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Oltre Il Limite Della Legalità
Alessandro Ziliotto
Il romanzo si svolge tra le strade di Bologna. Il protagonista è un ex poliziotto cacciato via dalla pubblica amministrazione per degli abusi compiuti ai danni di alcuni spacciatori extracomunitari. Si ritrova così, solo e per strada, vivendo alla giornata, sino al giorno in cui decide che l’unico modo per cambiare vita è passare dall’altra parte. Dopo la gentile ospitalità di un amico senza pregiudizi nei suoi confronti, passa all’azione, racimolando soldi facili correndo però più di qualche rischio. I reati che compie sono di gran lunga peggiori di quelli per cui è accusato, ma oramai la sua nuova strada è stata tracciata. Enrico Del Nero si imbatte in Sophia, una ragazza marocchina e fidanzata di una personaggio della sua nuova famiglia. Tra di loro s’instaura un feeling magico e pericoloso che lo accompagnerà per tutto il romanzo.
Enrico del Nero era un sovrintendente della polizia di stato di Bologna, dove lavorava nella squadra mobile, sezione narcotici, ma a causa della sua troppa voglia di fare si ritrova senza lavoro. Una banda, che lui stesso piano piano stava smantellando, gli tende un’imboscata, accusandolo di aver aggredito e rapinato tre extracomunitari magrebini. Inizialmente il sovrintendente viene arrestato, incarcerato e sospeso dal servizio, ma non appena esce dal carcere cominciano i guai e le sue avventure. Senza un tetto dove andare a dormire, e uno stipendio che lo mantiene, si ritrova a vivere alla giornata. Stanco però di quella vita, e accecato dalla smania di denaro, decide di darsi alla criminalità. Inizia con un furto d’auto, poi di una borsetta, successivamente cerca contatti per entrare in una banda, la cui specialità è far saltare i bancomat, anche se nel frattempo comincia a far consegue di carichi di droga, per una banda di magrebini. Grazie alla sua astuzia e anche al possesso di un tesserino finto della polizia, riesce a sfuggire alle porte del carcere nuovamente. Quest’ultima banda però, fatta eccezione per un suo vecchio conoscente, nonché interprete per la polizia, risulterà essere la stessa banda che lo ha incastrato. A legare e complicare questa situazione c’è Sophia, donna e moglie di Abdlak, capo della banda, la quale, a causa delle poche attenzioni del marito si affeziona a Enrico, sino ad innamorarsene.
Nel finale vengono svelati tutti i misteri che si intrecciano nel romanzo. Si susseguono fasi di azione, come fughe dai poliziotti, in Italia come all’estero, a Barcellona, a momenti di svago e apprensioni. Vengono tirati in ballo molti soldi, come fossero chicchi di grano, ma che nella realtà sarebbero molti di più.
E’ un romanzo dinamico e basato su fatti che viaggiano paralleli alla realtà. La maggior parte del romanzo di svolge a Bologna dove il sovrintendente lavorava e abitava.


Publisher: Tektime - www.traduzionelibri.it

Table of contents

oltre il limite della legalità (#uca3c8839-fff3-58bf-a8b8-7835c3de86a1)
CAPITOLO UNO – Il baratro – (#u88ada4da-1010-5697-b690-e159c1e2797b)
CAPITOLO DUE – La risalita – (#u69adbcb4-7e93-5aa6-b8a8-c18a2d3022aa)
CAPITOLO TRE – Prime prove – (#u0fe2a002-5df8-53ff-8e20-c754a68a1dc0)
CAPITOLO QUATTRO – Una poesia spontanea – (#ub25e7556-d6c0-5a05-ba8c-b76c584db2bd)
CAPITOLO CINQUE – Incontri inaspettati – (#ubd4b9476-3996-5882-9fc1-0a8b3a555ee8)
CAPITOLO SEI – Fumo negli occhi – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO SETTE – Lotta per una vita migliore – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO OTTO – Quello che non ti aspetti – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO NOVE (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DIECI – Ritorno a casa – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO UNDICI – La coppia – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DODICI – Casa dolce casa – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO TREDICI – La consegna – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO QUATTORDICI – la nuova famiglia – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO QUINDICI – Il giudizio – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO SEDICI – j’adore – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DICIASSETTE – solo per pochi – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DICIOTTO – la fuga – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DICIANNOVE – er Jabalì – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTI – l’ultima consegna – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTUNO – Rock N’Roll – (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTIDUE – Epilogo – (#litres_trial_promo)

oltre il limite della legalità














OLTRE IL LIMITE DELLA LEGALITA’













Creato da: Alessandro








2015



Introduzione:

Resto del Carlino

MELA MARCIA NELLA POLIZIA DI STATO.
ARRESTATO UN AGENTE.
(Titolo di prima pagina a caratteri cubitali).

Accade ancora a Bologna.
Arrestato Agente di Pubblica sicurezza per Rapina e Lesioni ai danni di tre cittadini extracomunitari.
Sono scattate stamane le manette per un sovrintendente della polizia di stato, che lavorava alla Squadra Mobile nella sezione narcotici. L’accusa per Enrico Del Nero, come si è potuto apprendere dalle voci trapelate dai corridoi della Questura, è per Rapina e Lesioni ai danni di tre cittadini extracomunitari di origine nord-africana. Il primo fatto risalirebbe a qualche mese fa, mentre l’ultimo si sarebbe consumato proprio una settimana fa. Dalla ricostruzione degli investigatori E. D. si sarebbe appropriato di una cifra intorno ai 1.000 Euro e avrebbe procurato ai poveri malcapitati delle lesioni permanenti. Ancora una volta la città di Bologna si trova a scoprire misfatti compiuti da parte di persone che dovrebbero salvaguardare e garantire la sicurezza dei cittadini e invece abusano del loro ruolo per compiere e coprire le proprie malefatte.
Riportiamo qui sotto alcune parole dell’avvocato Bruno Esposito, difensore dei poveri malcapitati: “Credo che questa sia solo la punta dell’iceberg, entro pochi giorni porterò altre accuse a carico del sovrintendente. Tengo a precisare che chiunque fosse a conoscenza di qualche fatto o che abbia subito anch’esso qualche sopruso, non esiti a farmi visita nel mio studio, anche se sprovvisti di permesso di soggiorno.”
Come sempre l’avvocato Esposito si pone in prima linea nella salvaguardia dei diritti dei cittadini extracomunitari.
Speriamo che la legge faccia il suo corso e il tutto non venga insabbiato, come molte volte accade.



















































Levico 19.35

<< Non commettete ingiustizia nei giudizi, a proposito di misure di lunghezza, di peso o di capacità, (36) usate bilance giuste, pesi giusti e misure giuste. […]>>























Ho la testa che scoppia, la vorrei sbattere contro la parete con tutta la forza che ho in corpo, ma a esser sincero non ho le energie nemmeno per aprire gli occhi. Ma dove mi trovo? In quale posto sono? Che diavolo ho fatto ieri sera per ridurmi in queste condizioni. Pur con gli occhi chiusi capisco che il materasso dove sono sdraiato è a un’altezza tutt’altro che impegnativa, visto che riesco ad appoggiare a terra la bottiglia di rum che stringo tra le mani; ecco una cosa che mi ricordo, il rum, è già un passo avanti verso la lucidità che vorrei riacquistare, prima o poi. Magari bevendone un sorso riesco a ricordare meglio dove sono e come ci sono arrivato.
Mantengo le palpebre ben serrate, cercando di alzare leggermente la schiena per avvicinare alla bocca il collo della bottiglia. Una volta raggiunto il contatto, alzo quest’ultima senza trovare però quel bruciore che tanto adoro dell’alcool, non più una goccia rimasta, ma solo un freddo vetro dove appoggiare le labbra. L’avvicino allora al naso odorandone l’acre profumo. Ne effettuo un bel respiro, tossendo convulsivamente, e successivamente, racimolando un po’ d’energie, e con uno slancio accennato, scaravento la bottiglia nel vuoto. L’unica cosa che conosco è la direzione in cui l’ho lanciata. Appena mi scivola dalla mano, a causa di quel gesto, rovino nuovamente sul materasso. Sento il rumore del vetro che s’infrange al suolo trasformandosi in mille pezzettini. Dopo pochi istanti, le vibrazioni del mio lancio, giungono fino alla mia testa che contrariata maledice ciò che aveva appena compiuto, causandone così l’aumentare del dolore che l’attanagliava.







Ebbene, eccomi qua a raccontare una storia, la mia storia. Mi presento, sono Enrico Del Nero, ex sovrintendente della Polizia di Stato, che sino a pochi mesi fa era un perfetto e diligente agente di polizia, dedito al lavoro e al rispetto delle regole. Ora però sono solo una persona che investe il tempo della sua giornata a pensare a come perdere tempo. A riflettere a come la vita gli abbia voltato le spalle da un giorno all’altro, buttandolo prima in galera e poi in strada come un barbone emancipato.
Un uomo che riusciva a compiere, assieme alla sua squadra di quattro, barra, cinque persone, centocinquanta arresti l’anno, uno più o uno meno, (stiamo parlando di spacciatori extracomunitari la maggior parte sprovvisti del permesso di soggiorno), sequestrando un bel quantitativo di sostanza stupefacente e soldi in contanti. Io, cittadino italiano, rappresentante della legge, della sicurezza e dell’ordine pubblico, dopo quindici anni di servizio, ero stato trattato come se il mio passato non esistesse e come se la mia parola non fosse più vera.
Quando un Amore finisce, credo che ci sia una fase transitoria prima che si trasformi in indifferenza, cioè l’odio. Così facendo sono convinto che una persona riesca a dimenticare, a sopravvivere e ad andare avanti. E così lo è stato anche per me. Tradito dallo Stato che avevo sempre servito, e del quale avevo condiviso misteri e ingiustizie, ora non provavo che odio e repulsione, per le sue leggi e per suoi rappresentanti.








Ci sono tre tipi di sbirri.

Il primo.

Il classico rompicoglioni, super preciso, al quale non gli si può dire nulla per fargli cambiare idea, dedito al lavoro e che al di là di quello non ha una vita privata, e qualora riuscisse a farsela, a causa degli orari indecenti che farebbe, la sfascerebbe con l’andare degli anni, per non dire settimane.

Il secondo.

La classica sanguisuga, che aspetta il 21 del mese per recepire lo stipendio. Conosce tutte le agevolazioni che la sua categoria può avere, dalle più semplici alle più ingarbugliate e nascoste. Percepisce lo stesso stipendio di chi è in strada a rischiare per qualsiasi tipo di stupidaggine, perché diciamocelo, oramai è più salvaguardato il criminale che lo sbirro; se è fortunato fa il sindacalista, fregandosene altamente di quello che quel ruolo comporta, assecondando così i problemi reali dei colleghi, che spaziano dal campo lavorativo a quello personale, riuscendo a salvaguardare e preservare la sua piccola sfera, insediandosi sempre più, e se fortunato, con gli anni diventare più potente e in vista.

