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Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano
Guido Pagliarino


Guido Pagliarino

Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano

Romanzo storico
Copyright © 2018 Guido Pagliarino
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Guido Pagliarino
Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano
Romanzo storico
3a Edizione a Stampa e in E-book

Precedenti Edizioni:
1a edizione dell'opera, in formato cartaceo, Copyright © 2007-2012 Prospettiva Editrice
Dal 01-01-2013 i diritti su quest’opera sono ritornati interamente all’autore
2a edizione , riveduta e variata, in e-book mobi ed epub, Copyright © 2015 Guido Pagliarino
2a edizione, riveduta e variata, cartacea, Create Space, Copyright © 2016 Guido Pagliarino

L'immagine inserita nella copertina è la riproduzione d'una tempera di Raffaello su carta, montata su tela, custodita al “Victoria and Albert Museum, London” sotto il titolo “St Paul before the Proconsul”, 1515; l'opera è conosciuta in Italia anche come “Elimas il mago viene accecato da Saul dinanzi a Sergio Paolo” oppure “La conversione del proconsole” con riferimento ad Atti degli Apostoli, 13, 8-11
INDICE

“Le indagini di Giovanni Marco cittadino romano” (#ulink_5d6e1e59-2878-5c53-9d97-f0615c05b226)- Romanzo storico (#ulink_5d6e1e59-2878-5c53-9d97-f0615c05b226) (#ulink_5d6e1e59-2878-5c53-9d97-f0615c05b226)di Guido Pagliarino (#ulink_5d6e1e59-2878-5c53-9d97-f0615c05b226)
Capitolo I (#ulink_5b9fc03f-c55a-509b-956b-ffceac723378)
Capitolo II (#ulink_a76baef7-6d98-55b1-89f3-64c29c30c264)
Capitolo III (#ulink_15f89d59-e100-5a4f-8924-07256e47cf75)
Capitolo IV (#ulink_56ae5009-2a6f-5af9-9f13-cd531b18f6a7)
Capitolo V (#ulink_55ec35ee-2a7b-50ec-b9f1-b6a5974f45a3)
Capitolo VI (#ulink_903cf3cb-fbe6-5f19-b3ba-a4ae8effd8ce)
Capitolo VII (#ulink_bd16bf5f-218a-5f19-8c5f-2966ec635848)
Capitolo VIII (#litres_trial_promo)
Capitolo IX (#litres_trial_promo)
Capitolo X (#litres_trial_promo)
Capitolo XI (#litres_trial_promo)
Capitolo XII (#litres_trial_promo)
Capitolo XIII (#litres_trial_promo)
Capitolo XIV (#litres_trial_promo)
Capitolo XV (#litres_trial_promo)
Capitolo XVI (#litres_trial_promo)
Capitolo XVII (#litres_trial_promo)
Capitolo XVIII (#litres_trial_promo)
Capitolo XIX (#litres_trial_promo)
Capitolo XX (#litres_trial_promo)
Capitolo XXI (#litres_trial_promo)
Capitolo XXII (#litres_trial_promo)
Capitolo XXIII (#litres_trial_promo)
“Dizionarietto essenziale storico” di Guido Pagliarino” (#litres_trial_promo)
Note al testo (#litres_trial_promo)
Le indagini di Giovanni Marco cittadino roman (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)o (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)
Romanzo storico di Guido Pagliarino (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)
Capitolo I
(Indice) (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)

Stranamente il paesaggio era luminoso sebbene il cielo fosse plumbeo.
Giovanni Marco camminava lungo una strada diritta lastricata, come la via romana a lui familiare che da Gerusalemme scendeva a Cesarea Marittima; ma non era quella. Il tracciato si perdeva all’orizzonte, percorrendo un ignoto territorio piatto quasi deserto, con radi pruni giallastri e cespugli grigioverdi smossi dall’andare e venire di vipere e circondati da sciami di mosconi il cui ronzio continuo infastidiva i suoi orecchi; non un essere umano, a parte lui.
All’improvviso Marco s’era trovato in una zona colma di fosse, come quelle profonde che si scavano per seppellire immondizie o carogne; ed ecco che, prima inavvertito, aveva notato steso a terra, insepolto, il cadavere insanguinato d’un cane molosso nero, la lingua di fuori e gli occhi vitrei, e aveva udito un rumore provenire dalla buca più vicina, come uno scalpiccio, un fruscio, uno stropicciare con le unghie d’un vivente che si stesse penosamente arrampicando: forse un animale ferito e buttato sul fondo ancora vivo che cercava di risalire? Un altro temibile cane da combattimento? e se fosse stata una fiera in agguato?! Aveva sofferto unto sudore tiepido dietro al collo mentre un’altra possibilità gli aveva causato un brivido alla schiena: se invece… fosse stato lì per mostrarsi un abitatore dello Sheòl?! Nel medesimo istante aveva fatto capolino dalla buca la testa d’un uomo; ed era Gionata Paolo, suo padre.
Uscito dalla fossa, il defunto se n’era trattenuto al limite. Appariva tal quale Marco l’aveva visto per l’ultima volta tanti anni prima, quando il genitore era partito per il viaggio a Perge da cui non sarebbe tornato: trentasei anni, alto, snello, folti capelli e lunga barba castani con qualche filo già bianco; indossava la stessa tunica nocciola e il medesimo mantello verdino costretto alla vita da una cintura marrone.
Le braccia abbandonate lungo il corpo, fisso come un pertica aveva iniziato senza preamboli uno dei sermoni ch’era solito indirizzare al figlio: “Caro Marco, tu non sei sulla buona via ma sul cammino dell’aridità. I nazareni faticano senza posa per dare al mondo la buona notizia, mentre tu continui a occuparti solo dei tuoi interessi. Sì, è vero, rispetti i precetti della Legge, ma se questo era sufficiente per me che non sapevo, a te non può bastare: ora che la notizia s’è posata ai tuoi piedi, devi raccoglierla e sparpagliarla, e tanto più lo puoi, essendo tu favorito dalla cittadinanza di Roma che ti dà pieni diritti nell’impero. Segui dunque l’esempio di tuo cugino Giuseppe Barnaba e, quando andrà a Perge per diffondere la notizia, va’ con lui; una volta giunto, per prima cosa onora la mia tomba e quindi indaga: scoprirai chi m’assassinò e, grazie a te, sarà fatta giustizia”.
“Perché non me lo dici tu adesso, chi t’uccise?!”.
Il padre non gli aveva risposto e, come se neppure avesse udito, aveva preso a salire adagio verso il cielo, mentre nel bigio delle nuvole s’era aperta lentamente una fessura di luce; e Marco s’era svegliato.
Capitolo II
(Indice) (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)

Diciassette anni prima, in un giorno di marzo del 781 a.U.c.1 (#litres_trial_promo) secondo il calendario di Roma, anno 4080 dalla creazione del mondo per gl’israeliti, Gionata padre di Marco, fariseo, era entrato raggiante nella propria bella dimora in Gerusalemme, di ritorno da Cesarea Marittima dove sedeva il rappresentante di Tiberio Cesare per la provincia di Giudea, Samaria e Idumea: dopo tanto tempo e denaro spesi in doni al suo protettore Marco Paolo Rufo, aiutante del procuratore Ponzio Pilato, finalmente gli era stata concessa la cittadinanza romana. I suoi affari ne sarebbero stati agevolati, tripudiava, ed egli si sarebbe arricchito ancora di più, nella piena benedizione dell’Altissimo.
Gionata era nato ad Asut, sul corso del basso Nilo, secondogenito di un’abbiente famiglia d’agricoltori. Alla morte del padre i terreni sarebbero andati al fratello maggiore ed egli s’era dedicato pertanto al commercio di vino e datteri facendo base a Gerusalemme, dove aveva contemporaneamente frequentato la casa di Hillel, maestro biblico originario di Babilonia. Durante questo soggiorno era entrato in amicizia con un altro allievo di quella scuola farisaica, Samuele, più anziano e padre della sua futura moglie, la tredicenne Maria: si trattava d’un’importante famiglia appartenente alla tribù di Levi e addirittura discendente dal sommo sacerdote Aronne fratello di Mosè. Maria aveva avuto dal proprio padre una buona cultura, contrariamente all’uso del tempo verso le figlie femmine. Dopo il matrimonio, seguendo i propri commerci Gionata aveva preso domicilio con la sposa a Salamina, dove già risiedeva il fratello di lei, un levita proprietario d’un podere che li aveva provvisoriamente ospitati; ma già mesi dopo, di fronte a prospettive migliori la coppia s’era trasferita a Chairouan di Cirenaica dove, a buon prezzo, Gionata aveva comprato terre e dov’era nato Marco. Alcuni anni dopo però, la regione era stata invasa da bellicose tribù arabe costringendo la famiglia alla fuga. Senza perdersi d’animo, il fariseo aveva condotto i suoi cari a Gerusalemme presso i genitori della moglie. Con monete e gioielli ch’egli e Maria s’erano nascosti addosso, aveva comprato un uliveto nei pressi della città, lungo una sponda del torrente Cedron in località Getzemani, piantando così di nuovo il benessere familiare. Entro pochi anni aveva allargato il podere acquistando una vigna sull’altra riva, comprato casa e rilevato un bazar di tappeti.
