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Due. Dispari
Federico Montuschi
Costarica, primavera 2015, molti temporali. Musica rock di sottofondo.
Uno strano suicidio di un parroco di provincia.
Non convinti dalla frettolosa indagine delle autorità locali, l'ispettore Castillo, ex commissario di polizia che balbetta nei giorni piovosi, e lo Slavo, suo giovane aiutante dal passato oscuro, investigano sul caso.
Le tracce raccolte si intrecciano con le disavventure universitarie della figlia prediletta dell’ispettore, con la violenza subita da una ragazza nel corso di una strana festa e con la comparsa di un enigmatico agente italiano legato ai servizi segreti.
Il tutto senza un apparente punto di convergenza.
Solo uno sgangherato viaggio permetterà di riordinare i pezzi della vicenda, dimostrando a più riprese che da analoghi punti di partenza si possono scatenare percorsi di vita diversi, convergenti o divergenti, univoci o binari.
E anche il Due, in queste situazioni, può diventare Dispari.
Costarica, primavera 2015, molti temporali. Musica rock di sottofondo.
Uno strano suicidio di un parroco di provincia.
Non convinti dalla frettolosa indagine delle autorità locali, l'ispettore Castillo, ex commissario di polizia che balbetta nei giorni piovosi, e lo Slavo, suo giovane aiutante dal passato oscuro, investigano sul caso.
Le tracce raccolte si intrecciano con le disavventure universitarie della figlia prediletta dell’ispettore, con la violenza subita da una ragazza nel corso di una strana festa e con la comparsa di un enigmatico agente italiano legato ai servizi segreti.
Il tutto senza un apparente punto di convergenza.
Solo uno sgangherato viaggio permetterà di riordinare i pezzi della vicenda, dimostrando a più riprese che da analoghi punti di partenza si possono scatenare percorsi di vita diversi, convergenti o divergenti, univoci o binari.
E anche il Due, in queste situazioni, può diventare Dispari.




Federico Montuschi



Due. Dispari
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Milano, due anni prima
And the big wheel keep on turning,
Neon burning, up above.
(Dire Straits)



Dal Corriere della Sera, mercoledì 3 Aprile 2013. Pagina di cronaca nera.
Milano si è risvegliata ieri mattina con un duplice omicidio, nella zona di piazzale Loreto.
Una giovane donna, Malika Rubessa, che stava attendendo l’autobus per recarsi al lavoro, è stata colpita a morte poco prima delle sette di mattina da un proiettile sparato da un appartamento poco distante, nel quale la polizia ha rinvenuto il cadavere di Paolo Ficini, trentenne collega della donna uccisa.
Dalle prime indagini risulterebbe che Ficini abbia sparato alla collega, prima di essere a sua volta colpito da uno sparo esploso a bruciapelo da un ignoto, dileguatosi dopo l’omicidio.
Sulla porta d’ingresso non risultano segni di effrazione, ma nell’appartamento, dal quale è stata sottratta una cassaforte, gli inquirenti avrebbero trovato chiare evidenze di una violenta colluttazione. Il caso risulta complesso, ma la polizia sta valutando tutte le piste per rintracciare l’assassino […]






13 Dicembre 2013
… trovando il Diesis fra il MI e il FA.
L’aereo decollò da Milano nel primo pomeriggio.
Duke, con il suo posto di prima classe, biglietto di sola andata, si godeva il volo intercontinentale con la gentilezza di plastica delle hostess, sorseggiando un Daiquiri e ammirando, da dietro i suoi Ray-Ban comprati in aeroporto, la luce del sole sopra le nuvole.
Ripensò per un solo attimo al viaggio in Croazia di qualche mese prima.
Quel week end, nato in modo quasi casuale, gli aveva cambiato la vita. Un nuovo passaporto, una nuova identità, un portafogli pieno. Anche le cure intensive della clinica privata milanese avevano già avuto l’effetto sperato e le zone d’ombra nella sua memoria sembravano davvero dissolte.
Un sorriso gli comparve sul volto disteso e, girandosi verso la hostess bionda, chiese un altro Daiquiri.

Costarica, Primavera 2015
Head full of dreams unclear
Make the days seem twice as long.
(Ben Harper)



La primavera del 2015 fu, per il villaggio di Burgos e per tutto il Costarica, particolarmente fredda.
Alle canoniche piogge torrenziali che dal mese di Aprile accompagnano i pomeriggi dei ticos costaricani, quell’anno si era affiancato un abbassamento inaspettato delle temperature, che aveva portato alla maggior parte degli abitanti del villaggio le tipiche malattie della stagione fredda.
L’ispettore Castillo non aveva fatto eccezione.
Aveva da poco superato i cinquant’anni e, a memoria, l’ultima volta che aveva avuto la febbre alta frequentava la quarta elementare.
Al tempo era un bimbo esile, con presunti problemi di crescita (pesava poco più di venti chili e non superava il metro e venticinque di altezza); ora era un uomo massiccio (nessuno si poteva permettere di dargli del grasso!), si avvicinava al metro e ottanta e pesava quasi un quintale.
Due baffoni neri gli si stagliavano sul viso olivastro, dando risalto agli zigomi alti e ben pronunciati; la signora Conchita non smetteva di ricordargli che, da giovane, assomigliava a Clark Gable e che avrebbe fatto meglio a intraprendere la carriera cinematografica piuttosto di quella investigativa, visti i risultati ottenuti.
In quelle circostanze, Castillo lasciava parlare la moglie, alzando impercettibilmente il sopracciglio sinistro, e si ficcava in bocca il sigaro tagliato che teneva sempre in tasca.
Non lo fumava da ormai dieci anni - tanto era il tempo passato dall’infarto – ma succhiarlo di tanto in tanto gli stimolava la concentrazione e soprattutto, in condizioni di stress, gli dava sollievo, riappacificandolo momentaneamente col mondo.
Da dieci giorni non riusciva ad alzarsi dal letto, la febbre che non scendeva sotto i trentanove gradi gli impediva di reggersi sulle gambe - già di per sé non particolarmente forti, considerato che da tempo non praticava alcun tipo di sport - e la tosse ancora secca non poteva che peggiorare nei giorni successivi.
Tutto sommato, essendo un uomo molto pragmatico e tendenzialmente ottimista, Castillo riusciva ad apprezzare i lati positivi che la situazione presentava: in quei giorni di malattia, la signora Conchita, per esempio, gli serviva colazione, pranzo e cena a letto e addirittura lo assecondava quando lui la chiamava per cambiare i canali del vecchio televisore Saba, costruito quando ancora i telecomandi non esistevano e sopravvissuto chissà come per più di trent’anni agli inevitabili acciacchi di un’ormai veneranda età, oltre che ai maltrattamenti di Castillo nei suoi rari momenti d’ira domestica.
In più, terminata la colazione, le figlie Mar e Carmen - ventidue e vent’anni di età - gli portavano il quotidiano nazionale e quello locale, appena sfornati dall’edicola in fondo alla strada, e per due ore Castillo si godeva la lettura integrale dei giornali, un privilegio che, da sano, neanche la domenica riusciva a garantirsi.
Un paio di volte al giorno chiamava in ufficio, per verificare se fosse tutto a posto.
Rispondeva immancabilmente lo Slavo - e chi sennò? - il suo unico dipendente, potendo definire dipendente qualcuno che, senza avere paga fissa, risponde al telefono, sbriga le commissioni burocratiche dell’ufficio, pulisce le scrivanie una volta a settimana e fa anche da autista nelle uscite di lavoro in giro per il paese.
Per fortuna, almeno dal punto di vista della salute, quel ragazzo sembrava indistruttibile.
In quei giorni di malattia, in assenza di eventi o d’informazioni di particolare rilevanza (non che in quel paesino ci fosse mai troppo lavoro per un ispettore privato, a dire il vero) quelle telefonate fra Castillo e lo Slavo si risolvevano inesorabilmente in un rispettoso scambio di convenevoli, con auguri finali di pronta guarigione da parte dello Slavo nei confronti del suo capo.
Quella mattina non fece eccezione.
«Pronto, ciao, sono io, Castillo».
«Ah, buongiorno, ispettore, tutto bene?».
«Decisamente no, Slavo, ho ancora la febbre e la tosse non passa. Quando ero ragazzo con un freddo come questo andavo in giro a torso nudo! Ora mi è bastato camminare dieci minuti con un alito di vento fresco per ammalarmi…».
«Mi dispiace, signor Castillo».
«Tutto bene in ufficio? Sono arrivate le bollette di Marzo? Devo controllare se mi hanno tolto il canone del modem».
«Sì, sì, sono arrivate, gliele ho lasciate nel primo cassetto».
«Aprile subito e controlla se mi fanno pagare ancora il modem».
«Aspetti un attimo che le vado a prendere».
Lo Slavo lasciò la cornetta sul tavolo - l’ufficio dell’ispettore non era dotato di cordless, troppo costoso per l’utilizzo che ne faceva - e a passo svelto raggiunse la scrivania di Castillo, aprì il primo cassetto, estrasse la bolletta e tornò al telefono. «Eccomi. Allora, aspetti un attimo che verifico».
«Dai, che fra un po’ devo fare il sonnellino del mattino, sennò come faccio a guarire?».
A Castillo parve di vedere il mezzo sorriso che comparve sulle labbra dello Slavo.
«Mmm… direi di sì, ci stanno ancora addebitando il canone del modem. Seicento novanta colon, capo».
«Ma come? Non avevi disdetto il contratto il mese scorso? Già siamo in un bel periodo di vacche magre, se poi spendiamo per cose che non ci servono dove finiremo? Maledetti quelli di Telefonica!».
«Sì, sì, capo, avevo disdetto, avevo disdetto, stia calmo. Più tardi sento io Telefonica, vedrà che sistemo tutto. E poi, capo, il fatto che nel 2015 Internet non ci serva secondo me è tutto da dimostrare…».
«Facile a dirsi, per te che non paghi» ringhiò Castillo, interrompendo bruscamente lo Slavo, che sembrò non farci caso.
Conosceva l’ispettore e la sua indole bonaria da quasi un anno e mezzo, ormai, e cioè da quando una tiepida mattina di Gennaio, poche settimane dopo essere arrivato a Burgos ed essersi installato nella Locanda Hermosa, sbirciando di passaggio l’interno dell’ufficio di Castillo e trovandolo particolarmente in disordine, si propose all’ispettore per dargli una mano nelle faccende operative.
Altro non sapeva fare, lo Slavo, ma aveva voglia di ricominciare la sua vita in quella nuova realtà, anche partendo dal basso.
Castillo aveva accettato, specificando che non gli avrebbe dato un salario fisso, considerate le ristrettezze economiche in cui versava; lo Slavo aveva accettato senza lamentarsi, visto che era arrivato dall’Italia con un imponente carico di contanti, figli della sua vita precedente, che da una stima grossolana gli sarebbero comunque bastati per almeno cinquant’anni di vita in Costarica.
Lo Slavo riprese con tranquillità la conversazione telefonica interrotta dal burbero intervento dell’ispettore.
«Piuttosto, ispettore, le volevo dire che questa mattina è passato un signore chiedendo di lei. Diceva che gli avrebbe fatto piacere conoscerla».
