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Il Vero E Il Verosimile
Guido Pagliarino


Guido Pagliarino

Il Vero e Il Verosimile

Racconti del Secondo ‘900
Copyright © 2017 Guido Pagliarino
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Libro ed E-book distribuiti da Tektime
Guido Pagliarino
Il Vero e Il Verosimile
Racconti del Secondo ‘900
© 2017 Guido Pagliarino
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La distribuzione di questo libro fisico / e-book è affidata a Tektime

Vicende, personaggi, nomi sono immaginari, nessuno dei racconti della silloge ha spunti biografici ed eventuali riferimenti alla realtà passata o presente e in particolare a persone vive o vissute e a enti, istituti, ditte, società e loro prodotti esistenti o esistiti sono del tutto involontari e casuali.

Immagine di copertina: “Verità e menzogna” di Alfred Stevens, 1857, Brtitish Museum, Londra: Verità, seduta su una panchina, il piede sul petto di Menzogna, reclinata sotto e che indossa una maschera, le strappa la doppia lingua.
Cover image: “Truth and Falsehood” by Alfred Stevens, 1857, Brtitish Museum, London: Truth seated on a bench, her foot on the chest of Falsehood, reclining below, wearing a mask, tearing out his double tongue
Indice

Brevissima Introduzione d (#ulink_efcfbb7e-aa70-57a3-9dd8-42361ff85fe4)ell’autor (#ulink_efcfbb7e-aa70-57a3-9dd8-42361ff85fe4)e (#ulink_efcfbb7e-aa70-57a3-9dd8-42361ff85fe4)
Guido Pagliarino, Il Vero e il Verosimile, Racconti del Secondo ‘900 (#ulink_081b1b0d-432b-5229-8aa8-73e89d5a1750): (#ulink_081b1b0d-432b-5229-8aa8-73e89d5a1750)
P (#ulink_11c17cb8-f63d-5194-bb4b-611c592d3e4e)olvere per costruire montagne (#ulink_11c17cb8-f63d-5194-bb4b-611c592d3e4e):
Prologo (#ulink_137ddc1b-e6c0-5682-8505-493241625d3b)
Antefatti (#ulink_556cf9a6-f994-5b6c-8f38-b22394dba57e)
Epilogo (#litres_trial_promo)

Il Vero e il Verosimile (#litres_trial_promo)
La perdita (#litres_trial_promo)
La Verità, il suo nemico e padre Paul (#litres_trial_promo)
La Ragione dei Segni (#litres_trial_promo)
Cane fantasma (#litres_trial_promo)
Il bene di M (#litres_trial_promo)é (#litres_trial_promo)deia (#litres_trial_promo)
BREVISSIMA INTRODUZIONE DELL’AUTORE (#ulink_d19cf667-7ace-5d2b-af97-7b7b8b9efe1d)

Sono sette racconti, tutti ambientati nel corso degli ultimi decenni dello scorso millennio: In “Polvere per costruire montagne” seguiamo un giovane apprendista industriale erede, o presunto tale, d’uno stabilimento per la produzione di giocattoli e prodotti per modellismo, nell’Italia del boom economico dei primi anni ‘60, che si scontra con pregiudizi e cattiverie, con false apparenze e la megalomania altrui. Ne “Il Vero e il Verosimile” incontriamo le vicissitudini familiari drammatiche e insieme grottesche d’un uomo che, secondo alcuni, è un farabutto, per altri è invece, addirittura, un santo. In “La perdita” osserviamo le fasi tragicomiche della disavventura d’un modesto pensionato alle prese con un’irrefrenabile perdita idrica nel locale che, angosciosamente, vorrebbe affittare per arrotondare la sua magra pensione. “La Verità, il suo nemico e padre Paul” considera che non in tutti i conventi si può vivere sempre e soltanto in pace e preghiera, soprattutto se entrano in gioco, a un certo punto, rapporti di lavoro e sindacali. “La Ragione dei Segni” vuol dimostrare la grande importanza di certe piccole coincidenze, di quelle apparenti casualità che possono modificare radicalmente una vita; e non diversamente è per il successivo racconto “Cane fantasma”; infine, nel breve "Il bene di Médeia” ci veniamo a trovare fra realtà e sogno a occhi aperti, altalenantesi forse per alienazione mentale forse, chissà, in vista d’uno scopo che supera i confini del mondo materiale.
Guido Pagliarino (#ulink_d0931f54-7024-5210-a932-108a6fe10de6)

IL VERO E IL VEROSIMILE (#ulink_d0931f54-7024-5210-a932-108a6fe10de6)

Racconti del Secondo ‘900 (#ulink_d0931f54-7024-5210-a932-108a6fe10de6)
POLVERE PER COSTRUIRE MONTAGNE (#ulink_c41c9b5b-fa33-5bf0-9bf2-b3112d2575f9)
PROLOGO (#ulink_bf6df8b2-aa7d-50b4-9433-54c0f180ae91)

Il cavaliere venne veleggiando nell'aria coi piedi uniti a quattro metri da terra, volando impettito per tutta la grandissima piazza antistante l'alloggio al primo piano dei coniugi Seta, con le braccia appena alzate avanti al corpo a guidarne, col solo movimento delle mani, la direzione.
Era una notte chiarissima, tanto che la luna piena pareva come il sole quando l'astro è coperto da nubi leggere e il cielo è grigio perla; ed era la luna perché i fanali erano accesi e c'erano stelle.
Nessuno sulla piazza, pochissime auto parcheggiate, niente traffico.
Silenzio.
Bruno Seta era alla finestra del salotto, aperta.
Nel vedere il prozio, che già di lontano aveva riconosciuto, s'allarmò; l'avevano infatti sepolto poche ore prima. Solo ansia però, non terrore. Rientrò di alcuni passi, poi si fermò. Ebbe l'impulso di tornare a chiudere la finestra; ma mentre stava per muoversi, l'altro giunse innanzi al vano. Voleva entrare? No, s'arrestò senza superarla, con gli occhi grigi fissi a lui, sofferenti. Aveva lo stesso vestito in cui era stato inumato.
Bruno, con sforzo, s'avvicinò: aveva capito che il cavaliere voleva parlargli. Così, viso a viso, distanti una quarantina di centimetri, l'altro sospeso nel vuoto, lui con le gambe un poco deboli e i piedi come inchiodati al pavimento, si guardarono per secondi; poi l'ectoplasma disse:
"Siamo polvere che s'illude di costruire, da sola, montagne.
Ora so che Dio solo ci eleva a montagne, se ci affidiamo a Lui.
Scusami."
"Niente, niente, figúrati", rispose di getto il nipote, comicamente, come se l'altro gli avesse chiesto scusa di qualche veniale, involontaria mancanza; ma a voce alta per l'inquietudine.
Lo zio allora, senza più nulla dire, ruotò su di sé fino a dargli le spalle e se ne volò via, lungo la stessa linea già percorsa al suo venire, mentre Bruno lo fissava allontanarsi, convinto che, in un punto lontano, il fantasma si sarebbe dissolto nell'àere; ma prima che ciò fosse avvenuto, si destò.
Accanto, pure Valeria non dormiva, e vedendo il consorte sveglio: "Ho fatto uno strano sogno", gli sussurrò, e glielo descrisse: era sogno identico al suo, solo che alla finestra c'era lei e lo spirito le aveva chiesto di domandare, per lui, perdono a Bruno. Per timore di dimenticare, subito gli aveva riferito l'ambasciata.
"Telepatia?" chiese a sé stesso il marito, ma a voce alta.
"Un Segno del Cielo", decretò la moglie: "Il defunto chiede preghiere e il tuo perdono."
Come avrebbe voluto che la ragione fosse stata di Valeria! Un Segno d'Eternità davvero, non l'emergere d'un senso di colpa per la mai sopita avversione a quell'uomo, inutilmente respinta con la ragione e ancor forte abbastanza da influenzare nel sonno persino la mente di lei. Ma come avrebbe potuto credere a un Segno, persa la Fede fin da ragazzo, per atee letture, per maestri miscredenti?! Eppure, sentiva il bisogno di Dio e da alcuni anni aveva ripreso a cercarlo; ma invano.
"Ah, se solo mi giungesse qualcosa ancora! Anche solo un minimo indizio, ma che fosse certo", si scoprì a desiderare nel dormiveglia, riprendendo sonno: "Se mi venisse un vero Segno, invece d'un semplice sogno…"