“Ho ritenuto bene aggiungere al mio nome quello di famiglia del mio patrono”, aveva comunicato Gionata a Maria la moglie e all’unico figlio non appena era entrato in casa, ancor prima di farsi lavare i piedi sporchi per la lordura della via; “d’ora in poi sarò Gionata Paolo; e anche al tuo nome, caro figliolo, ne seguirà uno latino, ché all’occorrenza, presentandoti ai romani, possano riconoscerti come uno dei loro e favorirti. Da questo momento sei Giovanni Marco, cittadino di Roma”.
Il giovane aveva compiuto da poco i tredici anni, era un adulto oramai, un Bar Mitzwah, Figlio della Legge ammesso a leggere e commentare in sinagoga i rotoli della Sacra scrittura. Il padre tuttavia, come s’egli fosse stato ancora un piccolo bambino, non aveva mancato di raccomandargli: “Attenzione, però: anche se adesso sei cittadino romano, non dimenticare mai d’essere un giudeo, segui sempre i 613 Mitzvot, i santi Precetti della Legge! e mai acquista qualcosa degli usi dei nostri dominatori”. Qui di colpo un sospetto gli era saltato in mente. S’era zittito e aveva guardato attorno circospetto, come se in casa o dietro al muro perimetrale potesse celarsi una qualche spia di Ponzio Pilato. Rassicurato, aveva ripreso slancio e s’era buttato appieno in uno dei suoi soliti, ridondanti insegnamenti al figlio, che spaziavano dall’etica alla storia e in cui paragonava i santi costumi farisaici a quelli biasimevoli dei gentili: “Noi ebrei, figliolo, siamo gli eletti del Cielo, mentre i romani, come i greci, per i loro corrotti costumi non risorgeranno: i nostri conquistatori videro la corrotta Grecia come culla di valori da inserire nella loro civiltà, ma insieme al sapere entrarono in Roma le abitudini morali nefande di quel popolo, che meritano punizione dal Signore!” La maledicente esclamazione non gli era di certo bastata; aveva continuato: “Invano il severo imperatore Augusto avversò quei costumi: corre voce a Cesarea Marittima che il suo erede Tiberio s’abbandoni a ogni vizio assieme alla sua corte, non differenziandosi più in nulla dagli ellenici maestri di dissolutezza. Così, presso i gentili è abominazione delle abominazioni. Che dire, d’altronde, della cultura greco-latina in sé stessa?! Poesia, filosofia, diritto sono riservati a pochi privilegiati che trattano la plebe come una cosa, per non parlare di come considerano noi giudei, noi che siamo costretti a comprarci la cittadinanza dell’Urbe per prosperare” – in fondo si sentiva in colpa per il suo recente acquisto – “e dietro agli umanisti greci e romani ecco, a perdita d’occhi, un’estensione eterogenea di miserabili popolani, a Roma come a Corinto, ad Alessandria come in Atene, ai quali, nella stragrande maggioranza dei casi, neppure viene insegnato a leggere e a fare di conto”. Si gonfiò anche di più: “Noi ebrei, invece, fino ai dodici anni! siamo istruiti in sinagoga, noi figli d’Israele tutti di stirpe regale, quella del Creatore, come sappiamo dalla sua Parola, e nient’affatto una massa come la plebe della società pagana; e chiunque di noi, come il grandissimo mio rabbì Hillel di Babilonia ch’era un semplice tagliaboschi, può continuare gli studi se un maestro l’accoglie come discepolo, e addirittura aspirare a divenire egli stesso un rabbì!”. Ripreso fiato, aveva finalmente concluso: “Che la giustizia dell’Altissimo fulmini i peccatori impenitenti per i secoli dei secoli!”.
“Amèn, amèn”, avevano fatto eco in coro figlio e moglie; e finalmente questa, ch’era rimasta per tutto il tempo con un catino in mano pronta a servire lo sposo, s’era accinta a lavargli i piedi.
Un paio di mesi dopo, il 23 di maggio, durante un soggiorno d’affari a Perge dove intendeva acquistare pregiati tappeti locali in uno degli empori cittadini per rivenderli a prezzo maggiorato a Gerusalemme, Gionata Paolo era stato trovato cadavere da una ronda di polizia, steso a terra in uno dei vicoli cittadini, trafitto al cuore.
L’assassino o gli assassini non erano stati rintracciati.
La borsa non gli era stata sottratta, difficile quindi pensare a un omicidio per rapina. Immorale concorrenza negli affari sino all’omicidio? Un banale litigio sulla via finito tragicamente? O forse era stato uno di quei fanatici patrioti ebrei detti zeloti? L’aveva punito perché era divenuto cittadino di Roma? Queste le domande che Marco s’era posto. Solo diciotto anni dopo avrebbe avuto la risposta, e il movente che avrebbe scoperto non sarebbe stato fra quelli immaginati, ma qualcosa d’assolutamente inatteso.
Capitolo III
(Indice) (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)

Tre giorni prima della morte di Gionata Paolo, la nave proveniente da Cesarea Marittima dove il fariseo s’era imbarcato aveva gettato l’ancora nel porto di Salamina di Cipro, città dove viveva un suo nipote d’acquisto, il levita Giuseppe detto Barnaba, figlio del fratello di sua moglie e agricoltore come i defunti genitori.
Barnaba aveva ospitato lo zio per la notte e, avendo già intenzione d’acquistare a Perge, nell’immediato futuro, certe sementi pregiate, aveva deciso, lì per lì, d’unirsi a lui nel resto del viaggio.
S’erano imbarcati il giorno dopo sopra una nave più piccola di quella che aveva portato Gionata Paolo a Salamina, imbarcazione che, una volta superato il braccio di mare che divideva Cipro dalla regione di Panfilia, avendo breve immersione poteva risalire il fiume Cistro fin al piccolo ancoraggio di Perge, invece di doversi mettere alla fonda ad Attalia, il porto marino della città.
Una volta a destino, usciti dal porticciolo i due avevano visto, lungo la via che portava all’interno, donne di varie età e giovinetti imberbi, seminudi gli uni e le altre, offrirsi ai passanti tanto con la parola che toccandosi il sesso o le terga e dondolando i bacini in una pantomima sessuale. Il rigido fariseo, che sull’esperienza dei precedenti viaggi se l’era attesa, aveva eruttato, indicando il cielo con l’indice ultore della mano destra: “Obbrobrio davanti al Signore! O tu che cammini sulla sfera di cristallo del firmamento! Manda il tuo angelo di morte su tutti quest’impudichi!”.
“Amèn”, s’era unito il nipote, ma a bassa voce e senz’enfasi.
Per quel suo fiacco tono, il fariseo non era rimasto soddisfatto del parente: “Insomma Barnaba! lo vedi bene, no? cosa devo soffrire ogni volta che vengo qui. A Perge trovo il meglio dei tappeti o non ci metterei piede, sai? Lo hai notato o no, che v’imperversano addirittura gli efebi sodomiti?!”
Il nipote, socchiudendo gli occhi e piegando la bocca in una smorfia amara, aveva assentito doppiamente con la testa.
Finalmente confortato, lo zio aveva allora levato il viso il più in alto possibile e fiondato la propria voce fin alla sfera del cielo, o almeno questa ne era stata l’intenzione: “Abominazione delle abominazioni! Altissimo Signore, salva i peccatori pentiti, ma scaglia le tue maledizioni su quelli che non si pentono! Falli bruciare dal tuo angelo di morte con una tempesta di fiamme, come su Sodoma e Gomorra!”.
“Amèn”, aveva fatto eco un’altra volta il nipote, stavolta alzando di molto la voce; poi però non s’era trattenuto e, sorridendo, aveva fatto seguire: “La tempesta ardente solo quando saremo ripartiti, eh? perché se qualche lingua di fuoco andasse fuori bersaglio…”
“Beh, beh… si capisce”, aveva concordato Gionata Paolo che mancava del tutto d’umorismo.
Dividendo le spese, i due avevano affittato una stanza in un alberghetto dove il fariseo era solito soggiornare, gestito dall’ebreo Matteo Bar Beniamino, in cui, secondo le norme di purità, veniva servito cibo kosher ottimamente cucinato ai correligionari di passaggio, e pure a diversi avventori non ebrei che, pur non soggetti alle regole giudaiche, ne apprezzavano l’ottimo sapore.
Poco dopo il sorgere del sole sul suo ultimo giorno di vita, Gionata Paolo aveva assunto la prima colazione nella locanda in compagnia del nipote, poi i due s’erano divisi per occuparsi ciascuno dei propri affari; così, al momento dell’aggressione lo zio sarebbe stato solo col suo assassino. Avevano stabilito di ritrovarsi verso il tramonto alla locanda, ch’era non lontana dalla viuzza dove il padre di Marco sarebbe stato trovato da una ronda di polizia morto ammazzato, per far cena e riposare fino all’alba, dopo di che il fariseo avrebbe pagato e ritirato i suoi tappeti e il levita i propri sacchi di sementi e, coi rispettivi carichi, i parenti sarebbero ripartiti quella mattina con la stessa nave che li aveva portati a Perge.
