso enorme; e mi soffermai, vacillante, fra le portiere che mi nascondevano. “Basterà ch’ella mi guardi per indovinar tutto” pensai smarrito. E fui sul punto di tornare indietro. Ma ella disse, con una voce che non m’era mai parsa tanto dolce:
– Tullio, sei tu?
Allora feci un passo. Ella gridò, vedendomi:
– Tullio, che hai? Ti senti male?
– Una vertigine… M’è passata già – risposi; e mi rassicurai pensando: “Ella non ha indovinato”.
Ella, infatti, era inconsapevole; e a me pareva strano che così fosse. Dovevo io prepararla al colpo brutale? Dovevo parlare sinceramente o architettare qualche menzogna pietosa?
Oppure dovevo partire all’improvviso, senza avvertirla, lasciandole in una lettera la mia confessione? Qual era il modo preferibile per rendere meno grave a me lo sforzo e meno cruda in lei la sorpresa?
Ahimè, nel dibattito difficile, per un tristo istinto io mi preoccupavo d’alleggerir me più di lei. E certo avrei scelto il modo della partenza improvvisa e della lettera, se non mi avesse trattenuto il riguardo per mia madre. Era necessario risparmiare mia madre, sempre, ad ogni patto. Anche questa volta non sfuggii al sarcasmo interiore. “Ah, ad ogni patto? Che cuore generoso! Ma pure, via, è così comodo per te il vecchio patto, ed anche sicuro… Anche questa volta, se tu vorrai, la vittima si sforzerà di sorridere sentendosi morire. Confida in lei, dunque, e non ti curare d’altro, cuore generoso.”
L’uomo trova nel sincero e supremo disprezzo di sé medesimo qualche volta, veramente, una particolare gioia.
– A che pensi, Tullio? – mi domandò Giuliana, con un gesto ingenuo appuntandomi l’indice tra l’uno e l’altro sopracciglio come per fermare il pensiero.
Io le presi quella mano, senza rispondere. E il silenzio stesso, che parve grave, bastò a modificare di nuovo l’attitudine del mio spirito; la dolcezza che era nella voce e nel gesto della inconsapevole mi ammollì, mi suscitò quel sentimento snervante da cui hanno origine le lacrime; che si chiama pietà di sé. Provai un acuto bisogno d’essere compassionato. Nel tempo medesimo qualcuno mi suggeriva dentro: “Approfitta di questa disposizione d’animo, senza fare per ora alcuna rivelazione. Esagerandola, tu puoi facilmente giungere fino al pianto. Tu sai bene che straordinario effetto abbia su una donna il pianto dell’uomo amato. Giuliana ne sarà sconvolta; e tu sembrerai essere travagliato da un dolore terribile. Domani poi, quando tu le dirai la verità, il ricordo delle lacrime ti rialzerà nell’animo di lei. Ella potrà pensare: – Ah, dunque per questo ieri piangeva così dirottamente. Povero amico! – E tu non sarai giudicato un egoista odioso; ma sembrerai aver combattuto con tutte le tue forze invano contro chi sa qual potere funesto; sembrerai essere tenuto chi sa da quale morbo immedicabile e portare nel tuo petto un cuore lacerato. Approfitta, dunque, approfitta”.
– Hai qualche cosa sul cuore? – mi domandò Giuliana, con una voce sommessa, carezzevole, piena di confidenza.
Io tenevo il capo chino; ed ero, certo, commosso. Ma la preparazione di quel pianto utile distrasse il mio sentimento, ne arrestò la spontaneità e ritardò quindi il fenomeno fisiologico delle lacrime. “Se io non potessi piangere? Se non mi venissero le lacrime?” pensai con uno sgomento ridicolo e puerile, come se tutto dipendesse da quel piccolo fatto materiale che la mia volontà non bastava a produrre. E intanto qualcuno, sempre il medesimo, soffiava: “Che peccato! Che peccato! L’ora non potrebbe essere più favorevole. Nella stanza ci si vede appena. Che effetto, un singhiozzo nell’ombra!”.
– Tullio, non mi rispondi? – soggiunse Giuliana, dopo un intervallo, passandomi la mano su la fronte e su i capelli perché io alzassi la faccia. – A me tu puoi dire tutto. Lo sai.
Ah, veramente, dopo d’allora io non ho mai più udita una voce umana di quella dolcezza. Neppure mia madre ha mai saputo parlarmi così.
Gli occhi mi si inumidirono, e io sentii tra i cigli il tepore del pianto. “Questo, questo è il momento di prorompere.” Ma non fu se non una lacrima; e io (umiliante cosa ma pur vera; e in simili meschinità mimiche si rimpicciolisce la maggior parte delle commozioni umane nel manifestarsi) io alzai il viso perché Giuliana la scorgesse e provai per qualche attimo un’ansietà smaniosa temendo che nell’ombra ella non la scorgesse luccicare. Quasi per avvertirla, ritirai il fiato in dentro, forte, come si fa quando si vuol contenere un singhiozzo. Ed ella avvicinando il suo volto al mio per guardarmi da presso, poiché rimanevo muto, ripeté:
– Non rispondi?
E intravide; e, per accertarsi, mi afferrò la testa e me l’arrovesciò, con un gesto quasi brusco.
– Piangi?
La sua voce era mutata.
E io mi liberai all’improvviso, mi levai per fuggire, come uno che non possa più reggere la piena dell’affanno.
– Addio, addio. Lasciami andare, Giuliana. Addio.
E uscii dalla stanza, a precipizio.
Quando fui solo, ebbi disgusto di me.
Era la vigilia d’una solennità per la convalescente. Qualche ora dopo, come mi ripresentai a lei per assistere al piccolo pranzo consueto, la ritrovai in compagnia di mia madre. Appena mi vide, mia madre esclamò:
– Dunque domani, Tullio, giorno di festa.
Io e Giuliana ci guardammo, ambedue ansiosi. Poi parlammo del domani, dell’ora in cui ella avrebbe potuto alzarsi, di tante minute particolarità, con un certo sforzo, un poco distratti. E io m’auguravo, dentro di me, che mia madre non si assentasse.
Ebbi fortuna, perché una sola volta mia madre uscì e rientrò quasi sùbito. Nel frattempo, Giuliana rapidamente mi chiese:
– Che avevi, dianzi? Non me lo vuoi dire?
– Nulla, nulla.
– Vedi, così tu mi guasti la festa.
– No, no. Ti dirò… ti dirò… poi. Non ci pensare, ora; ti prego.
– Sii buono!
Mia madre rientrava con Maria e Natalia. Ma l’accento con cui Giuliana aveva proferito quelle poche parole bastò per convincermi che ella non sospettava la verità. Pensava ella forse che quella tristezza mi venisse da un’ombra del mio passato incancellabile e inespiabile? Pensava che io fossi torturato dal rammarico di averle fatto tanto male e dal timore di non meritare tutto il suo perdono?
Fu ancóra una commozione viva, la mattina dopo (per compiacere il desiderio di lei aspettavo nella stanza prossima), quando mi sentii chiamare dalla sua voce squillante.
– Tullio, vieni.
Ed entrai; e la vidi in piedi, che sembrava più alta, più snella, quasi fragile. Vestita d’una specie di tunica ampia e fluida, a lunghe pieghe diritte, ella sorrideva, esitando, reggendosi appena, tenendo le braccia discoste dai fianchi come per cercare l’equilibrio, volgendosi ora a me ora a mia madre.
Mia madre la guardava con una indescrivibile espressione di tenerezza, pronta a sorreggerla. Io stesso tendevo le mani, pronto a sorreggerla.
– No, no, – ella pregò – lasciatemi, lasciatemi. Non cado. Voglio andare da me fino alla poltrona.
Ella avanzò il piede, fece un passo, pianamente. Aveva nel viso il candore d’una gioia infantile.
– Bada, Giuliana!
Fece ancóra due o tre passi; poi, assalita da uno sbigottimento repentino, dal timor pànico di cadere, esitò un attimo tra me e mia madre, e si gittò nelle mie braccia, sul mio petto, abbandonandosi con tutto il suo peso, sussultando come se singhiozzasse. Ella rideva, invece, un poco soffocata dall’ansia; e, come ella non portava busto, le mie mani la sentirono tutta esile e pieghevole a traverso la stoffa, il mio petto la sentì tutta palpitante e morbida, le mie nari aspirarono il profumo dei suoi capelli, i miei occhi rividero sul suo collo il piccolo segno bruno.
– Ho avuto paura – ella diceva interrottamente, ridendo e ansando – ho avuto paura di cadere.
E, come ella arrovesciava la testa verso mia madre per guardarla, senza staccarsi da me, io scorsi un poco della sua gengiva esangue e il bianco degli occhi e qualche cosa di convulso in tutto il viso. E conobbi che tenevo fra le braccia una povera creatura inferma, profondamente alterata dall’infermità, con i nervi indeboliti, con le vene impoverite, forse insanabile. Ma ripensai la sua trasfigurazione in quella sera del bacio inaspettato; e l’opera di carità e d’amore e d’ammenda, a cui rinunziavo, ancóra una volta m’apparve bellissima.
– Conducimi tu alla poltrona, Tullio – ella diceva.