ANTEFATTI (#ulink_bb6fd4d2-1e62-5b43-8878-32c1020b9e93)

L'astio per il prozio era nato in Bruno più di vent’anni prima.
Era il 1963. Studente, aveva iniziato il secondo anno di Economia e Commercio, come s’intitolava allora la laurea economica torinese, in previsione d’unirsi al papà nella professione.
Un pomeriggio sul tardi, inaspettatamente, suo padre, agente di borsa, era stato contattato per telefono dal cavaliere, che gli aveva chiesto di fissargli un appuntamento in studio "per importanti comunicazioni circa lo splendido futuro che voglio preparare a mio nipote, cioè a tuo figlio".
Il papà era rimasto divertito e insieme sconcertato da quella telefonata, per l'artificiosa burocratica espressione usata dal parente e perché gli pareva ridicola l'idea che "da quell'artigiano", e non dallo studio professionale, potesse venire "uno splendido futuro" al suo ragazzo.
Alla morte della moglie, quando il bimbo aveva solo tre anni, il dottor Seta aveva promesso di non risposarsi e dedicarsi a Bruno soltanto; ma, non riuscendo a seguirlo a sufficienza negli studi, s'era costretto a metterlo in collegio sin dalla quarta elementare. Benché liberale agnostico, aveva scelto, per la sua buona fama, "un serio istituto di religiosi" dove sapeva che il figlio sarebbe stato seguito bene: "...ma solo fino alla licenza media inferiore!". Adolescente, l'aveva liberato e iscritto alle sue venerate scuole laiche; ed era stato nelle superiori, a causa di atei maestri, che Bruno aveva perso la fede in Dio.
Avendo dunque dedicato al figlio, al meglio di quanto potesse, la sua propria vita, papà Seta era rimasto apparentemente divertito, e in fondo dispiaciuto, che altri improvvisamente si proponesse quale fattore del futuro di Bruno.
Quel parente d'acquisto, che in matura età aveva sposato la zia della defunta madre di Bruno, verso la fine degli anni '40 del XX secolo aveva creato un'aziendina artigianale di giocattoli: lui e un paio di dipendenti. Poiché le due famiglie non si frequentavano, nient’affatto si sapeva che, sull'espansione economica degli anni '50 e primi '60, il cavaliere avesse ingrandito l'impresa fino a divenire industriale del giocattolo e degli stampati plastici con quasi duecento operai e un fatturato assai grande.
Troppo avanti negli anni, i coniugi non avevano avuto figli, e proprio per questo l'imprenditore aveva contattato il papà di Bruno.

Non appena ricevuto dal dottor Seta, il cavaliere aveva esordito: "Io non ho eredi, nemmeno lontani parenti. Non voglio che alla mia morte la fabbrica vada allo Stato, perché dove mettono le mani quelli, va tutto in malora; e mia moglie, se pure mi sopravvivesse, non sarebbe in grado di gestirla. Per lei, ho già provveduto: un usufrutto enorme, pari a un terzo del reddito dello stabilimento," – qui s'era interrotto per un attimo, aspettando di cogliere uno sguardo d'ammirazione del Seta – "ben inteso, alla mia morte". Intanto, aveva messo una mano in tasca a toccare, così più avanti si sarebbe dedotto, un suo chiodo: come Bruno avrebbe poi saputo, l'uomo, superstiziosissimo, considerava quell'oggetto il portafortuna di tutta la sua vita.
Aveva proseguito: "Voglio che il mio nome, nella mia ditta, resti a mia memoria nei secoli!"
Il dottor Seta per poco non gli aveva riso in faccia: Magari più dell'impero romano aveva, solo, pensato, e avrebbe ripetuto al figlio. Era riuscito, tuttavia, a rimanere serissimo.
L'altro, intanto: "La mia industria è ormai formidabile. Rende un mucchio di soldi, altro che il tuo studiolo!"
Proprio così aveva detto, studiolo; ma, come nel suo carattere, il padre di Bruno era rimasto impassibile, pur pensando: "Il solito bifolco" e, tendendogli la mano per congedarlo, gli aveva risposto: "Dovrò chiedere al ragazzo, è lui che deve decidere. T’informerò quanto prima."
L'altro aveva storto la bocca in un mezzo sorriso e una mezza smorfia, come a intendere: "Adesso sono i ragazzini a decidere? Con un'offerta così!" e se n’era andato; però, giunto alla porta dello studio s'era girato e, guardandosi prima attorno per assicurarsi d’avere l’attenzione delle impiegate, aveva soggiunto: "Rammenta: Bruno dovrà impegnarsi per iscritto, anche per i suoi eredi, che la fabbrica si chiamerà, per sempre, col mio nome: Industria Cavalier Olindo Pittò!"
L'uomo, notorio ateo, s'era illuso di sopravvivere nell'intestazione della sua ditta.
"Cosa ne penserebbe il Foscolo?" ne aveva poi scherzato col figlio, dopo averlo informato, il dottor Seta citando il poeta dei Sepolcri, che molto amava; e aveva concluso: "Tu, intanto, pensaci, perché la proposta è interessante; e tieni presente che potresti prendere lo stesso la laurea, lavorando e studiando dopo cena sui libri; la testa e la grinta, le hai."
Il papà aveva già chiesto informazioni sull'azienda Pittò, che erano state ottime. Dopo alcuni giorni l'offerta era stata verbalmente accettata, ma col patto che non soltanto per testamento, sempre revocabile, Bruno avrebbe acquisito i suoi diritti ma, di lì a due anni, la ditta individuale sarebbe stata trasformata in società per azioni e al giovane, che avrebbe lavorato gratis, si sarebbe intestato il dieci per cento della proprietà; quindi, il due per cento a ogni biennio fino a raggiungere un terzo delle azioni; il resto sarebbe venuto, per lascito testamentario, alla morte del cavaliere. Per evitare al figlio un impegno irrinunciabile, e considerando che la maggiore età si raggiungeva a quei tempi solo a ventun anni, il padre aveva preferito che si rimanesse, per il momento, sulla semplice parola, senza atti scritti.