Barnaba aveva passato la giornata visitando alcuni grossisti di granaglie, con una breve pausa verso mezzodì per un leggero pasto di frutta consumato in piedi presso il venditore. Aveva trovato i chicchi giusti, per qualità e prezzo, solo a fine pomeriggio. Lasciata una caparra al fornitore, era tornato alla pensione, giungendovi quando il sole era da poco sceso dietro l’orizzonte. Non appena entrato aveva saputo dall’albergatore, senz’alcun delicato preambolo, dell’omicidio dello zio: Matteo Bar Beniamino, tornando poco prima a casa da una commissione, era passato per la stradina dove giaceva il cadavere, attorniato da uomini d’una ronda di polizia, e aveva riconosciuto nel morto il proprio cliente: “Era stato ucciso da poco”, aveva precisato all’attonito levita, “lo so perché una delle guardie stava dicendo ai colleghi che il corpo era ancora tepido; poi l’avevano caricato sopra un carretto, immagino requisito lì per lì”. Era prassi delle ronde d’ordine pubblico portare in caserma ogni salma ignota raccolta per via, fatto tutt’altro che infrequente, dov’era tenuta in deposito in una cantina fin all’alba del dopodomani, nell’eventualità che un parente si fosse presentato a riconoscerlo e reclamarlo; se no, il morto veniva seppellito nelle prime ore del posdomani nella fossa comune di Perge.
Le funzioni dell’organismo di polizia della città, composto da un centinaio d’uomini al comando d’un centurione, erano simili a quelle della Milizia dei Vigili dell’Urbe, creata nel 758 1 (#litres_trial_promo)bis (#litres_trial_promo) da Ottaviano Cesare Augusto e imitata in varie città dell’impero. Venivano esercitate mansioni generali di polizia e la prevenzione e lo spegnimento d’incendi nonché, legati alle prime, l’individuazione e l’arresto di chi li avesse provocati per dolo o anche solo per negligenza. Alla base dell’attività della centuria stavano ronde continue per la città di squadre di dieci uomini. Gaio Tullio, comandante della decuria che s’era imbattuta nella salma di Gionata Paolo, dopo aver interrogato brevemente gli abitanti della zona, i quali avevano dichiarato di non aver visto né udito nulla, aveva rinunciato a indagare: in quei tempi era normale che la maggior parte dei delitti restasse impunita, trovare i colpevoli non sorpresi in flagrante era improbabile quasi come individuare una particolare formica in un formicaio.
Il locandiere aveva riportato ancora a Barnaba d’aver detto al decurione che la vittima era stata sua cliente, aggiungendo che avrebbe avvisato della tragedia un altro avventore, che aveva stanza con la vittima e ne era parente, perché, volendo, ne richiedesse la spoglia.
La sera stessa, nonostante l’oscurità, ottenuta una lanterna dall’albergatore il nipote del morto s’era presentato alla sede dei militi, non eccessivamente distante, per reclamare il corpo dello zio. Aveva parlato con un decurione in servizio al corpo di guardia. Il sottufficiale l’aveva condotto dal comandante della caserma, un giovane centurione di nome Giunio Marcello. Costui, dopo aver ascoltato la richiesta di Barnaba, aveva convocato il decurione Gaio Tullio e, in sua presenza, aveva detto al levita: “Bene, mi hai detto di chiamarti Giuseppe Barnaba e d’essere di Salamina; adesso voglio sapere cosa siete venuti a fare a Perge tu e la vittima”.
“Io a comprare sementi per i miei campi e lo zio tappeti per il suo bazar in Gerusalemme”.
“Poiché c’è anche una borsa del morto da ritirare, dimmi come puoi dimostrare d’essere suo nipote”.
“Lo può confermare Matteo Bar Beniamino, padrone della locanda dove io e lo zio abbiamo preso una stanza assieme”.
S’era intromesso Gaio Tullio: “Comandante, Matteo Bar Beniamino è l’individuo che ho citato nel mio rapporto, che ha riconosciuto la vittima dell’omicidio e mi ha detto ne avrebbe informato il nipote”.
“Va bene, comunque tra poco controlleremo se quel nipote è proprio costui”. S’era volto a Barnaba: “Tu, intanto, dimmi dove e con chi hai trascorso oggi le ultime ore di luce”.
A quanto sembrava sospettava di lui, come aveva recepito il levita con preoccupazione; e aveva fatto il nome del grossista di granaglie.
Il centurione, avuti gl’indirizzi del commerciante e dell’albergatore, aveva ordinato a Gaio Tullio di prendere una guardia con sé e accompagnare il levita alle residenze dei due testimoni, per un confronto.
Il grossista aveva testimoniato che quel suo cliente era stato da lui fin al tramonto, l’albergatore che Barnaba era arrivato alla locanda a sole appena calato, col cielo non ancor del tutto buio, e che il giorno prima l’uomo e il defunto s’erano presentati come parenti nel prendere stanza.
Ascoltato il rapporto di Gaio Tullio, il comandante aveva concesso all’accertato nipote di ritirare, alle prime luci, la salma dello zio. Sùbito gliene aveva consegnato la borsa, contenente solo monete d’oricalco, sei sesterzi e due dupondi, in uno dei due scomparti, per gli spiccioli, mentre l’altro, per le monete d’oro e i denari d’argento, era vuoto. Barnaba sapeva che il parente avrebbe dovuto possedere ancora molta pecunia per saldare i tappeti e pagarsi il viaggio di ritorno e aveva pensato a un furto, non da parte omicida, però, ma di guardie, il centurione stesso? Aveva ragionato: perché mai un rapinatore di strada avrebbe dovuto attardarsi a togliere le monete di valore lasciando la minutaglia, invece di carpire semplicemente la borsa come tutti i grassatori fanno, e fuggire prima che qualcuno potesse sopraggiungere? Nondimeno, per evitare contrattempi e forse guai, il levita aveva tenuto il sospetto per sé.
Dopo una notte di sonno sbattuto, all’apertura dei bazar Barnaba aveva acquistato una sindone, un sudario e unguenti sepolcrali e preso accordi con un paio di greci, di professione scalpellini, tagliapietre e affossatori, che avevano bottega nella stessa zona. Era giunto al posto di polizia coi due sul loro carro, trainato, come il levita aveva notato con disagio, da una coppia di muli: le norme ebraiche di purità vietavano d’incrociare specie diverse di bestie e anche d’avvalersi dei loro ibridi nati, ma Barnaba non aveva scelta in quella città in maggior parte pagana. I necrofori, esperti tanto di funerali gentili che ebrei, avevano caricato sul loro carro l’occorrente per una sepoltura giudaica. Il levita aveva ordinato ai due operai di lavare il corpo di suo zio e ungerlo con gli oli; quindi, dopo aver personalmente posato il fazzoletto funebre sul capo del defunto e aver elevato una preghiera, aveva comandato d’avvolgere la salma nella sindone. Col carro i tre vivi e il morto avevano raggiunto il sepolcreto, che si trovava a un mezzo miglio da Perge: si trattava d’un canalone coperto di sassi, pruni e arbusti che passava, per la lunghezza d’un terzo di miglio e la larghezza media d’un centinaio di cubiti, fra due pareti rocciose butterate da piccole caverne a varie altezze; le tombe erano state ricavate, aggiungendo alla natura l’opera dell’uomo, sfruttando le grotte che sboccavano a livello del suolo. Dopo che il levita, in piedi accanto al carro, aveva recitato le ultime orazioni per il defunto, i necrofori avevano portato il corpo, con la sindone che l’avvolgeva, in una grotta ancora libera dove l’avevano deposto supino; quindi avevano chiuso l’antro con pietre raccolte sul luogo, a mo’ di mattoni naturali, legandole fra loro con calce; avevano lasciato un’apertura, grossolanamente quadrata, a livello terra con lato di poco più d’un cubito e mezzo, dalla quale, strisciando, si sarebbe potuto accedere all’interno; quindi avevano scavato sul terreno, accosto alla tomba, una guida lunga cinque cubiti e larga circa un palmo, l’avevano ricoperta con piccoli ciottoli piatti e vi avevano posto e ruotato, a chiusura dell’ingresso, una lapide cilindrica, appena più stretta del corridoio e di diametro un po’ maggiore della diagonale dell’apertura, ruota tombale che avevano preso in bottega tra altre preventivamente lavorate e dove, su quello che sarebbe stato il lato esterno, Barnaba aveva fatto incidere, sia in aramaico sia traslitterato in alfabeto greco, il nome dello zio.
Il levita aveva dedicato i sette giorni seguenti a purificarsi dalla contaminazione del cadavere, secondo le norme mosaiche di purità contenute nel libro della Torah Bemidba: “…chi avrà toccato un cadavere umano sarà immondo per sette giorni. Quando uno si sarà purificato con quell'acqua il terzo e il settimo giorno, sarà mondo; ma se non si purifica il terzo e il settimo giorno, non sarà mondo”2 (#litres_trial_promo).
Compiuto il rito, l’ottavo dì s’era imbarcato per Salamina con le sue sementi. A casa aveva scritto e affidato a un corriere una lettera per la moglie e il figlio di Gionata Paolo, con dettagliate notizie sulla tragedia. Non aveva chiesto loro il rimborso, al netto dei pochi spiccioli del defunto che aveva trattenuti, dei costi della sepoltura e del forzato soggiorno a Perge per altri sette giorni: a differenza dello zio, Barnaba considerava il denaro un mero strumento e non una gratificazione del Signore per i giusti; peraltro seguiva sì i 10 comandamenti di Mosè, il precetto della decima al tempio e le norme di purità ma, come moltissimi altri suoi correligionari, non scendeva a minute bigotterie nonostante, secondo i pignoli dottori della Legge, tutti d’origine farisaica, fossero da ritenersi giusti solo coloro che si sforzavano di rispettare, com’era stato per il padre di Marco, tutti i 613 precetti della Legge nessuno escluso, tra i quali figuravano addirittura obblighi come quello di recitare, ogni volta che ci si ritirava al gabinetto, questa preghiera di benedizione: “Sii tu benedetto, Signore nostro re dell’universo, che hai fatto l’uomo con sapienza e hai creato in lui molti fori e vani. È rivelato e si conosce dinanzi al Trono della tua Gloria che se uno di questi s’aprisse o uno di quelli si serrasse, sarebbe impossibile vivere e rimanere davanti a te. Benedetto sei tu Signore, che curi ogni corpo e agisci magnificamente”3 (#litres_trial_promo).