Sostenendola col mio braccio alle reni, io la condussi piano piano; l’aiutai ad adagiarsi; disposi su la spalliera i cuscini di piume, e mi ricordo che scelsi quello di tono più squisito perché ella vi appoggiasse la testa. Anche, per metterle un cuscino sotto i piedi, m’inginocchiai; e vidi la sua calza di colore gridellino, la sua pianella esigua che nascondeva poco più del pollice. Come in quella sera, ella seguiva tutti i miei movimenti con uno sguardo carezzevole. E io m’indugiavo. Accostai un piccolo tavolo da tè, sopra ci posai un vaso di fiori freschi, qualche libro, una stecca d’avorio. Senza volere, mettevo in quelle mie premure un po’ di ostentazione.
L’ironia ricominciò. “Molto abile! Molto abile! È utilissimo quel che fai, sotto gli occhi di tua madre. Come potrà ella sospettare, dopo avere assistito a queste tue tenerezze? Quel po’ di ostentazione, anche, non guasta. Ella non ha la vista troppo acuta. Séguita, séguita. Tutto va a meraviglia. Coraggio!”
– Oh come si sta bene qui! – esclamò Giuliana con un sospiro di sollievo, socchiudendo i cigli. – Grazie, Tullio.
Qualche minuto dopo, quando mia madre uscì quando rimanemmo soli, ella ripeté, con un sentimento più profondo:
– Grazie.
E alzò una mano verso di me, perché io la prendessi nelle mie. Essendo ampia la manica, nel gesto il braccio si scoperse fin quasi al gomito. E quella mano bianca e fedele, che portava l’amore, e l’indulgenza, la pace, il sogno, l’oblio, tutte le cose belle e tutte le cose buone, tremò un istante nell’aria verso di me come per l’offerta suprema.
Credo che nell’ora della morte, nell’attimo stesso in cui cesserò di soffrire, io rivedrò quel gesto solo; fra tutte le imagini della vita passata innumerabili, rivedrò unicamente quel gesto.
Quando ripenso, non riesco a ricostruire con esattezza la condizione nella quale mi trovai. Posso affermare che anche allora io comprendevo l’estrema gravità del momento e lo straordinario valore degli atti che si compivano ed erano per compiersi. La mia perspicacia era, o mi pareva, perfetta. Due processi di conscienza si svolgevano dentro di me, senza confondersi, bene distinti, paralleli. In uno predominava, insieme con la pietà verso la creatura che io stava per colpire, un sentimento di acuto rammarico verso l’offerta ch’io stava per respingere. Nell’altro predominava, insieme con la cupa bramosia verso l’amante lontana, un sentimento egoistico esercitato nel freddo esame delle circostanze che potevano favorire, la mia impunità. Questo parallelismo portava la mia vita interna ad una intensità e ad una accelerazione incredibili.
Il momento decisivo era venuto. Dovendo partire al domani, non potevo temporeggiare più oltre. Perché la cosa non sembrasse oscura e troppo subitanea, era necessario in quella mattina stessa, a colazione, annunziare la partenza a mia madre e addurre il pretesto plausibile. Era necessario anche, prima che a mia madre, dare l’annunzio a Giuliana perché non accadessero contrattempi pericolosi. “E se Giuliana prorompesse, alfine? Se, nell’impeto del dolore e dello sdegno, ella rivelasse a mia madre la verità? Come ottenere da lei una promessa di silenzio, un nuovo atto di abnegazione?” Fino all’ultimo io discussi, dentro di me. “Comprenderà sùbito, alla prima parola? E se non comprendesse? Se ingenuamente mi chiedesse la ragione del mio viaggio? Come risponderei? Ma ella comprenderà. È impossibile che ella non abbia già saputo da qualcuna delle sue amiche, da quella signora Tàlice, per esempio, che Teresa Raffo non è a Roma.”
Le mie forze cominciavano già a cedere. Non avrei potuto più a lungo sostenere l’orgasmo che cresceva di minuto in minuto. Mi risolsi, con una tensione di tutti i miei nervi; e, poiché ella parlava, desiderai che ella medesima mi offrisse l’opportunità di scoccare la freccia.
Ella parlava di molte cose specialmente future, con una volubilità insolita. Quel non so che di convulso in lei, già da me notato prima, mi pareva più palese. Io stavo ancóra in piedi, dietro la poltrona. Fino a quel momento avevo evitato il suo sguardo movendomi ad arte per la stanza, sempre dietro la poltrona, ora occupato a fermare le tende della finestra, ora a riordinare i libri nella piccola scansia, ora a raccogliere di sul tappeto le foglie cadute da un mazzo di rose disfatto. Stando in piedi, guardavo la riga dei suoi capelli, i suoi cigli lunghi e ricurvi, la lieve palpitazione del suo petto, e le sue mani, le sue belle mani che posavano su i bracciuoli, prone come in quel giorno, pallide come in quel giorno quando “soltanto le vene azzurre le distinguevano dal lino”.
Quel giorno! Non era trascorsa neppure una settimana. Perché pareva dunque tanto remoto?
Stando in piedi dietro di lei, in quella tensione estrema, come in agguato, io pensai che forse ella sentiva per istinto sul suo capo la minaccia; e credetti indovinare in lei una specie di vago malessere. Ancóra una volta mi si strinse il cuore, intollerabilmente.
A un punto, infine, ella disse:
– Domani, se starò meglio, tu mi porterai su la terrazza, all’aria…
Io interruppi:
– Domani non sarò qui.
Ella si scosse al suono strano della mia voce. Io soggiunsi, senza attendere:
– Partirò.
Soggiunsi ancóra, con uno sforzo per snodare la lingua, raccapricciato come uno che debba iterare il colpo per finire la vittima:
– Partirò per Firenze.
– Ah!
Ella aveva compreso a un tratto. Si volse con un moto rapido, si torse tutta su i cuscini per guardarmi; e io rividi, per quella torsione violenta, il bianco de’ suoi occhi, la sua gengiva esangue.
– Giuliana! – balbettai, senza sapere che altro dirle, chinandomi verso di lei, temendo ch’ella venisse meno.
Ma ella abbassò le palpebre, si ricompose, si ritrasse, si restrinse in sé stessa, come presa da un gran freddo. Rimase così qualche minuto, con gli occhi chiusi, con la bocca serrata, immobile. Soltanto la pulsazione visibile della carotide nel collo e qualche contrazione convulsiva nelle mani davano indizio della vita.
Non fu un delitto? Fu il primo dei miei delitti; e non il minore, forse.
Partii, in condizioni terribili. La mia assenza durò più di una settimana. Quando tornai e nei giorni che seguirono il mio ritorno, io stesso mi meravigliavo della mia sfrontatezza quasi cinica. Ero posseduto da una specie di malefizio che aboliva in me ogni senso morale e mi rendeva capace delle peggiori ingiustizie, delle peggiori crudeltà. Giuliana anche questa volta mostrava una forza prodigiosa; anche questa volta aveva saputo tacere. E m’appariva chiusa nel suo silenzio come in un’armatura adamantina, impenetrabile.
Andò con le figlie e con mia madre alla Badiola. Le accompagnava mio fratello. Io rimasi a Roma.
Da quel tempo incominciò per me un periodo tristissimo, oscurissimo, il cui ricordo ancóra mi riempie di nausea e d’umiliazione. Tenuto da quel sentimento che meglio di ogni altro rimescola il fango essenziale nell’uomo, io patii tutto lo strazio che una donna può fare di un’anima fiacca, appassionata e sempre vigile. Accesa da un sospetto, una terribile gelosia sensuale divampò in me disseccando tutte le buone fonti interiori, alimentandosi di tutto il fecciume che posava nell’infimo della mia sostanza bruta.
Teresa Raffo non m’era parsa mai desiderabile come ora che non potevo disgiungerla da una imagine fallica, da una sozzura. Ed ella si valeva del mio stesso disprezzo per inacerbire la mia brama. Agonie atroci, gioie abiette, sottomissioni disonoranti, patti vili proposti ed accettati senza rossore, lacrime più acri di qualunque tossico, frenesie improvvise che mi spingevano sul confine della demenza, cadute nell’abisso della lussuria così violente che mi lasciavano per lunghi giorni istupidito, tutte le miserie e tutte le ignominie della passione carnale esasperata dalla gelosia, tutte io le conobbi. La mia casa mi divenne estranea; la presenza di Giuliana mi divenne incresciosa. Intere settimane passavano, talvolta, senza che io le rivolgessi una parola. Assorto nel mio supplizio interiore, io non la vedevo, non la udivo. In certi momenti, levando gli occhi su lei, mi meravigliavo del suo pallore, della sua espressione, di certe particolarità del suo volto, come di cose nuove, inaspettate, strane; e non giungevo a riconquistare intera la nozione della realtà. Tutti gli atti della sua esistenza m’erano ignoti. Io non provavo alcun bisogno d’interrogarla, di sapere; non provavo per lei alcuna inquietudine, alcuna sollecitudine, alcun timore. Una durezza inesplicabile mi fasciava l’anima contro di lei. Anche, talvolta, io avevo contro di lei una specie di vago rancore, inesplicabile. Un giorno la sentii ridere; e il suo riso m’irritò, mi fece quasi ira.
Un altro giorno palpitai forte, udendola cantare da una stanza lontana. Cantava l’aria di Orfeo:
Che farò senza Euridice?…
Era la prima volta, dopo lungo tempo, che ella cantava così, movendosi per la casa; era la prima volta che io la riudiva, dopo lunghissimo tempo. – Perché cantava? Era dunque lieta? A quale affetto del suo animo rispondeva quell’effusione insolita? – Un turbamento inesplicabile mi vinse. Andai verso di lei senza riflettere, chiamandola per nome.