Il carattere dell'industriale era venuto quasi subito in luce. Sebbene sapesse esprimersi con proprietà, grazie forse a molte letture e, di certo, alle rigorose scuole elementari d’un tempo, era rozzo più di quanto le descrizioni di papà Seta avessero lasciato supporre, prepotente coi sottoposti e umilissimo coi potenti, fra i quali includeva gli industriali più ricchi di lui. Per Seta figlio, educato alla libertà e al rispetto per il prossimo, la comunanza era stata difficile.
Bruno era entrato in fabbrica in quello stesso '63, accompagnato dal Pittò, il primo un poco intimidito, l'altro, l'industriale, tronfio ma disponibile, e sarebbe stata l'unica volta, con l'aria d'un sovrano che mostrasse, compiacendosene altamente, il proprio regno al principe ereditario.
Dopo averlo condotto e ricondotto per ogni luogo dello stabilimento, il prozio l'aveva presentato – "Mio nipote, l'erede" – ai due dirigenti dell'opificio, quello tecnico, il signor Tirlotti, bi-diplomato perito chimico e perito industriale e con la testa d'un ingegnere, ma paga più bassa, e quello amministrativo, il dottor Fringuella, un alto stempiatissimo scapolo cinquantenne un po' gibboso e magrissimo, giallognolo di pelle e con un enorme naso che pareva sempre avvinazzato e, nell'ultimo tempo della permanenza di Bruno in fabbrica, lo sarebbe stato sicuramente, con aggravamento della sua conclamata malattia di fegato. Il Fringuella, da poco più di otto mesi, sbucando dal buio di precedenti professioni e contento del non pingue stipendio, era stato assunto dal padrone al posto di un certo Dialzi. Il suo predecessore era stato licenziato in tronco "per aver rubato", ma giammai, stranamente, denunciato all'autorità giudiziaria, sebbene gli ammanchi fossero stati di cento milioni di lire di quegli anni
. Inoltre, e ciò era anche più strano, l'uomo aveva continuato, e seguitava, a presentarsi quasi ogni mese in azienda chiedendo e ottenendo di parlare col cavaliere. Si sospettava, per alcune spiate dietro la porta da parte del Fringuella, che l'industriale elargisse all'altro somme di denaro. La certezza era venuta finalmente una volta che, apposta, nulla fingendo, il direttore amministrativo era entrato nella stanza e, scusandosi per il disturbo, aveva colto il Pittò pagare il Dialzi. Appena l'altro s'era congedato, il principale, rosso in volto, s'era avvicinato al dottore e aveva biascicato, come a scusarsi – ma chi avrebbe potuto credergli? –: "Dopotutto, fa pena, no?"
Ricatto?
Intanto, da voci pettegole di fabbrica, soprattutto dal Fringuella, il giovane aveva presto raccolto le poche notizie disponibili sul Dialzi. Questi, orfano d'entrambi i genitori, sedicenne era stato assunto dal cavaliere nella sua neonata azienda artigiana, come tuttofare, paga quasi inesistente, vitto e alloggio in laboratorio. Lavorando senza badare a orari e a guadagni e adulando alquanto il cavaliere, ch’era uomo sensibilissimo alle lusinghe, era salito di grado, parimenti all'ingrandirsi della ditta, anche perché, certamente intelligente, studiando di sera era riuscito a diplomarsi ragioniere. Era dunque divenuto direttore amministrativo della Pittò, ma con stipendio da semplice impiegato. Una delle cose che, contro la giustizia, il cavaliere apprezzava di più era che un dipendente costasse meno della funzione che ricopriva e, insieme, non se ne lamentasse. Non capiva che ciò poteva significare minore competenza, o difficoltà a trovare un posto per l'età non più verde, così come per il Fringuella, col rischio, quindi, d'un minor attaccamento al lavoro se non di rancore per lo sfruttamento subito. Infine, quella lesina poteva, persino, costituire un'involontaria istigazione a rubare e proprio così, Bruno pensava, poteva essere stato per il Dialzi, come illecita integrazione, sia pur eccessiva, dell'inadeguato stipendio. Solo il direttore tecnico, coi suoi due diplomi ma nessuna laurea, era contento della propria paga, inferiore a quella d'un ingegnere ma superiore allo stipendio d'un perito; e soddisfattissimo era di lui il cavaliere perché quell'uomo, appassionato della sua professione, trovava soluzioni e proponeva innovazioni che si rivelavano sempre a puntino. Aveva, tra l'altro, creato una polvere che, mescolata all'acqua, formava una sostanza spalmabile e modellabile, utilissima agli appassionati di trenini e ai modellisti in genere per costruire plastici; infatti, ben presto asciutta, diveniva durissima, capace di sostenere pesi molto gravosi pur quando stesa in sottili strati. Per quel solo scopo il cavaliere l'aveva fabbricata e messa in vendita, sebbene il prodotto, peraltro mai da lui brevettato, si prestasse di certo a più vasti e utili usi. Il Pittò l'aveva battezzato, con titanica espressione: Polvere per costruire montagne; molto se ne vendeva a ingrossi e negozi di modellismo e giocattoli, in Italia e all'estero, e veramente un buon guadagno aggiunto ne era venuto, essendo basso il costo di produzione e non avendone avuto il perito Tirlotti alcun compenso extra, perché "aveva creato in orario di lavoro e con le attrezzature della fabbrica."
Bruno, che nessuna paga riceveva, avrebbe dovuto essere tra i collaboratori più apprezzati dal titolare zio e, per la verità, così era stato all'inizio. Inoltre, aveva goduto d'un singolare privilegio: il Pittò, il primo giorno, dopo la visita della fabbrica, l'aveva ricevuto nel suo ufficio e, sedutosi sulla dirigenziale poltrona dietro la presidenziale scrivania, innanzi a lui Bruno in piedi e quasi sugli attenti, gli aveva indirizzato un fervorino improvvisato di benvenuto e l'aveva autorizzato, unico in fabbrica, a non chiamarlo cavaliere, ma semplicemente zio. Il giovane così avrebbe fatto spontaneamente anche senza quel beneplacito ma, per la forma, gli aveva detto: "Grazie"; e l'altro ne era rimasto tutto compiaciuto, come chi avesse elargito chi sa che; ma aveva soggiunto: "Naturalmente, parlando di me con gli altri, non dirai mio zio ma il cavaliere." L'aveva, quindi, affidato alle cure del dottor Fringuella e nominato seconda autorità dell'ufficio amministrazione, scrivania appena più piccola di quella del direttore e che portava una gran targa con inciso Bruno Seta - Vicedirettore amministrativo; questo, invero, aveva fatto provare al giovane apprendista un non piccolo piacere. Purtroppo il cavaliere, sempre desideroso di risparmi, circa due anni dopo si sarebbe lasciato scappare con l'ormai esperto Bruno: "Così terremo solo te e manderemo via quel mangiapane a tradimento del Fringuella", e proprio mentre quell'altro, forse già sospettando, era lì a due passi, dietro la porta, ad ascoltare. Invano il giovane aveva poi rassicurato il dottore che lui non ci pensava neanche di prendergli il posto; da quel momento, e non per sua colpa, l'avrebbe avuto per nemico.