Ben si comprende quanto il lutto avesse gettato nell’afflizione il giovane Marco e sua madre. La vedova Maria, quando finalmente s’era data pace, aveva venduto per conto del figlio, unico erede di Gionata Paolo, il bazar di tappeti, causa indiretta della morte del diletto marito e padre, e aveva investito il ricavato in un bell’appezzamento di terreno in aggiunta a quelli già posseduti: aveva ragionato che, così, Marco non avrebbe dovuto fare viaggi lunghi e pericolosi per acquistare merce; aveva inoltre vietato al figliolo d’andare a Perge a visitare la tomba paterna, perché “di morti in casa, ne basta e avanza già uno” e, peggio ancora, d’andarvi a cercare gli assassini, come lui avrebbe voluto: “Un’idea”, l’aveva rimproverato con fermissimo tono, “del tutto assurda, che poteva venire in mente solo a un bambino come te”.
Capitolo IV
(Indice) (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)

Erano passati due anni dall’omicidio ed era il venerdì 6 aprile della settimana di Pasqua dell’anno di Roma 783.4 (#litres_trial_promo) Era tramontato da poco il sole del giovedì e, col primo buio, era iniziato il giorno pasquale sia per il popolo sia per la chiusa setta degli esseni che computavano la data di Pasqua seguendo il calendario solare; invece per le sette dei sadducei e dei farisei il gran giorno sarebbe stato solo l’indomani, ché stabilivano la solenne ricorrenza secondo il calendario lunare, onde per loro il 6 aprile di quell’anno era solo la parasceve, cioè il giorno dei preparativi. 5 (#litres_trial_promo)
Un rabbì originario di Nazareth di Galilea e dodici suoi seguaci s’erano riuniti al primo piano della dimora amica di Marco e di sua madre, per celebrare la cena pasquale entro la città santa di Gerusalemme com’era prescritto a tutti gli ebrei quando possibile. L’agnello tradizionale di Pasqua che sarebbe stato consumato dai tredici al culmine del solenne convivio era stato comprato dal discepolo del rabbì e tesoriere del gruppo Giuda Bar Simone detto l’Iscariota6 (#litres_trial_promo) e presentato al tempio dov’era stato ritualmente scannato da un ministro del culto.
La vedova di Gionata Paolo aveva conosciuto il maestro nazareno nella prossima Betania in casa delle amiche Marta e Maria e del loro fratello Lazzaro, e affascinata dal carisma dell’uomo ne era divenuta spiritualmente seguace. Per simpatia, gli aveva concesso il proprio cenacolo perché potesse celebrare coi suoi la cena pasquale nella città, al riparo da occhi nemici; la sua vita era infatti minacciata dai membri del consiglio supremo giudaico di Gerusalemme, il sinedrio, in cui sedevano sacerdoti, scribi e certi anziani della comunità, ricchi potenti che tramavano per arrestarlo al più presto e consegnarlo al tribunale romano con un’accusa passibile di morte, poiché li aveva pubblicamente criticati e ingiuriati sulla piazza antistante il tempio. Per quei potenti non si trattava solo di vendetta, essi lo temevano perché in suoi insegnamenti erano una minaccia continua per loro; egli insegnava infatti, senza mezze parole, che in ogni tempo i capi delle collettività non devono esigere d’esser lodati e serviti ma, al contrario, devono essere a disposizione del popolo; e affermava che l’Eterno aveva stabilito che purità e impurità d’un essere umano non stanno nell’adempiere o no i precetti formali della Legge, non nel commissionare per adorazione sacrifici d’animali7 (#litres_trial_promo) e offerte di primizie e nello svolgere i rituali inventati da sacerdoti e dottori della Legge per averne prestigio e guadagno, ma nelle scelte d’amore o di odio per il prossimo. Se questi insegnamenti avevano allarmato assai i capi d’Israele, avevano all'inverso entusiasmato molti come la Maria la vedova.
Il giovane Marco non era fra i seguaci del rabbì, ma essendo ufficialmente il padrone di casa e religiosamente maggiorenne da un biennio,8 (#litres_trial_promo) avrebbe avuto il diritto di stendersi al posto d’onore sulle stuoie della mensa pasquale assieme agli invitati. Se n’era tuttavia astenuto perché, seguendo gli usi farisaici paterni, egli con la madre e i servi avrebbe festeggiato la Pasqua la sera seguente, e difatti un altro agnello era stato immolato per loro nel tempio. Dunque i tredici erano stati lasciati soli nel cenacolo, completamente liberi di celebrare la festa fra di loro.
Inaspettatamente, a un certo punto della serata uno del gruppo, quel Giuda che aveva provveduto all’agnello, era sceso spedito al pian terreno con una brutta smorfia sul volto, le guance porporine, e aveva infilato la porta di casa senza nemmeno salutare Marco, ch’era nell’atrio. Il giovane s’era chiesto se quell’uomo avesse ricevuto un improvviso, urgente incarico dal maestro, al suo carattere piaceva infatti moltissimo indagare su fatti in ombra; ovviamente avrebbe voluto, prima di tutto, scoprire e far arrestare gli assassini del padre, ma ormai lo riteneva irrealistico: mancava qualche anno ancora allo straordinario sogno che l’avrebbe spinto a investigare. Non vedendo più tornare Giuda, la curiosità del ragazzo s’era accresciuta. Quando il gruppo del nazareno aveva lasciato la casa dietro al maestro per recarsi a dormire, su concessione di Maria, nel capanno dell’uliveto detto Getzemani che Marco aveva ereditato, il giovanissimo proprietario aveva detto alla madre che avrebbe accompagnato i dodici, sarebbe rimasto anch’egli per la notte e avrebbe fatto rientro alle prime luci: s’augurava in cuor suo che, cammino facendo, avrebbe conosciuto le ragioni dell’uscita imprevista dell’Iscariota e del mancato suo ritorno.
Maria restava assai protettiva verso il figlio, come di norma le madri ebree, almeno in quei tempi; allarmata, aveva esclamato con tono acceso, pur sapendo che le sue parole non sarebbero servite affatto contro la testardaggine del ragazzo: “…ma cosa vai a fare là di notte?! È mai possibile che tu debba sempre farmi preoccupare? Perché non ascolti per una volta la tua mamma?!”.
Maria aveva solo quindici anni più del figlio ed era ancora una bella donna, piccolina ma dai tratti fini e un corpo florido che molto piaceva in quei tempi, e terminato il periodo del lutto aveva ricevuto proposte di matrimonio da diversi vedovi, anche perché avrebbe ereditato beni alla morte dei propri genitori: proposte tutte rifiutate in quanto la donna aveva deciso di dedicarsi interamente a Marco.
Con viso mesto, senz’aggiungere altre parole la madre aveva ordinato ai servi di preparare l’occorrente, tre lanterne per illuminare la via e tredici teli di lino dove avvolgersi durante il sonno. Quattro dei discepoli s’erano caricati le lenzuola, tre avevano avuto ciascuno una lampada accesa e il gruppo s’era avviato dietro al maestro, con in coda Marco ch’era uscito ignorando la madre: Maria s’era piantata appena fuori dalla porta e aveva seguito muta il suo passaggio, cogli occhi umidi, accompagnandolo poi con lo sguardo finché il gruppo non era sparito alla vista.
Il rabbì nazareno era silenzioso, assorto in qualche grave pensiero. I suoi, per non infastidirlo, parlavano a bassa voce e a Marco parevano inquieti: forse temevano un arresto? Eppure, ragionava il giovane, era impossibile che quegli uomini venissero rintracciati nell’uliveto, fuori città e al buio, e certo si sarebbero messi in salvo se, ancor prima dell’alba, avessero lasciato la zona e fossero tornati nella loro Galilea; tanto ormai, soggiungeva a sé stesso, avendo soddisfatto l’impegno dei festeggiamenti pasquali a Gerusalemme, non avevano più motivo di restare.
Marco non aveva resistito per molto e aveva domandato all’appena più anziano di lui Giovanni Bar Zebedeo, ch’era in coda al gruppo al suo fianco e, unico, pareva del tutto tranquillo: “Perché il tuo condiscepolo ha abbandonato quasi di corsa la cena e non è più tornato?”.
“Aveva avuto un improvviso incarico dal maestro”, aveva risposto l’altro confermando la sua ipotesi, “ma quale non saprei perché gli aveva parlato a bassa voce. So che, in tono più alto, l’aveva infine esortato dicendogli: “Quello che devi fare, fallo presto!”. Avevo presunto l’avesse inviato a cercare altre provviste, ma visto che Giuda non è più tornato, ora non saprei che pensare, né oso chiederlo al rabbì”.
Era intervenuto Giacomo Bar Alfeo, parente del maestro, che procedeva sùbito innanzi ai due e voltando la testa aveva sussurrato al condiscepolo: “Io non sono affatto tranquillo dopo che, a cena, il rabbì ci ha annunciato che uno di noi lo tradirà e lui sarà arrestato, mentre noi fuggiremo”.