Vedendomi entrare nella sua stanza, ella si stupì; rimase per un poco attonita, in una sospensione manifesta.
– Canti? – io dissi, per dire qualche cosa, impacciato, meravigliato io stesso del mio atto straordinario.
Ella sorrise d’un sorriso incerto, non sapendo che rispondere, non sapendo quale contegno assumere davanti a me. E mi parve di leggere nei suoi occhi una curiosità penosa, già altre volte da me notata fuggevolmente: quella curiosità compassionevole con cui si guarda una persona sospettata di follia, un ossesso. Infatti, nello specchio di contro io scorsi la mia imagine; rividi il mio volto scarno, le mie occhiaie profonde, la mia bocca tumida, quell’aspetto di febricitante che avevo già da qualche mese.
– Ti vestivi per uscire? – le domandai, ancóra impacciato, quasi peritoso, non sapendo che altro dimandare, volendo evitare il silenzio.
– Sì.
Era di mattina; era di novembre. Ella stava in piedi, presso a un tavolo ornato di merletti su cui rilucevano sparse le innumerevoli minuterie moderne destinate alla cura della bellezza muliebre. Portava un abito di vigogna oscuro; e teneva ancóra in mano un pettine di tartaruga bionda con la costola d’argento. L’abito, di foggia semplicissima, secondava la svelta eleganza della persona. Un gran mazzo di crisantemi bianchi le saliva di sul tavolo all’altezza della spalla. Il sole dell’estate di San Martino scendeva per la finestra; e nella luce vagava un profumo di cipria o d’essenza che io non seppi riconoscere.
– Qual è, ora, il tuo profumo? – le domandai.
Ella rispose:
– Crab-apple.
Io soggiunsi:
– Mi piace.
Ella prese di sul tavolo una fiala e me la porse. E io la fiutai a lungo per fare qualche cosa, per avere il tempo di preparare un’altra qualunque frase. Non riuscivo a dissipare la mia confusione, a riconquistare la mia franchezza. Sentivo che ogni intimità fra noi due era caduta. Ella mi pareva un’altra donna. E intanto l’aria di Orfeo mi ondeggiava ancóra su l’anima, m’inquietava ancóra.
Che farò senza Euridice?…
In quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli oggetti improntati di grazia feminile, il fantasma della melodia antica pareva svegliare il palpito d’una vita segreta, spandere l’ombra d’un non so che mistero.
– Com’è bella l’aria che tu cantavi dianzi! – io dissi, obbedendo all’impulso che mi veniva dalla strana inquietudine.
– Tanto bella! – ella esclamò.
E una domanda mi saliva alle labbra: “Ma perché cantavi?”. La trattenni; e ricercai dentro di me la ragione di quella curiosità che mi pungeva.
Successe un intervallo di silenzio. Ella scorreva con l’unghia del pollice su i denti del pettine, producendo un leggero stridore. (Quello stridore è una particolarità chiarissima nel mio ricordo).
– Tu ti vestivi per uscire. Séguita dunque – io dissi.
– Non ho da mettermi che la giacca e il cappello. Che ora è?
– Manca un quarto alle undici.
– Ah, già così tardi?
Ella prese il cappello e il velo; e si mise a sedere davanti allo specchio. Io la guardavo. Un’altra domanda mi salì alle labbra: “Dove vai?”. Ma trattenni anche questa, benché potesse sembrare naturale. E seguitai a guardarla attento.
Ella mi riapparve quale era in realtà: una giovine signora elegantissima, una dolce e nobile figura, piena di finezze fisiche, e illuminata da intense espressioni spirituali; una signora adorabile, insomma, che avrebbe potuto essere un’amante deliziosa per la carne e per lo spirito. “S’ella fosse veramente l’amante di qualcuno?” allora pensai. “Certo è impossibile ch’ella non sia stata molte volte insidiata e da molti. Troppo è noto l’abbandono in cui la lascio; troppo son noti i miei torti. S’ella avesse ceduto a qualcuno? O se anche stesse per cedere? S’ella giudicasse alfine inutile e ingiusto il sacrificio della sua giovinezza? S’ella fosse alfine stanca della lunga abnegazione? S’ella conoscesse un uomo a me superiore, un seduttore delicato e profondo che le insegnasse la curiosità del nuovo e le facesse dimenticare l’infedele? Se io avessi già perduto interamente il suo cuore, troppe volte calpestato senza pietà e senza rimorso?” Uno sgomento subitaneo m’invase; e la stretta dell’angoscia fu così forte che io pensai: “Ecco, ora le confesso il mio dubbio. La guarderò in fondo, alle pupille dicendole – Sei ancóra pura? E saprò la verità. Ella non e capace di mentire”. “Non e capace di mentire. Ah, ah, ah! Una donna!… Che ne sai tu? Una donna è capace di tutto. Ricordatene. Qualche volta un gran manto eroico è servito a nascondere una mezza dozzina di amanti. Sacrificio! Abnegazione! Apparenze, parole. Chi potrà mai conoscere il vero? Giura, se puoi, su la fedeltà di tua moglie: non dico su quella d’oggi ma soltanto su quella anteriore all’episodio della malattia. Giura in perfetta fede, se puoi.” E la voce maligna (ah, Teresa Raffo, come operava il vostro veleno!), la voce perfida mi agghiacciò.
– Abbi pazienza, Tullio, – mi disse, quasi timidamente, Giuliana. – Mettimi questo spillo qui, nel velo.
Ella teneva le braccia alzate e arcuate verso la sommità della testa, per fermare il velo; e le sue dita bianche cercavano invano d’appuntarlo. La sua attitudine era piena di grazia. Le sue dita bianche mi fecero pensare: “Quanto tempo è che noi non ci stringiamo la mano! Oh le forti e calde strette di mano che ella mi dava un tempo, come per assicurarmi che non mi serbava rancore di nessuna offesa! Ora forse la sua mano è impura?” E, mentre le appuntavo il velo, provai una repulsione istantanea al pensiero della possibile impurità.
Ella si levò, e io l’aiutai anche a indossare la giacca. Due o tre volte i nostri occhi s’incontrarono fugacemente; ma ancóra una volta io lessi nei suoi una specie di curiosità inquieta. Ella forse domandava a sé stessa. “Perché è entrato qui? Perché si trattiene? Che significa quella sua aria smarrita? Che vuole da me? Che gli accade?”
– Permetti… un momento – disse, e uscì dalla stanza.
L’udii che chiamava Miss Edith, la governante. Come fui solo, involontariamente i miei occhi andarono alla piccola scrivania ingombra di lettere, di biglietti, di libri. M’avvicinai; e i miei occhi vagarono per un poco su le carte, come tentati di scoprire… “che cosa? forse la prova?”. Ma scossi da me la tentazione bassa e sciocca. Guardai un libro che aveva una coperta di stoffa antica e tra le pagine una daghetta. Era il libro in lettura, sfogliato a metà. Era il romanzo recentissimo di Filippo Arborio, Il Segreto. Lessi sul frontespizio una dedica, di pugno dell’autore: – A voi, Giuliana Hermil, TVRRIS EBVRNEA, indegnamente offro. F. Arborio. Ognissanti ‘85.
Giuliana dunque conosceva il romanziere? Quale attitudine aveva lo spirito di Giuliana verso colui? Ed evocai la figura fine e seducente dello scrittore, quale io l’aveva veduta in luoghi publici qualche volta. Certo, egli poteva piacere a Giuliana. Secondo alcune voci che erano corse, egli piaceva alle donne. I suoi romanzi, pieni d’una psicologia complicata, talora acutissima, spesso falsa, turbavano le anime sentimentali, accendevano le fantasie inquiete, insegnavano con suprema eleganza il disdegno della vita comune. Un’agonia, La Cattolicissima, Angelica Doni, Giorgio Aliora, Il Segreto davano della vita una visione intensa come d’una vasta combustione dalle figure di bragia innumerevoli. Ciascuno dei suoi personaggi combatteva per la sua Chimera, in un duello disperato con la realtà.
“Non aveva questo straordinario artista, che i suoi libri mostravano quasi direi sublimato in essenza spirituale pura, non aveva egli esercitato il suo fascino anche su me? Non avevo io chiamato quel suo Giorgio Aliora un libro “fraterno”? Non avevo io ritrovato in qualcuna delle sue creature letterarie certe strane rassomiglianze col mio essere intimo? E se appunto questa nostra affinità strana gli agevolasse l’opera di seduzione forse intrapresa? Se Giuliana gli si abbandonasse, avendogli appunto riconosciuta qualcuna di quelle attrazioni medesime per cui io mi feci un tempo da lei adorare?” pensai, con un nuovo sgomento.
Ella rientrò nella stanza. Vedendo quel libro tra le mie mani, disse con un sorriso confuso, con un po’ di rossore:
– Che guardi?
– Conosci Filippo Arborio? – io le domandai sùbito, ma senza alcuna alterazione di voce, con il tono più calmo e più ingenuo ch’io seppi.
– Si – ella rispose, franca. – Mi fu presentato in casa Monterisi. È venuto anche qualche volta qui, ma non ha avuto occasione d’incontrarti.