Il terzo.

Colui che credeva nella polizia di stato e nelle istituzioni, ma che poi lavorandoci all’interno e con il passare degli anni, e l’aumentare dell’esperienza, capisce che non val la pena rischiare soldi e vita per qualcuno che non ti stima e che ti disprezza ad ogni occasione utile. Capisce che il primo sbirro è uno sfigato, praticamente era lui stesso prima dell’evoluzione, ma sa anche che non riuscirebbe mai a diventare il secondo sbirro. Non riuscirebbe a stare dietro a una scrivania, dentro quattro mura aspettando non si sa cosa, assecondando i veri problemi dei colleghi, le ingiustizie che ci sono all’interno dell’amministrazione in cui lavora, così si limita a fare il suo, senza andare contro nessuno, svolgendo la propria mansione, rispettando se possibile l’orario di servizio senza fare straordinari. Non crede più nelle istituzioni perché loro stesse non tutelano e non garantiscono il tranquillo e sereno lavoro di una forza pubblica di sicurezza, anzi, se possibile, mettono a quelli che veramente lavorano, i bastoni tra le ruote non appena ne hanno la possibilità, non ammettendo replica. E poi si sa che l’arresto di uno sbirro in prima pagina fa sempre più notizia di uno spacciatore o di rapinatore, non importa quale sia l’accusa, l’importante è scrivere: ARRESTATO UN POLIZIOTTO.
Che sbirro ero stato io? Lo scoprirete leggendo la mia storia.






















CAPITOLO UNO – Il baratro –


A svegliarmi non era stata la fine del sonno, ma i raggi solari che entravano da qualche dannato spiraglio, e avevano cominciato a bruciarmi le palpebre. Se c’era una cosa che non sopportavo, era essere svegliato in quel modo, d’altronde cosa potevo aspettarmi visto che non avevo più un tetto dove rincasare e un letto dove sprofondare. Gli occhi si aprirono formando due piccoli spicchi di luna. Non riuscivo a vedere quasi nulla, avevo il sole in faccia che mi bruciava e l’ambiente intorno a me, era offuscato da una strana nebbiolina. Posai la mano a terra cercando di rialzarmi, ma appena provai a usarla come perno mi ritrovai con la faccia spiaccicata al suolo. Cominciai a ridere come un deficiente. Ero al tappeto e non riuscivo a rialzarmi, mi girai leggermente e rimasi steso ancora un po’ sperando di riprendermi con il passare dei minuti. Dentro la testa sembrava avessi la cavalleria del Re dei Re lanciata alla carica, che con il suo ardore e orgoglio era intenta a contrastare il più possente degli eserciti.
Che caldo faceva. Sudavo e non ne capivo il motivo, e dire che la temperatura non era così alta. Non riuscivo a vedere granché, ma controllai ciò che indossavo. Una camicia a quadrettoni rossi neri e bianchi completamente aperta, con una t-shirt, un tempo bianca, leggermente alzata da far si che la pancetta prendesse un po’ d’aria, mentre dall’ombelico in giù avevo calzati un paio di jeans Diesel e un paio di Nike dei tempi migliori, oramai arrivati anche loro alla frutta.
Dopo non pochi sforzi mi ritrovai gattoni, a guardare senza motivo il pavimento. Ma che diavolo stavo facendo? Ricominciai a ridere. La risata venne subito interrotta da dei colpi di tosse, e la tosse venne interrotta da degli sforzi provenienti dal basso addome, e come se fosse cosa di tutti i giorni, mi ritrovai a vomitare come un cretino. Per quel poco che potevo vedere era solamente acqua, ricca di succhi gastrici, e a quanto sembrava, l’ultimo pasto non era stato così abbondante, visto che in mezzo a quella gelatina non c’era nulla di solido e che apparentemente assomigliasse a qualcosa di commestibile. Finita quella patetica commedia, mi spinsi leggermente verso destra, con le poche energie che ero riuscito a racimolare, finendo nuovamente sul materasso poggiato a terra. Cercavo di pensare, ma tutto ciò che mi veniva in mente era quell’assodante frastuono che mi rimbombava nella capoccia.
Da sdraiato aprii gli occhi fissando il soffitto, e il primo pensiero che mi si era materializzato nella testa fu: ma come cazzo ho fatto a ridurmi in questo stato? Porca miseria sono Enrico Del Nero, devo reagire, non posso ridurmi in queste condizioni tutti i santi giorni, devo trovare una soluzione per uscire da questo baratro in cui sto sprofondando giorno dopo giorno. Forte di queste convinzioni, e senza non pochi sforzi, riuscii a sedermi e successivamente ad alzarmi in piedi. Cominciai a guardarmi un po’ intorno per capire dove mi trovavo, ma oltre a barcollare un po’ a destra e a sinistra, non riuscivo a dare una collocazione al posto nel quale avevo passato la notte. Decine di colonne bianche si alzavano andando a sostenere quell’ampio spazio che si manifestava di fronte ai miei occhi. Cercando di mantenere l’equilibrio, girandomi lentamente su me stesso, mi accorsi che proprio nel punto ove erano rivolte le mie spalle sino a qualche secondo prima, c’era la spiegazione alla mia prematura sveglia. Un’ampia vetrata svettava dietro di me, lasciando trapassare miliardi di raggi solari che perforavano quel dannato minerale del quale era composta, rovinando la giornata a un poveraccio che desiderava solamente riposare in pace cullato dal suo mal di testa e dalla sbornia non ancora smaltita. Visto che oramai mi trovavo in piedi e molti metodi per coprire quella dannata finestra non c’erano, se non spegnere il sole, mi avvicinai al vetro per capire almeno se riuscivo a comprendere dove mi trovavo. Ai miei primi passi risposero delle monete che caddero a terra, procurando un fastidioso rumore metallico che tanto odiavo, anche perché: che diavolo me ne facevo di pochi spiccioli? Arrivato nei pressi di una colonna, mi appoggiai per avere un po’ di sostegno, considerato che la testa continuava a girarmi alla velocità di una trottola. Con l’avambraccio posato al supporto e la fronte spiaccicataci sopra, cercavo di rimanere in piedi. La situazione era alquanto difficile. Per un attimo avevo chiuso gli occhi, quando lì riaprii per non scivolare a terra, mi trovai a tu per tu con il musetto di un topo, il quale sbucava da un foro presente sulla colonna. A risposta del suo simpatico squittio, gli vomitai addosso. Non avevo avuto nemmeno il tempo di pensare o focalizzare che cosa stava accadendo, che quello stimolo mi venne naturale, imbrattando lui e la sua povera tana. Non curante di quella sporca creatura, proseguii il mio duro cammino sino alla destinazione prefissata, sebbene con non poche difficoltà. Arrivato al balcone della finestra, mi c’ero appoggiato di peso, quasi avessi fatto una maratona e quello era l’arrivo; avevo sete, una dannata sete. Forse non avevo bevuto abbastanza la sera precedente, pensai. Accennai nuovamente un sorriso, che venne subito placato da un’altra colata di vomito. Una fitta mi prese alla pancia e come un ventaglio mi piegai in due dal dolore, quasi fossi un adolescente alla sua prima sbornia; ma che diavolo avevo mai bevuto per ridurmi in quelle condizioni? Non me lo ricordavo proprio, anche se oramai sarebbe stato alquanto superfluo scoprirlo. Grazie a Dio le fitte erano terminate, cercai quindi di riprendere il controllo del mio corpo, sebbene ero consapevole che fosse impossibile. Mi riaffacciai comunque alla finestra e cercando di guardare fuori, involontariamente andai a sbattere con il viso contro la lastra di vetro. Quest’ultima aveva una patina d’unto mista polvere; una schifezza che mi si era spiaccicata addosso. Cercai di esercitare una leggera forza sulla maniglia, ma di primo acchito, oltre a vederla leggermente arrugginita, compresi che con le energie che possedevo in quel momento non sarei mai riuscito ad aprirla. Mi guardai un po’ intorno cercando di capire dove mi trovavo; inizialmente quel luogo ampio e vuoto, sembrava l’interno di una fabbrica abbandonata, non mi era molto famigliare, e le decine di colonne portanti, non m’aiutavano a capire di che posto si trattasse, sebbene fossero ricoperte quasi completamente da dei graffiti grossolani, come del resto, lo erano anche parti delle pareti perimetrali. Il suo inutilizzo per mia fortuna, era palese, sebbene la ditta che aveva abbandonato quella struttura aveva accantonato diversi macchinari, in attesa di una nuova apertura, ipotizzai. Idea alquanto remota considerata la presenza di numerose bottiglie di vetro rotte, immondizia, un paio di materassi e pezzi di cartoni sistemati qua e là, con delle coperte lacerate posate sopra. Coinquilini pensai, sebbene la presenza di tutta quell’immondizia avrebbe facilitato l’arrivo dei parenti di quel roditore. Non ne comprendevo il motivo ma mi stava simpatico, tanto da battezzarlo topo Gigio vomitino. Una riflessione mi sfiorò la mente, per poi scivolare subito via: tutta quella situazione che stavo vivendo, la perdita del lavoro, il ritrovarmi a dormire in un edificio abbandonato, non era di certo il massimo della vita, però ero libero, senza alcun pensiero o preoccupazione, e nessun orario da rispettare o impegno al quale mi sarei dovuto presentare, libertà allo stato puro.
Il dolore alla testa continuava ad aumentare e il momento d’affrontare il mondo esterno, per oggi, dal mio punto di vista, non era ancora arrivato. Barcollando ritornai al punto di partenza crollando a terra, non prima però d’aver racimolato un foglio di giornale da posare sopra il viso, riprendendo così a dormire, con la speranza che al risveglio le mie condizioni sarebbero state migliori.