“Il traditore non potrebbe essere Giuda?” s’era frapposto Marco.
“Mah”, aveva considerato Bar Alfeo, sempre sottovoce, “il maestro gli avrebbe dato un incarico di fiducia se avesse sospettato di lui?! e poi, solo dopo che Giuda era uscito ci ha detto che l’avremmo abbandonato, perciò penso che il rinnegato sia tra noi undici, anche se certamente non sono io”.
“…e nemmeno io! e non l’abbandonerò mai!” s’era risentito Giovanni, come se l’altro avesse sospettato proprio di lui; e aveva proseguito: “Hai trascurato d’aggiungere che il maestro ha pur detto che uno di noi invece non fuggirà e sarà con lui fino alla morte; e io sento d’essere quel discepolo”: la sua voce appassionata aveva attratto l’attenzione di tutto il gruppo compreso il rabbì, il quale s’era fermato e voltato. A questo punto era stato tutto un vociare rivolto al maestro, per primo un certo Simon Pietro che aveva esclamato: “Io non ti lascerò mai, mai, mai!”; suo fratello Andrea, per non essere da meno aveva espresso con foga: “…e figuriamoci un po’ se me ne andrò io, rabbonì!”, parola che significa maestro mio ed esprime la massima devozione possibile verso il proprio rabbì; da Giacomo Bar Alfeo era giunto un urlo, o quasi: “Non dare retta a Giovanni! Sono io quello che non t’abbandonerà”; un tale di nome Taddeo aveva espresso: “…e chi potrebbe lasciarlo, un maestro come te?!”; insomma, uno per uno tutti avevano promesso assoluta fedeltà; quindi, per buon peso, nemmeno si fossero messi d’accordo prima, avevano pronunciato all’unisono: “Nessuno di noi t’abbandonerà mai, o rabbonì!”.
“Pietro, tu che hai promesso per primo sappi che, avanti che il gallo canti due volte, tu m’avrai tradito tre volte”, aveva profetizzato il maestro, “e come avevo annunciato, tutti voi tra poco scapperete, a parte uno: e dico adesso ch’egli è il giovane Giovanni”. Quindi, impartito l’ordine di non parlare più, il maestro s’era di nuovo immerso nei propri pensieri.
Giunti al podere Getzemani, Marco e otto degli undici erano entrati nell’ampio capanno degli attrezzi e s’erano stesi sul pavimento, nelle aree libere da utensili, per prendere sonno; invece i discepoli Simone Bar Giona detto Pietro e i fratelli Giovanni e Giacomo Bar Zebedeo, obbedendo a un ordine del maestro, avevano cercato, ma sarebbe stato un vano tentativo, di restare svegli in preghiera con lui, tra gli ulivi.
Appena un paio d’ore dopo, era il momento più buio della notte, s’era finalmente capito che, proprio come Marco aveva sospettato, il traditore annunciato era Giuda. Ecco che l’Iscariota era apparso alla testa di guardie del sinedrio che impugnavano spade e bastoni e aveva identificato il rabbì, ch’era stato arrestato. Sapendo dell’intenzione del maestro di salire all’uliveto per la notte, il cattivo discepolo ne doveva aver informato i capi d’Israele che avevano capito di poter arrestare segretamente l’odiato e pericoloso nazareno approfittando dell’oscurità e dell’isolamento della zona, senza correre il rischio d’una sollevazione della piazza che simpatizzava per lui. In realtà il giorno dopo la stessa, soggetta come sempre alle ultime, superficiali suggestioni, istigata da agenti del sommo sacerdote Caifa avrebbe chiesto a Pilato che l’arrestato fosse tolto di mezzo9 (#litres_trial_promo).
A Giuda, come si sarebbe saputo in Gerusalemme, erano venute in compenso trenta monete d’argento, il prezzo d’uno schiavo robusto o d’un piccolo campo. L’esortazione che il maestro gli aveva lanciato, “Quello che devi fare, fallo presto”, poteva aver adesso un significato, poteva trattarsi, come avrebbe riflettuto Marco, del desiderio del nazareno di non restare troppo a lungo preda dell’ansietà: il rabbì doveva aver realizzato di non avere più scampo, che ormai, essendo troppo inviso ai capi d’Israele per gl’innumerevoli attacchi loro rivolti, ovunque fosse andato sarebbe stato trovato e, dunque, che fosse inevitabile il suo martirio; conosciuta l’intenzione di Giuda di denunciarlo, doveva averla accolta come una liberazione dall’angustiante attesa e per questo, informato il discepolo che sapeva tutto, doveva averlo esortato a non indugiare.
Al trambusto ch’era seguito all’arrivo delle guardie, i nove che riposavano nel capanno s’erano svegliati ed erano corsi a vedere. Marco, che per essere più comodo dormiva senz’abiti avvolto nel telo, in tale stato era uscito all’aperto. Un soldato, temendo ch’egli nascondesse un’arma sotto il lenzuolo, gliel’aveva tolto violentemente e il giovane, rimasto nudo, era fuggito precipitosamente nel buio. S’era fermato più in là a riprendere fiato, accosciato dietro a un ulivo plurisecolare, battendo i denti per il freddo della notte e maledicendo la sua abitudine di dormire nudo. Aveva udito passi in fuga di molti uomini: in seguito avrebbe saputo trattarsi dei discepoli dell’arrestato che, avendogli promesso di non abbandonarlo mai, stavano scappando a precipizio. Molto tempo dopo, quand’era stato proprio sicuro che le guardie avevano abbandonato il luogo dell’arresto e il Getzemani era rimasto deserto, il giovane era tornato al capanno per riprendersi gli abiti. Rivestitosi, s’era diretto cautamente a casa. Giuntovi, aveva raccontato gli ultimi eventi alla madre che, non appena realizzato il pericolo che Marco aveva corso, l’aveva sgridato severissima: “Hai visto cosa succede a disubbidire alla mamma?! Diventa un figlio buono! Perché mai sei così cattivo con me?”. Solo dopo lo sfogo s’era preoccupata del maestro arrestato.
Genitrice e figlio avevano saputo il resto degli avvenimenti dai discepoli del rabbì Pietro e Giovanni: tutti gli undici, come lo stesso Marco, erano sfuggiti nell’oscurità all’arresto, ma nove erano sùbito tornati alla spicciolata nel cenacolo mentre i primi due avevano seguito di nascosto gli avvenimenti fin all’alba; quindi Pietro s’era rifugiato anch’egli a casa di Maria e Marco e aveva riferito loro quant’aveva vissuto, mentre Giovanni aveva ancor assistito alla morte del nazareno in croce prima di rientrare e narrare l’ultimo atto della tragedia. In breve: nella notte il rabbì era stato condannato ufficiosamente da quei membri del sinedrio che il sommo sacerdote era riuscito a riunire col buio nel proprio palazzo, quindi alle prime luci era stato condotto in vincoli al procuratore Ponzio Pilato per ottenerne l’ufficiale sentenza di morte quale sedizioso, condanna capitale che, in base agli accordi con Roma, il sinedrio non poteva più comminare sia che fosse riunito informalmente e senza tutti i membri, come quella volta, sia che lo fosse ufficialmente e in seduta plenaria; Pilato, per chetare la folla aizzata dai sacerdoti, aveva fatto flagellare il prigioniero orribilmente e poi l’aveva condannato alla morte in croce sul luogo delle esecuzioni, la collinetta di poco fuori le mura detta Calvario.
All’alba del terzo giorno dopo la morte del maestro nazareno, alcune sue seguaci che avevano partecipato alla sepoltura e conoscevano l’ubicazione del suo sepolcro vi s’erano recate per rendere gli onori funebri alla salma ungendola, non essendo stato possibile quand’era stata calata dalla croce, verso il tramonto del sole del venerdì e perciò poco prima del sabato, giorno per gli ebrei del sacro riposo. Del tutto inaspettatamente, le brave donne avevano trovato la tomba aperta e, come avrebbero testimoniato, ma senz’essere credute, avevano visto un giovane uomo vestito di bianco, seduto sulla pietra sepolcrale, il quale s’era rivolto loro affermando che il crocifisso era risorto, e chiedendo di riferire agli undici l’ordine del maestro di recarsi in Galilea dov’essi l’avrebbero rivisto. Erano rimaste esterrefatte e invece d’obbedire avevano vagato senza meta per Gerusalemme; finalmente una di esse, una certa Maria originaria di Magdala, nel passare davanti alla casa di Maria la vedova, sua amica, s’era risolta a entrare e a riportarle l’accaduto. La madre di Marco l’aveva introdotta presso gli undici, ai quali finalmente la donna magdalena aveva riferito gli ultimi straordinari fatti. Tutti, a parte il giovane discepolo Giovanni, erano rimasti increduli e s’erano detti l’un l’altro all’incirca così: Come si potrebbe dar fiducia alle donne?! Nemmeno hanno diritto di testimoniare in giudizio persino sulle più banali cose, figurarsi se sarebbe possibile prestar fede a tale notizia. Un messaggero del Cielo?! Isteria femminile. Anche Marco era restato scettico, pur imprimendosi in mente le parole della donna. Giovanni invece aveva voluto andare al sepolcro e Pietro, mosso da curiosità, fattosi coraggio l’aveva seguito. Erano stati guidati da Maria di Magdala perché, non avendo partecipato alla sepoltura, non conoscevano la tomba. L’avevano trovata veramente aperta e vuota, se non per i lini sepolcrali.