Oltre alle mansioni di vertice, quasi ogni giorno ce n'erano state altre, assai meno nobili ma che il titolare ben più apprezzava. Per non mantenere due furgoni con autista, di cui uno sarebbe stato usato solo parzialmente, per le consegne minori lo zio s'era comprato a suo tempo un macchinone familiare perché servisse, oltre che di rappresentanza, a consegne di merce nella zona, a cui lui stesso aveva provveduto fin all'arrivo del nipote, ma rischiando, negli ultimi tempi, non pochi incidenti per il recente accecamento d'un occhio dovuto a una cataratta mal operata. Dunque, Bruno aveva avuto, al suo posto, l'incarico di fattorino di complemento in Mercedes Benz. Per buona misura, il cavaliere gli aveva conferito la mansione di suo autista personale. Infatti l'altro corriere dipendente, prima adibito, con cappello da chauffeur, anche a tal compito, e in ore che avrebbero dovuto invece essere libere, non avendone mai avuto compenso straordinario s'era infine lamentato col Fringuella, che l'aveva sostenuto col principale. Allora, il Pittò aveva trovato la semplice e immediata soluzione di nominare il gratuito nipote a quel posto: "Prova se ti va bene il berretto di quel pelandrone", gli aveva ordinato con noncuranza, porgendoglielo.
Il giovane, più stupito che seccato, aveva, come rifiuto, risposto con una domanda retorica: "…ma che figura faresti, col tuo vicedirettore ed erede a farti da autista? Direbbero che sei povero."
Per quest'ultima magica parola, il cappello era stato riappeso e i due si sarebbero presentati in pubblico sull'auto padronale, ogni volta, come i parenti che, bene o male, erano, Bruno al volante senza il cappello e il mal vedente zio seduto non dietro, ma al suo fianco.
Grazie a quella straordinaria mansione, il giovane aveva conosciuto, a feste e riunioni d'affari, decine di industriali di quei tempi, protagonisti di quello che si sarebbe chiamato miracolo economico. Molte delle loro aziende, per la congiuntura negativa della metà degli anni '60, avrebbero presto serrato. Solo alcuni di quegli imprenditori, soprattutto per i loro figli e nipoti i quali, diversamente da loro, erano stati educati in scuole economiche, avrebbero visto crescere le loro ditte che, ormai scomparsi i fondatori, sarebbero giunte, decenni dopo, a dimensioni mondiali.
In verità, non molti degli industriali che aveva conosciuti erano piaciuti a Bruno. In tanti di loro erano presenti, e gravi, la molta boria e la poca scuola, la maleducazione coi sottoposti e la brutalità contro tutti coloro che, avendone le stesse misere origini, non avevano saputo innalzarsi alla ricchezza; e le loro mogli, solitamente, eran peggiori dei mariti, e senza il merito intelligente d'aver saputo creare posti di lavoro. Verso le persone colte, poi, se, davanti, quegl’imprenditori manifestavano rispetto e cortesia, dietro, parlandone tra loro o in famiglia, esternavano disprezzo. Certo molta era l'invidia per gl’intellettuali; ma essenzialmente per i loro titoli accademici: quasi tutti quegl’industriali erano, infatti, in gran corsa per accaparrarsi cavalierati o commende della Repubblica, come se il titolo solo fosse contato, non la cultura. I più, inoltre, erano bramosi di adulazione.
Il Pittò non era diverso. Bruno, che di natura era nemico d’ogni lusinga, mai avendo elogiato il prozio se lo sarebbe, pian piano, trovato avversario. Inoltre, da alcune sue frasi, aveva capito che il cavaliere, in cuor suo, si dispiaceva che il nipote fosse iscritto all'università e che un giorno sarebbe stato un dottore. Proprio per gli esami sarebbero nati i primi gravi contrasti fra di loro. L'imprenditore molto si adirava ogni volta che Bruno era assente per un colloquio o uno scritto. Una volta che il giovane aveva avuto da sostenere due esami a brevissima distanza, era ormai passato quasi un biennio dal suo ingresso in fabbrica, alla richiesta d’un permesso di due o tre giorni per ripassare, il Pittò aveva gridato al nipote: "Qui si lavora, non si fa l'universitario delle palle! Ma sei idiota? Tu sei un industriale e perdi tempo con quelle stupidaggini da impiegatucci?"
Bruno, al pensiero che lavorava gratis, senza orari fissi e pure in mansioni che non avrebbero dovuto essere le sue, ed essendo in tensione per i pesanti studi notturni, non era riuscito a trattenersi e gli aveva urlato in risposta, a pieno fiato: "Industriale sei tu e non io, e comincio a essere stufo di uno come te!"
"Schifoso! Schifoso!" aveva allora replicato secco, davanti a tutti, il principale, allontanandosi e battendo più volte fra loro le palme delle mani in segno di maggiore disprezzo.
Era stato in quell'occasione che il Fringuella aveva sibilato al giovane un'ambigua frase: "Lei aveva ragione, signor Seta, ma è passata dalla parte del torto con quell'urlo; e poi, dopotutto, è al cavaliere che la sua famiglia deve la propria posizione."
Sul momento Bruno aveva creduto che si fosse riferito alla nota promessa d’associazione in ditta. Non aveva affatto immaginato che ben altro si nascondesse in quella frase. Solo qualche tempo dopo avrebbe capito che notizie bugiarde giravano tra la gente.
Intanto, era arrivata per l'economia italiana la congiuntura negativa.
Il giovane s'era consultato con suo padre: "Mi pare che la ditta stia perdendo colpi; ha molti, anzi troppi crediti da incassare da clienti morosi. C'è la possibilità di una crisi di liquidità, e coi costi fissi che la fabbrica deve sopportare, come i nuovi macchinari ancora in gran parte da pagare, c'è rischio grave."
Papà Seta gli aveva risposto tranquillamente: "Intanto, è ovvio che non farai nessun contratto con tuo zio, anche se lui, ma ne dubito, lo proponesse. Poi, ti consiglio di stare per qualche mese ancora a vedere come si conducono le cose; un po' di tempo in più non cambia niente. Potrebbe essere solo una crisi passeggera. Dopo due anni, buttar via tutto senza verificare sarebbe sbagliato."
Bruno non gli aveva detto che, per la verità, l'ambiente non gli piaceva e che avrebbe preferito svolgere la libera professione paterna, pur rinunciando alla prospettiva d’essere ricchissimo; oltretutto, a differenza di molti, se era vero che gradiva un qualche agio, per nulla si preoccupava di possedere tesori, e tanto meno avrebbe provato un piacere nel mostrarli.
Sentendosi inesperto, non aveva però voluto rischiare uno sbaglio e aveva respinto quell'impulso. Era stato invece un buon sentimento, ché è sempre assai arduo riuscire a guidare un'industria senza compromessi ed era prima di tutto la coscienza che per Bruno, allora come sempre, contava. Di più, s'egli se ne fosse andato, si sarebbe forse allontanato in tempo da certi malevoli occhi e da certe bocche che, sia pur in buona fede, avrebbero gonfiato, di lì a poco, una menzogna contro i Seta, e avrebbe evitato, forse, quel dispiacere grande che, là in fabbrica e nei suoi paraggi, lo stava attendendo in agguato.