Una domanda mi salì alle labbra. “E perché tu non me ne hai parlato?” Ma la trattenni. Come avrebbe ella potuto parlarmene, se da molto tempo io col mio contegno aveva interrotto tra noi ogni scambio di notizie e di confidenze amichevoli?
– È assai più semplice dei suoi libri – ella soggiunse, disinvolta, mettendosi i guanti con lentezza. – Hai letto Il Segreto?
– Sì, l’ho già letto.
– T’è piaciuto?
Senza riflettere, per un bisogno istintivo di rilevare davanti a Giuliana la mia superiorità, io risposi:
– No. È mediocre.
Ed ella disse alfine:
– Io vado.
E si mosse per uscire. Io la seguii fino all’anticamera, camminando nel solco del profumo ch’ella lasciava die56 L’innocente tro di sé fievolissimo, appena appena sensibile. Davanti al domestico, ella disse soltanto:
– A rivederci.
E con un passo leggero varcò la soglia.
Io tornai alle mie stanze. Apersi la finestra, mi affacciai per veder lei nella strada.
Ella andava, col suo passo leggero, sul marciapiede dalla parte del sole: diritta, senza mai volgere il capo da nessuna banda. L’estate di San Martino diffondeva una doratura tenuissima sul cristallo del cielo; e un tepore quieto addolciva l’aria, evocava il profumo assente delle violette. Una tristezza enorme mi piombò sopra, mi tenne abbattuto contro il davanzale; a poco a poco divenne intollerabile. Rare volte nella vita avevo sofferto come per quel dubbio che faceva crollare d’un tratto la mia fede in Giuliana, una fede durata per tanti anni; rare volte la mia anima aveva gridato così forte dietro un’illusione fuggente. Ma dunque era proprio, senza riparo, fuggita? Io non potevo, non volevo persuadermene. Tutta la mia vita d’errore era stata accompagnata dalla grande illusione, che rispondeva non pure alle esigenze del mio egoismo, ma a un mio sogno estetico di grandezza morale. “La grandezza morale risultando dalla violenza dei dolori superati, perché ella avesse occasione d’essere eroica era necessario ch’ella soffrisse quel ch’io le ho fatto soffrire.” Questo assioma con cui molte volte ero riuscito a placare i miei rimorsi, s’era profondamente radicato nel mio spirito, generandovi un fantasma ideale dalla parte migliore di me assunto in una specie di culto platonico. Io dissoluto obliquo e fiacco mi compiacevo di riconoscere nel cerchio della mia esistenza un’anima severa diritta e forte, un’anima incorruttibile; e mi compiacevo d’esserne l’oggetto amato, per sempre amato. Tutto il mio vizio, tutta la mia miseria e tutta la mia debolezza si appoggiavano a questa illusione. Io credevo che per me potesse tradursi in realtà il sogno di tutti gli uomini intellettuali: – essere costantemente infedele a una donna costantemente fedele.
“Che cerchi? Tutte le ebrezze della vita? Esci, va, inèbriati. Nella tua casa, come un’imagine velata in un santuario, la creatura taciturna e memore aspetta. La lampada, dove tu non versi mai una stilla d’olio, rimane sempre accesa.” Non è questo il sogno di tutti gli uomini intellettuali?
Anche: “In qualunque ora, dopo qualunque fortuna, ritornando, tu la ritroverai. Ella era sicura del tuo ritorno ma non ti racconterà la sua attesa. Tu poserai il capo su le sue ginocchia; ed ella ti passerà lungo le tempie l’estremità delle sue dita, per magnetizzare il tuo dolore”.
Ben un tal ritorno era nel mio presentimento: il ritorno finale, dopo una di quelle catastrofi interne che trasformano un uomo. E tutte le mie disperazioni venivano temperate da un’intima confidenza nell’indefettibile rifugio; e in fondo a tutte le mie abiezioni scendeva un qualche lume dalla donna che per amore di me e per opera mia aveva raggiunto il sommo dell’altezza corrispondendo perfettamente a una forma delle mie idealità.
Bastava un dubbio a distruggere ogni cosa in un attimo?
Io riandai tutta la scena passata tra me e Giuliana, dal momento del mio ingresso nella stanza al momento della sua uscita.
Pur attribuendo gran parte dei miei moti intimi a uno speciale stato nervoso transitorio, non potei dissipare la strana impressione esattamente espressa dalle parole: “Ella mi pareva un’altra donna”. Certo, una qualche novità era in lei. Ma quale? La dedica di Filippo Arborio non aveva piuttosto un significato rassicurante? Non riaffermava appunto l’impenetrabilità della TVRRIS EBVRNEA? L’appellativo glorioso era stato suggerito a colui o semplicemente dalla fama di purezza che avvolgeva il nome di Giuliana Hermil o anche da un tentativo d’assalto fallito e forse da una rinunzia all’assedio intrapreso. La Torre d’avorio doveva essere dunque ancóra intatta.
Ragionando così per medicare il morso del sospetto, io provavo in fondo a me una vaga ansietà, quasi temessi l’insorgere improvviso d’una qualche obbiezione ironica. “Tu sai: la pelle di Giuliana è straordinariamente bianca. Ella è proprio pallida come la sua camicia. L’appellativo sacro potrebbe anche nascondere un significato profano..” Ma quell’indegnamente. “Eh, eh, quanti cavilli!”
Un impeto iroso d’insofferenza interruppe quel dibattito umiliante e vano. Mi ritrassi dalla finestra, scossi le spalle, feci due o tre giri per la stanza, apersi un libro macchinalmente, lo respinsi. Ma l’ambascia non diminuiva. “Insomma”, pensai fermandomi come per affrontare un avversario invisibile “tutto questo a che conduce? O ella è già caduta, e la perdita è irreparabile; o ella è in pericolo, e io nel mio stato presente non posso intervenire per salvarla; o ella è pura con la forza di serbarsi pura, e allora nulla è mutato. In ogni caso, io non ho alcuna azione da compiere. Ciò che è, è necessario; ciò che sarà, sarà necessario. Questa crisi di sofferenza passerà. Bisogna aspettare. I crisantemi bianchi sul tavolo di Giuliana, dianzi, com’erano belli! Uscirò per comprarne di simili in gran quantità. Il convegno con Teresa è oggi alle due. Mancano quasi tre ore… Non mi disse ella, l’ultima volta, che voleva trovare il caminetto acceso? Sarà il primo fuoco d’inverno, in una giornata così tiepida. Ella è in una settimana di bontà, mi pare. Se durasse! Ma io alla prima occasione provocherò Eugenio Egano.” Il mio pensiero seguì il nuovo corso, con qualche arresto repentino, con deviamenti improvvisi. Tra le stesse imagini della voluttà prossima mi balenò un’altra imagine impura, quella temuta, quella a cui volevo sfuggire. Alcune pagine ardite e ardenti della Cattolicissima mi tornarono alla memoria. E dall’uno spasimo sorgeva l’altro. E io confondevo, sebbene con una diversa sofferenza, nella medesima contaminazione le due donne e nel medesimo odio Filippo Arborio ed Eugenio Egano.
La crisi passò, lasciandomi nell’animo una specie di vaga disistima mista di rancore verso la sorella. Io mi allontanai sempre più, mi feci sempre più duro, più incurante, più chiuso. La mia trista passione per Teresa
Raffo divenne sempre più esclusiva, occupò tutte le mie facoltà, non mi diede un’ora di tregua. Io era veramente un ossesso, un uomo invaso da una diabolica follia, corroso da un morbo ignoto e spaventevole. I ricordi di quell’inverno sono confusi nel mio spirito, incoerenti, interrotti da strane oscurità, rari.
In quell’inverno non incontrai mai a casa mia Filippo Arborio; poche volte lo vidi in luoghi publici. Ma una sera lo trovai in una sala d’armi; e là ci conoscemmo, fummo presentati l’uno all’altro dal maestro, scambiammo qualche parola. La luce del gas, il rimbombo del tavolato, il tintinno e il luccichio delle lame, le varie pose incomposte o eleganti degli schermitori, lo scatto rapido di tutte quelle gambe inarcate, l’esalazione calda e acre di tutti quei corpi, i gridi gutturali, le interiezioni veementi, gli scoppi di risa ricompongono con una singolare evidenza nel mio ricordo la scena che si svolgeva intorno a noi mentre eravamo l’uno al conspetto dell’altro e il maestro pronunziava i nostri nomi. Rivedo il gesto con cui Filippo Arborio si levò la maschera mostrando il viso acceso, tutto rigato di sudore. Tenendo da una mano la maschera e dall’altra il fioretto, s’inchinò. Ansava troppo, affaticato e un po’ convulso, come chi non ha la consuetudine dell’esercizio muscolare. Istintivamente, pensai ch’egli non era un uomo temibile sul terreno. Affettai anche una certa alterigia; a studio non gli rivolsi neppure una come mi sarei contenuto verso un qualunque ignoto.
– Dunque, – mi chiese il maestro sorridendo – per domani?
– Sì, alle dieci.
– Vi battete? – fece l’Arborio con una curiosità manifesta.
– Sì.
Egli esitò un poco; quindi soggiunse:
– Con chi? se non sono indiscreto.
– Con Eugenio Egano.
M’accorsi ch’egli desiderava di sapere qualche cosa di più, ma che lo tratteneva il mio contegno freddo e in apparenza disattento.