“Un furto del cadavere da parte del sinedrio?” aveva proposto Pietro a Giovanni.
Dopo averci riflettuto, avevano concluso che i capi d’Israele non avrebbero avuto alcun vantaggio dalla scomparsa del corpo, anzi al contrario essi non avrebbero voluto di certo accreditare voci di prodigi. I due avevano inoltre ragionato che sarebbe stato assai più comodo per i ladri, e del tutto naturale, portare via il corpo avvolto nel lenzuolo, non svolgerlo prima di trasportarlo; e per di più, avevano notato che il funebre tessuto di lino in cui era stato avvolto il cadavere giaceva non in disordine ma semplicemente afflosciato, come se la salma fosse svanita al suo interno. Avevano concluso che, a meno che terzi ignoti avessero organizzato una messa in scena per misteriosi motivi, il crocifisso doveva essere davvero risorto.
“C’è ancora oscurità sufficiente per non crederlo, caro Giovanni, ma c’è chiarore bastante per crederlo”, aveva detto Pietro, più a sé stesso però che al suo compagno.
Il giorno dopo gli undici erano partiti per la Galilea, non solo nella possibilità che il loro maestro vi apparisse davvero, ma per togliersi finalmente dai pericoli.
Quanto a Giuda Iscariota, era corsa voce in Gerusalemme che si fosse suicidato dopo aver restituito il prezzo del venduto e aver chiesto vanamente d’esser giudicato dal sinedrio come accusatore insincero d’un uomo retto. Marco, uditi questi fiati e avendo saputo da Giovanni che il traditore era giunto dall’ambiente dei rivoluzionari zeloti, aveva supposto ch’egli avesse denunciato il nazareno pensando che l’arresto avrebbe causato una sollevazione popolare la quale avrebbe posto il maestro sul trono d’Israele; e Giuda si sarebbe confortato nell’idea quando il rabbì stesso non solo gli aveva detto di conoscere la sua intenzione di denunciarlo ma, addirittura, l’aveva esortato a non indugiare; visto però l’esito opposto, il traditore si sarebbe sentito colpevole secondo le leggi di Mosè d’aver denunciato un innocente e, poiché il sinedrio non l’aveva voluto processare e condannare, si sarebbe giustiziato da solo: Marco aveva buon cuore, invece il giudizio morale di molti su Giuda sarebbe stato d’assoluta condanna.
Un giorno i fatti raccolti da Marco in quei giorni e altre notizie sul maestro nazareno ch’egli avrebbe avuto da Pietro sarebbero confluiti in un suo libricino, “Vangelo di Gesú Cristo Figlio di Dio”: sarebbe stato proprio Marco a inventare il genere letterario vangelo, cioè buona notizia; ma ciò sarebbe avvenuto molti anni dopo, al di là della nostra storia.
Due settimane dopo aver lasciato Gerusalemme, gli undici erano tornati e avevano bussato a casa di Marco e sua madre. Avevano raccontato loro che Gesú di Nazareth era veramente apparso loro in Galilea ordinando di tornare a Gerusalemme a predicare la buona notizia della sua risurrezione e della salvezza eterna venutane agli esseri umani, e di allargare in seguito questo vangelo a tutte le nazioni.
Marco era rimasto incredulo. Aveva suggerito a Pietro: “…e se aveste avuto pure e semplici allucinazioni?”.
“Crediamo proprio di no”, aveva risposto il capo dei discepoli, “noi tutti abbiamo ormai più che sufficiente luce per credere, anche se comprendo che, per te e per chiunque non abbia visto il maestro risuscitato, ci sia bastante buio per poter non credere. Sai? sento che sarà ovunque e sempre così: luce e ombra, fiducia e no nella nostra testimonianza su Gesú risorto s’accompagneranno sino alla fine del mondo”.
A differenza di Marco, Maria aveva glorificato il maestro, del tutto convinta che fosse risuscitato davvero, anche se non l’aveva visto. Gli apostoli, cioè gl’inviati come ormai gli undici si definivano, le avevano chiesto di pregare il figlio d’acconsentire ad averli ancora suoi ospiti. Il giovane, nonostante il personale scetticismo, per amore della sua mamma aveva accettato. Così la sua dimora era divenuta la sede del direttivo della neonata Chiesa.
Senza queste occasioni e frequentazioni, Marco non si sarebbe mai trovato nella situazione di poter indagare sull’assassinio del proprio padre.
Capitolo V
(Indice) (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)

Compiuti i vent’anni, il giovane s’era sposato con l’unica figlia di Pietro, la quattordicenne Ester. Il matrimonio era stato combinato dai relativi genitori, com’era allora usuale in Israele. Si trattava d’una brava giovane che, sottomessa al marito come di norma le spose giudee in quel tempo, si sarebbe parzialmente compensata, come tutte loro, esercitando ferrea autorità verso i figli minorenni e, a volte, tentando d’influire su di loro anche dopo, così come ancor cercava di fare Maria con Marco anche se con poco successo. Ester aveva accolto gl’insegnamenti religiosi del padre ed era credente in Gesú Cristo risorto. A differenza della suocera la sua cultura era quasi nulla ma ciò, nell’ambiente antico, era normalmente considerato per una donna un merito più che un difetto. Avrebbe dato figli a Marco e, a causa dei molti viaggi che il marito avrebbe intrapreso anni dopo, sarebbe rimasta sovente senza di lui, nell’ombra della loro casa in Gerusalemme. Fin d’ora possiamo farla uscire dalla nostra storia.
Cinque anni dopo il matrimonio, era il 793,10 (#litres_trial_promo) Marco aveva finalmente compiuto la maggiore età e aveva preso a occuparsi direttamente dei propri affari. Rimasto scettico sulla risurrezione di Gesú, egli era ormai l’unico del gruppo a non aver chiesto il battesimo cristiano.
Intanto la Chiesa, all’inizio composta da circa centoventi persone, s’era allargata e oltrepassava ormai, nella sola Gerusalemme, il numero di tremila anime, nonostante l’ostilità del sinedrio, sfociata in persecuzione causando arresti e omicidi. Parte dei cristiani aveva dunque lasciato la città, iniziando l’evangelizzazione della Samaria e di altre regioni. Oltre a chiese minori, comunità importanti erano state fondate a Damasco e ad Antiochia di Siria, tutte tributarie di quella di Gerusalemme.
Il cugino di Marco, Barnaba, incontrando cristiani a Salamina la cui minima chiesa dipendeva da quella di Antiochia ed era composta da immigrati da quella città, era rimasto turbato dalla loro predicazione. Conoscendo bene le Sacre scritture, s’era persuaso che Gesú fosse proprio il Messia annunciato dai Profeti e s’era convertito. Non avendo figli cui lasciare i propri beni, aveva venduto il suo podere, s’era trasferito con la moglie a Gerusalemme e aveva donato alla Chiesa l’incasso; aveva quindi iniziato a collaborare con Pietro. Conoscendo il greco, lingua internazionale dell’impero, e avendo cultura biblica, era stato presto impiegato come inviato in diverse regioni.
Intanto sul fronte opposto, un uomo nativo di Tarso di nome Saulo, che con Barnaba e per un certo tempo con Marco avrebbe avuto parte importante nella nostra storia, aveva preso a perseguitare cristiani per conto del sinedrio conseguendo rilevanti successi.