La polvere per costruire montagne, mescolata alla superstizione del cavaliere, avrebbe dato all'azienda Pittò la spinta decisiva per la caduta.
Dall'inizio del terzo anno in fabbrica di Bruno, l'aggravamento della crisi economica aveva indotto il prozio a cercare nuovi e importanti ordini che sostituissero quelli di clienti ormai inaffidabili o falliti. Improvvisamente, s'era ricordato d'una persona conosciuta a suo tempo, un dirigente d’uno degli stabilimenti cinematografici romani, di proprietà pubblica. Anni prima, in crociera con la moglie sull’Andrea Doria nel viaggio inaugurale di quella bella, sfortunata motonave, il Pittò s'era trovato allo stesso tavolo con lui e signora, e c'era stata fra loro una cordiale compagnia che assomigliava a un'amicizia e con la promessa, non mantenuta, di ritrovarsi. Era poi successo, per caso, anni dopo, che i due uomini, passando le acque a Montecatini, si fossero riconosciuti e che il dirigente avesse confidato al cavaliere d'essere vanamente alla ricerca di nuovi materiali, forti leggeri e poco costosi, per la realizzazione di artificiali paesaggi e falsi edifici, soprattutto per quei film d'ambiente classico o mitologico che allora erano di moda; avrebbe dovuto essere una sostanza che consentisse, inoltre, un realismo superiore a quello della cartapesta.
"È la mia polvere!" aveva detto fra sé il cavaliere, ma non gliel'aveva riferito; infatti la sua ditta era allora piena di ordini da evadere e in arretrato con le consegne ai clienti.
Adesso, invece, una commessa pubblica da Roma sarebbe venuta a puntino.
Il problema era rintracciare la persona, in quanto l'industriale ne aveva perso l'indirizzo né sapeva con certezza di quale stabilimento fosse a capo; per di più, il nome del dirigente era comunissimo.
Il dottor Fringuella, che era noto in fabbrica per l'abilità di saper raggiungere, all'occorrenza, persone dei più diversi ambienti, s'era incaricato dell'indagine e, nemmeno quattro ore dopo, aveva consegnato al principale, di fronte a un meravigliato Bruno, tutti i dati richiesti.
"È in gamba, no?" s'era compiaciuto col nipote un sorridente cavaliere, non appena l'altro s'era allontanato.
Il giovane, non riuscendo a vincere la curiosità, gli aveva chiesto maggiori notizie sul dottore, concludendo: "È possibile che una persona tanto abile abbia accettato uno stipendio così modesto?"
"Come, modesto?!" s'era scherzosamente stupito, ridendo soddisfatto, il cavaliere. "Abbiamo fatto un buon colpo, no?" e gli aveva strizzato l'occhio sano. Poi, per meglio mostrare la propria bravura nel trovare gente a basso costo, lo zio aveva raccontato, ma facendo prima giurare a Bruno che non avrebbe mai riferito perché, nell'assumere l'uomo, l'industriale s'era impegnato a tacere: "…ma tu sei l'erede e hai diritto d'essere informato."
Bruno aveva così saputo che il Fringuella aveva commesso, ormai scontato, un delitto contro la Repubblica: Anni prima era stato un abile, solerte e temutissimo funzionario delle imposte, incorruttibile dal punto di vista pecuniario. Purtroppo per lui, il dottore era afflitto da irresistibile organico priapismo e, per maggiore sfortuna, era stato a un certo punto comandato a un incarico alquanto tentatore. Erano gli anni '50, quando ancora si tolleravano le case chiuse, cioè i bordelli, e lo Stato se ne faceva vergognoso super lenone con gabelle e imposte sopra quel meretricio: il compito assegnato al Fringuella era stato proprio il controllo fiscale di postriboli. Non potendo soddisfare a sufficienza, per via del magro stipendio, le sue quasi irresistibili voglie, e pensando forse, come s'era poi maldestramente difeso, di "non commettere un grossissimo male, non avendo toccato denaro", era infine venuto meno alla propria onestà e s'era accordato con tenutarie di bordelli: avrebbe alleggerito le loro personali posizioni fiscali se gli avessero consentito, senza spese e a suo esclusivo beneplacito, l'uso fuori orario dei servigi di quei locali. Disgraziatamente per lui, quando quelle case erano state finalmente vietate dalla legge Merlìn, una lettera anonima l'aveva denunciato; e alcune delle ex tenutarie, interrogate in Questura, avevano spifferato tutto. Così il dottore, scacciato dai pubblici uffici, era stato condannato a quattro anni di reclusione, tutti scontati. Uscito finalmente di galera e ormai cinquantenne, non aveva trovato nient'altro che l'impiego sottopagato nell'azienda Pittò.
"Era sui giornali: non li leggevi, allora?" aveva concluso lo zio.
Bruno ricordava quel caso, ma non l'aveva collegato al Fringuella. Il cavaliere l'aveva invece ben in memoria perché, in un lontano passato, il dottore, incaricato di controllare le denunce dei redditi di artigiani, gli era stato potente avversario faccia a faccia negli uffici delle imposte.
Era per la trascorsa professione, dunque, che il direttore amministrativo godeva di vaste conoscenze e, grazie ai suoi antichi colleghi, aveva saputo rintracciare in fretta quel dirigente romano.
Dopo abboccamenti telefonici, contatti epistolari e l'invio di campioni, s'era destato l'interesse della controparte, grazie pure all'opera d'un amico del Pittò e suo agente di commercio per la zona Lazio-Umbria. In un tempo straordinariamente breve, era venuto l'assenso alla stipula del contratto e l'imprenditore, con Bruno al seguito come segretario portaborse, era partito per Roma a concludere l'affare.
Come nelle abitudini del parsimonioso industriale, ma solo quando nessuno poteva saperlo, la spesa era stata contenuta: viaggio notturno in ferrovia in vagone-cuccette di seconda classe. All'arrivo però, preso per il braccio il nipote, lo zio l'aveva trainato, senza che lui ne comprendesse la ragione, nella carrozza adiacente, una vettura-letto, dalla quale, con una strizzatina d'occhio, l'aveva autorizzato a scendere. C'era, e finalmente Bruno aveva compreso, l'amico di Roma ad attenderli.
Questi s'era incaricato d'accompagnarli all'ufficio della controparte e aveva poi atteso con pazienza che il contratto fosse firmato; quindi, li aveva condotti all'aeroporto. Il cavaliere aveva infatti in programma di tornare in aereo, nonostante il maggior costo, sia perché non era certo di poter sopportare la fatica d'un nuovo viaggio in treno, sia in quanto, la sera stessa, avrebbe avuto ospite in villa un importante cliente grossista.
Quel volo, sebbene in sé tranquillo, sarebbe stato per l'industriale estremamente sofferto, tutto vissuto con una mano stretta attorno al suo chiodo portafortuna.
Paura dell'aereo? Normalmente no, ma sì in quell'occasione: era infatti accaduto che l'amico, nel portarlo con Bruno all'aeroporto si fosse lasciato sfuggire, sottolineando divertito che a quelle cose lui per niente credeva, che il dirigente cinematografico aveva nera fama di iettatore potentissimo. Era a lui che i maligni attribuivano, per il solo fatto d'aver partecipato al viaggio inaugurale, il sinistro della modernissima Andrea Doria, affondata nell'oceano pochi anni dopo quella prima crociera. Il Pittò aveva tremato all'idea del pericolo che, senza saperlo, aveva corso durante quell'ormai lontana navigazione; ma era gelato addirittura all'immediato successivo pensiero del rischiosissimo, iellato volo che stava per intraprendere. Sceso dunque dall'auto dell'amico e congedatosi, aveva pensato per un poco, e seriamente, di prendere un taxi e tornarsene alla stazione ferroviaria, nonostante i biglietti aerei già pagati.
Bruno, che nessuna voglia aveva di altre lunghe ore in treno, e per di più di giorno, gli aveva allora insinuato, riuscendo a rimanere serio: "Ho letto le statistiche, ci sono moltissimi incidenti ferroviari; pensa che sono enormemente più numerosi di quelli aerei. Non parliamo poi neanche di quelli stradali, se si viaggia in pullman!"
Il cavaliere aveva immediatamente toccato chiodo e, poiché fare a piedi quelle centinaia di chilometri non si poteva proprio, dopo lunga riflessione aveva, infine, subìto di volare.
Solo all'arrivo avrebbe aperto bocca: "Siamo a terra e fermi, no?" e, all'assenso del nipote, avrebbe concluso: "Hai visto che erano tutte stupidaggini?" come se il superstizioso dei due fosse stato il giovane.