– Maestro, un assalto di cinque minuti – io dissi, e mi volsi per andare nello spogliatoio. Giunto su la soglia, mi soffermai a guardare indietro e scorsi l’Arborio che aveva ripreso a schermire. Un’occhiata mi bastò per conoscere ch’egli era mediocrissimo in quel giuoco.
Quando incominciai l’assalto col maestro, sotto gli occhi di tutti i presenti, s’impadronì di me una particolare eccitazione nervosa che raddoppiò la mia energia. E sentivo su la mia persona lo sguardo fisso di Filippo Arborio.
Dopo, nello spogliatoio, ci ritrovammo. La stanza troppo bassa era già piena di fumo e d’un odore umano acutissimo, nauseante. Tutti là dentro, nudi, nelle larghe cappe bianche, si strofinavano il petto, le braccia, le spalle, con lentezza, fumando, motteggiando ad alta voce, dando sfogo nel turpiloquio alla loro bestialità. Gli scrosci della doccia si alternavano con le grasse risa. E due o tre volte, con un indefinibile senso di repulsione, con un sussulto simile a quello che mi avrebbe dato un violento urto fisico, io intravidi il corpo smilzo dell’Arborio, a cui i miei occhi andavano involontariamente. E di nuovo l’imagine odiosa si formò.
Non ebbi, dopo d’allora, altra occasione d’avvicinare colui e neppure d’incontrarlo. Né me ne curai. Né in seguito fui colpito da alcuna apparenza sospetta nella condotta di Giuliana. Di là dal cerchio sempre più angusto in cui mi agitavo, nulla era per me chiaramente sensibile, intelligibile. Tutte le impressioni estranee passavano sul mio spirito come gocciole d’acqua su una lastra arroventata, o rimbalzando o dissolvendosi.
Gli eventi precipitarono. Su lo scorcio di febbraio, dopo un’ultima e vergognosa prova, avvenne tra me e Teresa Raffo la rottura definitiva. Io partii per Venezia, solo.
Rimasi là circa un mese, in uno stato di malessere incomprensibile; in una specie di stupefazione che le caligini e i silenzii della laguna addensavano. Non altro conservavo in me che il sentimento della mia esistenza isolata, tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo che la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un’arteria nella mia testa. Per lunghe ore mi teneva quel fascino strano che esercita su l’anima come su i sensi il passaggio continuo e monotono di qualche cosa indistinta. Piovigginava. Le nebbie su l’acqua prendevano talvolta forme lugubri, camminando come spettri con un passo lento e solenne. Spesso nella gondola, come in una bara, io trovavo una specie di morte imaginaria. Quando il rematore mi chiedeva in che luogo dovesse condurmi, io facevo quasi sempre un gesto vago; e comprendevo dentro di me la disperata sincerità delle parole: “Dovunque, fuori del mondo!”.
Tornai a Roma negli ultimi giorni di marzo. Avevo della realtà un senso nuovo, come dopo una lunga eclisse della conscienza. Una timidezza, uno smarrimento, una paura senza ragione mi prendevano talvolta all’improvviso; e mi sentivo debole come un fanciullo. Guardavo intorno a me di continuo, con un’attenzione insolita, per riafferrare il significato vero delle cose, per coglierne i giusti rapporti, per rendermi conto di ciò che era mutato, di ciò che era scomparso. E, come a poco a poco rientravo nell’esistenza comune, si ristabiliva nel mio spirito l’equilibrio, si ridestava qualche speranza, risorgeva la cura dell’avvenire.
Trovai Giuliana molto abbattuta di forze, alterata nella salute, triste come non mai. Poco parlammo e senza guardarci dentro alle pupille, senza aprire i nostri cuori. Ambedue cercavamo la compagnia delle due bambine; e Maria e Natalia in una felice inconsapevolezza riempivano i silenzii con le loro fresche voci. Un giorno Maria domandò:
– Mamma, andremo quest’anno, per Pasqua, alla Badiola?
Io risposi, invece della madre, senza esitare:
– Sì, andremo.
Allora Maria si mise a saltare per la stanza, in segno di gioia, trascinando la sorella. Io guardai Giuliana.
– Vuoi che andiamo? – le chiesi, timido, quasi con umiltà.
Ella consentì col capo.
– Vedo che tu non stai bene – soggiunsi. – Anche io non sto bene… Forse la campagna… la primavera…
Ella era distesa in una poltrona, tenendo le mani bianche posate lungo i bracciuoli; e la sua attitudine mi ricordò un’altra attitudine: quella della convalescente nel mattino della levata ma dopo l’annunzio.
Fu decisa la partenza. Ci preparammo. Una speranza luceva nel profondo della mia anima, e io non osavo mirarla.

I
Il primo ricordo è questo. Intendevo, quando ho incominciato il racconto, intendevo: questo è il primo ricordo che si riferisce alla cosa tremenda.
Era di aprile, dunque. Eravamo da alcuni giorni alla Badiola.
– Ah, figliuoli miei, – aveva detto mia madre, con la sua grande ingenuità – come siete sciupati! Ah quella Roma, quella Roma! Bisogna che restiate qui con me, in campagna, molto tempo, per rimettervi… molto tempo…
– Sì – aveva detto Giuliana, sorridendo – sì, mamma, resteremo quanto vorrai.
Quel sorriso ridivenne frequente su le labbra di Giuliana, in presenza di mia madre; e, sebbene la malinconia degli occhi rimanesse inalterabile, era così dolce quel sorriso, era così profondamente buono che io stesso mi lasciai illudere. Ed osai mirare la mia speranza.
Nei primi giorni, mia madre non si distaccava mai dalle care ospiti; pareva che volesse saziarle di tenerezza. Due o tre volte io la vidi, palpitando d’una commozione indefinibile, io la vidi accarezzare con la sua mano benedetta i capelli di Giuliana. Una volta la udii che chiedeva:
– Ti vuol sempre lo stesso bene?
– Povero Tullio! Sì – rispose l’altra voce.
– Dunque, non è vero…
– Che?
– Quello che mi hanno riferito.
– Che ti hanno riferito?
– Nulla, nulla… Credevo che Tullio ti avesse dato qualche dispiacere. Parlavano nel vano di una finestra, dietro le cortine ondeggianti, mentre di fuori stormivano gli olmi. Io mi feci innanzi, prima che s’accorgessero di me; sollevai una cortina, mostrandomi.
– Ah, Tullio! – esclamò mia madre.
E si scambiarono uno sguardo, un po’ confuse.
– Parlavamo di te – soggiunse mia madre.
– Di me! Male? – chiesi con un’aria gaia.
– No, bene – disse Giuliana, sùbito; e io colsi nella sua voce l’intenzione, ch’ella certo ebbe, di rassicurarmi.
Il sole d’aprile batteva sul davanzale, riluceva nei capelli grigi di mia madre, svegliava qualche tenue bagliore su le tempie di Giuliana. Le cortine candidissime ondeggiavano, si riflettevano nei vetri luminose. I grandi olmi dello spiazzo, coperti di piccole foglie nuove, producevano un susurro, ora leggero ora forte, alla cui misura le ombre or meno or più si agitavano. Dal muro stesso della casa, ammantato di violacciocche innumerevoli, saliva un profumo pasquale, quasi un vapore invisibile di mirra.
– Com’è acuto quest’odore! – mormorò Giuliana, passandosi le dita su i sopraccigli e socchiudendo le palpebre. – Stordisce.
Io stavo tra lei e mia madre, un poco indietro. Una voglia mi venne, di chinarmi sul davanzale cingendo l’una e l’altra con le mie braccia. Avrei voluto mettere in quella semplice familiarità tutta la tenerezza che mi gonfiava il cuore e far intendere a Giuliana una moltitudine di cose inesprimibili e riconquistarla intera con quell’unico atto. Ma ancóra mi tratteneva un senso di temenza quasi puerile.
– Guarda, Giuliana, – disse mia madre, indicando un punto del colle – la tua Villalilla. La scorgi?
– Sì, sì.
Ella, schermendosi dal sole con la mano aperta, aguzzava la vista; e io, che la osservavo, notai un piccolo tremito nel suo labbro inferiore.
– Distingui il cipresso? – le chiesi, volendo aumentare con la domanda suggestiva il suo turbamento.
E io rivedevo nella mia imaginazione il vecchio cipresso venerabile che aveva al suo piede un cespo di rose e un coro di passeri alla sua cima.
– Sì, sì, lo distinguo… appena.
Villalilla biancheggiava a mezzo dell’altura, molto lontana, in un pianoro. La catena dei colli si svolgeva d’innanzi a noi con un lineamento nobile e pacato, per ove gli oliveti avevano un’apparenza di straordinaria leggerezza somigliando a un vapore verdegrigio cumulato in forme costanti. Gli alberi in fiore, bianchi e rosei trionfi, interrompevano l’uguaglianza. Il cielo pareva di continuo impallidire, come se nella sua liquidità un latte di continuo si diffondesse e si dileguasse.
– Andremo a Villalilla dopo Pasqua. Sarà tutta fiorita – io dissi, tentando di rimettere in quell’anima il sogno che le avevo strappato brutalmente.