Saulo era cittadino romano per nascita, sotto il nome di Paolo, e fariseo seguace del grande maestro Gamaliele di Gerusalemme; avendo fine intelligenza, anche grazie a personali studi aveva raggiunto una cultura profonda. Godeva d’una gran vigoria fisica e d’una forza psichica che debordava in capacità ipnotica, la sua persona esprimeva un grande fascino nonostante fosse afflitto dalla bruttezza: a differenza di Barnaba e di Marco, persone alte, magre, dai fini lineamenti e con molti capelli e una folta barba, Saulo era calvo sin da ragazzo, grasso e piccolo di statura, aveva foltissime sopracciglia e rada peluria sul viso, dal quale esibiva un naso gigantesco. Ormai non gl’importava delle sue miserie fisiche, ma da giovane non era stato così: esse l’avevano reso oggetto di frizzi e di nomignoli rendendo il suo carattere facile all’ira; tuttavia, grazie a un lungo esercizio s’era vinto e ormai da molto tempo, incontrando un ostacolo o, peggio, un atteggiamento ostile, invece di collera vana sapeva esprimere energica ma calma indignazione costruttiva. Rimasto vedovo prematuramente, aveva deciso di dedicare la vita a Dio e, ritenendo di servirlo, nel 787 11 (#litres_trial_promo) s’era messo agli ordini del sinedrio divenendo cacciatore di cristiani; ma tale servizio sarebbe durato solo per un triennio, poi Saulo sarebbe entrato egli stesso nel novero dei perseguitati. Nel 790,12 (#litres_trial_promo) mentre per incarico dei suoi superiori si stava recando a piedi a Damasco, con guardie, per individuare e catturare seguaci di Cristo ed era in testa ai suoi, essendo ormai prossimo alla città era crollato di colpo a terra13 (#litres_trial_promo) come colpito da un’invisibile folgore. Aveva visto, lui solo, il Risorto immerso in uno sfolgorio di luce abbacinante, mentre i suoi uomini avevano soltanto udito le parole che Saulo andava pronunciando nel contempo: prima egli aveva detto con voce possente, gli occhi serrati, come se stesse ripetendo involontariamente quanto stava udendo: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”; aveva quindi chiesto in un sussurro, aprendo gli occhi: “Chi sei tu, Signore?”; s’era risposto, di nuovo con voce potente e a occhi chiusi: “Io sono colui che tu perseguiti. Ora alzati e va’ a Damasco dove ti sarà detto quanto dovrai fare”. S’era ritrovato cieco, gli occhi insanguinati e dolenti; poi il sangue s’era trasformato in crosta che aveva lenito il dolore. Condotto per mano in città dai suoi uomini, che avevano pensato a un male improvviso che l’avesse accecato e inebetito, Saulo era stato alloggiato nella casa d’un ebreo di nome Giuda. Per tre giorni non aveva né mangiato né bevuto nonostante le insistenti premure del padrone di casa, che lo sapeva ragguardevole emissario di Gerusalemme. La terza notte aveva sognato, o udito nel dormiveglia, la voce di Gesú: gli annunciava ch’egli sarebbe stato visitato dal cristiano Anania, il quale gli avrebbe imposto le mani facendogli recuperare la vista. Il mattino dopo gli s’era veramente presentato un uomo di nome Anania che gli aveva detto: “Mentre dormivo e sognavo d’essere in un bellissimo giardino, ho udito pronunciare: ‘Anania’. Io, sentendo con certezza che la voce era quella del Risorto, ho sùbito risposto ‘Eccomi, Signore!’. Egli mi ha ordinato: ‘Vai sulla strada chiamata Diritta, entra in casa d’un certo Giuda e chiedi di Saulo di Tarso, che in questo medesimo istante sta sentendo il tuo nome nella propria mente: è cieco, ma tu gl’imporrai le mani ed egli vedrà’. ‘Signore’, ho ribattuto con apprensione, ‘so ch’egli ha fatto tutto il male che poteva a tuoi seguaci in Gerusalemme! Inoltre ci è giunta voce che sia giunto qui a Damasco per arrestare proprio noi’. La voce del Signore mi ha tranquillizzato: ‘Va’, egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome tanto ai figli d’Israele quanto agli altri popoli e ai loro capi, e quando sarà battezzato io gli mostrerò quant’avrà da soffrire per il mio nome’”. Anania aveva imposto le mani a Saulo cui erano cascate dagli occhi le scaglie di sangue raggrumato e subito egli aveva recuperato la vista: avrebbe inteso essersi trattato d’un segno divino del buio spirituale in cui era vissuto perseguitando i seguaci di Gesú e della luce nella quale stava entrando. Giorni dopo, a casa d’Anania, Saulo era stato battezzato. S’era quindi recato nel deserto dell’Arabia per un ritiro spirituale. Per giorni aveva riflettuto su cosa fare e aveva pregato Dio per ottenere illuminazione, ma senza trovare risposta: Tornare a Damasco e annunciarvi Cristo con Anania e gli altri battezzati? Andare per il mondo predicando il Risorto a chiunque avesse incontrato? Oppure recarsi in Giudea, a Gerusalemme, dov’erano nascosti i capi della Chiesa, cercarli, trovarli e presentarsi loro da pentito, offrendosi di collaborare? ma come avrebbero reagito, non l’avrebbero forse preso per una spia del sinedrio? Una notte, avendo ormai deciso di ripartire il mattino seguente, aveva fatto un sogno rivelatore. Gli era parso di salire in alto fin al terzo cielo e d’arrivare in contatto col Trascendente, quasi viso a viso con Dio: non sarebbe mai riuscito a esprimere chiaramente agli altri l’esperienza, vivissima sebbene vissuta nel sonno, che gli aveva dato una gioia incomparabile. Tuttavia, dopo l’iniziale beatitudine, era apparso al dormiente un viscido e bavoso demonio che l’aveva schiaffeggiato con violenza su entrambe le guance. Quel diavolo era sparito subito dopo, ma non il dolore: Saulo aveva sofferto di lancinanti trafitture nella carne, come se vi fossero state conficcate lunghe spine; e a questo punto aveva udito la voce di Gesú: “Ecco le innumerevoli difficoltà che incontrerai nel tuo apostolato, abbandoni di amici, equivoci, persecuzioni, carceri e malattie, e infine la morte violenta a Roma per decapitazione”.
“Signore”, l’aveva pregato Saulo con parole contratte dal dolore, “se vuoi ch’io sia tuo apostolo, dammi la possibilità d’annunciare l’evangelo fin quando non sarò ucciso: non mettermi intralci sulla strada”.
“Per raggiungere lo scopo ti basteranno il mio amore e la mia benevolenza. Io ti amo! Non preoccuparti e sii certo che, nonostante le molte sofferenze, tu riuscirai. Ci saranno ostacoli che t’impediranno di portare a termine quei progetti che io stesso ti susciterò, ma che t’importa?! Pensa all’illimitato mio amore che si manifesta non solo nell’assoluta forza di Dio ma pure nel misterioso svuotamento della sua potenza, nel mio dolore e nella mia morte per la gloriosa mia Risurrezione. Ti sia sufficiente l’esser amato da me Dio e fatto partecipe del mistero pasquale della mia debolezza e della mia forza; e sarà questo scandalo apparente, anzitutto, che tu predicherai”. Saulo aveva visto allora negli abbandoni degli amici, nelle malattie e negli innumerevoli altri ostacoli che avrebbe incontrato la sua partecipazione alla debolezza del Dio-uomo crocifisso e s’era sentito così amato e sorretto da lui da poter compiere, per volere divino, nella sua propria carne quanto ancora mancava alla Passione di Gesú, anche se nello stesso tempo aveva capito perfettamente che il vero e solo Salvatore dell’umanità era Cristo, e pure che l’unico autore del successo del suo apostolato sarebbe stato lui, il Risorto.
Gesú gli aveva ancora detto, appena prima del risveglio: “Tu fa’ tutto quanto puoi, affidandoti appieno al mio amore che concluderà l’opera per te; e adesso va’ a Damasco e inizia da lì la tua opera”.
L’apostolo era tornato in quella città e, colmo d’entusiasmo, vi aveva predicato per un triennio. Col tempo però, egli aveva suscitato l’odio religioso di ebrei canonici. Verso la metà dell’anno 793 14 (#litres_trial_promo) costoro avevano deciso in ottima fede, “per onorare il Signore” d’uccidere “Saulo l’eretico”. Informato in tempo da amici, col loro aiuto era fuggito facendosi calare di notte in una cesta dalle mura cittadine. S’era rifugiato a Gerusalemme, nella casa d’una sorella sposata con la quale aveva abitato da quand’era rimasto vedovo, prima del viaggio a Damasco. S’era quindi recato a casa di Marco dove, come aveva saputo tempo prima da Anania, vivevano i dirigenti della Chiesa: era forte d’una sua lettera che lo raccomandava quale ottimo, fidatissimo cristiano. Aveva offerto la sua opera d’evangelizzatore al capo degli apostoli Pietro e a Giacomo Bar Alfeo che aveva affiancato il primo nella direzione dei cristiani di Gerusalemme, essendo sovente impegnato il primo in altri luoghi della Palestina e nella città d’Antiochia di Siria. Nonostante la raccomandazione del buon Anania, Saulo aveva incontrato molta diffidenza: il suo referente era conosciuto dal direttivo della Chiesa, ma la lettera non avrebbe potuto essere falsa?! Solo Barnaba era rimasto convinto e aveva interceduto con forza, a più riprese, riuscendo a dissolvere la sfiducia degli altri. Conoscendo assai bene il greco, Saulo aveva iniziato a predicare la notizia della risurrezione di Gesú Cristo nel luogo di maggiore passaggio, davanti al tempio, a quei giudei ellenisti che avevano come unico idioma quella lingua; senza successo però; peggio, aveva suscitato in loro tale ostilità che anch’essi, come gli ebrei di Damasco, avevano cercato d’ucciderlo. Non c’erano riusciti perché l’apostolo, per un contrattempo, non era passato quel giorno nella via dove, nascosti, l’attendevano armati. Qualcuno dei fratelli di fede aveva però raccolto notizia del fallito agguato e ne aveva avvertito Pietro; dunque Saulo era stato condotto in segreto, da Barnaba e un paio d’altri in funzione di scorta, a Cesarea Marittima e da qui imbarcato alla volta della sua città natale, Tarso. V’era rimasto per quattro anni evangelizzando, per primi ebrei in sinagoga, poi gentili. Essendo ben risaputo in città ch’egli era cittadino romano, s’era trovato relativamente al sicuro: quanto meno, qui nessuno aveva cercato d’ammazzarlo. Alcuni convertiti da Saulo, trasferitisi a Roma, vi avevano portato il Cristianesimo, ancor prima che vi giungesse Pietro anni dopo.
Nel 798 15 (#litres_trial_promo) Barnaba aveva raggiunto Saulo a Tarso e con lui era partito alla volta d’Antiochia, la cui comunità dei seguaci di Gesú, ormai comunemente detta “i cristiani”, da qualche tempo egli coordinava per incarico di Pietro.
Capitolo VI
(Indice) (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)

Erano passati diciassette anni dalla morte del padre di Marco e quindici dalla nascita della Chiesa e all’imperatore Tiberio erano succeduti sul trono di Roma l’ancor più turpe Caligola e suo zio Claudio.