«E chi era?».
«Non lo so. È rimasto fuori dalla porta, aveva una sciarpa che gli copriva la bocca e gli occhiali scuri. In testa mi sembra portasse una specie di basco, o qualcosa di simile. È stata veramente una questione di attimi, appena gli ho detto che lei aveva la febbre ha girato i tacchi ed è sparito, dopo avermi squadrato da capo a piedi. Non mi ha messo molto a mio agio, sinceramente».
«Beh, se dovesse tornare digli che mi può chiamare a casa, senza problemi. Vuoi mai che ci sia finalmente qualcuno che ha bisogno di noi per risolvere un caso serio, invece delle solite baggianate. E ora metti giù e precipitati da Telefonica, chiarisci la questione del modem e fatti stornare l’addebito in fattura, ok?».
«Sì, capo, ok, tranquillo, ci penso io. Buona giornata, ci sentiamo domani!».
Ma lo Slavo sapeva che la telefonata non poteva terminare in quel modo.
Effettivamente Castillo non gli diede il tempo di riattaccare.
«Dove credi di andare, furfante?».
Lo Slavo sbuffò, non prima di aver allontanato la cornetta dalla bocca. La voce dell’ispettore arrivò puntuale:
Relax, said the night man,
We are programmed to receive! You can check out any time you like... but you can never leave!
«Facile, capo… Hotel California, Eagles».
«Anno?».
«1976».
«Bravo ragazzo. Ti trovo sempre ben preparato, mi fa piacere».
«Già. Grazie capo. A domani, si rimetta in fretta, mi raccomando».
Click.
Click.
A Castillo piaceva mettere alla prova lo Slavo sul rock.
Per lui era un segno di affetto (era una passione condivisa) e, in più, lo faceva sentire ancora giovane, illusione quotidianamente cancellata dallo specchio nel momento più impietoso della giornata, quello del primo mattino, col suo corredo di barba ispida e occhi pesti.
Lo Slavo stava al gioco, a volte divertito, a volte rassegnato.
In fin dei conti, l’ispettore era per lui il primo punto di riferimento importante, in quella terra straniera.
Castillo riattaccò il telefono, stanco come se avesse corso la maratona di San José, e si abbandonò a un profondo sonno ristoratore, cullato dal morbido materasso e avvolto nella coperta fino al mento, proprio come quando era bambino.
***
Lo Slavo era atterrato all’aeroporto Juan Santamaria di San José, Costarica, una sera di Dicembre del 2013.
Aveva da poco superato i trent’anni e proveniva da Milano, dove si era lasciato alle spalle un omicidio, una malattia mentale vinta grazie a cure costose e un’identità balorda, tutti elementi superati grazie a un nuovo passaporto (falso) e, soprattutto, a un nuovo portafogli (pieno).
Viaggiava carico di soldi provenienti da un traffico d’armi nato in Croazia, qualche mese prima, al quale aveva partecipato quasi per caso, ma che gli aveva fruttato un bel gruzzolo di contanti, tenuti ben nascosti nel doppio fondo del bagaglio imbarcato sul volo intercontinentale Milano - San José.
Sapeva di rischiare, alla dogana, con quel carico di soldi nascosti, ma aveva confidato - non senza brividi - nelle maglie larghe dei controlli a campione svolti dalla polizia costaricana sui bagagli in ingresso.
Gli era toccata la sorte di non avere la valigia ispezionata e, superato anche il controllo dei documenti, aveva tirato un sospiro di sollievo, rendendosi conto proprio in quel momento che la fuga dal proprio torbido passato si era realmente concretizzata.
Fuori pioveva, una pioggia fine ma costante, fastidiosa, che gli penetrava prima nell’anima che nelle ossa.
Uscendo dall’aeroporto, si era infilato nel primo taxi disponibile e, in uno spagnolo un po’ stentato, ma comunque dignitoso, aveva chiesto al tassista di portarlo al quartiere italiano.
Il tassista, un tipo basso e sudato, con un mozzicone di sigaretta appeso alle labbra, lo aveva guardato strano.
Quel ragazzone biondo, alto, muscoloso, con la camicia a quadri e i Ray-Ban appoggiati alla fronte, nonostante fuori il buio avesse già abbracciato le stradine mal illuminate nella zona circostante l’aeroporto, gli ricordava il personaggio di un videogioco che lo aveva accompagnato anni addietro, ai tempi della scuola superiore.
Duke Nukem, se non ricordava male.
Il ragazzo viaggiava con un solo bagaglio e non smetteva di guardarsi in giro con occhi da furetto, che si spostavano con incredibile rapidità da destra a sinistra, mentre il capo si manteneva immobile.
«Non esiste un quartiere italiano a San José, signore» aveva sentenziato il tassista, senza girarsi.
Dal sedile posteriore non era giunto alcun commento.
Incerto sul da farsi, il tassista era rimasto a osservare nello specchietto retrovisore la reazione del ragazzo.
Nulla.
Nessun movimento di muscoli facciali, nessuna reazione emotiva.
Nessun tick nervoso.
Il tassista aveva aspirato una profonda boccata da quel che rimaneva del mozzicone di sigaretta e aveva atteso, tamburellando le dita sull’appoggia braccio della sua Citroen Picasso blu.
La pioggia insisteva sul parabrezza e sul lunotto posteriore con martellante monotonia, ma questo non sembrava scomporre il passeggero.
Il tassista si era sentito nell’obbligo di rompere quel silenzio che lo stava mettendo in uno strano imbarazzo:
«Non le voglio mettere fretta, ma per correttezza le dico che il tassametro è già partito».
«La ringrazio. Parta pure».
«E dove vado? Le ho detto che a San Josè non esiste una comunità italiana, mi spiace».
«Parta per favore. Faremo un giro nella zona circostante alla città. Le dirò io quando fermarsi, non si preoccupi».
Il ragazzo sembrava gentile.
Il tassista non era abituato ad avere passeggeri che utilizzassero frequentemente forme quali «la ringrazio», «per favore» o «non si preoccupi».
Aveva ingranato la prima ed era partito, accelerando poco a poco, cercando di staccare il meno possibile lo sguardo dallo specchietto retrovisore.
Quel ragazzo da un lato lo intrigava, ma al tempo stesso lo spaventava, o qualcosa di simile.
Aveva uno sguardo furtivo e innaturalmente rapido e non smetteva di accarezzare impercettibilmente la sua valigia, che non aveva voluto riporre nel bagagliaio, quasi in trance.
«Ha fatto un lungo viaggio?» aveva chiesto il tassista, più per prassi che per reale interesse.
Era la domanda più banale da rivolgere a un passeggero in arrivo da un volo intercontinentale.
«Sì. È la prima volta che prendo l’aereo. A dire il vero è anche la prima volta che esco dall’Europa».
«Lei è italiano?».
«Sì…» aveva risposto il ragazzo quasi sovrappensiero, salvo poi correggersi subito «… cioè no. Sono slavo, ma ho sempre vissuto in Italia. Manco lo parlo, lo slavo, ho vissuto in Jugoslavia fino a quattro anni, poi è scoppiata la guerra civile e i miei genitori sono scappati in Italia. Ho imparato l’italiano e ho dimenticato lo slavo».
«È scoppiata una guerra civile in Jugoslavia?».
Il tassista si era vergognato della propria ignoranza nell’istante stesso in cui aveva terminato di porre la domanda, ma ormai era tardi e la risposta del ragazzo non si era fatta attendere.
«Già, è scoppiata una guerra, anzi, sono scoppiate diverse guerre… e che guerre! La federazione si è fatta letteralmente a pezzi, negli anni novanta. Prima la Slovenia, poi la Serbia, la Croazia, il Montenegro… e tutte le altre regioni a ruota, una dopo l’altra, guerre interne massacranti, con la comunità internazionale che stava a guardare. Meglio non commentare, davvero».
Il tassista, pentito di aver posto quella domanda così sconveniente per reggere il dialogo con uno sconosciuto, aveva deciso di lasciare per qualche istante un silenzio denso di pensieri per entrambi.
Era stato il ragazzo a riprendere la conversazione.
«Qui da voi invece le cose sono più tranquille, vero?».
«Beh, noi siamo la Svizzera del Centro America, non lo sapeva?».
«Francamente, no».
«Noi, dopo la guerra civile del 1948, abbiamo dismesso l’esercito. A cosa serve un esercito in un paese come il nostro? Il governo ha destinato le risorse militari all’istruzione e alla cultura. Ne siamo molto fieri. I nostri ragazzi studiano, invece di combattere. Pura vida, signore, pura vida».
Gli occhi del tassista si erano illuminati.
Era infinitamente orgoglioso della propria nazionalità e non perdeva occasione, durante ogni viaggio dall’aeroporto verso la città, di decantare ai propri passeggeri le lodi del Costarica, terra unica, costellata di ricchezze naturali e di un patrimonio culturale, oltre che umano, inimitabile.
«E lo sa, signore, che il Costarica ha l’indice medio di felicità più alto del mondo?» aveva proseguito, entusiasta.
Il ragazzo aveva risposto senza troppa enfasi.
«E cosa sarebbe, questo indice medio di felicità?».
«Semplice,» aveva ripreso il tassista «si tratta di una statistica elaborata a livello mondiale su centoquarantanove paesi, basata su un questionario che prevede un’unica domanda: in una scala da zero a dieci, quanto si sente soddisfatto, complessivamente, della sua vita?».
«Interessante; e quali sono i risultati?».
«Beh, il Costarica è primo in classifica. Indice medio di felicità superiore a nove punti. Pura vida, eh?».
«Già…» aveva concluso il passeggero laconicamente, quasi in contrapposizione all’entusiasmo del tassista, continuando ad accarezzare la valigia.
Non aveva dato seguito alla discussione, distratto dall’arrivo di un temporale e di un lampo che, inatteso, aveva squarciato il cielo scuro.
Al tassista sarebbe piaciuto continuare a tessere lodi della sua amata terra, dalla quale non si era mai allontanato in trent’anni di vita, ma, nonostante gli sforzi, non aveva trovato alcuno spunto interessante per riempire il momento di silenzio che si era creato, inondato unicamente dal ticchettio della pioggia pesante sui vetri del taxi.
L’auto si era fermata a un semaforo.
Il tassista si era girato per un attimo verso il ragazzo, lo aveva guardato di sfuggita e il suo ghigno indecifrabile gli aveva provocato un disagio che si sarebbe risparmiato volentieri.
Era ripartito premendo a fondo il piede sull’acceleratore, come se volesse fuggire dalla situazione che si era creata e, seguendo una strada quasi deserta immersa nell’oscurità, aveva raggiunto in breve tempo le campagne circostanti l’aeroporto.
Il ragazzo non aveva smesso di guardarsi attorno e sembrava apprezzare quel vagabondaggio senza meta.
«Dove siamo?» aveva chiesto dopo qualche minuto di silenzio.
«Siamo nei pressi di Burgos, signore».
Il passeggero aveva scrutato l’orizzonte fuori dal finestrino del taxi scorgendo, in lontananza, un paesino abbarbicato alle basse montagne del Costarica centrale.
Il buio ovattava i pochi rumori che provenivano da fuori.
Il temporale aveva lasciato spazio a un meraviglioso cielo stellato e a un intenso odore di zolfo, che aveva ricordato al ragazzo la sua infanzia in montagna.