Non so per quanto tempo assecondai i miei sensi, anche se ipotizzavo per diverse ore, visto che scostando il foglio di giornale, la luce del giorno non filtrava più dalle finestre. Aprii gli occhi e a stento riuscii a vedere l’ambiente che mi circondava. Questa volta non era a causa della vista appannata, bensì del buio dal quale ero stato invaso nel sonno. Ad aiutarmi c’erano i fari delle autovetture che transitavano per le strade adiacenti al fabbricato, le quali con il loro riflesso, mi permettevano, sebbene a intermittenza, di conoscere il terreno sul quale avrei posato i piedi.
Decisi quindi di rialzarmi e uscire da lì. Ora che guardavo intorno però un interrogativo mi giungeva naturale, ma dov’era l’uscita? Rimasi immobile a osservare, ma non riuscivo a individuarla. Il mal di testa andava lentamente scemando. La mente si era messa in moto ma il mondo leggermente sbiadito che mi circondava non m’aiutava per niente. Era come se stessi guardando un film degli anni settanta alla tv, e in tutto questo, nessun elemento riusciva a farmi individuare ciò che cercavo. M’avvicinai a quella che sembrava una porta, ma non appena provai ad azionarne la maniglia e a tirare verso di me, m’accorsi che era bloccata con una spessa catena aggrovigliata alle maniglie antipanico, ed un lucchetto a bloccarla. Provai con un’altra porta, ma la storia era sempre uguale. Mi ritrovai così a girovagare per la fabbrica in cerca di un’uscita. Passai vicino a quello che un tempo doveva essere stato un ufficio, o qualcosa predisposto per esserlo. Sembrava la classica stanza ricava all’interno di quell’immensa struttura per avere un po’ di tranquillità e conservare le scartoffie dell’azienda, senza ritrovarsele sparse per tutta la ditta. Passando accanto alla porta, i cui infissi erano stati divelti, mi accorsi che una tenue luce arancione illuminava il suo interno. Non si vedeva gran che, ma tanto bastava ai miei occhi per scovare un’apertura, magari la stessa dalla quale ero entrato. Una volta all’interno, cominciai a guardarmi un po’ intorno per scovare la fonte del chiarore. Le pareti laterali erano completamente intatte, prive di qualsiasi finestra. Trovandomi senza alternativa, alzai la testa, constatando che sul soffitto c’era un foro. Era stato fatto grossolanamente con un martello, considerati i margini tutt’altro che simmetrici e levigati. Da quel foro, che prendeva forma vicino alla parete laterale, vi era una scala di ferro, la quale permetteva l’accesso al piano superiore. Visto che i miei impegni per le prossime ore non erano così alettanti all’interno di quello stabile, illuminando il display del mio Casio nero anni ’90, comperato da un cinese a poco meno di dieci euro, controllai l’ora, 22.30, dopo di che mi avventurai su per quella scala, accedendo così al soffitto della stanza. Una volta raggiunto il tetto, mi trovai di fronte ad una finestra aperta, o meglio, i vetri erano stati rimossi dall’intelaiatura dell’infisso, e si poteva utilizzare questo difetto come accesso, visto che dava direttamente alla scala antincendio.
Senza guardarmi molto intorno e senza pensarci più del dovuto, mi ritrovai in strada. E ora? Pensai. Dove vado? Cosa faccio? Non ho più una meta, uno scopo, non sono più nessuno. Tutto quello che ero, non lo sono più. Tutta la mia vita sino ad ora era come se non l’avessi vissuta, come se fosse stata spazzata via da un uragano, senza preavviso e ringraziamento, ero solo, quasi fossi stato partorito da ventiquattro ore e buttato in mezzo alla strada senza nessuna guida o persona che si prendeva cura di me. Alcune macchine mi sfrecciavano accanto incuranti della mia presenza, presi dalla loro vita così all’apparenza perfetta e priva di pensieri, o almeno degni di essere chiamati tali. Ora che stavo meglio, mi era tornata la voglia di bere, di ridurmi uno straccio per far passare un’altra notte e un altro giorno. Lo avevo fatto per un mese e avevo voglia di rifarlo sino allo sfinimento, per ritrovarmi ogni mattina in quella dannata fabbrica e chiedermi come cazzo ero arrivato lì e cosa diavolo mi era accaduto. Alzai lo sguardo e un negozio di pakistani era lì a un centinaio di metri con le sue luci accese e i suoi alcolici. Cominciai a incamminarmi pregustando il bruciore dell’alcool nella bocca e nello stomaco. Infilai le mani nelle tasche per controllare quanti soldi avessi, ma ciò che trovai fu solo un fazzoletto di carta usato: nemmeno al tempo del baratto ci avrei ricavato qualche cosa. Come diavolo avrei fatto ora? Con cosa l’avrei pagato il rum? Non c’erano molte macchine parcheggiate per strada, sempre meglio che nessuna, pensai. Le controllai una a una, per verificare se qualcuna avesse la porta aperta o il finestrino abbassato di qualche centimetro, ma non ebbi molta fortuna, infatti mi ritrovai di fronte alla vetrina del negozio con pochi spiccioli in mano. Che cosa avrei fatto ora? E se fossi entrato e dopo aver preso quello che m’interessava me ne fossi andato a gambe levate senza pagare? Forse quel pakistano non mi avrebbe riconosciuto, anche se qualche volta ero stato suo cliente, ma non certo conciato così. Nella migliore delle ipotesi si sarebbe limitato a inseguirmi per qualche decina di metri prima di desistere, comprendendo che una persona trasandata, come lo ero io, non sarebbe mai riuscita a pagare ciò che aveva sottratto dal suo negozio. Arrivai sulla soglia dell’ingresso, intravedendo dalle vetrine che all’interno non c’era nessuno, fatta eccezione di Hamed, il proprietario. Attesi qualche secondo sulla soglia, cercando di non essere visto, anche perché quel figlio d’Allah non ci avrebbe impiegato molto a riconoscermi, gli sarebbe solamente bastato guardarmi negli occhi. Era più scaltro di una lince e anche se ero conciato male, trasandato e puzzolente, non mi avrebbe confuso con nessun altro.
La mia attesa fu ricompensata. Quattro ragazzi arrivarono in macchina, fermandosi nei pressi dell’alimentari. La vettura non era proprio nuovissima, anche perché dall’età e da com’erano vestiti, potevo ipotizzare fossero degli studenti universitari, e con molta probabilità quella sera non avevano molta voglia di stare sui libri, bensì di fare festa, magari bevendo un po’, rifornendosi da Hamed anziché andare in qualche locale pre-serata spendendo un patrimonio. Sembrava di rivedermi dieci, dodici anni più giovane, quanti anni erano passi, quante cose erano accadute, quanti guai scampati, ma che ricordi incredibili. Chiunque avesse guardato quei ragazzi, avrebbe captato la loro euforia, la loro voglia di vivere e divertirsi, e avrebbe compreso che il loro unico pensiero era ingerire un po’ d’alcool per lasciarsi andare, con la speranza magari di trovare una bella ragazza per trascorrere la serata. Mi trasmettevano quella sicurezza mista fragilità, che solo una persona della loro età poteva avere. Parcheggiarono la macchina proprio di fronte all’entrata. In tre scesero dall’auto e dopo aver oltrepassato il marciapiede salirono i tre scalini che li condussero al negozio. Io rimasi lì a osservarli. Mi passarono accanto senza degnarmi di uno sguardo, anche perché non so la loro vista quanto nitida potesse essere stata. La loro camminata era tutt’altro che normale, oscillavano a destra e sinistra come dei pendoli. Sicuramente erano giunti sino a lì perché avevano finito la scorta di birra a casa e ora volevano continuare da dove si erano interrotti. La persona che apriva la fila andò a inciampare sul primo scalino e se l’amico che lo seguiva non l’avesse afferrato al volo, mi sarebbe rovinato addosso. Con tutta sincerità, come aveva fatto ad avere quella prontezza di riflessi quel ragazzo ancora me lo sto chiedendo, buon per me comunque. Non credo che avessero molto da prendere in quel mini market, ma di certo fecero una gran caciara, perdendo del tempo su ogni minima stupidaggine. Urlavano e chiamavano l’amico che era rimasto in macchina, incitandolo a raggiungerli. Inizialmente questo attese, alzando e ascoltando un po’ di musica pop orecchiabile e coinvolgente trasmessa alla radio, ma vedendo che gli amici tardavano a tornare, decise di scendere per dar loro una strigliata, e convincerli ad accelerare i tempi. Lasciò la macchina accesa con la musica ad alto volume, e con il cantante che intonava “Dangerous…Dangerous…Bad Girl…”
“Ma che cazzo state facendo, volete muovervi, altrimenti non entriamo più in disco, e poi tutta sta roba quando la beviamo?”
“Che rottura di coglioni che sei…ma preferisci Havana o Pampero?”
“Ma piglia quello che vuoi, lo sai che bevo tutto, sei te la fighetta della situazione.”
“Eh, eh, che dici, vodka o birra?”
“T’ho detto di prendere quello che vuoi, per me è uguale. Ma voi che cazzo avete in mano? Siete proprio degli idioti.”
“…eh eh…lo sai che quando si tratta di bere siamo i numeri uno…ohhhhh…ma quello dove cazzo sta andando quello con la tua auto???”
“FERMATELO…ohhhhhhh…OHHHHH…DOVE CAZZO VAI CON LA MIA MACCHINAaaaaaaa???????”
Queste furono le ultime parole che sentii pronunciare dai quei giovani mentre lì guardavo sbracciarsi e diventare sempre più piccoli dallo specchietto retrovisore del loro mezzo di locomozione, anche perché la musica era così bella che mi sembrava maleducato abbassarla.
Appena quello sbarbatello era sceso, lo seguii all’interno del negozio come un’ombra, e una volta raggiunto lo scaffale degli alcolici, sapendone già la collazione, afferrai una bottiglia di rum qualsiasi e me ne sgattaiolai fuori come un furetto, che nemmeno Hamed se ne accorse. Era troppo indaffarato a tenere a bada quei mocciosi per accorgersi di me. Sta di fatto che ora avevo una macchina e una bottiglia di rum. Che serata meravigliosa. Potevo andarmene sui colli a godermela in santa pace. Bologna era mia. Un delinquente saggio avrebbe moderato la velocità per non farsi notare dagli “sbirri” nei paraggi, ma la cosa era più forte di me, era un richiamo corrisposto sin da bambino e tenere a tavoletta quel maledetto acceleratore era meglio che scolarsi una bottiglia d’alcool. Correre era come staccare il cervello, nessuna preoccupazione, o pensiero, solo io e la strada, e gli imbranati che la popolavano. E poi ero convinto che anche loro si divertissero un bel po’ quando gli capitava di inseguire qualcuno, o imbattersi in qualche intervento delicato nel quale il minor tempo impiegato per arrivare sul posto sarebbe stato fondamentale, per non dire vitale, almeno era quello che pensavo ora e che avevo sempre pensato; ovviamente stavo parlando degli sbirri.
Scostai per un istante l’attenzione sul compagno che avevo raccattato per la serata, niente male direi, una bella bottiglia di “Havana 7”. Mi sa che Hamed se ne sarebbe accorto, quello spilorcio. Ripensai a tutte le volte che avevo acquistato qualcosa da lui, frutta, pasta, detersivo, carta igienica, e ogni volta pretendeva sino all’ultimo centesimo, e poi di tanto in tanto cercava di arrotondare in eccesso la cifra, come se i prezzi da lui fossero così economici. Passavo da lui finito il lavoro e visto che mi capitava spesso di finire dopo le nove di sera, lui era l’unico in cui potevo trovare qualcosa di commestibile, e poi era sulla strada di casa. Non ci potevo credere, m’era andata meglio di quanto mai avessi sperato, a dire il vero mi sarei accontentato anche del rum più bevuto nei peggior bar di Caracas, ma quella sera sarei rimasto sedotto dal fascino cubano. Comunque non riuscivo ad aspettare, l’emozione di tornare al volante dopo parecchi giorni, era scomparsa non appena vidi la marca del rum che avevo rubato. Baciai sulla bocca la mia compagna di viaggio, continuando nella guida. Istintivamente avevo imboccato via Stalingrado e da lì a pochi metri sarei sbucato sui viali. Ogni metro che facevo in quella dannata città equivaleva a uno stimolo per le cellule della memoria. Alzai la radio al massimo sino a far gracchiare le casse, dopo di che mi concentrai sulla strada.
“Vediamo se riesco a far divertire questa signorotta!” Avevo gridato.
Scalai marcia, sino a farla sgommare, e una volta arrivato all’incrocio, la misi di traverso, facendo fischiare tutte e quattro le gomme.
“Ora comincio a divertirmi, e all’orizzonte nemmeno l’ombra di uno sbirro, che bello. Wow!” Urlai come un ragazzino, quasi ad incitarmi.
Questa dannata bestiolina cominciava a darmi delle soddisfazioni, e il turbo a disposizione era una carta veramente interessante da sfruttare. Arrivai sino a porta Saragozza in un batter di ciglia, senza aver qualche amico alle calcagna che mi facesse compagnia in quella divertente corsa. Anche se a esser sincero, per come si era sviluppata la serata, mi sentivo alquanto fortunato. Girai a destra, imboccando via Saragozza, sino a raggiungere i giardini di villa Spada. Lasciai la macchina a qualche centinaio di metri dal punto d’entrata del parco e guidato dalla luna, consumai i passi sino a quello che sarebbe stato il mio letto per quella notte, il manto erboso. Il cielo era limpido, nessuna nuvola che avrebbe disturbato lo spettacolo che il cielo di Bologna proiettava solamente per me. Era tutto così meraviglioso e luccicante che non sapevo dove guardare. Il cielo era un incanto. Lo spicchio di luna non offuscava la luce delle piccole stelle che puntellavano quel vellutato tappeto blu. Abbassai lo sguardo di qualche centimetro, la città con le sue luci, i suoi palazzi, si estendeva di fronte a me, con il suo fascino irresistibile. Era come se avesse indossato il suo abito da sera migliore per far breccia nel mio cuore; e ci stava riuscendo perfettamente, facendomi rimanere a bocca aperta. C’era riuscita sin dal primo momento in cui l’avevo conosciuta.
Lo ricordavo come fossero passate solamente poche ore. Ad accogliere il mio arrivo a Bologna c’era stata una caserma dissestata e definirla poco accogliente, significava esagerare. Le camere erano affollate e fatiscenti, per non parlare dei bagni, sporchi e metà dei quali non funzionanti. Credo che l’unica cosa che la facesse differenziare da un carcere fosse la libertà. Mi sentii da subito abbandonato e avvilito. Come poteva una persona, non dico un agente di polizia, ma una persona vivere in quelle condizioni? Chiamai una mia amica e a stento trattenni la delusione e l’amarezza che m’animava. Le dissi che avevo voglia di lasciare la polizia e che tutto quello che mi stava intorno mi faceva schifo. C’erano persone che sembravano felici di vivere in quelle condizioni. Ma com’era possibile? Forse non ero adatto per fare lo sbirro. Terminata la conversazione con lei, buttai la borsa nell’armadio e scappai fuori. Dovevo respirare, dovevo vedere che quello non era ciò che mi aspettava, come minimo, per i prossimi quattro anni. Presi la macchina e dopo aver girovagato per diverse ore, mi trovai dov’ero ora; ad osservare quel groviglio di strade delimitate dalle centinaia di lampioni dell’illuminazione pubblica, animate dal serpeggiare delle automobili con i loro bagliori gialli e rossi. Era così bella guardarla da lassù e allo stesso tempo, strana. Mi trasmetteva una sensazione indescrivibile, come se non facessi parte di tutto quel mondo. Mi sentivo un estraneo e di quel mondo non ne condividevo nulla, ma non riuscivo a fare a meno.
Non riuscivo a pensare a nulla, o forse pensavo troppo. Poggiai il fondoschiena a terra e lasciai che quel meraviglioso paesaggio lentamente divenisse sempre più sfocato e che l’alcool m’accompagnasse tra le braccia di Morfeo sino all’indomani. Il rum m’aiutava a sentirmi ancora più male, ogni sorso che facevo m’offuscava sempre più la vista, strappando dalla margherita della felicità, uno ad uno, i suoi petali. Mi sentivo un verme, inutile e insensato. Se avessi avuto una pistola magari mi sarei anche sparato, o almeno ci avrei pensato seriamente, ma per mia fortuna, l’unica cosa che avevo tra le mani era una bottiglia di buonissimo rum.
“Che diavolo farò domani? Come cazzo andrò avanti? Beh, domani è un altro giorno e per gli altri si vedrà.” Questo mi ripetevo tra me e me, attendendo una risposta che ovviamente non c’era.
Ogni pensiero era seguito da un sorso, e questa era l’unica soluzione che riuscivo a darmi. Il sonno m’assalì, o forse era il corpo che diceva basta al contenuto del vetro, fatto sta che i sensi m’abbandonarono, lasciandomi dondolare nelle onde dell’ignoto sino al giorno seguente.
A farmi ritornare tra la gente comune o alla vita reale, come si poteva meglio dire e come accadeva ogni dannato giorno nell’ultimo mese, erano i raggi del sole, i quali cominciarono a pizzicarmi le palpebre e a non farmi più riposare. Aprii gli occhi, se così si poteva definire quel misero gesto di mettere a fuoco il paesaggio circostante e strisciare sino alla prima zona d’ombra, dove speravo di continuare per qualche altra oretta il sonnellino appena interrotto; anche perché l’orologio mi diceva che erano solamente le sei della magnana e arrivare a mezzodì sarebbe stata maledettamente lunga. L’unico posticino utile era sotto la chioma di alcuni alberi, lì di certo non avrei avuto problemi, almeno ci speravo. Presi per il collo la mia amica, e sino a che non mi fece chiudere nuovamente gli occhi, continuai a parlargli. Quel liquido era l’unico mio conforto, l’unica cosa che riusciva a non farmi ragionare e conseguentemente, sebbene lentamente mi stesse uccidendo, mi faceva rimanere in vita: per me era l’acqua dell’eterna giovinezza. Ogni volta che desideravo far cessare il battito del mio cuore, c’era lei che mi fermava, che mi ascoltava, che mi rincuorava, che mi toglieva le energie.
Non so che ore erano, quando la mia attenzione fu catturata da un vociare lontano che si faceva sempre più forte. Ero appoggiato con la schiena all’albero e sebbene inconsciamente avvertivo la possibilità che quelle persone ce l’avessero con me in qualche modo, non riuscivo, anzi, non avevo voglia di aprire gli occhi e interessarmi alla cosa. Rimasi a gongolarmi, accarezzato dalla leggera brezza cresciuta da qualche minuto che andava a graffiarmi la pelle, dall’afa che cominciava ad aleggiare nell’aria. Mi ero quasi riaddormentato quando un violento calcio mi colpì al volto. Non ebbi nemmeno il tempo d’aprire gli occhi che venni raggiunto nuovamente da un colpo all’addome. Trascorsero solo pochi secondi e un altro calcio mi raggiunse alla bocca dello stomaco lasciandomi senza fiato, procurandomi istantaneamente delle forti colate di vomito. Cercai di mettermi in sesto e di reagire, ma non ce la facevo, ero lì, carponi, a sputare a terra. Ebbi il tempo solo di alzare la testa e scorgere tre ragazzi correre via verso la strada e successivamente udire lo stridio delle gomme allontanarsi. Solo una cosa mi rimase colpita di quei giovani; uno indossava un giubbino dell’Harley Davidson arancione e nero. Sentivo il dolore delle percosse ricevute, ma non era tanto per il dolore fisico, che sarebbe scomparso da lì a pochi giorni, ma quello spirituale. Accettai quell’avvenimento come un segnale, un evento dal quale dovevo riflettere e ripartire. Non tanto perché ero stato scoperto, ma perché non avrei dovuto lasciare nulla al caso e se l’avessi fatto l’avrei pagata a malo modo. Ora potevo solamente gustare il sapore dolciastro del sangue in bocca. Non era la prima volta che mi capitava di provare quella sensazione, ma il modo in cui si era sviluppato tutto, era alquanto singolare ed eccitante. Per quanto patetico possa essere stato in quel momento, mi sentivo bene, più o meno. Mi misi gattoni e senza esagerare con la forza, racimolai l’impasto che avevo in bocca, sputandolo a terra. La mandibola mi fece vedere i sorci verdi, ma almeno non sentivo tutta quella poltiglia tra i denti. I fili d’erba affioravano dalle insenature delle dita, e l’umidità condensatasi durante la notte sul terreno, cominciava a bagnarmi il palmo delle mani, filtrando anche dal tessuto dei jeans, sulle ginocchia. Contrassi un po’ le gambe e con un leggero slancio mi misi a sedere. Tutto quello che potevo fare ora, era ridere. Me l’ero meritato, e con tutta sincerità, se mi fossi trovato nella situazione di quei ragazzi, credo che avrei adottato lo stesso comportamento, o forse anche peggio. E nonostante il bruciore, mi sentivo fortunato. Tutto quello mi faceva sentire vivo. Provavo dolore. La carne e le ossa trasmettevano impulsi al cervello e questo non lì assorbiva con indifferenza. Il dolore, il bruciore alla bocca e il sapore dolce del sangue misto a quello di vomito, mi faceva sentire parte di quel mondo che stava ai piedi di quella collina. Una cosa mi avevano fatto capire quei ragazzi, anche se me l’avrebbero pagata alla prima situazione utile, che dovevo rialzarmi per non finire più in basso di quanto non stessi ora, perché al baratro non c’era mai fine.