Vi sono persone, avrebbe ragionato anni dopo Bruno tornando con la mente all’episodio, che come il cavaliere si dichiarano atee perché, così affermano, esse sono concrete, positive o, addirittura, scientifiche; ma poi son quelle stesse, tante volte, che leggono ogni mattina l'oroscopo, non passano mai sotto una scala, sfuggono gatti neri e fiori bianchi e hanno almeno un portafortuna in tasca. Sovente questi esseri umani s’attirano guai proprio a causa della loro superstizione.
Giunto in ditta, il viso nuovamente rabbuiato, il Pittò aveva rinchiuso, tenendolo per due dita, il contratto in cassaforte.
"Allora, iniziamo a produrre?" gli aveva chiesto il perito Tirlotti.
"Un…m... un momento, domani ne riparliamo", era stata l'incertissima risposta del principale. Sceso sano e salvo dall'aeroplano, pur non temendo più per la propria pelle, era infatti nato nell'imprenditore un novello timore, che la fornitura al menagramo romano portasse disgrazia all’azienda.
Passavano i giorni e l'ordine di produrre non veniva.
"Cavaliere, cominciamo? Roma aspetta", interrogava lo stupito direttore tecnico.
"Hmm... non c'è fretta".
"Cavaliere", interveniva allora il direttore amministrativo, "scusi ma bisogna iniziare! Ci sarà certo un termine di consegna, no? e poi, i soldi ci servono!"
"Aah!" e il principale, allargando la bocca nel gemito, prendeva a battere alla sua maniera le palme delle mani fra di loro, più e più volte, e si allontanava con l'aria indignata.
Solo Bruno aveva intuito il motivo di quell'incertezza e, ben comprendendo il danno che alla ditta stava venendone, l'aveva confidato al Fringuella.
I rapporti fra i due s'erano, nel frattempo, guastati, il dottore aveva perso molto dell'iniziale rispetto per lui e lo chiamava ormai, intenzionalmente, Bruno invece di signor Seta. La causa? Certamente quell'infelice frase del Pittò sulla nomina dell'erede al suo posto e, ben probabilmente, anche le sopraggiunte difficoltà economiche della ditta. Il giovane, per reazione, aveva ricambiato l'antipatia; inoltre, conosciuto il suo passato, aveva perso la stima per lui. Tuttavia, il dottore restava pur sempre l'unica persona cui affidarsi per salvare la situazione. Infatti, nonostante il suo precedente penale, l'uomo riusciva non poco, unico fra tutti, a intimidire il principale, forse in memoria della fiscale carica censoria che aveva a suo tempo esercitato contro di lui; e non era da escludere che soprattutto per questo il cavaliere, inconsciamente, volesse liberarsene non appena possibile.
"Bruno, perché non m’ha avvertito immediatamente?" lo aveva, per prima cosa, rimproverato.
"Era solo un sospetto; e mi pareva talmente assurdo! Eppure, è l'unica spiegazione logica"; e gli aveva raccontato del viaggio in aereo.
"Non c'è più alcun dubbio", aveva sentenziato il direttore; poi, scuotendo la testa: "Son cose da non credere! e non sappiamo nemmeno come sia 'sto benedetto contratto! L'ha predisposto la controparte a Roma; io non ho neanche avuto l'onore di leggerne la bozza; e vuole che non ci siano penali per eventuali consegne in ritardo? È un'azienda a direzione pubblica, chi sa che ghigliottine!" e s'era seduto sconsolato. Poi, con un balzo d'orgoglio: "…ma lo sa che suo zio è proprio un incosciente? Glielo dica pure, e se non lo fa lei, lo farò io; anzi, ci vado subito!" S'era alzato e, alla bersagliera, aveva preso a girare corrucciato per tutto lo stabilimento alla ricerca del principale.
Per fortuna del Pittò, questi era assente.
Aspetta un giorno, aspettane due, il cavaliere non veniva. Allora il Fringuella gli aveva telefonato. In casa, soltanto la domestica: "I signori sono partiti per una vacanza."
"Una vacanza! Con tutto quello che c'è per aria?"
"Io non so cos'è per aria", aveva replicato la sconcertata fantesca mentre il dottore, senza neppur salutare, abbassava la cornetta.
"Ecco, adesso siamo proprio a posto. Bel parente che ha lei!" s'era sfogato con Bruno, come se la colpa fosse stata del giovane.
Finalmente, d'accordo col Tirlotti e testimone l'erede, era stata assunta l'ammutinata decisione di chiamare un fabbro a scassinare la cassaforte; intanto, senza più indugi, si sarebbe cominciato a produrre per Roma.
Uno dei principali compiti del giovane Seta era divenuto, intanto, quello di passare freneticamente da debitori dell'azienda a sollecitare pagamenti e, raramente, a incassare fatture, e molte volte pure villanie, correndo poi da notai a pagare cambiali del cavaliere prossime al protesto; infatti la crisi, o addirittura la bancarotta, di molti clienti per la congiuntura negativa ormai gravissima, aveva ridotto a un bicchierino la liquidità dell'industria Pittò.
Perciò, quando il ladro Dialzi era nuovamente venuto a elemosinare, l'ultima volta solo due giorni prima della spensierata vacanza del cavaliere, era stato finalmente allontanato e senza un soldo. Prima d'andarsene, aveva però detto al suo antico principale: "Ricòrdati quello che solo tu ed io sappiamo!" e il dottore e Bruno avevano sentito. "Si dànno del tu?!" s'era stupito il giovane.
Scassinata la cassaforte, dove peraltro il denaro era del tutto assente, e prelevato il contratto, mentre il Fringuella e il Tirlotti andavano a leggerselo in ufficio e il fabbro ripristinava i meccanismi della porta, l'erede era rimasto di guardia; e, nell'attesa, il suo sguardo era stato attratto da un pacchetto di lettere. Erano indirizzate allo zio e, come avrebbe poi capito, tutte di mano del Dialzi. Non vincendo la curiosità, dopo aver esitato per un minuto buono, le aveva prese e, un poco discosto, s'era seduto a leggerne una.
Iniziava così: Caro padre...
Il mittente preannunciava una sua prossima visita e invitava il cavaliere a preparare il denaro.
Bruno, visto che l'artigiano stava per terminare, s'era tenute le lettere per leggerle tutte e con comodo dopo il lavoro, sperando che lo zio rimanesse in vacanza ancora per qualche tempo. S'era fatto consegnare una delle due nuove chiavi, mentre aveva lasciato l'altra al Fringuella; il giorno dopo, avrebbe riposto le missive nella cassa blindata.
La sera, a casa, prima di cena, senza nulla dire al papà per timore d'esserne rimproverato, aveva letto. Le lettere cominciavano tutte col Caro padre e annunciavano una prossima visita in fabbrica del Dialzi; c'erano poi, diverse da missiva a missiva, considerazioni varie: rimembranze, l'ammissione d'avere l'invincibile passione del gioco, lamentazioni di miseria e richieste di perdono; in una, sottolineata, l'accusa al Pittò d’essere stato irriconoscente, ché molto della bellissima posizione che aveva raggiunto era da attribuirsi a lui, il sottopagato collaboratore tuttofare.
Era venuto in chiaro che il Dialzi era figlio naturale dell'industriale, avuto, prima del matrimonio con la prozia, da una donna che non era nominata, morta subito dopo il parto, e affidato immediatamente dal padre a un orfanotrofio, ma seguito poi sempre da lui che, alla giusta età, l'aveva preso con sé in azienda. Mai, però, l'aveva voluto riconoscere, perché troppo temeva il parere della gente: in quegli anni cose del genere potevano infatti chiudere l'accesso all'ambiente borghese, perché erano considerate colpe vergognosissime; non si pensava che, semmai, colpa era l’abbandonare un figlio come orfano.
Il cavaliere pagava il Dialzi per timore che rivelasse la sua origine? No, era invece per affetto e il figlio stesso lo riconosceva in quegli scritti. Semmai, doveva essere lui a non provare affatto amore per il padre naturale; anzi, tra le righe s'insinuavano disprezzo e rabbia. A suo tempo il Pittò, com'era chiaramente scritto, aveva fatto al figlio la promessa di lasciarlo erede. Poi, disgustato dai furti, scacciandolo, l'aveva ritirata; ma non col cuore di non più rivederlo. Neppure aveva resistito all'impulso di dargli denaro, almeno fin a quando ciò era stato possibile, e ufficialmente con la scusa d’un prestito da restituire non appena l'altro avesse trovato un nuovo lavoro.