Memoria olfattiva, la più radicata nei sensi dell’uomo.
«Burgos, ha detto? Perfetto. Mi lasci qui, per favore. Mi piace».
Il tassista aveva raggiunto in breve tempo il centro del paese, nel quale la locanda Hermosa contendeva da anni alla chiesa di San Isidro il dominio architettonico su piazza Allende.
Aveva accostato nei pressi dell’ingresso e, senza spegnere il motore, era sceso per aprire la porta al ragazzo.
«Sono trentacinquemila colon, signore» aveva detto senza guardarlo negli occhi, quasi vergognandosi con se stesso per la disonestà di quel prezzo.
Il ragazzo non aveva battuto ciglio, affondando la mano nella tasca laterale dei pantaloni ed estraendo un portafogli gonfio da sembrare sul punto di esplodere.
Apertolo, aveva fatto scivolare nelle mani del tassista quattro banconote da diecimila colon.
Prima che lo richiudesse, il tassista era riuscito a fissare per un attimo quel portafogli.
Non aveva mai visto così tanto contante fra le mani di una persona.
Ma non aveva avuto il tempo per farsi domande strane, perché il ragazzo lo aveva congedato nel migliore dei modi possibili, dal suo punto di vista.
«Tenga pure il resto. La ringrazio. Buon rientro, buona notte».
***
In una comunità ristretta come quella di Burgos non era facile ricoprire l’incarico d’ispettore privato, soprattutto per uno come Castillo che aveva deciso di rifiutare, a prescindere, qualsiasi tipo di indagine legata a possibili infedeltà coniugali.
Per questo, in nome della propria coscienza deontologica, o, che dir si voglia, dell’amor proprio che sempre lo aveva guidato nei momenti di decisione, negli ultimi mesi non aveva trovato neanche un incarico, eccezion fatta per un’indagine su una truffa ai danni di una nonnina che si era vista sparire dalla notte alla mattina i risparmi di una vita dal conto corrente.
Una bazzecola, per uno come lui.
Aveva risolto il caso in meno di tre giorni, grazie anche ai propri amici di San José, vecchi compagni del comando di polizia nazionale, che, tramite analisi incrociate sui movimenti bancari dei parenti della signora, avevano individuato facilmente la mela marcia della famiglia, un nipote dal curriculum apparentemente immacolato ma noto alle forze dell’ordine locali per il consumo smodato di droghe sintetiche.
Non era la prima volta che la polizia gli passava delle indagini; succedeva soprattutto quando, come nel caso della nonnina, il comando di San José era impegnato su operazioni ben più importanti - quella volta si era trattato di narcotraffico internazionale - non sapendo che farsene di banalità di quel tipo.
In quelle circostanze la polizia si rivolgeva a lui, con una sorta di subappalto, sapendo di andare sempre a colpo sicuro.
Incarico consulenziale, con clausola di pagamento ex post, a caso risolto; il tutto senza alcuna formalizzazione, fra persone di fiducia ci si intende così e lui, dopotutto, era un ex collega che, dopo anni di onorato servizio, si era messo in proprio, ma aveva mantenuto tutti i contatti importanti che si era creato soprattutto nei tre anni in cui aveva ricoperto il ruolo di capo della polizia nazionale.
Era stato un periodo duro, con quel ruolo così importante, di un’intensità mai provata prima: tre anni di sfide professionali da responsabile della polizia della capitale.
Un sogno, da bambino.
Ma poi la signora Conchita era stata malamente investita sulle strisce pedonali di un incrocio a San José da un povero ubriaco che cercava nella bottiglia un’improbabile consolazione alle proprie pene d’amore, e i dottori avevano detto a Castillo che la moglie, operata d’urgenza, sarebbe dovuta rimanere a riposo per almeno sei mesi.
E Castillo aveva avuto l’occasione per rivalutare a freddo la propria situazione, riconsiderandola alla luce della nuova emergenza.
Pura vida era stato il tema ispiratore nei momenti chiave della sua esistenza.
Era un’espressione la cui semplicità era inversamente proporzionale alla rilevanza del messaggio che trasmetteva.
Si era reso conto che, in quel particolare momento, pura vida significava poter lavorare a cinque minuti da casa, poter affiancare anche tutti i giorni, se necessario, la signora Conchita nella faticosa riabilitazione, poter seguire da vicino la crescita delle figlie, al tempo in piena adolescenza.
Pura vida.
La decisione fu presto assunta: il poliziotto Castillo, capo del comando di polizia nazionale a San José, riconsegnò la stella argentata al responsabile dell’ufficio del personale, accompagnata da una lettera di dimissioni irrevocabili per motivi familiari; affittò un bilocale sfitto nel centro di Burgos, proprio di fianco alla locanda Hermosa, e vi attaccò all’ingresso una vecchia placca dorata recuperata nel solaio di casa, regalo di qualche Natale precedente dei colleghi del comando per la risoluzione di un intricato caso di sfruttamento della prostituzione minorile, sulla quale con un punteruolo d’acciaio cancellò, con lavoro certosino, la parola «Grazie», sovrascrivendola con «Isp.».
Gli sarebbe piaciuto completare l’opera, scrivendo per intero «Ispettore», ma la fatica esagerata che gli era costata incidere le prime tre lettere lo fece desistere.
«Isp. Castillo», recitava la nuova targa.
Artigianale, ma efficace.
Lui si sentì rinascere.
Il paese di Burgos aveva finalmente un ispettore privato e lui, ancora una volta, aveva seguito il suo cuore per una decisione importante.
Pura vida.


Una festa
The walls started shaking,
The earth was quaking,
My mind was aching.
(ACDC)



Carmen non stava nella pelle per l’eccitazione.
Era una splendida domenica di sole e rientrava da San José, dove il giorno precedente aveva superato con il massimo dei voti il suo primo esame universitario.
Si era iscritta alla facoltà di Filosofia più per non deludere suo padre che per reale convinzione, ma riconosceva che i primi mesi di corso si erano rivelati una piacevole sorpresa.
Le materie, tutto sommato, erano interessanti ma era soprattutto dalle persone conosciute che aveva tratto i giusti stimoli per non pentirsi della scelta.
Le tornavano spesso in mente le parole di mamma Conchita che, pur non avendo viaggiato molto nella sua vita, amava ripetere che gli aghi della bilancia per valutare le situazioni sono sempre le persone, a prescindere dalla bellezza dell’ambiente circostante.
Passò il viaggio di rientro verso casa sull’autobus che collegava San José a Burgos inviando messaggi alle amiche e postando selfie allegri su Facebook.
Scese alla fermata della stazione ferroviaria di Burgos e, per sfruttare al meglio il primo giorno di sole dopo più di due settimane di pioggia, decise di allungare il percorso a piedi verso casa, passeggiando in totale relax sul lungo fiume, accompagnata dalla musica dolce e coccolante di Bon Iver: l’album For Emma, forever ago le era stato consigliato da Ronald, uno dei nuovi amici della facoltà, un ragazzo di San Josè decisamente interessante, con il quale fin dall’inizio si era creata una particolare sintonia.
Sia verso l’album di Bon Iver, sia verso il nuovo amico Ronald, Carmen provava le medesime intriganti sensazioni: non aveva ancora terminato di scoprirne le diverse sfumature e tonalità, e in ogni occasione trovava diverse chiavi interpretative della musica e della persona, scoprendo nuove intense emozioni.
Con l’auricolare nelle orecchie e lo sguardo fisso sul display del telefono per verificare in tempo reale i like dei suoi amici ai precedenti post su Facebook, s’incamminò sul sentiero sterrato che affiancava il fiume, costeggiando il bosco di pini di Burgos, noto per la sua aria balsamica.
Respirò a pieni polmoni e, per meglio godersi il momento bucolico, decise di staccarsi dallo smartphone, riponendolo alla bell’e meglio nella tasca anteriore della borsa a tracolla, già zeppa di quaderni e libri universitari.
L’erba umida attutiva i suoi passi.
Adorava quella sensazione di passeggiata sulle nuvole, amplificata dall’impatto cromatico del tramonto rosa e dall’aria fresca che, dopo le giornate di pioggia, le accarezzava la pelle del viso.
Camminava spensierata, con spirito leggero e occhi sognanti, e forse proprio per questo non si accorse della caduta del telefono nel prato, proprio accanto a una panchina sulla quale sonnecchiava a pancia in su un uomo, con un cappello da baseball calato sugli occhi e coperto sull’addome e sulle gambe da un foglio di giornale aperto.
Arrivò a casa dopo una mezz’ora di passeggiata, durante la quale lasciò correre i suoi pensieri senza redini e senza meta, giusto in tempo per la cena; ma, accortasi dello smarrimento del telefono dopo aver sistemato la borsa in camera, non riuscì a gustarsi il picadillo di patate con carne, servito con la consueta maestria dalla signora Conchita.
Mangiò di corsa, quasi senza proferire parola; cosa non difficile, peraltro, quando al tavolo sedevano anche Mar e la signora Conchita, che potevano discutere amabilmente per ore anche del colore dell’erba.
Papà giaceva a letto con una brutta influenza, fatto più unico che raro.
Senza di lui, la cena era sempre meno allegra.
Terminato il picadillo, Carmen lo raggiunse in camera per sincerarsi delle sue condizioni di salute.
«Papà ciao, come stai?».
L’ispettore Castillo, voltato sul fianco verso la finestra da cui si intravedeva una luna pallida, velata da nubi variegate che vagavano indecise nel cielo scuro, fece non poca fatica per girarsi verso la figlia.
«Male, Carmen. Ho quasi quaranta di febbre e alla mia età, credimi, una temperatura così la senti, eccome».
«Influenza. Sai che il termine influenza deriva dalla forma latina medioevale influentia, che significa azione degli astri sul destino umano?».
L’ispettore sembrò riprendersi.
Sentire sua figlia citare antiche forme latine lo riempiva d’orgoglio.
«Beh… e chi te l’ha detto?» chiese in modo volutamente provocatorio, con il solo obiettivo di proseguire quella conversazione.
«Mi hai obbligata o no a iscrivermi a Filosofia?».
L’occhiolino strizzato da Carmen fece subito abbassare il livello di tensione al quale l’ispettore Castillo era arrivato pressoché istantaneamente: sulla scelta della facoltà universitaria aveva un nervo scoperto, frutto delle infinite discussioni avute al termine della scuola superiore con Carmen, che non voleva proseguire gli studi.
L’aveva avuta vinta lui, alla fine.
«E quindi la mia influenza è dovuta a una congiunzione astrale negativa. Bella questa. Ma io, più che alla stella Sirio o alla stella Polare - che sono poi le uniche due che conosco - credo al maledetto vento gelido di questi giorni! Dillo ai tuoi insegnanti di filosofia!».
La risata fragorosa di Carmen fu accompagnata da una carezza alla mano del padre.
«È la prima volta che ti vedo a letto ammalato, papà…».
«Prima o poi doveva succedere, sai, figlia mia? Ma non preoccuparti: con un po’ di riposo, tornerò più in forma di prima. Tu, piuttosto, raccontami della tua giornata».