Mi alzai. I passi incalzavano precipitosi sotto le suole delle scarpe come i pensieri nella mia mente. Riflettevo e ipotizzavo una qualsiasi soluzione o direzione che potessi intraprendere. Sino a ora ero sempre stato una persona rispettosa della legge, sconfinando magari a volte di qualche centimetro; magari ero un po’ estroverso, nel senso che nel mio piccolo avevo cercato di far sempre quello che mi passava per la testa, senza ovviamente andare a calpestare i piedi a qualcuno, non tanto per timore, ma per un quieto e sereno vivere. Ora però sentivo che era diverso, avevo perso tutto, dal mio lavoro, alle mie amicizie, e a questo punto il quieto vivere poteva andarsene a quel paese.
Nella testa un’ipotesi si faceva sempre più ferma e concreta. Cosa avrei dovuto fare per racimolare un bel po’ di soldi senza fare molta fatica, utilizzando solamente la testa? Senza magari vincere alla lotteria nazionale o ai classici gratta e vinci? Un’unica risposta si accese nei miei pensieri: lo spacciatore di droga. Io che con il mio lavoro l’avevo sempre combattuto, ora trovavo in esso l’unico punto di forza per rialzarmi e riuscir a far voltar pagina alla mia vita. Gli spacciatori arrestati nella mia carriera di certo non lì riuscivo a contare sulle dita di una mano, e nemmeno in tutte quelle che possedevo, e forse grazie anche a questa esperienza, avrei potuto scavalcare la staccionata senza risentire del cambiamento di ruolo. Poche volte avevo fatto uso di droga, se qualche spinello nell’adolescenza si poteva definire tale, e questo era un bene, perché essere tossicodipendente non avrebbe fatto di certo bene agli affari, anzi, mi avrebbe fatto diminuire di molto il profitto. La cosa però non era molto semplice da imbastire. Il primo problema era riuscire a trovare la roba buona senza conoscere il prodotto. Il secondo, forse però di maggior importanza, era l’esser conosciuto dalla maggior parte degli spacciatori come uno sbirro, visto che l’ottanta per cento di loro li avevo arrestati. L’unico punto a mio favore erano le pessime condizioni in cui mi trovavo ora, e quella gentaglia forse non mi avrebbe riconosciuto subito, e se l’avessero fatto magari percependo le voci che giravano per i bassi fondi, non avrebbero dato peso alla mia presenza, e poi provare non mi sarebbe costato nulla, al massimo avrei ricevuto una coltellata alla schiena.
Ora questa prospettiva mi stava dando un grosso stimolo. Non so sino a dove sarei arrivato, ma utilizzare la mia esperienza e la mia intelligenza per sfuggire alla polizia e racimolare quanti più soldi possibili, era una cosa che mi galvanizzava e l’essere totalmente libero e indipendente era di certo un vantaggio da non trascurare. Non una famiglia da mantenere, non dei genitori ai quali dover render conto e l’unica persona con la quale dovevo fare i conti alla fine di ogni giornata ero solamente me stesso.
Con l’avanzare del tempo e dello spazio, mi ritrovai tra i vicoli del centro. Molti ricordi si celavano in quelle vie, belli e brutti, ma questo non faceva differenza perché erano parte della mia vita e della mia persona, ma ora non avevano alcun valore, se non quello di stuzzicare la memoria in vecchi ricordi oramai troppo lontani per sentirne il sapore. Cercavo lo sguardo delle persone che incrociavo, frugavo nei loro occhi qualche segno, o qualche familiarità, ma di sicuro non sapevo nemmeno io di cosa avevo bisogno o cosa speravo di trovare, ma continuai in quella vana osservazione, sino a che decisi di fermarmi. Avevo le gambe appesantite, e oltre ad avere la gola secca, anche lo stomaco cominciò a brontolare e a contorcersi dal digiuno, ma certo, di spiccioli per mangiare in tasta non me n’era rimasto nemmeno uno. Prima di mettermi comodo, accettai un volantino pubblicitario distribuito da uno dei tanti ragazzi universitari, che posizionati sulle arterie principali, sfruttavano quell’attività per mantenersi gli studi. Cominciai a creare un origami. Piega dopo piega, davo forma a quel semplice depliant, come insegnatomi dal mio professore di tecnica al tempo della scuola media. Non era difficile da comporre, bastava piegare i vari angoli e faccettature sino a comporre una barchetta, e sciolta questa, la scatolina era ben che fatta. Posai a terra il piccolo capolavoro e abbassando la testa, assumendo un’espressione sconsolata, rimasi in attesa degli spiccioli di qualche buonanima di passaggio. Di tanto in tanto alzavo lo sguardo cercando un po’ di compassione, considerato che le monetine non fioccavano come rondini a primavera. Ogni volta che accadeva guardavo il mondo intorno a me. Dagli studenti che animavano con il loro passaggio e le loro chiacchiere il marciapiede coperto dai portici simmetrici di colore grigio, alle persone ferme alla fermata dell’autobus pronte a salire per dar cambio a quelle che scendevano. Senza tralasciare le scritte dei vari negozi di moda, dei piccoli bar, e di tutti gli altri esercizi commerciali che contornavano la via. Di tanto in tanto la mia attenzione veniva catturata da un negozio posto dall’altra parte della strada, anche perché era stato aperto da qualche mese, ma la sua affluenza non era diminuita con il passare dei giorni, stavo parlando del negozio della mela più conosciuta al mondo. Mi trovavo in via Rizzoli, a pochi passi da piazza Maggiore. Se guardavo a destra potevo vedere innalzarsi le torri degli asinelli. Il solo vedere i piccoli mattoni arancioni di cui erano composte, mi portava alla mente il giorno in cui in compagnia di una nuova amica, Stephanie, che avevo conosciuto in una delle mie tante serate in discoteca solo qualche giorno prima a quell’evento, con l’abilità che solo una donna possiede, era riuscita a raggirarmi, convincendomi a salire sin su la torre più alta, per ammirare lo spettacolo che Bologna stava riservando solo per noi. Quella ragazza era una forza della natura, brasiliana e dal sorriso coinvolgente. Capelli ricci biondi contornavano il suo viso dolce e morbido. Ora che ci pensavo non comprendevo perché decisi di non frequentarla più dopo sole due settimane che uscivamo, anche se il lavoro aveva influito e non poco, considerato che mi portava via il novanta per cento della giornata. A quanto ricordavo però e per quel poco tempo che l’avevo vissuta, l’avevo trovata una persona gioiosa e positiva, con la quale condividere del tempo assieme era sempre un piacere. Anche perché detto tra di noi, ero giunto al punto di affermare che le ragazze brasiliane erano dotate di una carica sessuale fuori dal comune, appurando che se le loro voglie non venivano soddisfatte puntualmente, ti lasciavano per il primo che passava. Magari il primo no, ma il secondo indubbiamente sì. A convincermi a salire per tutti quegli scalini, fu solo un motivo, il più banale per un uomo, le era bastata una sola e semplice frase, detta con accento portoghese ovviamente: “Se non sali con me questa sera niente samba.” Non serviva spiegare cosa intendesse lei per samba, visto che io non sapevo di certo ballarla. Fatto sta che ero salito sin lassù, trovando lo spettacolo che s’intravvedeva, impagabile. La ringraziai per avermi fatto fare tutta quella fatica, non a parole ma alla mia maniera la sera stessa, con la samba ovviamente. Quella che vedevo da lassù, ed era sotto ai miei piedi, era la mia città e da lì mi sentivo parte di essa come non mai.