E osai accostarmi, cingere con le mie braccia Giuliana e mia madre, chinarmi sul davanzale tenendo la mia testa tra l’una e l’altra testa; in modo che i capelli dell’una e dell’altra mi sfioravano. La primavera, quella bontà dell’aria, quella nobiltà dei luoghi, quella placida trasfigurazione di tutte le creature per una virtù materna, e quel cielo divino pel suo pallore, più divino come più si faceva pallido, mi davano un senso di vita così nuovo che io pensai tremando dentro di me: “Ma è possibile? Ma è possibile? Ma dunque, dopo tutto quel che è accaduto, dopo tutto quel che ho sofferto, dopo tante colpe, dopo tante vergogne, io posso ancóra trovare nella vita questo sapore! Io posso ancóra sperare, posso ancóra avere il presentimento di una felicità! Chi dunque mi ha benedetto?”. Pareva che tutto il mio essere si alleggerisse, espandendosi, dilatandosi oltre i suoi confini, con una vibrazione sottile, rapida e incessante. Nulla può dare un’idea di ciò che diveniva in me la sensazione minima prodotta da un capello che mi sfiorava la guancia.
Rimanemmo alcuni minuti in quell’attitudine, senza parlare. Gli olmi stormivano. Il tremolio innumerevole dei fiori gialli e violacei, che ammantavano il muro sotto la finestra, incantava le mie pupille. Un profumo denso e caldo saliva nel sole, col ritmo di un alito.
A un tratto, Giuliana si sollevò, si ritirò, smorta, con qualche cosa di torbido negli occhi, con la bocca sforzata come da una nausea, dicendo:
– Quest’odore è terribile. Dà il capogiro. Mamma, non fa male anche a te?
E si volse per andarsene; diede qualche passo incerto, vacillante; poi si affrettò, uscì dalla stanza, seguita da mia madre.
Io le guardai allontanarsi per la fuga delle porte, ancóra tenuto da un resto della sensazione primitiva, trasognato.

II
La mia confidenza nell’avvenire aumentava di giorno in giorno. Non mi ricordavo quasi più di nulla. La mia anima troppo affaticata si dimenticava di soffrire. In certe ore di completo abbandono tutto si dileguava, si distendeva, si fondeva, si immergeva nella fluidità originale, diveniva irriconoscibile. Poi, dopo questi strani dissolvimenti interiori, mi pareva che un altro principio di vita entrasse in me, che un’altra forza mi possedesse.
Una moltitudine di sensazioni involontarie, spontanee, inconscienti, istintive componeva la mia esistenza reale. Tra l’esterno e l’interno si stabiliva un giuoco di minime azioni e di minime reazioni istantanee che fremevano in infinite ripercussioni; e ciascuna di queste ripercussioni incalcolabili si convertiva in un fenomeno psichico stupendo. Tutto il mio essere veniva alterato da ciò che passava nell’aria, da un soffio, da un’ombra, da un bagliore.
Le grandi malattie dell’anima come quelle del corpo rinnovellano l’uomo; e le convalescenze spirituali non sono meno soavi e meno miracolose di quelle fisiche. Davanti a un arbusto fiorito, davanti a un ramo coperto di minute gemme, davanti a un rampollo nato su un vecchio tronco quasi estinto, davanti alla più umile fra le grazie della terra, alla più modesta fra le trasfigurazioni della primavera, io mi soffermavo, semplice, candido, attonito!
Uscivo spesso con mio fratello al mattino. In quell’ora tutto era fresco, facile, libero. La compagnia di Federico mi purificava e mi fortificava come la buona brezza selvaggia. Aveva allora ventisette anni Federico; aveva vissuto quasi sempre nella campagna, d’una vita sobria e laboriosa; pareva portare in sé raccolta la mite sincerità terrestre. Egli possedeva la Regola. Leone Tolstoj, baciandolo su la bella fronte serena, lo avrebbe chiamato suo figliuolo.
Andavamo per i campi senza mèta, di rado ragionando. Egli lodava la fertilità dei nostri dominii, mi spiegava le innovazioni introdotte nelle culture, mi mostrava i miglioramenti. Le case dei nostri contadini erano larghe, ariose, linde. Le nostre stalle erano piene di un bestiame sano e ben pasciuto. Le nostre cascine erano in un ordine perfetto. Spesso, nel cammino, egli s’arrestava per osservare una pianta. Le sue mani virili erano di una delicatezza estrema quando toccavano le piccole foglie verdi in cima ai rametti novelli. Talvolta passavamo attraverso un frutteto. I peschi, i peri, i meli, i ciliegi, i prugni, gli albicocchi portavano su le loro braccia milioni di fiori; giù per la trasparenza dei petali rosei ed argentei, la luce si cangiava quasi direi in una umidità divina, in una cosa indescrivibilmente vaga e benigna; tra i minimi intervalli delle ghirlande leggere, il cielo aveva la vivente dolcezza di uno sguardo.
Egli diceva, imaginando il pensile tesoro futuro, mentre io lodavo i fiori: – Vedrai, vedrai i frutti.
“Io li vedrò” ripetevo dentro di me. “Vedrò cadere i fiori, nascere le foglie, crescere i frutti, colorirsi, maturarsi, distaccarsi.” Questa assicurazione, già passata per la bocca di mio fratello, aveva per me un’importanza grave, come se si riferisse a non so quale felicità promessa e attesa, la quale appunto dovesse svolgersi in quel periodo del parto arboreo, nel tempo che corre tra il fiore e il frutto. “Prima che io abbia manifestato il mio proposito, a mio fratello par già naturale che io rimanga ormai qui, nella campagna, con lui, con nostra madre; poiché egli dice che io vedrò i frutti dei suoi alberi. Egli è sicuro che io li vedrò! Dunque è proprio vero che è incominciata una vita nuova per me, e che questo sentimento ch’io ho dentro di me non m’inganna. Infatti, tutto ora si compie con una facilità strana, insolita, con un’abbondanza d’amore. Come amo Federico! Non l’ho mai amato così.” Tali erano i miei soliloquii interiori, un po’ slegati, incoerenti, qualche volta puerili per una singolare disposizione d’animo che mi portava a vedere in qualunque fatto insignificante un segno favorevole, un pronostico benigno.
Il gaudio mio più intenso era nel sapermi lontano dalle cose passate, lontano da certi luoghi, da certe persone, inaccessibile. Assaporavo talvolta la pace della campagna primaverile raffigurandomi lo spazio che mi divideva dal mondo oscuro dove io avevo tanto sofferto e di dolori tanto cattivi. Una paura indefinita mi stringeva ancóra, talvolta, e mi faceva cercare con sollecitudine intorno a me le prove della sicurtà presente, mi spingeva a mettere il braccio sotto il braccio di mio fratello, a leggere negli occhi di lui l’affetto indubitabile e tutelare.
Io confidavo in Federico, ciecamente. Avrei voluto essere da lui non soltanto amato ma dominato; avrei voluto cedere la primogenitura a lui più degno e star sommesso al suo consiglio, riguardarlo come la mia guida, obedirgli. Al suo fianco non avrei più corso il pericolo di smarrirmi, poiché egli conosceva la via diritta e camminava per quella con un passo infallibile; ed egli anche aveva il braccio possente e mi avrebbe difeso. Era l’uomo esemplare: buono, forte, sagace. Nulla per me uguagliava in nobiltà lo spettacolo di quella giovinezza devota alla religione del “conscientemente bene operare”, dedicata all’amore della Terra. Parevano i suoi occhi aver assunto un limpido color vegetale dalla contemplazione assidua delle cose verdi.
– Gesù della Gleba – io lo chiamai un giorno, sorridendo.
Era un mattino pieno d’innocenza, uno di quei mattini che dànno imagine delle albe primordiali nell’infanzia della Terra. Sul limite di un campo, mio fratello parlava a un gruppo di agricoltori. Parlava in piedi, avanzando di tutto il capo gli astanti; e il suo gesto calmo dimostrava la semplicità delle sue parole. Uomini vecchi incanutiti nella saggezza, uomini maturi già prossimi al limitare della vecchiaia ascoltavano quel giovine. Tutti portavano su i loro corpi nodosi la traccia della grande comune opera. Poiché nessun albero era da presso, poiché il frumento era umile nei solchi, le loro attitudini apparivano integre nella santità della luce.
Come mi vide muovere verso di lui, mio fratello licenziò i suoi uomini per venirmi incontro. Allora spontanea mi uscì dalle labbra la salutazione:
– Gesù della Gleba, osanna!
Egli aveva per tutti gli esseri vegetali una diligenza infinita. Nulla sfuggiva alle sue pupille acute, quasi onniveggenti. Nelle nostre corse mattutine, si soffermava ad ogni tratto per liberare da una chiocciola, da un bruco, da una formica una piccola foglia. Un giorno, senza badarci, camminando, battevo le erbe con la punta del bastone; e le tenere cime verdi recise ad ogni colpo s’involavano. Egli ne soffriva perché mi tolse di mano il bastone ma con un gentile atto; ed arrossì, pensando forse che quella sua misericordia mi sarebbe parsa una esagerata morbidezza sentimentale. Oh quel rossore su quel volto così maschio!
Un altro giorno, mentre spezzavo a un melo qualche ramo fiorito, sorpresi negli occhi di Federico un’ombra di rammarico. Sùbito tralasciai, ritrassi le mani, dicendo:
– Se ti dispiace…
Egli si mise a ridere forte.
– Ma no, ma no… Spoglia pure tutto l’albero.