Quella del racconto giornaliero era una consuetudine che l’ispettore Castillo era riuscito a mantenere con Carmen, mentre Mar se n’era liberata da un paio di anni, stanca di dover rendicontare ogni aspetto della propria vita al padre ispettore.
«Ieri ho passato il mio primo esame universitario, papà!».
La voce di Carmen squillò nella stanza, fiera e felice.
«Ma come?!» disse l’ispettore «Io non ne sapevo nulla! Che esame era? Quanto hai preso? Cosa ti hanno chiesto? Raccontami tutto, subito!».
«Ti volevo fare una sorpresa!» rispose la ragazza sorridendo, descrivendo poi con dovizia di dettagli l’esame di Storia della Filosofia, rendicontando puntualmente le domande ricevute, le precise risposte fornite, i commenti degli amici, la soddisfazione al momento della registrazione del voto.
Castillo rimase ad ascoltare con la bocca semiaperta e la mandibola sul punto di cascare da un momento all’altro.
Aveva la commozione facile, quando si trattava della figlia.
Ma l’umore della serata ebbe un cambio repentino quando Carmen, terminato il racconto della giornata universitaria, passò alla cronaca del rientro a casa.
«Purtroppo in serata è successa una brutta cosa, invece».
«E cioè?».
Questa volta Castillo si raddrizzò faticosamente sul letto, puntellandosi sui gomiti, con aria preoccupata.
«Ho perso il telefono».
«Uff… poteva andare peggio. Ma dov’è adesso, porco cane?».
Carmen non poté non notare un principio di moto nervoso nella mano di suo padre.
«Papà, se lo sapessi, non l’avrei perso. So per certo che quando sono scesa dall’autobus ce l’avevo con me…».
Castillo iniziò a sudare.
«E poi? Che hai fatto? Ma parli del telefono quello bello, che ti abbiamo regalato a Natale, che fa le foto e i video e ha il navigatore e tutte quelle cose che a me non servono ma che a te piacciono tanto?».
«Esatto, papà. Purtroppo devo averlo perso durante la camminata che ho fatto attraversando il parco. Era così una bella giornata, accipicchia...».
«Senti Carmen, torna indietro, rifai il percorso al contrario, magari lo trovi in terra, no? Sai quanto ci è costato quel telefono?».
«Papà, la zona del parco della stazione la conosci, non è il massimo, sono le nove passate e fuori fa buio!».
Castillo si rigirò verso la finestra per verificare.
Lo spicchio di luna calante confermò l’affermazione di Carmen.
L’oscurità avvolgeva Burgos e, dall’oscillare delle fronde dei pioppi che costeggiavano la strada di fronte alla camera dell’ispettore, si era anche alzato il vento.
«E va bene, Carmen, se proprio non te la senti, lascia stare. Ma non pensare che avrai un altro telefono così, con quello che ci è costato! E lo sai, vero, che…» ma Carmen non lo lasciò terminare, interrompendolo cantilenando «… che io e la mamma facciamo sempre tutto il possibile per voi ma non possiamo permetterci e non vogliamo comunque comprarvi ciò che non serve».
Gli sguardi di padre e figlia si incrociarono e Carmen percepì lo sforzo di suo padre per rimanere serio.
«Amen» aggiunse allora lei, dandogli il colpo di grazia e riuscendo a farlo sorridere, prima di sciogliersi in un abbraccio di saluto.
Tornò in cucina raccomandandogli un buon riposo, che non tardò più di dieci minuti ad arrivare: l’ispettore, febbricitante, si addormentò pesantemente.
«Tutto bene?» chiese distrattamente Mar, rimestando il caffè fumante che la signora Conchita aveva appena preparato.
La risposta di Carmen fu anticipata dallo squillo del telefono di casa.
Le ragazze si guardarono stupite: da quando tutti in famiglia avevano un cellulare, l’apparecchio fisso era di fatto utilizzato solo da lontani parenti anziani per gli auguri di Pasqua e di Natale.
La signora Conchita sollevò la cornetta sotto lo sguardo attento delle sorelle.
«Sì, un attimo, gliela chiamo subito. Buona serata a lei, signore».
Carmen e Mar si guardarono per un attimo con aria reciprocamente canzonatoria, fino a che la voce della signora Conchita interruppe quella scena da spaghetti western.
«Carmen, è per te. Il signor Ronald, se non ho capito male».
Carmen si alzò di scatto dalla sedia, urtando con il ginocchio la gamba del tavolo, che per il contraccolpo fece cadere la tazzina di caffè caldo addosso a Mar, solo parzialmente protetta dal tovagliolo.
Il commento acido della sorella maggior non si fece attendere.
«Vedi, basta la telefonata di uno sfigato qualsiasi per farla uscire di testa. Che sorella rintronata mi ritrovo!».
Carmen era già volata al telefono, strappandolo dalle mani della madre, eccitata per quella telefonata inaspettata.
Era la prima volta che Ronald la chiamava, fino a quel momento si erano semplicemente frequentati all’università scambiandosi qualche messaggio Whatsapp e qualche like su Facebook, ma nessuno dei due aveva mai chiamato l’altro.
«Ciao, Carmen, come va? Scusa il disturbo, ma ti ho mandato un messaggio importante un paio di ore fa e mi aspettavo una risposta… ho provato a cercarti sul cellulare ma suona sempre a vuoto, mi stavo quasi preoccupando. Alla fine mi sono deciso a chiamarti a casa, spero di non disturbare la tua famiglia, davvero…».
«Ciao Ronald! Stai tranquillo, nessun problema. Non mi è successo nulla di grave, ho solo perso lo smartphone nel parco tornando a casa questa sera, porco cane. Per questo non ti ho risposto. Di cosa si tratta? È una cosa urgente?».
«Amo dare accezioni edulcorate al concetto di urgente, spesso abusato nelle nostra società, fanciulla mia».
Erano queste le risposte di Ronald che tanto piacevano a Carmen, quasi degli aforismi che lasciavano l’interlocutore con la sensazione di dover accelerare i giri del proprio cervello per riuscire a seguire i percorsi mentali di quel tipo strano.
Perché strano, Ronald, lo era davvero.
Alto, magrissimo, l’aria perennemente trasandata con i capelli lisci raccolti in una lunga coda di cavallo, gli occhialini stile John Lennon e una barbetta incolta che cresceva in modo disordinato, tralasciando le guance e concentrandosi quasi esclusivamente su pizzo e basette.
Non passava inosservato, quel ragazzo.
Ronald riprese il filo della risposta.
«Nelly e Alejandra organizzano un party per questa notte, siamo invitati anche noi, hai voglia di venire?».
«Wow! Una festa questa sera? Bene! E dove lo fanno questo party?».
«I genitori di Nelly hanno una residenza estiva proprio a fianco del cimitero di Burgos, in campagna, ci si arriva in meno di venti minuti in macchina da casa tua».
«Mmm... in campagna? Questa sera? Senza cellulare? Con così poco preavviso? Con mio padre a letto con un’influenza mai vista?».
«Esatto. In campagna. Questa sera. Con il mio cellulare. Con un’ora di preavviso. Con tuo padre a letto con una banale influenza».
La lucidità di Ronald era invidiabile, in quei frangenti.
Carmen si sforzò di valutare la situazione nel più breve tempo possibile; tutto sommato, non le sembrava che esistessero particolari controindicazioni all’idea di partecipare alla festa e il fatto di essere accompagnata da Ronald rendeva il tutto ancora più stimolante.
Suo padre stava sicuramente già dormendo, debilitato dall’influenza; sua madre si sarebbe messa a letto di lì a poco, stanca per la giornata e Mar stava iniziando giusto in quel momento il ripasso finale, che sarebbe durato quasi tutta la notte, prima dell’esame del giorno successivo.
Via libera.
Rispose all’amico illuminandosi con uno splendido sorriso.
«Va bene, Ronald, ci sono. Mi passi a prendere tu?».
«Certo, ti passo a prendere alle dieci. Ti faccio uno squillo quando sono sotto casa».
«Chissà chi ti risponde! Ti ho detto che ho perso il cellulare, lascia stare, non chiamarmi neanche sul fisso che qui saranno già tutti a letto o sui libri a ripassare. Io alle dieci scendo. A dopo!».
«Ah certo, è vero, me n’ero dimenticato. Allora ti aspetto e basta, alla vecchia maniera, eh? A dopo!».
Click.
Click.
Incamminandosi verso la doccia, Carmen sentì un piacevole calore salirle dalla pancia.
***
Alle dieci in punto Carmen scese rapidamente le scale antistanti alla porta di casa, passandosi una mano fra i capelli per tentare in extremis di sistemarsi il ciuffo ribelle che non era riuscita a domare con il phon in casa.
Il vento serale aveva spazzato via le nubi e i loro rovesci del pomeriggio; l’aria era frizzante e la luna piena, che sembrava verniciata con pittura fosforescente, dominava solitaria il cielo.
Ronald attendeva seduto in macchina, una Due Cavalli arancione, con una grossa ammaccatura sul paraurti anteriore, che aveva da tempo superato i propri anni migliori.
Teneva il braccio sinistro appoggiato al finestrino abbassato e fumava un cigarillo scuro di scarsa qualità, il cui odore (no, non lo si poteva chiamare profumo) aveva dopo poche boccate saturato l’aria dell’abitacolo.
Indossava una camicia a quadri bianchi e blu, portata sopra una maglietta di cotone bianca con un’improbabile immagine di una bandiera strappata del Regno Unito, jeans strappati e, ai piedi, un paio di sneakers Converse verde militare.
Carmen lo baciò su entrambe le guance prima di salire in macchina e iniziare a tossire.
«Ma cos’è sto schifo di odore?» chiese con tono volutamente acido, edulcorandolo subito con un sorriso che mise in bella evidenza le sue fossette.
«Roba di famiglia, Carmen, roba di famiglia. Di quella buona. È un cigarillo di mio nonno, lui ne ha fumati venti al giorno dai dodici anni in avanti».
«E quanti anni ha adesso?».
«Adesso? È morto. A quarant’anni, di tumore ai polmoni. Non l’ho mai conosciuto».
Ci fu un attimo di silenzio, durante il quale Ronald aspirò profondamente una boccata di fumo.
«Scherzi, vero?» chiese Carmen quasi sottovoce.
«No, è vero che è morto, ma so per certo che ha vissuto felicemente, anche grazie a questi cigarillos che sono buonissimi... anzi, vuoi fare un tiro?».
«Non ci penso neanche, Ronald! Dai, parti che ho voglia di muovermi un po’. E smettila di prendermi in giro, somaro che non sei altro...». Ronald mise in moto, fece manovra per uscire dal parcheggio e partì con calma, accendendo lo stereo.
La musica dei Coldplay avvolse i pensieri leggeri e paralleli dei due ragazzi, che non parlarono molto, durante il viaggio, entrambi rapiti dalle poesie di Chris Martin e dalla sua voce a volte baritonale, a volte in falsetto.
In meno di un quarto d’ora di macchina arrivarono alla festa.
Nelly, la padrona di casa, attendeva gli invitati ciondolando con un candelabro in mano di fronte al grande cancello della proprietà, alle cui spalle si intravedeva il maestoso giardino della residenza di campagna della famiglia.