Il Dialzi sarebbe morto tre mesi dopo lo scasso della cassaforte, sfracellato in un burrone sulla sua fuoriserie acquistata a cambiali, dopo aver perso gli ultimi liquidi in una bisca.
Bruno aveva riposto le lettere in cassaforte prima che il Fringuella, il quale aveva portato il contratto a fotografare, lo rimettesse a posto: a quei tempi, le comode macchine fotocopiatrici erano ancora un bel sogno.
Nulla mai Bruno avrebbe detto allo zio; si sarebbe confidato col padre, ma solo alla notizia della morte del Dialzi pubblicata dai giornali.
Il cavaliere era tornato al lavoro una settimana dopo l'apertura della cassa blindata e, trovatosi di fronte al fatto compiuto, era stato contento che gli altri avessero deciso per lui, perché la iella, come aveva detto al nipote fingendo di scherzare, sarebbe caduta su di loro.
Sebbene la produzione fosse ormai iniziata da giorni, forte era il timore di non riuscire a consegnare puntualmente; a suo tempo il principale avrebbe fatto meglio a recarsi a Roma col perito, invece che col nipote portaborse. Il Tirlotti avrebbe potuto manifestare alla controparte che il tempo fissato per la consegna era imprudentemente vicino e chiedere una scadenza un po' più distante; e se non fosse stato possibile, almeno non si sarebbe firmato il contratto. Peggio, s'era poi perso tal tempo all'inizio, che non era ormai probabile una spedizione puntuale.
Purtroppo l'accordo, come temuto dal dottor Fringuella, prevedeva, anche solo per un lieve ritardo, il mancato ritiro della merce, nessun pagamento e il diritto a una grossa cifra a titolo di risarcimento; e s'era riusciti a spedire a tempo soltanto un piccolo acconto di merce. Invano il direttore amministrativo aveva cercato d’ottenere dilazioni: il materiale doveva servire per un film storico colossal, coproduzione italo americana, qualche miliardo di lire d'allora di spesa
, attori provenienti da mezzo mondo, e non si poteva ritardare neppure d'un giorno l'inizio delle riprese. Stavano usando la solita cartapesta al posto della polvere per costruire montagne, avevano sentenziato al telefono contro il dottore; quanto all'acconto, era loro pieno diritto contrattuale di trattenerselo, a titolo di prima rata del risarcimento. Proprio un bell'accordo ghigliottina aveva firmato il cavaliere! Insomma, era stato un disastro; e pensare che, con una sola settimana in più, lavorando a pieno ritmo si sarebbe riusciti. Colpa del Pittò, senza dubbio, per la sua maledetta superstizione.
Cosa fare? Un bel niente; erano stati gli altri che avevano fatto, e immediatamente: una severissima lettera del loro avvocato che domandava, perentorio, il saldo della penale.
Il cavaliere aveva impulsivamente accusato il dottor Fringuella d'aver dato ordine di produrre senza il suo consenso: "...e adesso potrei chiedere io i danni a lei, per la merce trattenuta dal cliente e quella invenduta nei magazzini!"
"Lei è un imbecille!" gli aveva sparato in risposta, insultandolo per la prima e non ultima volta, l'inviperito direttore amministrativo, con la bocca a pochi centimetri da quella del principale e spruzzandogliela di saliva e fiele.
Intimidito, girati i tacchi, l’altro se l'era svignata, battendo come al solito le mani tra di loro, ma debolmente e solo sospirando: "Schifoso, schifoso..."; però, non appena l'imprenditore era svoltato nel vicino corridoio, il rumore dei suoi passi, improvvisamente, era stato coperto da un altro inequivocabile suono, il rintronare d'una formidabile, intrattenuta scoreggia e a questa era seguito, quasi altrettanto potente, un disperato: "Dottore delle palle!"
Il Fringuella era corso verso la voce, ma giunto al corridoio non aveva più trovato nessuno, talmente il cavaliere era stato lesto nell’eclissarsi.
Negli ultimissimi tempi il direttore aveva preso, o ripreso, a bere smodatamente, non solo a pranzo ma, come si capiva dall'alito al suo arrivo, fin dalla prima colazione. Era quindi divenuto, a poco a poco, nient’affatto utile alla ditta, per non dire dannoso; e aveva preso l'abitudine d'aggredire, a parole, non solo il Pittò ma pure l'erede. Bruno si chiedeva se l'uomo, sotto spirito alcolico, vedesse per caso riflessa su di lui parente l'immagine dello zio e lo colpisse per toccare indirettamente l'ormai spregiato principale. Forse sì, ma non era solo quel pensiero a muovere il dottore alla villania. Un giorno l'uomo s'era scoperto, scoccando contro il giovane, freddo, freddo e fissandolo negli occhi: "Son due mesi che i dipendenti non vengono pagati, me compreso. Perché suo padre non finanzia la nostra azienda? Non le pare che sarebbe doveroso?"
"…ma cosa dice?!" s'era allarmato Bruno.
"Dico, caro mio, che la vostra posizione è dovuta al Pittò, ed è ora che ricambiate."
"La nostra pos..."
"Sì, parlo turco? La vostra posizione. Lo sanno tutti che fu lo zio a finanziare a fondo perduto l'ufficio del dottor Seta" – Bruno era a bocca aperta – "e che fu lui a regalarvi l'alloggio dove abitate, per affetto verso la sua defunta mamma, che trattava come la figlia che non aveva potuto avere dalla moglie."
"La figlia, la moglie, la mamma... Si riferisce forse a mia madre?"
"Sì; perché, lei non ha avuto forse una mamma?" l'aveva dileggiato con un ghigno.
"…ma se il cavaliere ha conosciuto mia zia quando mia madre era già morta!"
Il Fringuella stava per replicare, ma il giovane: "Lo studio era già addirittura di mio nonno e così pure l'appartamento. È chiaro o no?"
Il dottore l'aveva fissato, storcendo di più la bocca in un peggiore sogghigno, come a dirgli: "A chi la racconti?"
Bruno s'era irrimediabilmente adirato: "La pianti di guardarmi in ‘sto modo, deficiente!"
L'altro allora, ad alta voce come lui, ma senza alzarsi dalla sedia dov'era stravaccato: "Bugiardo! Sono anzi convinto che, in questo momento, il Pittò stia nascondendo dei soldi presso suo padre, in attesa del fallimento."
"È pazzo?" e, preso lo schienale con le due mani, aveva rovesciato a terra il Fringuella. Poi, era corso a cercare lo zio. In verità, s'era subito dispiaciuto di quell'aggressione: in fondo, l'uomo era di certo brillo e non era più un ragazzo. Non poteva, però, tornare a scusarsi: sarebbe stato come far intendere al direttore ch'egli avesse avuto ragione in tutto. Il rimorso gli sarebbe rimasto.
Trovato il cavaliere, mentre già stava per riferirgli l'accaduto, Bruno s'era ricordato tuttavia, improvvisamente, della prima volta che il Fringuella aveva accennato all'argomento, quando gli aveva detto che era al Pittò che la famiglia Seta doveva la propria posizione, e lui aveva ingenuamente capito che si riferisse solo alla promessa d’associarlo nell'azienda. Così non era stato delirio alcolico? No: aveva sentito a quel punto, con assoluta certezza, che non s'era affatto trattato di un'invenzione del dottore, ma ch’era stato il parente a far correre quella voce. Perciò, invece di riferire, gli aveva chiesto secco, a voce alta e viso buio: "Come ti sei permesso d'inventarti una cosa simile? Quando mai hai regalato soldi a mio padre? Quando mai ci hai fatto una posizione? Come hai osato sporcarci così?"
"Uh!" era stata la sola risposta dello sbiancato industriale, ch’era quasi corso via e, montato al posto di guida della propria macchina presidenziale, nonostante la pessima vista aveva avviato il motore ed era partito a tutto gas.
Bruno, dietro a lui ma non all'inseguimento, se n’era andato a sua volta, senza avvertire nessuno e per non tornare mai più.
Appena due mesi dopo, il Pittò era fallito