Intanto il ramo già rotto, ritenuto da alcune delle sue vive fibre, penzolava lungo il fusto; e, proprio, quella frattura umida di linfa aveva un aspetto di cosa dolente; e quei fiori esili, un po’ carnicini, un po’ bianchi, simili a ciocche di rose scempie, che portavano un germe omai condannato, avevano all’aria un tremolio incessante.
Io dissi allora, come ad attenuare la crudezza di quella manomessione:
– È per Giuliana.
E, strappando le ultime fibrille vive, distaccai il ramo già rotto.

III
Non quel ramo solo portai a Giuliana, ma molti altri. Tornavo alla Badiola sempre carico di doni floreali. Una mattina, avendo su le braccia un fascio di spine albe, incontrai nel vestibolo mia madre. Ero un poco ansante, accaldato, agitato da una leggera ebrezza. Domandai:
– Dov’è Giuliana?
– Su, nelle sue stanze – ella rispose, ridendo.
Io feci di corsa le scale, attraversai il corridoio, entrai franco nell’appartamento, chiamai:
– Giuliana, Giuliana! Dove sei?
Maria e Natalia mi uscirono incontro con grandi feste, rallegrate alla vista dei fiori, irrequiete, folli.
– Vieni, vieni, – mi gridarono – la mamma è qui, nella camera da letto. Vieni.
E io varcai quella soglia palpitando più forte; mi trovai alla presenza di Giuliana sorridente e confusa: le gittai il fascio ai piedi.
– Guarda!
– Oh, che cosa bella! – esclamò, chinandosi sul fresco tesoro odorante.
Portava una delle sue ampie tuniche preferite, d’un verde eguale al verde d’una foglia d’aloe. Non ancóra pettinati, i suoi capelli erano mal trattenuti dalle forcine; le coprivano la nuca, le nascondevano gli orecchi, in dense matasse. L’effluvio della spina, un odor misto di timo e di mandorla amara, la investiva tutta, si diffondeva per la camera.
– Bada di non pungerti – io le dissi. – Guarda le mie mani.
E le mostrai le scalfitture ancóra sanguinanti, come per rendere più meritoria l’offerta. “Oh se ella ora mi prendesse le mani” pensai. E mi passò su lo spirito, vago, il ricordo di un giorno lontanissimo in cui ella mi aveva baciate le mani scalfite dalle spine e aveva voluto suggere le stille di sangue che spuntavano l’una dopo l’altra. “Se ella ora mi prendesse le mani e in questo solo atto mettesse tutto il suo perdono e tutto il suo abbandono!”
Io avevo di continuo, in quei giorni, l’aspettazione d’un momento simile. Non sapevo veramente da che mi venisse una tal fiducia; ma ero sicuro che Giuliana si sarebbe ridonata a me, così, o prima o poi, con un solo semplice atto silenzioso in cui ella avrebbe saputo mettere “tutto il suo perdono e tutto il suo abbandono”.
Ella sorrise. Un’ombra di sofferenza apparve sul suo volto troppo bianco, ne’ suoi occhi troppo incavati.
– Non ti senti un poco meglio, da che sei qui? – le domandai accostandomi.
– Sì, sì, meglio – ella rispose.
Dopo una pausa:
– E tu?
– Oh, io sono già guarito. Non vedi?
– Sì, è vero.
Quando mi parlava, in quei giorni, mi parlava con una esitazione singolare che per me era piena di grazia ma che ora m’è impossibile definire. Pareva quasi ch’ella fosse di continuo occupata a trattenere la parola che le saliva alle labbra, per pronunziarne una diversa. Inoltre, la sua voce era, se si può dir così, più feminile; aveva perduta la primitiva fermezza e una parte di sonorità; s’era velata come quella d’uno strumento con la sordina. Ma, essendo ella dunque verso di me in tutte le sue espressioni tanto mite, che cosa ancóra c’impediva di stringerci? Che cosa manteneva ancóra tra lei e me quell’intervallo?
In quel periodo che rimarrà nella storia della mia anima sempre misterioso, la mia nativa perspicacia sembrava interamente abolita. Tutte le mie terribili facoltà analitiche, quelle stesse che mi avevano dato tanti spasimi, sembravano esauste. La potenza delle facoltà inquiete pareva distrutta. Innumerevoli sensazioni, innumerevoli sentimenti di quel tempo mi riescono ora incomprensibili, inesplicabili, perché non ho alcuna guida per rintracciarne l’origine, per determinarne la natura. Una discontinuità, un difetto di fusione, è tra quel periodo della mia vita psichica e gli altri.
Udii una volta raccontare, nel corso di una favola, che un giovine principe, dopo un lungo pellegrinaggio avventuroso, giunse infine al conspetto della donna che egli aveva con tanto ardore cercata. Tremava di speranza il giovine, mentre la donna gli sorrideva da vicino. Ma un velo rendeva intangibile la donna sorridente. Era un velo d’ignota materia, così tenue che si confondeva con l’aria; eppure il giovine non poté stringere l’amata a traverso un tal velo.
Questa imaginazione mi aiuta un poco a rappresentarmi il singolare stato in cui mi trovavo allora, a riguardo di Giuliana. Io sentivo che qualche cosa, inconoscibile, manteneva ancora tra lei e me l’intervallo. Ma, nel tempo medesimo, confidavo nel “semplice atto silenzioso” che, o prima o poi, doveva distruggere l’ostacolo e rendermi felice.
Come mi piaceva intanto la camera di Giuliana! Era tappezzata d’un tessuto chiaro, un po’ invecchiato, a fiorami assai sbiaditi, e aveva un’alcova profonda. Come la profumavano le spine albe!
Ella disse, troppo bianca:
– È acuto questo odore. Dà alla testa. Non lo senti?
E andò verso una finestra per aprirla. Poi soggiunse:
– Maria, chiama Miss Edith.
La governante comparve.
– Edith, vi prego, portate questi fiori nella stanza del pianoforte. Metteteli nei vasi. Badate di non pungervi.
Maria e Natalia vollero portare una parte del fascio. Rimanemmo soli. Ella andò ancóra verso la finestra; si appoggiò al davanzale, volgendo le spalle alla luce.
Io dissi:
– Hai qualche cosa da fare? Vuoi che me ne vada?
– No, no. Resta pure. Siediti. Raccontami la tua passeggiata di stamani. Fin dove sei giunto?
Ella pronunziò queste frasi con un po’ di precipitazione. Come il parapetto era all’altezza delle reni, ella teneva sul davanzale i gomiti; e il suo busto s’inclinava indietro, entrando nel rettangolo della finestra. La faccia, rivolta verso di me in pieno, si empiva d’ombra, specialmente nel cavo degli occhi; ma i capelli, ricevendo in sommo la luce, formavano una esigua aureola; gli omeri anche in sommo si rischiaravano. Un piede, su cui premeva il peso del corpo, avanzava l’estremità della veste, mostrando un po’ della calza cinerina e la babbuccia brillante. Tutta la figura, in quell’attitudine, in quella luce, aveva una straordinaria forza di seduzione. Un lembo di paesaggio turchiniccio e voluttuoso, tra l’uno e l’altro stipite, sfondava pel vano, dietro quella testa.
Allora fu che, d’improvviso, come per una rivelazione fulminea, io rividi in lei la donna desiderabile e nel mio sangue si riaccesero il ricordo e il desiderio delle carezze.
Io le parlavo guardandola fissamente. Come più la guardavo, più mi sentivo turbare; ed ella certo doveva leggere nel mio sguardo, perché l’inquietudine in lei si fece palese. Io pensai con un’acuta ansietà interiore: “Se ardissi? Se m’avanzassi fino a lei e la prendessi fra le mie braccia?” Anche la franchezza apparente che io cercavo di mettere nei miei discorsi leggeri, m’abbandonò. Mi confusi. Quel disagio divenne insostenibile.
Giungevano dalle stanze contigue le voci di Maria, di Natalia e di Edith, indistinte.
Io mi levai, m’accostai alla finestra, mi misi a fianco di Giuliana, fui sul punto di chinarmi verso di lei per proferire alfine le parole già tante volte ripetute dentro di me in colloqui imaginarii. Ma il timore di una interruzione probabile mi trattenne. Pensai che quel momento era forse inopportuno, che non avrei avuto forse il tempo di dirle tutto, di aprirle tutto il mio cuore, di raccontarle la mia vita interna delle ultime settimane, la misteriosa convalescenza della mia anima, il risveglio delle mie fibre più tenere, la rifioritura de’ miei sogni più gentili, la profondità del mio sentimento nuovo, la tenacità della mia speranza. Pensai che non avrei avuto il tempo di raccontarle i minuti episodii recenti, quelle piccole confessioni ingenue, deliziose all’orecchio della donna che ama, fresche di verità, più persuasive di qualunque eloquenza. Io dovevo infatti riuscire a persuaderla d’una grande e forse per lei incredibile cosa, dopo tante delusioni: riuscire a persuaderla che questo mio ritorno non era ingannevole, ma sincero, definitivo, necessitato da un bisogno vitale di tutto il mio essere. Ella, certo, diffidava ancóra; certo, in questo suo diffidare stava la ragione del suo ritegno. Ancóra fra noi s’intrapponeva l’ombra d’un atroce ricordo. Io dovevo scacciare quell’ombra, ricongiungere la mia anima a quella di lei così strettamente che nulla più potesse intrapporsi. E questo doveva accadere in un’ora favorevole, in un luogo segreto, silenzioso, abitato soltanto dalle memorie: a Villalilla.