Nel centro del giardino, gli zampilli di un’antica fontana a base rotonda, illuminati dal basso da faretti colorati, si ergevano nel cielo, superando l’altezza della statua posta al centro della fontana stessa, un improbabile Eros malamente copiato da quello di Piccadilly Circus.
Nella zona esterna, antistante al cancello, si estendeva uno spiazzo verde che gli invitati già arrivati non avevano esitato a utilizzare come parcheggio, cosa che fece anche Ronald, entrando di muso nell’angusto spazio che restava fra una Clio amaranto e una Volvo Blu di grossa cilindrata.
«Grazie Ronald, ma così non riesco proprio a uscire» disse Carmen, dopo aver tentato di aprire la portiera con il massimo della delicatezza, per evitare di causare danni alla Volvo adiacente.
«Neanch’io,» ribatté lui «ma non devi preoccuparti: la Due Cavalli è un’auto a risorse infinite!».
Iniziò a girare una manovella che pendeva dal tettuccio, non distante dallo specchietto retrovisore, e piano piano fece decapottare la macchina.
«Grande! Questa sì che è un’auto moderna!» esclamò Carmen che, senza farsi pregare, saltò con agilità sui sedili posteriori e da questi, in un battibaleno, atterrò sul prato, imitata da Ronald.
«Ingresso alla festa in grande stile, eh?».
Nelly si era avvicinata, sempre con il candelabro acceso fra le mani per illuminare il prato, mostrando un sorriso radioso che si era costruita con cinque anni di cure ortodontiche e una cifra non indifferente sborsata da suo padre.
«Ciao Nelly! Splendida idea la festa di questa sera! Possiamo già entrare?» chiese Carmen, baciando su entrambe le guance l’amica e avviandosi verso il sentiero d’ingresso ancora prima della risposta.
«Certo, superate la fontana e tenete la destra. Seguite poi le luci, non potete sbagliare, ok?».
«No problem! Ho fatto cose più complicate nella mia vita» rispose Ronald con la consueta ironia.
S’incamminarono nel giardino seguendo, più che le luci, il suono della musica, sparata dal deejay a volume assordante; l’adiacenza al camposanto, in fin dei conti, garantiva che gli unici vicini della tenuta non si sarebbero mai potuti lamentare del rumore.
Misjudged your limits
Pushed you too far
Took you for granted
I thought that you needed me more more more!
« Boys don’t cry! Fantastica!».
L’emozione di Carmen sorprese Ronald, che per la musica aveva un semplice interesse superficiale.
«Ma come fai a riconoscere una canzone di trent’anni fa da due strofe orecchiate in sottofondo?» chiese guardandola dritta negli occhi, quasi a sottolineare il suo sentimento di sorpresa.
Carmen rispose con nonchalance, senza girarsi verso di lui.
«È una passione che mi ha trasmesso mio padre. Lui ha una cultura musicale sterminata e ha educato me e mia sorella a pane e rock, fin da piccole. E fin da piccole ci diceva titolo e autore di ogni brano e lo canticchiava nel suo inglese stentato che però ci permetteva di seguire il testo molto più facilmente che ascoltando le versioni originali, capisci?».
«Certo. La paragonerei a una forma di bilinguismo. Avete assorbito quasi inconsciamente la sua cultura musicale, come i bambini figli di genitori di differenti nazionalità imparano gratuitamente le lingue di papà e mamma, senza alcuno sforzo. Una sorta di apprendimento per osmosi, via».
«Più o meno...» rispose Carmen senza troppa convinzione, giusto un attimo prima di scorgere, poco dopo una leggera curvatura del sentiero sulla destra, l’ingresso al salone della festa.
La musica era alta e l’impianto diffondeva con particolare potenza i bassi, che sembravano rimbombare negli stomaci dei ragazzi.
Carmen e Ronald si buttarono in pista, illuminati da una strobo anni settanta che lanciava a intermittenza raggi fendenti di diverso colore, in pieno stile spade Jedi di Guerre Stellari.
Carmen prese al volo uno shot di vodka con limone appoggiato sul vassoio di un cameriere che si aggirava fra la folla e lo bevette in pochi sorsi veloci, senza smettere di ballare.
Le sembrò che la strobo aumentasse progressivamente la frequenza dei colpi Jedi e l’immagine le provocò un sorriso che, con quel po’ di carica aggiuntiva di vodka, divenne subito una risata.
Un altro cameriere con due baffetti che sembravano dipinti passò velocemente fra i ragazzi e Carmen non si lasciò sfuggire lo shot di tequila, che tracannò senza pensarci.
«Vacci piano, Carmen, che non sei abituata a bere» gridò Ronald, senza smettere di seguire il ritmo al centro della pista, cercando di superare con la voce i decibel della musica.
Ma Carmen sembrò non sentire e, poco a poco, sparì nella bolgia danzante, fagocitata dall’entusiasmo dei ragazzi festaioli.
***
Il taxi giunse nello spiazzo antistante al grande cancello della villa poco prima delle undici.
Il confuso andirivieni di persone nella zona dell’ingresso non era cessato, benché la maggior parte degli invitati fosse già stata dirottata verso il salone dei balli e nell’adiacente zona bar, dove l’alcool scorreva libero e, soprattutto, gratis.
La formula barra libre, nelle feste private, garantiva una percentuale di ubriachi ben superiore agli standard delle feste universitarie.
Un uomo di media corporatura scese dal taxi, pagò senza chiedere il resto e senza indugio si avvicinò al portone.
Sapeva, o forse temeva, che il suo arrivo sarebbe stato visto dai più come un fatto perlomeno anomalo, ma si sforzò di comportarsi nel modo più naturale possibile.
Indossava una maglietta di cotone azzurra con una piccola stella bianca sulla schiena, jeans scuri attillati e un paio di anfibi neri con le stringhe bianche.
In testa, portava un curioso cappellino rosso da baseball.
Nelly faticò non poco a nascondere la sorpresa.
«Padre Juan! Ma che piacere! Qual buon vento?».
Era certa di non averlo invitato, ci mancherebbe, invitare un prete a un party universitario in campagna.
Chissà com’era venuto a sapere della festa, e chissà cosa gli era scattato in testa per decidere di parteciparvi.
Nelly notò un velo d’imbarazzo nel suo interlocutore e per superare il momento d’impaccio preferì spiegargli subito la strada per arrivare al salone.
«Superi la fontana, segua il sentiero tenendo la destra, dopo poco troverà il posto, ok? Io arrivo fra pochissimo, sono già le undici, credo che gli invitati siano ormai tutti arrivati. E ho una voglia pazzesca di buttarmi in pista anch’io!».
La ragazza ammiccò senza alcuna malizia, ricevendo come risposta un sorriso sfuggente, solo accennato.
L’uomo si accese una sigaretta e s’incamminò, leggermente ingobbito, sul sentiero illuminato da piccole candele profumate.
L’arrivo al salone principale della festa fu per lui come un pugno dello stomaco.
Volume della musica altissimo.
Al centro della sala, ragazzi con capelli rasta che battevano violentemente tre bidoni di metallo amplificati, in completa simbiosi con il ritmo della musica sparata dai subwoofer a duemila watt, che sembrava volersi fare largo a gomitate fra le viscere di ognuno dei partecipanti.
Raggi di luce emanati dalla strobo che pendeva al centro del salone e profumi di dopobarba mescolati a odore di sudore nella calca.
Camerieri in tenuta apparentemente informale, ma tutti con cravattino bianco come segno distintivo, che giravano senza sosta nella sala brandendo su una mano tenuta alta, appena sopra le teste degli invitati, vassoi argentati colmi di alcolici e superalcolici, che venivano svuotati dopo meno di un minuto dalla preparazione.
Decise di restare ai margini della bolgia, appoggiato allo stipite della gigantesca porta finestra che in qualche meandro della sua memoria lo riportò a quanto studiato anni prima sulla concezione di architettura organica di Wright: garantiva la sostanziale continuità fra il grande salone e il parco antistante.
Osservando di sottecchi la situazione, notò che, ogni tanto, qualcuno usciva dal girone infernale per prendere un po’ d’aria nello sterminato parco della tenuta, dove capannelli di ragazzi e ragazze si formavano con sorprendente rapidità e con altrettanta velocità si scioglievano, sopraffatti dal richiamo della musica, troppo intenso per restare a lungo in giardino a chiacchierare.
Alzò gli occhi al cielo e notò come una lunga nuvola grigiastra stesse iniziando a velare la luna piena che, fino a quel momento, aveva dominato incontrastata la tiepida notte costaricana.
«Facciamoci un giretto» pensò, camminando a passi veloci verso la grande scalinata di marmo bianco che, partendo dal fondo del corridoio, si ergeva solenne alle spalle della sala da ballo.
La scalinata lo portò al primo piano, esattamente sopra il salone da ballo; nei momenti di maggior foga dei percussionisti, poteva sentire il pavimento vibrare.
Notò due porte di legno massiccio, una sulla destra e una sulla sinistra, mentre di fronte allo sbocco delle scale, attraversato il salone a base ovale, un’altra grande vetrata, del tutto simile a quella del pian terreno, permetteva di godersi una vista invidiabile sul giardino antistante.
La morbida moquette blu attutiva i suoi passi e questo gli diede la voglia di togliersi gli anfibi dai piedi, cosa che fece, proseguendo scalzo il suo giro esplorativo.
Attraversò la stanza e si godette per dieci buoni minuti il panorama, cullato dal buio, godendosi con calma la sigaretta accesa poco prima e divertendosi di tanto in tanto a osservare il fumo salire al soffitto bombato.
La nuvola sbiadita di qualche minuto prima, nel frattempo, stava completando la propria opera di copertura della luna.
Fu proprio durante uno di questi momenti di osservazione che, inaspettato, si verificò un black out; gli amplificatori del deejay erano degni di un concerto degli U2 e l’impianto elettrico dell’edificio non poteva essere dimensionato per reggere un simile carico.
Il silenzio dirompente lo colse di sorpresa, ma ciò non gli impedì di percepire una specie di rantolo proveniente da una delle stanze che si affacciavano sul salone.
Doveva essere un suono emesso da una ragazza, sembrava gutturale ma lui non riuscì a capire se si trattasse di un gemito di piacere o di dolore.
Decise di restare immobile, tendendo solo le orecchie e non potendo evitare di sentirsi come un setter che cerca affannosamente di localizzare le fonti dei suoni percepiti.
Il silenzio si fece avvolgente e, accompagnato dal buio pesto, gli provocò una sensazione di scomodità.
Recuperò gli anfibi, si avvicinò alla porta di legno massiccio da cui aveva sentito i rumori e, delicatamente, abbassò la maniglia di ottone, che non oppose resistenza.
Aprì la porta e si trovò in un’ampia stanza, nella quale, in un letto matrimoniale a baldacchino, due tipi in mutande sembravano accanirsi su una ragazza imbavagliata, nuda, legata per le mani alla testiera e per le caviglie alle gambe del letto, ai cui piedi erano ammucchiati i vestiti dei ragazzi.
Uno dei due era chinato sull’ombelico della sventurata, mentre l’altro sembrava accarezzarla con vigore sul viso.
Ebbe l’impressione che, più che carezze, si trattasse di tentativi per farle girare il viso e baciarla.
Lei resisteva, pur sembrando totalmente senza forze, emettendo gemiti confusi in evidente stato di shock.