Durante i momenti in cui la mia mente si riposava dai flashback che la memoria gli sparava, mi capitava di incrociare lo sguardo di molti dei miei ex colleghi. Non so se mi riconoscessero o meno, sta di fatto che proseguivano per la loro strada come nulla fosse, senza nemmeno lasciarmi un euro. Come riuscivano a essere così indifferenti? Come riuscivano a cancellare tutte le esperienze trascorse assieme con un semplice colpo di spugna? Se sino ad ora la stima e il rispetto per quelle persone era calato precipitosamente, considerata la loro indifferenza per la mia situazione, ora queste due emozioni venivano cancellate via per ognuno di loro a ogni loro passaggio. Ora esisteva solamente una persona, me stesso. Cominciai a pensare di cosa avevo bisogno, e la risposta fu piuttosto banale e veniale, di soldi, e molti, e di certo stando seduto come un barbone alcolizzato non avrei risolto il problema. Ero già con le mani posate a terra, pronto a rialzarmi, quando notai avvicinarsi alla scatolina una persona. Calzava dei sandali usurati, con un paio di jeans tutt’altro che alla moda. Man mano che il mio sguardo si alzava, analizzavo l’abbigliamento grossolano indossato da quell’uomo magnanimo. Dalla cintura gli usciva una camicia a quadretti rosso e bianca, assomigliava un po’ alla mia, non di pari bellezza, però alla moda. La vestiva leggermente aperta all’estremità superiore, facendone fuoriuscire un ciuffetto di peli neri. I miei occhi si fermarono sui suoi, lasciandomi per un attimo spiazzato; sensazione esternata anche da lui, considerato che aveva fatto un mezzo passo indietro. Tentai di mascherare il mio disagio, ma non so quanto ci riuscii, sebbene normalmente la cosa mi veniva spontanea, ma con lui accadde qualcosa di anomalo. Guardare nei suoi occhi era come guardare in quelli di un bambino. Nessuna cattiveria o pregiudizio, e massima trasparenza. Mentire a quegli occhi era come mentire a una persona immacolata, a un parroco al momento della confessione. Il mio imbarazzo, ipotizzavo fosse nato dalla stima che versavo nei suoi confronti, perché non aveva la capacità di mentire, e se lo faceva chiunque avesse avuto di fronte se ne sarebbe accorto immediatamente. Era una situazione tutt’altro che semplice, ma che lui riuscì a spezzare con un semplice sorriso. Sfilò dalla tasca dei jeans la mano e dopo essersi piegato leggermente in avanti posando un’altra moneta, questa volta da due euro, nella mia piccola creazione architettonica, mi chiese:
“Ti spiace se ti faccio un po’ di compagnia?”
Con la mano spazzai via le cartacce che si erano depositate accanto a me portate dal vento. Non ricordavo da quanto tempo non lo vedevo, ma caspiterina era intatto, dal taglio di capelli, ai vestiti. Sin da quando l’avevo conosciuto, l’avevo sempre visto in quelle vesti, come fosse un super eroe con la sua tenuta speciale, e mai avevo trovato il suo odore sgradevole, a parte magari quello dell’alito, tendente molte volte all’aglio.
La nostra conoscenza era stata del tutto causale, per non dire dettata dal destino, anche se a queste stupidaggini non ci credevo profondamente. A volte imboccavo questo sentiero per giustificare certi avvenimenti della vita, dei quali non riuscivo a dare una spiegazione plausibile, ma con i quali ci dovevo convivere giorno dopo giorno, ora dopo ora. Credere che certe cose siano già scritte nella lavagna della vita, fa sperare che un capitolo venga chiuso al più presto e che allo stesso tempo ne venga aperto un altro, capace di mutarla completamente. Era una mera speranza, un’idea nata e accantonata nel profondo dei miei pensieri, la quale però m’aiutava ad andare avanti e affrontare un giorno alla volta senza aspettarmi nulla dal futuro, solo avvenimenti positivi per migliorare e stimolare la mia esistenza.
La prima volta che lo conobbi mi venne subito alla mente, come un riflesso naturale. Entrò nel nostro ufficio, o meglio, ex ufficio della narcotici dove lavoravo, accompagnato da un altro nostro collaboratore, e suo connazionale. Era la prima volta che lavorava con quella mansione, però l’amicizia con la persona che ce l’aveva presentato valeva più di mille parole. Infatti con l’avanzare dei giorni la sua esperienza cresceva sempre più, come la confidenza con noi, e lentamente, con garbo e educazione, esprimeva la sua mera impressione su ciò che sentiva e traduceva, facendoci capire che sebbene quelle persone dicessero una cosa, ne volevano intendere un’altra, insomma stava diventando uno sbirro. La cosa che più lo faceva arrabbiare e per la quale aveva accettato il lavoro come interprete, era l’antipatia verso i suoi paesani, ovvero verso quelle persone che si ritenevano più furbi e scaltri degli extracomunitari che vivevano in Italia rispettando le leggi e le regole presenti, e farceli arrestare per lui era una grossa soddisfazione. Certo per lui non era una bella reputazione, lavorava si per la polizia di stato, e per noi era un grosso vantaggio, ma visto dall’altra parte, lo ritenevano un infame, un Giuda traditore, e per questo sia nell’entrare che nell’uscire dalla questura era sempre molto discreto e cercava di mimetizzarsi tra le persone per non essere notato da qualche passante.
“Brutta storia la tua.” Esordì… “ma ora cosa fai? Mica potrà finire tutto così?”
“Non credo siano fatti tuoi. Ero uno sbirro e ora non lo sono più, quindi vedi di farti gli affari tuoi.”
“Non volevo mancarti di rispetto. Lo sai che ho sempre avuto grandissima stima di te e vedrai che tutto questo si sistemerà, abbi fiducia nello Stato, la verità viene sempre a galla.”
“La verità, seeeee…la verità, a chi diavolo gliene frega della verità? A nessuno! E anche se fosse? Tutta questa faccenda si risolverà tra un anno o più, ed io sino ad allora che dovrei fare, dormire sotto un ponte? Eh me lo spieghi tu come faccio a campare per un anno senza lavorare, dopo quindici anni che faccio lo sbirro e lo stipendio mi bastava solo per arrivare a fine mese?”
“Tu sei una persona intelligente e non credo che la polizia sia il tuo unico mondo, apri gli occhi, allarga i tuoi orizzonti e vedrai che riuscirai in tutto ciò che vorrai. Questo è il mondo, il tuo mondo, ci sono persone che dal nulla diventano qualcuno solo perché hanno la volontà e la caparbietà di credere in loro stessi e la forza di non buttarsi giù alla prima difficoltà. Prendi tutto questo come la rinascita dello spirito e della persona, un capitolo nuovo ed entusiasmante della tua vita, della tua nuova vita.”
“Belle parole le tue, ma senza nulla non si va da nessuna parte.”
“Anche su questo ti do ragione, ma ora che hai intenzione di fare, di rimanere qui per il resto della giornata? Non rispondere nemmeno, prendi su i tuoi stracci e vieni a casa mia, se ti accontenti di un materasso buttato per terra, sei il ben venuto.”
“In altre circostante avrei rifiutato o almeno tentato di farlo, però accetto volentieri, e appena posso levo le tende. Ma con chi vivi? Anzi non me ne frega un accidenti, fai strada, e visto che ci siamo, che si mangia per cena?”
“Quasi me ne pento di averti invitato.”


