Il desiderio del giovane di far giustizia dell’uccisore del genitore, nei primi tempi vivissimo, era stato lenito a poco a poco dal tempo, che certo non induce all’oblio per i cari morti e però lascia, a un certo punto, che ne affiori il ricordo solo a tratti e velato. Era stato inaspettatamente dunque che, verso la fine dell’anno 798,16 (#litres_trial_promo) Marco aveva fatto lo sconvolgente sogno del padre che usciva dalla fossa e lo esortava a visitare la sua tomba e a cercare chi l’avesse ucciso: era stato così reale quel sogno da indurlo a considerarlo una visione mandata da Dio; il dolore per la perdita del genitore era tornato intenso quasi come nel giorno in cui era giunta la lettera di Barnaba con la ferale notizia.
Nella Bibbia e nella tradizione orale giudaica il sogno, ogni sogno, ha grande importanza, induce a vedere la realtà sotto una luce più chiara rivelando cose che durante la veglia appaiono in penombra o che restano celate; ma tanto più importante è il sogno in cui parlino, a volte visibili e altre no, figure angeliche o persone defunte, tutte considerate messaggere di Dio: dal sogno di Giacobbe della scala collegante Cielo e terra e percorsa da angeli, a quello preveggente di suo figlio Giuseppe, ai sogni profetici di Daniele, fino a quelli moderni di Giuseppe padre putativo di Gesú e di altri seguaci del Nazareno, tra cui Saulo Paolo di Tarso, l’accaduto antico e il nuovo, l’attesa del Messia e la sua venuta erano legati dall’onirico filo il quale inoltre, nella vita d’ogni giorno, collegava, secondo il generale sentire, la pesante realtà terrena all’eterna Festa celeste, manifestando insegnamenti e svelando voleri divini per le quotidiane cose.
Così Marco, convinto che il padre gli avesse davvero parlato per ordine di Cristo, pur non arrivando a chiedere il battesimo al suocero né a privarsi dei propri beni come i cristiani, aveva iniziato a operare con Pietro come segretario e, conoscendo bene il greco e il latino, quale interprete e scriba.
Dopo un paio di settimane dal sogno, era accaduto un altro fatto straordinario che Marco aveva inteso come suggello alla sua visione onirica. Si era appena entrati nell’anno nuovo, sempre regnante l’imperatore Claudio, quand’era giunta a Pietro una lettera di Barnaba con cui l’apostolo annunciava il suo arrivo assieme a Saulo: avrebbero condotto due carri con vettovaglie provenienti da una colletta in natura fatta ad Antiochia, in aiuto della Chiesa madre che in quel momento era in grave bisogno a causa d’una carestia scoppiata in tutto l’impero e particolarmente grave a Gerusalemme, dove il cibo in vendita era scarsissimo; manifestava inoltre l’intenzione d’intraprendere con Saulo un giro missionario che avrebbe toccato diverse città, e la speranza che il cugino Marco, di cui conosceva le capacità pratiche, li seguisse ad Antiochia e di qui li accompagnasse nel viaggio quale aiutante amministrativo.
Pietro aveva chiamato suo genero e gli aveva detto: “Figlio mio, forse mi priverò del tuo aiuto?”.
“Ho sbagliato in qualcosa?” s’era turbato Marco.
“No, tutt’altro. Fatto è che Barnaba farà con Saulo un giro d’evangelizzazione in molte città, tra cui Perge dov’è sepolto tuo padre…”
“…Perge?!”.
“Ebbene sì, e tuo cugino vorrebbe che tu accompagnassi lui e Saulo come segretario e amministratore; e avresti la possibilità di visitare la tomba del tuo genitore”: Pietro non sapeva del sogno di Marco perché suo genero l’aveva serbato per sé e dunque, considerando la gran fatica e i gravi pericoli del viaggio e temendo ch’egli fosse restio ad accettare, stava tentando di convincerlo.
Marco, col cuore colmo d’emozione, aveva inteso invece l’invito di Barnaba come il sigillo del Cielo, in assoluta sintonia con quella che ormai s’era rivelata una profezia. Così, con grandissimo trasporto aveva senz’altro aderito.
“Ah no, eh?!” s’era dovuto ricevere tuttavia da sua madre, quand’ella aveva saputo della sua prossima partenza: “È un viaggio pieno di pericoli! Lo sai benissimo che non mi fa nessun piacere che tu giri per il mondo: non ti basta quel che successe a tuo padre?!”.
“Dovrò pur visitarne il sepolcro, prima o poi, non ti pare?” le aveva risposto Marco con tono severo: “Che figlio sarei se l’ignorassi per tutta la vita?! E inoltre dovresti ben sapere che Cristo non vuole vigliacchi. Mamma, non interferire mai più”.
La donna aveva chinato il capo.
Capitolo VII
(Indice) (#ulink_d089b076-8f3c-5da6-a924-6acc458e08fb)

La nave, salpata da Seleucia presso Antiochia alla volta dell’isola di Cipro, provincia romana senatoria, dopo 155 miglia di non difficile navigazione grazie alle correnti solitamente deboli in quella zona di mare, aveva attraccato nel porto di Salamina, prima tappa del viaggio missionario. Barnaba, Saulo e Marco erano stati alloggiati da un fratello di fede membro della piccola comunità cristiana da cui il primo dei tre era stato a suo tempo evangelizzato.
Gli ebrei erano numerosi in città e c’erano diverse sinagoghe. I due apostoli e Marco, essendo anch’essi giudei, vi avevano libero accesso; così Barnaba e Saulo, accompagnati dal giovane, il primo sabato erano entrati in una di esse e, dopo le comuni orazioni cogli altri partecipanti, avevano predicato Gesú Cristo risorto:
Aveva iniziato a parlare Barnaba, essendo nella sua città e conoscendo molti dei presenti. Preso un rotolo della Torah che riportava insegnamenti del libro Vaykrah, ne aveva letto questo versetto: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento”17 (#litres_trial_promo). Aveva commentato: “Figli d’Israele, ci fu insegnato dai sacerdoti e dagli scribi del tempio di Gerusalemme, ma non dall’Altissimo, che il Signore è l’onnipotente che neppure si può citare per nome, la divinità che si deve servire con timore, e ci fu detto che, quando si tradisca questo dovere, egli castiga, non solo non concedendo la vita eterna ma inviando sventure e malattie al colpevole e ai suoi discendenti; ed è per questo che voi considerate i più gravi fra tutti gli ammalati, gl’inguaribili e intoccabili lebbrosi, come peccatori imperdonabili, sebbene il precetto che vi ho appena letto avesse in origine solo e soltanto uno scopo igienico, evitare il contagio, senz’alcuna condanna morale per l’ammalato. Ebbene, figli d’Israele, Gesú, il Messia che noi predichiamo, aveva dato un fortissimo segno di chi è davvero l’Altissimo proprio toccando e guarendo un lebbroso! Secondo la spietata mentalità diffusa da sacerdoti e scribi, il Messia si sarebbe in tal modo reso impuro nel cuore, sebbene egli avesse toccato l’intangibile per carità al fine di mostrare, ancor prima di sanarlo, che il poveruomo, come tutti i suoi simili, nient’affatto era un peccatore colpito dal Cielo; ed era stato proprio grazie all’amore di Gesú verso quel malato che lo Spirito, che è l’assoluto Amore, aveva operato il miracolo di guarigione. Amici! Durante tutta la sua vita il Messia del Padre celeste s’era impegnato a ribaltare il sentire da schiavi di noi figli d’Israele, da gran tempo ormai sottomessi acriticamente al potere dei sacerdoti e dei dottori della Legge trascurando gl’insegnamenti ricevuti a mezzo dei Profeti del Signore. Gesú aveva rivelato che, per l’Altissimo, purità e impurità sono nelle nostre decisioni buone o cattive, non nei gesti cultuali individuali e neppure nei riti religiosi collettivi inventati dai capi dei giudei; e aveva svelato che Dio, per amore, si pone lui al servizio degli uomini e non domanda affatto d’esserne servito: ci chiede invece d’imitarlo amandoci e aiutandoci gli uni gli altri. Gesú era stato il primo a prestare servizio al suo prossimo dando l’esempio, lui l’Unto del Padre s’era abbassato a servo insegnando che allo status di capo non deve corrispondere il comandare e l’essere servito, come invece pensano i sacerdoti e gli scribi, ma il servire: sappiate, amici, che nel corso dell’ultima cena coi suoi, com’è testimoniato dagli stessi discepoli ch’erano a tavola con lui e che noi personalmente conosciamo, prima d’essere arrestato e ucciso egli, per dare un segnale indelebile del suo insegnamento, alzatosi e toltosi il mantello, simbolo d’autorità, s’era cinto il grembiule, segno di servizio, e aveva lavato e asciugato i piedi ai suoi; infine aveva comandato: ‘Anche voi dovete lavarvi i piedi tra di voi. Infatti vi ho dato un esempio perché operiate come me; e voi pure dovete essere di modello al mondo’. Gesú era rimasto tuttavia il maestro e ne aveva dato mostra quando s’era cinto di nuovo il mantello, s’era riseduto a mensa quale capotavola e aveva preso a insegnare; ma attenzione, cari fratelli! egli non s’era tolto il grembiule e aveva mostrato così che Dio stesso è per sempre al servizio spirituale degli uomini; Gesú infatti, poco dopo, aveva detto ai suoi: ‘Chi ha visto me ha visto il Padre’. Sì, bisogna dare amore concreto ai propri simili: è così anzitutto che s’adora l’Altissimo!”.

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