La stanza era debolmente illuminata da candele sparse che emanavano un profumo di vaniglia intenso, che si mescolava con l’aroma della marijuana che altri due ragazzi stavano fumando, stravaccati su due vecchie poltrone rivestite di velluto verde.
La corrente tornò dopo pochi minuti, inondando di musica la stanza, nella quale nessuno sembrò accorgersi del suo ingresso.
I due giovani seminudi continuarono le molestie, fra risatine e sguardi d’intesa, mentre i due seduti, con gli occhi a mezz’asta, si passarono la canna battendosi un «cinque» con la mano libera.
Incrociò lo sguardo della ragazza ed ebbe l’impressione che lei fosse sul punto di piangere, benché la sua espressione fosse talmente vacua da risultare difficilmente intelligibile.
Non poté non ammirare il corpo nudo della giovane.
La sua pelle era bianchissima, le gambe muscolose.
I lunghi capelli lisci accarezzavano le spalle e le coprivano parzialmente il viso, scompigliati dalle mani dei due ragazzi sopra di lei.
Aspirò un ultimo tiro di sigaretta, gettò il mozzicone dalla finestra aperta e si sedette sul letto, accarezzandole le gambe.
Solo in quel momento i due che stavano fumando marijuana si resero conto del suo ingresso e, quasi stupiti da quell’approccio inatteso, iniziarono a battere a ritmo le mani, al grido di «Sesso, sesso!».
Gli altri due, senza fretta, si sfilarono le mutande, strusciandosi sulla ragazza a ritmo con i battiti di mani degli amici.
Togliendosi gli indumenti, si unì al coro degli stonati, iniziando ad accarezzare il corpo della malcapitata, dai cui occhi inumiditi iniziarono a scendere sottili lacrime salate.
Di fuori, la luna della notte costaricana si perse definitivamente, oscurata del tutto dalle nuvole.
L’orgia durò meno di dieci minuti ma, per lui, tanto bastò; l’eccitazione sfrenata, amplificata dall’effetto della marijuana, lo portò in brevissimo tempo a un orgasmo selvaggio e ansimante, che raggiunse mordendo le lenzuola sgualcite del letto a baldacchino e stringendo in estasi un lembo del cuscino.
Poi si rialzò, si sistemò i capelli, raccattò i vestiti dai piedi del letto, e fece un ultimo tiro di canna prima di uscire dalla stanza.
Stonato com’era, e con la vista offuscata, il salone del primo piano della villa gli sembrò girare su se stesso; ciò nonostante intravide nella penombra, nei pressi della grande scalinata, un ragazzo che sorreggeva la testa di un’amica, il cui corpo appariva abbandonato senza forze sulla moquette.
Si volse immediatamente dall’altra parte, per evitare impicci, sperando di non essere notato.
Ma il ragazzo, che appariva nervoso, gli chiese un aiuto, e i loro sguardi si incrociarono per un attimo fugace, impercettibile ma concreto, prima che lui, senza degnarlo di una risposta, scendesse le scale, diretto con andatura risoluta verso l’uscita della proprietà e passandosi di tanto in tanto le dita fra i capelli ancora sudati.
Si rese conto di aver dimenticato nella camera da letto il cappellino da baseball, che gli avrebbe fatto comodo per coprirsi maggiormente il volto, ma decise di non recuperarlo per evitare di intercettare nuovamente quel tipo e la sua bella addormentata, forse svenuta.
Attraversò il parco di fretta, con lo sguardo basso, facendo il possibile per evitare di incrociare gli sguardi della gente, arrivando al parcheggio con il cuore che batteva a ritmo superiore al solito, carico di adrenalina per l’esperienza di poco prima.
Numerosi taxi attendevano i reduci della festa; lui si infilò nel primo disponibile e, una volta entrato nell’abitacolo, si annusò le mani, impregnate di sesso della ragazza misto a marijuana, e finalmente si rilassò, sforzandosi di vergare nella propria memoria la memorabile orgia.
«Calle del Tesoro, grazie» disse con voce roca all’autista, rimanendo così, con gli occhi chiusi e le dita vicine alle narici, per qualche minuto, seduto sul sedile posteriore e cullato dagli echi della musica della festa, ormai lontano sottofondo di una serata unica, lasciandosi portare verso il suo destino.
Era atteso a un appuntamento che, a breve, gli avrebbe cambiato la vita, ma non lo poteva sapere.
***
Dal momento del black out, al piano terra la confusione aveva regnato sovrana.
Nelly si sgolava per chiedere ai partecipanti di restare tranquilli, assicurando che entro breve il guasto sarebbe stato sistemato.
Gli invitati, sull’onda dell’euforia della festa, non avevano perso l’occasione per intonare canti e balli, schiamazzando felici e incuranti dell’inconveniente.
Ronald ne aveva approfittato per divincolarsi dall’abbraccio verbalmente tentacolare di una sua ammiratrice che da quasi mezz’ora lo stava annoiando, impedendogli di cercare Carmen.
Si era fiondato nel giardino e aveva iniziato a chiamarla, tentando con scarso successo di sovrastare il volume dei cori dei festaioli ubriachi.
Aveva cercato di amplificare la propria voce aiutandosi con le mani, appoggiate a mo’ di megafono ai lati della bocca, ma i risultati non erano migliorati; aveva quindi provato a rintracciarla sul cellulare, dimenticandosi che era stato smarrito proprio quel pomeriggio.
Nel frattempo aveva iniziato a piovere, con grande soddisfazione dei reduci del ballo, sudati e stropicciati, fumati e bevuti, che approfittarono dell’acquazzone per una doccia rinfrescante a cielo aperto, improvvisando girotondi e canti da osteria, senza smettere di bere.
Era rientrato in casa e, attraversando il salone da ballo ormai semivuoto, si era diretto verso la scalinata di marmo bianco, che aveva salito di corsa, saltando i gradini a due a due, facendo attenzione a non inciampare per il buio.
Era arrivato nel grande salone con il tappeto blu scorgendo, appoggiata allo stipite di una porta, Carmen.
Le ginocchia sembravano non riuscire a reggere il suo peso; stringeva in mano una bottiglia vuota di vodka e, a occhi chiusi, cantava a squarciagola una canzone inglese che non era riuscito a decifrare.
Non si era accorta dell’arrivo dell’amico, che si era affrettato a prenderle con forza il capo fra le mani, chiamandola con foga.
«Carmen, Carmen! Sei ubriaca fradicia! Ti porto subito via, forza, non puoi restare qui in queste condizioni!».
Aveva parlato accavallando le parole, quasi balbettando, con una voce stridula: sotto stress, l’aplomb di Ronald, che tanto piaceva a Carmen, svaniva miseramente.
La ragazza si era immobilizzata per qualche secondo, cedendo poi tutt’a un tratto e abbandonandosi fra le braccia dell’amico, che la stese sul tappeto, incosciente.
Finalmente tornò la corrente e la musica, inaspettata ed esplosiva, riprese a pompare, contornata dalle grida ubriache dei ragazzi al piano terra.
Ronald lasciò per un attimo Carmen e corse da basso per recuperare un po’ d’acqua; entrando nel salone da ballo, ebbe l’impressione che i muri tremassero, la terra sobbalzasse, la sua testa fosse trafitta da una gelida lama di spada, ma trovò comunque la forza per attraversare la baraonda di ragazzi che avevano ripreso a ballare e raggiunse il barman, cui chiese una bottiglietta d’acqua fresca.
Risalì di corsa da Carmen, che permaneva stesa sul tappeto nell’angolo del salone, e vide in quel momento uscire da una stanza un uomo alto, riccio, con l’aria disordinata e l’aspetto trafelato.
Sembrava avesse davvero fretta, quell’uomo, ma era l’unico a cui Ronald potesse rivolgersi, in quel momento di necessità.
Gli chiese nervosamente un aiuto, incrociando il suo sguardo sfuggente, ma non ricevette alcuna risposta dal tipo, che scese di corsa le scale, dileguandosi nella ressa del piano terra.
«Stronzo!» gli gridò Ronald, pur con la voce coperta dal volume della musica, prima di rifocalizzare la propria attenzione su Carmen, versandole poco a poco l’acqua fresca sul viso e forzandola di tanto in tanto a berne qualche sorso.
La ragazza si svegliò tossendo, appoggiandosi con fatica sulle spalle dell’amico per riuscire drizzare la schiena, e cercando aria a pieni polmoni.
«Carmen, svegliati, ti prego!».
Le mani di Ronald tremavano per lo stato di tensione nel quale era entrato e la sua voce sembrava rimbombare sotto l’alto soffitto del salone, nonostante da sotto arrivassero gli echi della musica sparata dal dee-jay.
Carmen sbatté gli occhi in stato di semi-incoscienza, prima di inarcare d’un tratto la schiena e vomitare sul tappeto persiano.
Ronald fece un salto all’indietro per non sporcarsi, trattenendo a sua volta un conato e sforzandosi al contempo di non lasciarle la testa, che sembrava potersi staccare da un momento all’altro, tanto era privo di forze il corpo della ragazza.
«Portami a casa, Ronald. Per favore» fu la supplica di Carmen, masticata fra i denti, la fronte imperlata di sudore, i capelli zuppi e spettinati.
«Certo, Carmen. Ti porto subito».
Sollevò di peso l’amica, tenendola in braccio e sorreggendole la nuca, poi scese lentamente le scale, sentendo aumentare a ogni gradino il volume della musica proveniente da basso.
Attraversò il più rapidamente possibile il salone da ballo al piano terra e proseguì con fermezza per il sentiero nel parco, giungendo al parcheggio stanco e ansimante.
Fortunatamente, la Volvo che all’arrivo aveva impedito a Carmen di scendere era già ripartita.
Spalancò la portiera posteriore della Due Cavalli, adagiò delicatamente Carmen sul sedile bagnato - il tettuccio dell’auto era rimasto aperto per tutto il temporale - e si avviò verso la sua casa, chiedendole sottovoce di non sporcargli la macchina, nei limiti del possibile.
Da dietro, Carmen rispose affermativamente, con un semplice cenno del capo, prima di addormentarsi di colpo con un inaspettato accenno di sorriso sul volto, ebbra come mai lo era stata in vita sua.
Arrivata a destinazione, accompagnata fino alla soglia da Ronald, riuscì a malapena a entrare nell’appartamento, avvolta dal silenzio della notte, prima di crollare nel proprio letto ancora vestita.
Mar, china sui libri nella camera adiacente, non si accorse di nulla.
Si abbandonò a sogni turbolenti, di cui non sarebbe comunque rimasta traccia il giorno successivo.


Un’indagine complessa
I wish I was a sailor with someone who waited for me
I wish I was as fortunate as fortunate as me
I wish I was a messenger and all the news was good.
(Pearl Jam)



Lunedì.
Passati i giorni peggiori di quella fredda primavera costaricana, passò poco a poco anche il picco dell’influenza di Castillo.
Dopo il periodo di pit-stop, era finalmente pronto per tornare al lavoro, carico di energia e buoni propositi.
Quella mattina si svegliò presto, uscì fischiettando dalla doccia, si rasò rapidamente, si inondò di dopobarba Denim e decise di indossare, quasi per celebrare il rientro al lavoro (era la prima volta in tanti anni che si assentava per due settimane di fila) il vestito di velluto nero col panciotto che tanto lo faceva sembrare un vecchio giocatore di biliardo.