CAPITOLO DUE – La risalita –



Non so se un nuovo capitolo stava iniziando o mi celavo a scoprire la fine della mia storia, fatto sta che presi quell’aiuto di buon auspicio e m’incamminai seguendo il mio nuovo coinquilino.
“Eccoci, siamo arrivati.”
Dopo aver cambiato tre autobus e aver fatto quasi un miglio a piedi arrivammo in quella specie di palazzo. Da fuori era tutt’altro che accogliente e di sicuro l’affitto non doveva essere stato molto alto, considerato l’intonaco che si sgretolava.
“Non male questa zona, servita bene poi.” Dissi in modo ironico. “Ma giusto per curiosità, visto che mi devo guardare un po’ attorno, quanto paghi d’affitto?”
“Affitto? E chi lo paga l’affitto, è mio l’appartamento, ogni santo mese ho la rata del mutuo, è come una martellata…come dite voi? Sui “maroni” giusto? Ogni dieci del mese.”
“Beh, però, almeno è casa tua, un affare, no?”
“Vero? L’ho pensato pure io quando l’ho comprata.”
“Ma me lo fai vedere quest’appartamento o rimaniamo fuori a parlare?”
L’interno era decisamente conciato meglio dell’esterno. Dopo aver salito le scale sino al primo piano, ad accoglierci fuori dall’uscio c’era un banale tappetino con la scritta “Benvenuti”. Mi bastò quel semplice zerbino per riscaldarmi il cuore e farmi sentire in un luogo famigliare. Non appena avevo varcato quella porta, era stato come entrare in una finestra astro temporale. La sciattaggine e il degrado rimasero fuori. Le pareti erano in condizioni perfette e incipriate di colori vivi e solari. All’ingresso vi era un piccolo disimpiego seguito da un’ampia tavola in mogano ben intagliata, che di sicuro avrebbe lasciato senza parole chiunque l’avesse osservata per la prima volta, come il sottoscritto. Questa era contornata da otto sedie, degne di accessoriare tale bellezza; come una parure di gioielli decora il collo di una bella donna. Sulla destra e sulla sinistra vi erano due porte a vetri. La prima custodiva la toilette, mentre una piccola e ordinata cucina si scopriva aprendo la seconda. Continuando ad avanzare e lasciando alle spalle la seconda porta, un’apertura senza infisso lasciava intravvedere a qualsiasi invitato una camera degli ospiti, anche se a dire il vero sembrava un piccolo disimpegno per rimanere un po’ appartati. Continuando con la perlustrazione visiva, mentre mi accingevo ad accomodarmi in un piccolo e morbido divano, almeno all’apparenza, un’altra porta annunciava l’ingresso a due camere da letto, le quali, ipotizzavo dalla luce dello specchio che ne rifletteva, condividessero il bagno.
Tralasciando questi vani, che dal mio punto di vista non erano il punto forte della casa, lasciandomi la tavola alla mia destra, potevo accedere a un piccolo disimpiego e a un grande salone. Queste stanze non erano separate tra loro, sebbene di primo acchito si avvertiva il distacco tra gli ambienti. Tale sensazione era creata dal diverso colore delle pareti e da una leggera gessatura finemente decorata, dando all’ambiente un’aurea regale.
Nel primo ambiente, quello più piccolo, erano posizionati due divani a tre posti, l’uno di fronte all’altro, con al centro un piccolo tavolino. Quest’ultimo aveva il ripiano in vetro dal quale si poteva notare una riproduzione del corano a dimensioni reali. Era aperto a metà e completamente rifatto in argento. Era stupendo e incastonato in quel mobile nero risaltava in tutta la sua magnificenza. L’altra stanza, due volte più grande, anch’essa contornata da dei divani piatti. A dire il vero non sapevo come definirli, perché erano composti solamente dalla parte sottostante e al posto dei poggia schiena c’erano dei giganteschi e morbidosi cuscini. Anche qui in mezzo c’era un piccolo tavolino, ma a differenza dell’altra stanza qui c’erano dei quadri. Erano tutti quadri religiosi. Uno riportava delle scritte del corano. Uno rappresentava la copertina del testo sacro. Un altro, che non riuscivo a comprendere, era l’insieme di molte lettere sino a rappresentare quasi una fiamma ardente, ma forse era solo una mia misera e inesperta interpretazione.
Sta di fatto che ognuno di questi quadri aveva dei filamenti in oro, e a guardarli così da vicino, sembravano proprio di valore.

Non appena la porta si chiuse dietro le nostre spalle, una voce provenne dalla stanza accanto. Si sentiva che la pronuncia non era molto fluida, quanto meno era in italiano, e ne potevo capire il contenuto.
“Ciao fratello, cosa fai già a casa? Spero tu abbia portato da mangiare!”
“Ehi Ahmed, vieni di qua che ti presento un amico.”
Khan si accorse che lo stavo guardando incuriosito.
“Che c’è?”
“Perché parlate in italiano? E’ strano sentire due stranieri come voi non parlare nella vostra lingua.”
“Eh si, devi sapere che mi sono rifiutato di rispondere a mio fratello se continuava a parlarmi in marocchino, visto che la sua conoscenza dell’italiano è al quanto grossolana, per non dire schifosa, ma questo tienilo per te, perché è alquanto permaloso.”
Tempo nemmeno di finire la frase, ed eccolo sbucare da dietro la porta del privè, visto che la porta non era chiusa da nessun infisso e a celarne il contenuto vi era una leggera tendina in bambù blu stilizzata con ornamenti che ricordavano le lettere arabe in oro.
“Ma chi cazzo è questo? Ti sei messo a raccattare anche i barboni per strada?”
Disse con schiettezza.
“Idiota, stai attento a come parli, è un poliziotto.”
“Cosa??? Tu porti uno sbirro a casa? Sei scemo? Già lavori con loro ed è uno schifo, e ora che fai? Li porti a casa? Non credo a occhi e orecchie.”
Ahmed, cambiò completamente espressione, come se la mia presenza gli desse qualche noia, più che altro, il mio ex lavoro.
“Guarda non ti devi preoccupare, non sono più uno sbirro, m’hanno cacciato, quindi se vuoi fumarti dell’hashish o farti una pista, libero di fare c’ho che vuoi, quella schifezza non mi riguarda più. Tuo fratello mi ha portato qui perché non sapevo dove andare, ma se ti creo problemi basta che me lo dici, come sono entrato, esco, basta che non mi rompi le palle.”
“Ahmed, prima che tu dica qualcosa, ti ricordo che pago io questa casa, quindi lui rimane, e se non ti sta bene, peggio per te, ti ci abituerai.”
“Sbirro…scusa, come ti chiami?”
“Chiamami Fra.”
“Fra, vuoi caffè? Ti vedo sbattuto.”
“Ahmed, la vuoi finire, non è mica tuo fratello, e comunque, nemmeno a me devi parlare così, vai a mettere su questo caffè e porta anche qualcosa da mangiare.”
“Ah e visto che ci sei, Archimede, portami anche un po’ d’alcool.”
“E chi è Archimede? Se è complimento ok, ma tu essere sbirro, quindi non credo che è complimento e questo non è bar… dovresti sapere che noi arabi non beviamo alcolici.”
“Certo che lo so, ma tu non hai la faccia proprio della persona che segue alla perfezione il corano, quindi portami un po’ d’alcool e non rompere, e se ti do fastidio, come ha detto tuo fratello, quella è la porta. Dai su Archimede muovi il culetto.”
“Come mi hai chiamato sbirro?”
Digrignando i denti e con gli occhi iniettati di sangue dalla rabbia avanzò con passo rapido e deciso, come un leone con la gazzella, inconsapevole però che era caduto nella mia trappola. Il fratello rimase ad assistere all’evolversi della scena esterrefatto e senza proferir parola. Nell’arco di quel piccolo battibecco mi ero seduto comodamente sul divano, e ora lo guardavo avvicinarsi a me, quasi correndo. Attesi che si scagliasse contro di me e poco prima che riuscisse a prendermi per il bavero, reclinai la schiena sino ad appoggiarmi allo schienale e alzando le gambe gli sferrai un calcio all’intestino.
“Adesso posso avere un po’ d’alcool…per cortesia?”
Con la spinta impressagli lo feci balzare indietro di qualche metro, facendolo andare a sbattere con la schiena al muro, per poi scivolare a terra. Non riusciva nemmeno a parlare. Una volta rialzato in piedi, senza proferir sillaba, si diresse in cucina, dove tornò con il caffè, del vino e un po’ di noccioline.
“Era ora che qualcuno gli facesse abbassare un po’ le orecchie. Grazie, io non sono mai riuscito ad alzare le mani su mio fratello, e forse anche per questo che è un po’ indisciplinato.”
“Guarda per me è solamente un piacere. Le persone che cercano di fare le prepotenti mi fanno perdere il controllo. Più che altro scusami se ho reagito d’istinto così con tuo fratello senza chiederti nulla, anche perché mi dai ospitalità ed io cosa faccio in cambio? Ti picchio il fratello la prima volta che lo conosco. Direi che non sono il top della cordialità, non trovi???…Ehhehehehehe.”
“A dire il vero mi sono divertito molto, te lo dico piano per non farmi sentire, ehehehhe.”
“Ehy Khan, ora che ci penso, quello che hai in tasca è il giornale di oggi?”
“Si, perché me lo chiedi?”
“Mah…è da un po’ che non mi aggiorno su quello che accade in città, e vorrei darci un’occhiata tutto qui. Me lo passi?”
“Ma scrivono solo sciocchezze su questo giornale, lascia stare Enrico, dai che ci beviamo qualcosa?”
“Che c’è scritto che non vuoi farmi vedere?”
“Nulla, lo sai che i giornalisti pur di vendere scrivono tutto quello che gli passa per la testa, e poi gli basta una smentita, per spazzare via con una spugna, la merda che hanno scritto.”
“Dai, su, non fare storie, altrimenti ti meno come tuo fratello.”
Avevo pronunciato quelle parole con tono scherzoso, ma chiunque m’avrebbe guardato negli occhi avrebbe scoperto che non scherzavo affatto, anche perché era di me che si stava parlando in quel giornale e l’ostinazione a non farmi leggere ciò che c’era scritto, ogni secondo che passava mi faceva arrabbiare sempre più.