Noi tacevamo, intanto, ambedue nel vano della finestra, l’uno a fianco dell’altra. Giungevano dalle stanze contigue le voci di Maria, di Natalia e di Edith, indistinte. Il profumo delle spine albe era vanito. Le tende che pendevano dall’arco dell’alcova lasciavano intravedere il letto nel fondo, ove i miei occhi andavano spesso, curiosi della penombra, quasi cupidi.
Giuliana aveva chinato il capo, perché sentiva anch’ella forse il peso dolce e angoscioso del silenzio. Il vento leggero le agitava su la tempia una ciocca libera. L’irrequietudine di quella ciocca scura, un po’ lionata, ove anzi qualche filo alla luce diveniva oro su quella tempia pallida come un’ostia, mi faceva languire. E, guardando, io rividi sul collo il piccolo segno fosco da cui tante volte in altri tempi era partita la favilla della tentazione.
Allora, non potendo più reggere, con un misto di temenza e di ardire, levai la mano per ravviare quella ciocca; e le mie dita tremanti di su i capelli sfiorarono l’orecchio, il collo, ma appena appena, con la più tenue delle carezze.
– Che fai? – disse Giuliana, scossa da un sussulto, volgendomi uno sguardo smarrito, tremando più di me forse.
E si scostò dalla finestra; sentendosi seguire, diede qualche passo come di fuga, perdutamente.
– Ah perché, perché questo, Giuliana? – esclamai, fermandomi.
Ma subito dopo:
– È vero: non sono ancóra degno. Perdonami!
In quel punto le due campane della cappella incominciarono a squillare. E Maria e Natalia si precipitarono nella camera, verso la madre, gridando di gioia; e, l’una dopo l’altra, le s’appesero al collo e le coprirono il viso di baci; e dalla madre passarono a me, e io le sollevai, l’una dopo l’altra, nelle mie braccia.
Le due campane squillavano a furia; tutta la Badiola pareva invasa dal fremito del bronzo. Era il Sabato Santo, l’ora della Risurrezione.

IV
Nel pomeriggio di quel medesimo sabato, ebbi un accesso di tristezza singolare.
Era giunta la posta alla Badiola; e io e mio fratello, nella sala del bigliardo, davamo una scorsa ai giornali. Per caso mi venne sotto gli occhi il nome di Filippo Arborio, citato in una cronaca. Un turbamento subitaneo s’impadronì di me. Così un lieve urto solleva il fondiglio in un vaso chiarito.
Mi ricordo: era un pomeriggio nebuloso, illuminato come da uno stanco riverbero biancastro. Fuori, innanzi alla vetrata che dava su lo spiazzo, passarono Giuliana e mia madre, l’una a braccio dell’altra, conversando. Giuliana portava un libro; e camminava con un’aria stracca.
Con la inconseguenza delle imagini che si svolgono nel sogno, si risollevarono nel mio spirito alcuni frammenti della vita passata: Giuliana avanti allo specchio, nel giorno di novembre; il mazzo dei crisantemi bianchi; la mia ansietà nell’udire l’aria di Orfeo; le parole scritte sul frontespizio del Segreto; il colore dell’abito di Giuliana; il mio dibattito alla finestra; il volto di Filippo Arborio, grondante di sudore; la scena dello spogliatoio, nella sala d’armi. Io pensai con un fremito di paura, come uno che si trovi d’improvviso inclinato su l’orlo di una voragine: “Potrei dunque non salvarmi?”
Sopraffatto dall’ambascia, avendo bisogno d’esser solo per guardare dentro di me, per guardare in faccia la mia paura, io salutai mio fratello, uscii dalla sala, andai nelle mie stanze.
Il mio turbamento era misto d’impazienza irosa. Io ero come uno che, in mezzo al benessere d’una guarigione illusoria, nella ricuperata sicurtà della vita, senta a un tratto il morso del male antico, si accorga di portare ancóra nella sua carne il male inestirpabile e sia costretto ad osservarsi, a sorvegliarsi, per convincersi dell’orrenda verità. “Potrei dunque non salvarmi? E perché?”
Nello strano oblio che tutte le cose passate aveva sommerso, in quella specie di oscuramento che pareva aver invaso un intero strato della mia conscienza, anche il dubbio contro Giuliana, l’odioso dubbio s’era perduto, s’era disciolto. Troppo grande bisogno aveva la mia anima di cullarsi nell’illusione, di credere e di sperare. La mano santa di mia madre, accarezzando i capelli di Giuliana, aveva per me riaccesa intorno a quel capo l’aureola. Per uno di quelli abbagli sentimentali frequenti nei periodi di debolezza, vedendo le due donne respirare nel medesimo cerchio con una concordia così dolce, io le avevo confuse in una medesima irradiazione di purità.
Ora, un piccolo fatto casuale, un semplice nome letto per caso in un diario, il risveglio d’un ricordo torbido erano bastati a sconvolgermi, a sbigottirmi, a spalancarmi d’innanzi un abisso; nel quale io non osavo gittare uno sguardo risoluto e profondo, perché il mio sogno di felicità mi tratteneva, mi tirava indietro, attaccato a me tenacemente. Ondeggiai prima in un’angoscia fosca, indefinibile, su cui passavano a quando a quando i bagliori temuti. “È possibile ch’ella non sia pura. E allora? Filippo Arborio o un altro… Chi sa! – Conoscendo la colpa potrei perdonare? – Che colpa? Che perdono? Tu non hai il diritto di giudicarla, tu non hai il diritto di alzare la voce. Troppe volte ella ha taciuto; questa volta dovresti tu tacere. – E la felicità? – Sogni tu la felicità tua o quella di entrambi? Quella di entrambi, certo, perché un semplice riflesso della sua tristezza oscurerebbe qualunque tua gioia. Tu supponi che, essendo tu contento, ella sarebbe anche contenta: tu col tuo passato di licenza continua, ella col suo passato di continuo martirio. La felicità che tu sogni riposa tutta su l’abolizione del passato. Perché dunque, se ella veramente non fosse pura, non potresti tu mettere il velo o la pietra su la sua colpa come su la tua? Perché dunque, volendo far dimenticare, non dimenticheresti? Perché dunque, volendo essere un uomo nuovo, disgiunto completamente dal passato, non potresti considerar lei come una donna nuova, nelle condizioni medesime? Una tale ineguaglianza sarebbe forse la peggiore delle tue ingiustizie. – Ma l’Ideale? Ma l’Ideale? La mia felicità sarebbe allora possibile quando io potessi riconoscere in Giuliana assolutamente una creatura superiore, impeccabile, degna di tutta l’adorazione; e nel sentimento infimo di questa superiorità, nella conscienza della sua propria grandezza morale ella appunto troverebbe la massima parte della felicità sua. Io non potrei astrarre dal mio passato né dal suo, perché questa particolare felicità non potrebbe essere senza la nequizia della mia vita anteriore e senza quell’eroismo invitto e quasi sovrumano davanti al cui fantasma la mia anima è rimasta sempre china. – Ma sai tu quanto ci sia d’egoismo in questo tuo sogno e quanto d’elevazione ideale? Meriti tu forse la felicità, questo alto premio? Per quale privilegio? Così dunque il tuo lungo errore ti avrebbe condotto non all’espiazione ma alla ricompensa…”
Io mi scossi, per interrompere il dibattito. “Infine, non si tratta se non di un antico dubbio, assai vago, ora risorto per caso. Questo turbamento irragionevole si dileguerà. Io do consistenza a un’ombra. Fra due, fra tre giorni, dopo Pasqua, andremo a Villalilla; e là io saprò, io sentirò indubitabilmente il vero. – Ma quella profonda, inalterabile malinconia ch’ella porta negli occhi non è sospetta? Quella sua aria smarrita, quella nube d’un pensiero continuo che le pesa tra ciglio e ciglio, quella stanchezza immensa che rivelano certe sue attitudini, quell’ansietà ch’ella non riesce a dissimulare quando tu ti avvicini, non sono sospette?” Tali ambigue apparenze potevano anche spiegarsi in un senso favorevole. Però, sopraffatto da un’onda di dolore più violenta, io mi levai e andai verso la finestra col desiderio istintivo d’immergermi nello spettacolo esterno per trovarvi una rispondenza allo stato del mio spirito o una rivelazione o una pacificazione.
Il cielo era tutto bianco, simile a una compagine di veli sovrapposti in mezzo a cui l’aria circolasse producendo larghe e mobili pieghe. Qualcuno di quei veli pareva a quando a quando distaccarsi, avvicinarsi alla terra, quasi radere la cima degli alberi, lacerarsi, ridursi in lembi cadenti, tremolare a fior del suolo, vanire. Le linee delle alture si volgevano indeterminate verso il fondo, si scomponevano, si ricomponevano, in lontananze illusorie, come un paese in un sogno, senza realità. Un’ombra plumbea occupava la valle, e l’Assòro dalle rive invisibili l’animava de’ suoi luccicori. Quel fiume tortuoso, luccicante in quel golfo d’ombra, sotto quel continuo dissolvimento lento del cielo, attirava lo sguardo, aveva per lo spirito il fascino delle cose simboliche, parendo portare in sé la significazione occulta di quello spettacolo indefinito.

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