La cosa gli piaceva, considerato anche il fatto che lui, amante della goriziana, negli anni universitari aveva passato più tempo sul tavolo verde che sui libri del corso di giurisprudenza.
Per colazione la signora Conchita gli preparò un caffè doppio accompagnato da tre churros appena fritti e Castillo la ringraziò con un sonoro bacio sulla guancia.
Lei, come sempre, tentò di fingere disinteresse per quella casta manifestazione di affetto, ma fu tradita da un mal celato sorriso di soddisfazione.
Era una donna ancora affascinante, aveva occhi verdi incastonati in un viso ovale e lunga ciglia nere, gli zigomi alti e un sorriso perfetto.
I lunghi capelli neri le scendevano morbidi sulle spalle e qualche filo argenteo iniziava a manifestarsi qua e là; ciò non la preoccupava affatto e questo non faceva che aumentare il sentimento dell’ispettore Castillo, innamorato e orgoglioso della poca importanza che sua moglie attribuiva a mere questioni di apparenza.
«G-grazie, amore m-mio» disse faticosamente Castillo, affondando i denti nel churro più dorato e chiudendo gli occhi a ogni morso per sottolinearne la prelibatezza.
«Di nulla, caro» rispose la signora Conchita, dandogli le spalle e aprendo le ante della finestra della cucina, certa di trovare, sotto il cielo plumbeo, un acquazzone: suo marito, quando pioveva, balbettava.
E quando la pioggia era particolarmente intensa, come quella mattina, le parole proprio sembrava non volessero uscire dalla bocca.
In quei casi, la lingua di Castillo si intestardiva sul palato, insensibile agli sforzi di volontà dell’ispettore, con una sfumatura quasi sadica che gli provocava imbarazzi indesiderati, dai quali usciva solo chiudendo violentemente le fauci e serrando le mascelle per qualche secondo, nella maggior parte dei casi chiudendo al contempo anche gli occhi.
Gesto fastidioso, nella maggior parte dei casi, ma efficace.

Mar e Carmen entrarono quasi contemporaneamente in cucina, entrambe ancora stropicciate da una notte di poco sonno, una per motivi di studio, l’altra reduce da una festa universitaria quantomeno movimentata e innaffiata da troppo alcool.
Salutarono i genitori con un bacio sulla guancia solo accennato e si sedettero una di fronte all’altra.
Mar amava passarsi una mano fra capelli corti e neri, di un colore corvino che in molti stentavano a credere potesse essere naturale; aveva un sorriso solare baciato da una dentatura da pubblicità e due gemme verdi al posto degli occhi, chiara eredità cromosomica della madre.
Era la maggiore e fisicamente la differenza fra le due era lampante; a ventidue anni era già una donna, con le rotondità del seno e dei glutei sempre in bella evidenza, nei vestiti stretti che amava indossare.
Castillo sopportava non senza preoccupazioni quella situazione, per la poca fiducia che aprioristicamente nutriva nei confronti della nuova generazione, ma si sforzava di confortarsi pensando ai bei voti scolastici della figlia che, secondo i suoi insindacabili canoni, era una brava ragazza.
In Carmen erano invece ancora presenti i tratti dell’adolescenza e a vent’anni, diversamente da buona parte delle sue coetanee, non aveva ancora terminato lo sviluppo fisico.
I seni erano solo accennati, era di quasi dieci centimetri più bassa della sorella e pesava venti chili in meno.
Sul suo viso, dai lineamenti aspri enfatizzati dalla magrezza forse eccessiva, risaltavano curiose lentiggini concentrate soprattutto sulle gote; i capelli lunghi e mossi, non curati, contribuivano a creare il personaggio alternativo che le piaceva interpretare fuori dalle mura domestiche, in particolare nelle occasioni in cui riusciva ad accodarsi a Mar e alla sua compagnia.
«N-notte i-impegnativa, ragazze?» chiese Castillo, prima di sorseggiare il caffè nero bollente che, dopo i giorni d’influenza accompagnati da tristi tisane ristoratrici, gli sembrò più buono che mai.
La signora Conchita scaldò dell’acqua e v’immerse due bustine di the, sapendo che avrebbe fatto bene agli stomaci ingarbugliati delle figlie.
Il profumo dell’infuso pervase rapidamente la stanza e sembrò avere un effetto benefico immediato su Mar, che passò in pochi secondi dallo stato di catalessi nel quale si era presentata in cucina a quello di iperattività che tanta invidia provocava a Castillo, ormai lontano da quei ritmi che appartenevano al suo passato di brillante universitario.
Le domande della figlia maggiore lo investirono senza preavviso.
«Papà, torni al lavoro oggi? Hai voglia? Stai seguendo qualche caso? È successo qualcosa d’interessante in questi giorni? Hai visto come piove? Speriamo tu non debba parlare troppo! Mamma, questo the è buonissimo! Carmen, ti vuoi svegliare?» e così via.
Carmen, stringendo fra le mani la tazza fumante preparata dalla madre, rimase nel suo stato catatonico.
Pur incalzato dalle domande della figlia maggiore, l’ispettore Castillo abbassò la serranda del proprio ascolto e si estraniò dai successivi dieci minuti di conversazione - se di conversazione si poteva parlare, considerando che anche la signora Conchita in quelle situazioni preferiva rinunciare a intervenire nel flusso irrisolto di domande della figlia.
I pensieri iniziarono poco a poco a fluirgli liberi.
Si concentrò sui principali fatti di cronaca nera avvenuti durante il periodo passato a letto, sforzandosi di individuare quelli che potevano scaturire in nuovi lavori per lui e per lo Slavo.
Aveva bisogno di impegnare la testa, dopo i giorni a letto, e percepì una piacevole carica di adrenalina montargli poco a poco dallo stomaco.
Una raffica improvvisa di vento fece sbattere le ante della cucina.
«S-signore mie… v-vado al l-lavoro. Splendida g-giornata, eh? Ci vediamo questa s-sera».
S’infilò l’impermeabile verde, afferrò il primo ombrello che gli capitò a portata di mano e soffiò un bacio verso le sue donne, che ricambiarono il saluto, a parte Carmen, che rimase immobile con la tazza fra le mani.
L’Alfa 159 attendeva Castillo dall’altra parte della strada, fiammante come sempre, ma i giorni di sosta forzata durante la malattia non le avevano fatto bene: l’ispettore impiegò quasi dieci minuti per riavviare il motore - più del tempo che, camminando, avrebbe impiegato per arrivare in ufficio - fra imprecazioni violente e le risa di Mar che, dalla finestra, lo spiava da dietro le tende.
La cosa che più lo faceva imbestialire, in queste situazioni, era che gli improperi non subivano l’effetto balbuzie: gli uscivano dalla bocca chiari, netti, indiscutibili, a prescindere dall’intensità della pioggia.
Accese la radio e iniziò a tamburellare con i polpastrelli a ritmo di musica sul volante, procedendo, come suo solito, a velocità bassissima, incurante degli sguardi di disprezzo, talvolta accompagnati da insulti, degli autisti più giovani che lo sorpassavano.
Andare in macchina era uno dei pochi momenti in cui il suo cervello si staccava dai pensieri quotidiani, in una sorta di zona franca che gli permetteva di analizzare le situazioni da un punto di vista esterno e in più di un’occasione questo distacco era stato la chiave di volta per trovare la soluzione dei casi che seguiva.
Arrivò in breve tempo nel parcheggio di Calle Arenal, scese con calma dall’auto, comprò un quotidiano all’angolo della strada, se lo infilò sotto il braccio e, attraversando Plaza Allende, procedette a passo tranquillo verso l’ufficio, poco distante.
Sembrava che la chiesa di San Isidro e la locanda Hermosa si guardassero in cagnesco, ognuna affacciata sul proprio lato della piazza.
Nel frattempo aveva smesso di piovere e questo gli dava maggior tranquillità per il rientro al lavoro anche se, dopo tutti quegli anni, la balbuzie aveva smesso di costituire un problema insormontabile per lui.
Entrò in ufficio aprendo la porta di soppiatto, quasi non volesse farsi notare, ma il volume della radio che sparava You shook me all night long lo avrebbe comunque coperto.
Trovò lo Slavo intento ad armeggiare con il modem, accucciato a fianco del suo computer; aveva la testa incassata fra le spalle per non sbattere con la nuca contro il tavolo e, stando alla smorfia del volto, la posizione innaturale non doveva essere proprio comoda.
Si schiarì la voce, ma questo non servì a far sì che lo Slavo si rendesse conto del suo arrivo.
Optò allora per l’intervento radicale, spegnendo lo stereo proprio un attimo prima del ritornello.
Un gesto di una violenza inaudita, per un amante del rock come lui, che una volta, ai tempi dell’università, telefonò alla radio nazionale per lamentarsi con il deejay di aver malamente sfumato Sultans of Swing prima dell’assolo finale.
L’improvviso silenzio nell’ufficio ebbe l’effetto sperato, richiamando l’attenzione dello Slavo, che emerse da sotto al tavolo stirandosi la schiena, sempre con il modem in mano.
«Quindi? Non l’hai ancora riportato indietro quell’aggeggio?» attaccò Castillo, appendendo l’impermeabile verde all’attaccapanni posizionato di fianco all’entrata.
«Buongiorno ispettore, ben tornato» rispose sorridendo lo Slavo, tendendogli la mano, che l’ispettore strinse con il solito vigore accompagnato dal sorriso bonario che non lesinava mai agli amici.
«Per il rientro ci vuole subito un quiz, ragazzo».
Con una perfetta pausa finalizzata ad aumentare il climax della situazione, Castillo si fermò un attimo, senza distogliere lo sguardo dal suo interlocutore e scandì con voce roca i versi di un brano che lo riempiva di emozioni.
Take your time
Hurry up
The choice is yours
Don’t be late
Take a rest
As a friend
As an old memoria.
Lo Slavo ci mise un secondo per capire il brano.
«Ispettore, troppo facile! Come as you are, Nirvana».
«Lo so che è facile, ma non volevo avvelenarti il mio rientro con cose troppo complicate… pensa che ascoltavo questa canzone quando la signora Conchita era incinta di Carmen e ogni volta che la sento mi si drizzano i peli sulle braccia! Ah, la mia bambina! E ora lasciami leggere un attimo il giornale, tu intanto vedi di sistemare quel maledetto modem, ok?».
«D’accordo ispettore, d’accordo».
Lo Slavo si rimise al lavoro, accucciandosi sotto il tavolo del computer con un accenno di sorriso sulle labbra, e rendendosi conto di quanto il rientro dell’ispettore lo rallegrasse; poco dopo, si rimise all’ascolto di Radio Reloj, che trasmetteva buona musica rock senza interruzioni di assoli, come amava sottolineare Castillo.
Ma quella mattina, il deejay fece un’eccezione, tagliando bruscamente l’estasi di Slash nella versione dal vivo di Knocking on Heavens Door.
«Interrompiamo la programmazione, cari ascoltatori, per comunicare purtroppo una tragica notizia. Il parroco di Burgos, Padre Juan, è stato trovato morto questa mattina in Calle del Tesoro, a seguito di una caduta dal balcone dell’appartamento nel quale viveva. Non si hanno al momento elementi per valutare con precisione la dinamica dell’accaduto. Vi terremo aggiornati in tempo reale, come sempre».