…dal Resto di Carlino.

IL BRUCO DELLA MELA MARCIA E’ SPARITO.
Il Sovrintendente della Polizia di Stato Enrico Del Nero da quando è stato rilasciato dalla casa circondariale “Dozza”, dove era detenuto da un mese, non ha dato più sue notizie. Nessuno sa dov’è, e più la sua latitanza si fa un mistero, e più emergono ombre e dettagli che andrebbero ad appesantire la sua situazione. I soldi che avrebbe riscosso con le sue malefatte sarebbero di gran lunga più di 1.000 Euro, con i quali si sarebbe permesso un’auto di grossa cilindrata, che ora non si trova. Le persone da lui malmenate, come appreso dal loro legale, soffrirebbero d’insonnia e alla vista della polizia avrebbero attacchi di panico. Se inizialmente non avevano pensato a un risarcimento danni, ora, alla prossima udienza, si sarebbero costituite parte civile nei confronti dell’agente.
“Persone come lui offuscano la figura della Polizia di Stato, e infangano il lavoro che ogni giorno ogni singolo agente si presta a fare per questa città. Spero che venga giudicato presto e che paghi per ciò che ha fatto. Fatti come questo sono spiacevoli per la cittadinanza ove vengono compiuti, a maggior ragione qui a Bologna, dove l’alone della banda della Uno bianca è ancora vivo nella memoria di molti cittadini.” Queste le parole riferite dal dirigente della Squadra Mobile.

Leggevo e rileggevo quelle parole. Mille pensieri annebbiavano la mia mente al punto tale che non riuscivo a pensare. La rabbia attanagliava il mio senso razionale e quelle parole mi facevano sprofondare sempre più.
Il presente mi era del tutto indifferente, sorseggiavo i bicchieri di vino come cicchetti d’acqua. Avevo voglia di lasciarmi andare e di non pensare, desideravo che questo mondo finisse, ed io con lui. Parlavo ma non sapevo cosa dicevo, ridevo e non ne comprendevo il motivo. Il tempo passava senza che io me ne rendessi conto e tutto ciò che mi circondava, era relativo e temporaneo. Ora come non mai, mi sentivo mortale, con un inizio e una fine. Un essere umano come un altro che faceva la sua comparsa in questa terra senza lasciar traccia della sua vita, della sua presenza, e per questo mi sentivo inutile. Non sapevo il motivo della mia esistenza e non riuscivo a spiegarmi tutto ciò che c’era al mondo. Volevo investire sulla mia vita ma non sapevo da che parte iniziare. Era tutto così dannatamente difficile e complicato. Guardavo distrattamente la televisione e ciò che riproduceva sembrava così inverosimile da sembrare creato solo per attirare l’attenzione degli telespettatori. Guerre, ribellioni, morti, incidenti, sparatorie, crisi economiche, sembravano tutte notizie lontane e intoccabili, e solamente quando ci si ritrovava a sfiorarle, a sentirne le vibrazioni sulla pelle, era lì che ci si cominciava a chiedere: ma perché diamine esiste tutta questa schifezza al mondo? Perché ci sono persone che guadagnano sul dolore e la sofferenza altrui? Perché i delinquenti sono più protetti delle persone comuni e umili, che si svegliano la mattina presto e vanno a lavorare, a faticare, a sudare, e che per arrivare alla fine del mese fanno i salti mortali, e molte volte non riescono nemmeno a permettersi una vacanza all’anno con la famiglia, perché con le tasse da pagare, il mutuo e tutto quello che ci va dietro, non riescono a risparmiare quanto basta. E se tutto questo non bastasse, da quella scatola composta da circuiti elettronici, si sentivano dire: “dobbiamo fare dei sacrifici”. Provate a chiedere a qualsiasi persona che sta al governo o imprenditore, dove sia andato in vacanza nell’anno in corso? Sicuramente una metà turistica comparirà nella loro risposta, anche perché se provate a chiedergli: “e i sacrifici voi non lì fate?” “Certo che li facciamo, ma lavoriamo tutto l’anno, non ci meritiamo nemmeno un po’ di ferie?” Senza entrare poi in altri argomenti sui quali sorvolerei per non farmi corrodere il fegato dal nervoso. I sacrifici da che mondo è mondo, lì hanno sempre fatti i poveri operai, non per loro scelta, ma perché lavorando onestamente, erano e saranno sempre le uniche persone pesate sino all’ultimo centesimo, a differenza di tutti gli altri, i quali hanno la possibilità di fare come gli pare e piace, soprattutto i delinquenti. Indulto di qua, benefici di là, ed io ora che ero disoccupato, chi mi consigliava di rimanere una persona onesta. Mantenere i miei ideali, conservare i principi e le linee guida insegnatemi sin da bambino, per finire dove? Per strada con un calcio sul fondoschiena e un grazie per averci fatto fare questa pessima figura con i cittadini, senza accertarsi se tutto ciò per il quale ero stato cacciato, fosse veritiero oppure no. Mi avevano pure associato alla banda della uno bianca, proprio il mio ex capo, quello che gongolava sui miei arresti. L’ipocrisia oramai aveva conquistato il mondo intero e andare contro al vento che soffiava, per molti era rimasto un lusso e un atto di coraggio mai conosciuto nella loro vita. Sarebbe bastata una risposta più diplomatica: “Non posso esprimermi finché il giudice non emanerà la sentenza, e sino ad allora rispetterò Enrico Del Nero per come l’ho conosciuto, ovvero uno dei miei migliori collaboratori, forse voi non ricordate, ma molte persone che sino a pochi giorni fa condividevano la cella con lui, li aveva arrestati lui stesso, e se questa città è un po’ più sicura è grazie a lui.” Ma di certo avrei chiesto sicuramente troppo e in quel modo, se fossi stato giudicato colpevole, arrivare al potere e avanzare di carriera non sarebbe stato facile per il mio ex capo, anche perché sarebbe stato dipinto come l’uomo che non conosceva i suoi uomini e non riusciva a tenerli a guinzaglio. Ma questo non toglieva il fatto che senza mostrare un po’ di “palle” il rispetto delle persone che lo circondavano gli sarebbe venuto a mancare.
Ma oramai tutto questo faceva parte del passato, quello che avrei cominciato a fare era sfruttare la mia intelligenza e le mie conoscenze per arricchirmi e non essere beccato, e qualora accadesse, sperare che fosse il più in là possibile, in modo da racimolare un bel po’ di denaro per poter vivere decentemente una volta ritiratomi dal mercato dell’illegalità. Certo non era del tutto facile e semplice, soprattutto entrare nel giro, ma certo ci potevo provare, d'altronde cosa avevo da perderci? Nulla. Dovevo pensare bene a ogni dettaglio. Aprire ogni cassetto della mente per organizzarmi alla grande e costruire un qualcosa di non troppo grande, per non attirare l’attenzione, ma nemmeno troppo piccolo, per non racimolare pochi soldi. E poi, se c’erano riusciti certi inetti con i quali mi ero imbattuto, come potevo fallire io, impossibile. Già immaginavo il cambiamento nella mia vita. Più rispetto; perché con i soldi si ottiene il potere, e il resto viene a cascata, dandoti comunque una mano. Belle donne, che quelle non guastavano mai. Macchine sportive, per togliermi lo sfizio che mi era sempre gironzolato per la testa, e viaggiare, soggiornando nei posti più belli e lussuosi al mondo. Certo non subito, non dovevo commettere l’errore di essere presuntuoso e sperperare immediatamente quello che guadagnavo, ma in un futuro non troppo lontano avrei potuto soddisfare tutte queste mie idee. Già m’immaginavo immerso in una vasca idromassaggio all’ultimo piano di un grattacielo circondato da donne incantevoli con un bicchiere di Franciacorta in mano e un po’ di musica in sottofondo…paradisiaco.
Forse stavo fantasticando troppo o forse no, sarà solamente il tempo a dirmi se avevo ragione.
Il bello di tutta questa mia paradisiaca visione o prospettiva di vita era l’inizio. Come diamine avrei cominciato? Come avrei fatto a inserirmi nella criminalità. Il posto più fertile in assoluto per uno che voleva cominciare questa carriera era la stazione ferroviaria, a meno che non conoscesse persone altolocate, e allora la questione era del tutto diversa, ma di certo non era il caso mio.
Come uno studente sceglie l’università che meglio preferisce, anche un criminale, sebbene alle prime armi, deve compiere questa tragica scelta. Inserirmi nel campo delle piccole rapine da strada per fare un po’ di soldi sarebbe potuto essere un buon punto di partenza e di certo non avevo l’obbligo di farle in una determinata zona della città.
Avrei potuto sbizzarrirmi, variando dalla banca, alla farmacia, per seguire con l’ufficio postale, o meglio ancora una tabaccheria o un benzinaio, insomma qualsiasi attività commerciale con un elevato incasso giornaliero. In ogni singolo di questo posto avrei dovuto calcolare molteplici varianti, ma ce n’era una di fondamentale importanza, l’unica incontrollabile, la fortuna. Perché potevo aver studiato il piano in ogni singolo suo dettaglio, inserendo qualsiasi incognita, ma se un po’ di fondoschiena non m’accompagnava in quello che stavo facendo, gli sbirri sarebbero stati pronti a ingabbiarti.
Ora come ora però, ero sdraiato sul divano, lasciato a bivaccare come un trovatello disperato e senza un centesimo da investire. Fare il criminale non faceva parte del mio Dna, ma l’adrenalina si. Quindi tutto sommato credevo che le cose combaciassero. Un detto mi dava conforto…gli sbirri sono peggio dei criminali…non dovevo far altro che testarlo.