Il male, che ha per massimo strumento la menzogna, anzi è tale esso stesso, raggiunge il suo colmo quando il falso è completamente mascherato di verità e la verità ha la verosimile apparenza di bugia. Di ciò nessuno può dubitare, perché ogni persona ne è, prima o poi, la vittima. Cambiano solo i nomi, coincidenza sfortunata, diffamazione, diavoleria... che alla menzogna che addosso ci cola, dovuta alle circostanze o alla cattiveria altrui, usiamo conferire. Era questo il male che già aveva toccato la famiglia Seta e che Bruno, col tempo, ancor più perseguitato, scherzandone amaramente con la moglie avrebbe battezzato il Diavolo Verosimile.
Alcuni credono inoltre, e qui ognuno la pensi come preferisce, che vaghino nel mondo anche alquanti demoni inferiori, detti baronti, la cui funzione, nella lotta di libertà fra il Bene e il suo nemico, sarebbe d'umiliare con scherzi feroci la volontà degli esseri umani già colpiti da altre sofferenze. Se non c'è prova alcuna dell'esistenza di quegl’infimi spiriti, spontaneamente verrebbe di pensare ch’essi esistano davvero, tanto sono frequenti quei casi nella vita d'un pover'uomo, cioè di tutti.
Forse per il divertimento d'uno di quei demoni, e sicuramente per l'ormai lontano interessamento nella capitale dell'amico romano, l'unico vero e il solo che gli sarebbe rimasto, giusto il giorno dopo la dichiarazione di fallimento era giunta al Pittò la promozione a Cavaliere Ufficiale


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