La ripresa immediata dell’assolo provocò all’ispettore un brivido freddo che gli percorse la schiena come una scossa elettrica.
Appoggiò la testa sullo schienale della propria poltrona da ufficio e fissò lo sguardo sulle dense nuvole nel cielo, che garantivano di lì a breve nuovi acquazzoni.
Mentalmente, imprecò.
«Slavo, andiamo subito a vedere cosa è successo, ho voglia di muovermi e di far andare un po’ la testa su questo suicidio» sentenziò, infilandosi l’impermeabile e raccattando dal portaombrelli l’unico ombrellino rimasto.
«Sempre che di suicidio si tratti» pensò poi fra sé e sé, dubbioso.
Attraversarono piazza Allende di buon passo, Castillo davanti, lo Slavo un mezzo metro dietro, arrancando.
Camminava zoppicando in modo quasi impercettibile, ma Castillo, fine osservatore, non aveva perso quel dettaglio e si era più volte ripromesso di chiedergli quale ne fosse la causa, ma per un motivo o per l’altro non l’aveva mai fatto.
E anche in quel caso i suoi pensieri erano stati subito calamitati dalla notizia di Padre Juan, lasciando l’andatura sbilenca dell’amico in un lontano secondo piano.
Castillo era un vecchio conoscente del prete, con cui aveva condiviso gli anni dell’università, a San Josè e, nonostante le loro strade avessero poi seguito percorsi diversi, quasi divergenti, fra i due si era mantenuta una stima reciproca che portava l’ispettore a definire Padre Juan come il proprio unico amico in ambito clericale.
Era un parroco atipico, con una folta chioma di capelli ricci in perenne disordine e una barba poco curata.
Vestiva moderno, spesso in jeans e anfibi, tanto che in molti stentavano a credere che fosse veramente un ecclesiastico, ma forse proprio per quello nel paese era diventato un punto di riferimento imprescindibile per tutti, cattolici e non.
La sua capacità oratoria era proverbiale e le prediche domenicali costituivano un appuntamento importante per la comunità, a prescindere dal credo dei singoli.
Castillo e lo Slavo arrivarono al parcheggio di Calle Arenal in pochi minuti, non sufficienti però a evitare le prime gocce di pioggia sulle loro teste.
«G-guida tu, per favore, che io ho b-bisogno di riflettere» disse l’ispettore, lanciando le chiavi dell’Alfa allo Slavo e alzandosi il colletto dell’impermeabile per ripararsi dalle prime raffiche di vento che iniziavano a spazzare le strade.
Lo Slavo prese le chiavi al volo e senza dire una parola avviò il motore.
Le strade erano semideserte e, durante il breve viaggio per raggiungere la zona popolare di Calle del Tesoro, permasero assorti nei propri pensieri.
Arrivarono in meno di un quarto d’ora, parcheggiarono l’Alfa accostandola al marciapiede di fronte all’abitazione del prete e scesero dall’auto.
Castillo diede una rapida occhiata panoramica al contesto ambientale.
L’appartamento di Padre Juan era parte di un classico casermone di edilizia popolare, cinque piani di muri rossastri imbrattati quasi completamente da writers improvvisati, molti vetri delle finestre rotti, antenne paraboliche attaccate anche con lo scotch ai balconi e volumi delle televisioni abbondantemente fuori soglia rispetto alle regole non scritte di buon vicinato.
Da molte finestre sventolavano come fiacche bandiere vestiti di diverso tipo, tutti stesi senza cura all’aria aperta.
Castillo non poté evitare di pensare che a Padre Juan, evidentemente, piaceva vivere a stretto contatto con gli ultimi.
Le grida gioiose dei bambini che giocavano nel cortile interno si alternavano alle urla quasi rabbiose delle madri che li cercavano, invano, per chiamarli in casa e ripararsi dalla pioggia.
In terra, sul marciapiede, era rimasta una chiazza di sangue rappreso che i servizi ambientali di Burgos non avevano ancora pulito.
Confidavano nell’acquazzone pomeridiano, probabilmente.
«Un b-bel salto, non c’è che dire» disse Castillo, volgendosi verso lo Slavo, che permaneva ritto sul marciapiede, con lo sguardo diretto verso il basso parapetto del balcone del terzo piano e il giornale locale appoggiato a mo’ di visiera sulla fronte, per evitare le gocce negli occhi.
Lo Slavo non proferì parola.
Sapeva che doveva rispondere all’ispettore solo a fronte di precisa domanda, che non tardò ad arrivare.
«Che ne p-pensi?».
«Un suicidio di una persona a cui tutti volevano bene. Povero padre Juan. Chissà cosa gli è passato per la testa» rispose il ragazzo, ciondolando la testa e rendendosi immediatamente conto della banalità dell’affermazione.
L’ispettore alzò il sopracciglio sinistro, incrociò le braccia al petto e si volse lentamente verso di lui.
«Apparentemente sì. Ma r-ragioniamoci un attimo. Che motivo poteva avere un personaggio come Padre Juan per gettarsi dal t-terzo piano? Era un uomo stimato dalla comunità, sereno, per come lo conoscevo io. D’altronde, m-mi vien da dire, anche l’ipotesi che sia stato ucciso è difficilmente sostenibile: che nemici poteva avere una persona così? Lasciami c-chiamare la polizia per sentire se abbiano aperto un’indagine».
Lo Slavo quasi si stupì per la tranquillità con cui Castillo gli si era rivolto.
Solitamente, a fronte delle sue uscite scontate, l’ispettore reagiva con l’effetto cerino, infiammandosi rapidamente e, altrettanto rapidamente, spegnendosi.
Ma i giorni trascorsi a casa dovevano aver giovato alla sua tranquillità, o forse, più banalmente, non voleva iniziare la settimana con una discussione sterile.
Castillo estrasse il telefono dalla tasca laterale dell’impermeabile e compose il numero della centrale di polizia di San Josè.
Al terzo squillo rispose Herreros, un ex poliziotto della volante che qualche anno prima, a seguito di uno scontro a fuoco con un clan di narcotrafficanti, era rimasto paralizzato dalla vita in giù e ora deambulava in sedia a rotelle.
Anche lui di Burgos, e per questo fin da prima dell’ingresso in polizia stretto amico di Castillo, era un uomo di corporatura robusta e portava una folta barba nera, che alcuni dicevano fosse dettata dalla necessità di nascondere una profonda cicatrice da coltello, regalo di uno degli svariati scontri con la malavita centroamericana.
Non aveva famiglia e passava la maggior parte delle serate libere nelle birrerie della capitale a parlare con la gente che incontrava.
Era da sempre e da tutti conosciuto come un uomo buono, con occhi miti, sguardo burbero ma dolce, sempre puntato verso l’orizzonte, e la notizia del suo ferimento con conseguente paralisi aveva gettato i più nello sconforto.
Il posto di centralinista alla sede di polizia di San José gli era stato affidato in virtù della sua affabilità con la gente, che nonostante l’incidente era rimasta intatta.
E quel caso non fece eccezione.
«Polizia di San José, buongiorno. Come possiamo aiutarla?».
«Herreros c-ciao, sono Castillo. Come va?».
«Ciao Castillo! Che piacere sentirti, vecchio mio! Dimmi tutto».
«Chiamo perché vorrei s-sapere se qualcuno della volante sia passato in Calle del Tesoro questa m-mattina per il suicidio di P-padre Juan».
«Sento che piove, eh?».
Herreros sapeva di potersi permettersi quelle battute con l’amico, data la confidenza fra i due.
«Ho sentito anche io di Padre Juan, pover’anima... non so se qualcuno dei nostri sia intervenuto, lasciami verificare, ti richiamo io a breve».
«Ti ringrazio. A dopo, allora». «A dopo».
Castillo fece due passi avanti, scavalcando la chiazza di sangue sul marciapiede, e spinse con la punta delle dita il portone d’ingresso dello stabile che si aprì con un cigolio fastidioso.
Con un cenno del capo invitò lo Slavo a seguirlo.
Nell’androne del palazzo un neon traballante illuminava senza decisione le scale, che salivano sulla destra dell’ascensore.
Un foglio di carta appeso con lo scotch al muro e scritto con un pennarello rosso informava che l’ascensore era rotto.
Il gabbiotto della portineria, separato dal resto dell’androne da una sottile parete di vetro che si ergeva di fianco a una minuscola porta in legno, era desolatamente al buio.
Lo schienale mancante dell’unica sedia presente era il chiaro segno che, da tempo, nessuno dava il benvenuto ai condòmini da quello stanzino.
Castillo ne percepì il senso di abbandono, il disordine, il pesante spessore della polvere accumulata all’interno.
Passò oltre e si infilò per le scale esterne, seguito dallo Slavo e accompagnato dal ronzio del neon.
L’intenso odore di piscio sulle scale era rivoltante e l’ispettore si chiese come avesse potuto Padre Juan vivere per tanti anni in quel posto tanto sordido.
Salendo gli ultimi gradini a due a due, si ritrovò sul pianerottolo del terzo piano, quello dell’appartamento del prete, con le tempie pulsanti e una frequenza cardiaca tambureggiante.
«Tutto bene, ispettore?» chiese lo Slavo, guardandosi in giro alla ricerca di un interruttore per illuminare il corridoio.
«S-sì, più o meno» rispose Castillo, piegato sulle ginocchia alla ricerca di ossigeno.
Le giornate trascorse a letto non avevano certamente giovato ai suoi polmoni e si ripromise, per l’ennesima volta, di iniziare di lì a breve un programma di allenamento per recuperare almeno in parte la forma fisica perduta.
Lo Slavo, accesa la luce, esaminò tutte le porte del corridoio, leggendo il nome dell’inquilino sulla targhetta esposta, fino a che trovò quella giusta.
«Ci siamo, questa è la casa di Padre Juan» disse indicando una porta di color marrone scuro.
Castillo si limitò a un cenno d’assenso.
Lo Slavo estrasse dalla tasca anteriore dei suoi jeans slavati un passepartout di metallo, ma prima che potesse tentare di infilarlo nella serratura fu interrotto dalla voce tuonante dell’ispettore.
«P-Proviamo a suonare il campanello, prima di fare s-stupidaggini. Non abbiamo alcuna a-autorizzazione per entrare, e l’ultima cosa che voglio è essere accusato di effrazione nella casa di un morto. È chiaro?».
Gli occhi di Castillo sembravano due tizzoni di carbone pronti ad alimentare la fiamma del falò interno che gli si sprigionava nella pancia quando le persone cui voleva bene - e lo Slavo apparteneva a questa categoria - si perdevano in stupidaggini che non riusciva a concepire.
Sorpreso per la violenza del tono dell’ispettore, lo Slavo si congelò, con la chiave a pochi centimetri dalla serratura.
Con due passi sorprendentemente felini, considerato lo stato con cui aveva terminato la salita delle scalinate, Castillo si frappose fra lui e la porta.
« Freeze, flight or fight. Tu hai scelto freeze» sussurrò l’ispettore, accennando un sorriso che voleva smorzare la tensione che si era involontariamente venuta a creare.

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