Con le braccia conserte dietro la testa e le gambe incrociate, mi godevo il venticello fresco che entrava dalla finestra di fronte a me e pensavo a come diavolo avrei fatto a tirar su un po’ di soldi. Potevo andare a far volantinaggio, o il pizzaiolo, o il cameriere, ma tutto questo sarebbe stata una sconfitta, non perché questi lavori erano umili e indegni di me, ma perché il tempo di fare lo sciacquino l’avevo lasciato alle spalle quand’ero stato costretto a lasciare la polizia, quindi, niente più capi e soprattutto non avrei più dovuto pensare se riuscivo ad arrivare a fine mese o meno. Un settore che mi aveva sempre attratto era quello dei bancomat, o meglio, non clonare le tessere o aspettare le persone che effettuavano i prelievi per derubarli. No. M’affascinava farli saltare, e portare via la cassa con i soldi contenuti all’interno. Era un lavoro ingegnoso, che non danneggiava nessuno. Le banche per questo tipo d’incidenti erano assicurate, e i danni che subivano gli venivano rimborsati interamente. E dal mio punto di vista, anche se avessero dovuto pagare loro direttamente, la cosa non avrebbe cambiato molto la linea di marketing che avevano, visto che sin dall’inizio della loro creazione avevano sempre cercato e ottenuto il favore dei governi per fregare i poveri cittadini in qualsiasi loro operazione, e se questo non fosse vero, come si spiegherebbero tutte le fantastiche sedi ove operano, tutti quei bei palazzi pagati con i soldi e i sacrifici della gente comune, perché i grandi sono grandi, grazie ai soldi dei piccoli. L’unico inconveniente che potevo riscontrare in questo settore, era la poca conoscenza delle miscele esplosive, e tutto ciò che ci poteva andare dietro. L’unica cosa che sarei riuscito a sfruttare, era la mia guida sportiva, utile per dileguarci prima dell’arrivo della polizia. Quest’ultima a dire il vero non era un gran problema, perché tutti questi colpi si effettuavano avendo a disposizione automobili dai 300 cavalli in su, e gli sbirri non avevano un’auto con questa potenza, fatta eccezione della Lamborghini. L’unica pecca di questo settore però era riuscire a entrarci. Avevo una carta da giocare a mio favore, conoscevo la palestra dove andava un personaggio della banda più preparata della città in questa specialità e a dire il vero, conoscevo anche il suo volto, e cosa fondamentale, lui non mi conosceva affatto.

Sarei potuto partire da lui. La mia mente già viaggiava libera nell’autostrada dei sogni e delle speranze. Già mi vedevo a bordo di un’auto potente, con i lampeggianti nello specchietto retrovisore intento a scappare agli sbirri, e subito dopo a contare i soldi e a dividerli equamente coi miei compagni. Sarebbe stato un po’ come vivere Fast and Furios in prima persona, ed io sarei stato l’O’ Connor della situazione. Anche se a ripensarci bene, loro non facevano esplodere i bancomat, ma non faceva nulla, perché smontare una fantasia?!?












CAPITOLO TRE – Prime prove –


Dovevo cercare i soldi per iscrivermi in palestra e un furtarello non sarebbe guastato. Mi misi in sesto e scesi di casa. Un centro commerciale sarebbe stato perfetto, ovviamente senza telecamere all’esterno. Ci impiegai poco più di mezz’ora ad arrivare. Ero comodamente seduto sull’autobus quando ecco salire il controllore. Ero tranquillo, mi alzai cercando di raggiungere l’apertura opposta alla quale lui era salito, ma proprio mentre stavo per scendere, poco prima che le porte si chiudessero, eccoti mettersi di fronte a me un altro controllore, cercando di sbarrami la strada per non farmi scendere.
“Favorisca il titolo di viaggio per cortesia, e poi può scendere.”
Il biglietto non ce l’avevo e certo se cominciavo già così il primo giorno della mia vita criminale apposto ero. Mi sarei ritrovato in galera la sera stessa. Un lampo di genio però illuminò la mia mente, estrassi dalla tasca dei pantaloni il mio sottile taccuino, e aprendolo a ventaglio esibii il mio titolo di viaggio.
“Prego.” Fu la risposta dell’incaricato del pubblico servizio lasciandomi sfilare alla sua destra. E lì capii che il tesserino della polizia, sebbene illecitamente detenuto e leggermente contraffatto, m’avrebbe potuto salvare da molte situazione complicate. Certo avrebbe avuto anche i suoi lati negativi, sempre che qualcuno avesse scoperto la sua natura, ma questo sarebbe stato un problema che avrei affrontato una volta che si fosse presentato. Avrei aggiunto guai ad altre beghe che già avevo; e poi persino io avrei creduto nella sua autenticità, considerato che aveva tutte le sue cose in ordine, fatta eccezione di alcuni piccoli particolari.
Eccomi arrivato nel parcheggio del centro commerciale, ora dovevo solo attendere la vittima prescelta. Doveva essere esclusivamente una e se la cosa fosse andata male, mi sarei dovuto dileguare, spostando la mia attenzione in un’altra zona.
Mi dovevo ingegnare in qualche modo, e utilizzare uno stratagemma con un margine d’errore molto ridotto. Innanzitutto non dovevo far notare la mia presenza nel parcheggio, rimanendo nell’indifferenza più totale. Mi misi seduto su di una panchina, e approfittando della bella giornata ostentavo il mio interesse per i raggi solari, guardando di sottocchio le macchine che arrivavano e i loro conducenti, aumentando ancor di più la mia attenzione quando mi passavano accanto se li ritenevo interessanti.
Passarono qualche decina di minuti senza che mi decidessi a mettere in atto il mio pseudo piano. Non riuscivo a calcolare il momento propizio, ma quando mi sembrava che stesse per arrivare ecco sorgere qualcuno che lo avrebbe potuto rovinare, tipo personale della vigilanza che usciva a farsi un giro e fumarsi la sigaretta, oppure qualche ragazzo dall’aria sveglia e atletica. Insomma, cercavo il momento ideale, anche perché se avessi affrettato la cosa, sicuramente sarebbe stato peggio per me e non sarei riuscito ad ottenere il risultato sperato.
Forse dovevo desistere e cercare un’altra soluzione ma più mi scervellavo e maggiormente non riuscivo a trovare alternative. Mi alzai in piedi giusto per stemperare un po’ la tensione e cercare qualche mozzicone di sigaretta da finire, non fumavo gran che, ma quand’ero nervoso mi serviva a stendere i nervi. Praticamente trovai una sigaretta completamente intera, gettata a terra esclusivamente perché era leggermente spezzata. Con cura la raccolsi e con altrettanta attenzione la ricomposi. Mentre terminavo l’operazione e la incastonavo tra le labbra assaporandone il sapore, capii che il momento era arrivato. Nel parcheggio aveva appena fatto il suo ingresso un grosso SUV e dallo stesso ne era scesa una scintillante creatura, non tanto per la bellezza, ma per ciò che indossava. Nulla togliere a quella splendida donna, ma di certo non era il momento per accondiscendere alle debolezze della carne. Già dal personaggio avevo compreso che non si sarebbe intrattenuta molto tempo all’interno del centro commerciale, considerato che la spesa per la famiglia di certo non la faceva lei, al massimo sarebbe entrata per provare qualche capo d’abbigliamento o salutare qualche amica, altre spiegazioni non ne trovavo. Mi passò accanto con estrema disinvoltura, consapevole che la stavo guardando, e come potevo evitarlo, malgrado le rughe accentuate sul collo, conservava un viso ed un corpo tonico, e il sentirsi osservata era il risultato cercato nelle sedute dal chirurgo plastico e come potevo non privargliene. Le gambe snelle s’innalzavano su un paio di scarpe nere con il tacco alto sei sette centimetri, sino a delimitarsi all’interno di una gonna attillata anch’essa scura. Indossava una camicetta bianca lasciata aperta dei primi bottoni, dalla quale emergevano prepotentemente le morbide colline che custodiva all’interno. Era inebriata da un aroma invitante e allo stesso tempo delicato, che i miei sensi istintivamente seguirono cercando di non perderlo. Era come se fosse passato un camion di rose trasportate con il telo scoperte e al suo passaggio seminasse petali rosei lungo la via. Scorsi il suo sorriso di soddisfazione sul riflesso della porta a vetri scorrevole del centro commerciale, dove venne inghiottita dopo pochi secondi.
Ora dovevo solamente attendere il suo ritorno all’auto. Dovevo essere preciso e veloce. L’attesi nella parte laterale del mezzo, lei non mi doveva vedere. Mi accovacciai quasi a terra lato passeggero e approfittando dell’altezza del mezzo controllai quand’era salita. Appena avviata la macchina, percorse solamente pochi centimetri dopo aver innescato la retromarcia; manovra che interruppe subito. Appena era entrata in macchina, per far uscire il caldo accumulato durante la sua assenza, aveva fatto scendere i finestrini dell’auto, dai quali si poteva udire una musica giovanile e allegra, dovuta probabilmente da qualche file dei figli lasciato nell’auto o semplicemente da una stazione radio decente.
“Porca miseria, ma cos’ha quest’auto che non va, e sta spia?!”
Le sue parole uscivano deboli accompagnate dalla melodia che le faceva da sottofondo nell’abitacolo.
“Pronto Amore, mi sa che ho un problema con la macchina.”
Pausa.
“Si sono con la mia, mi si è accesa una spia di colore giallo, ma ha una forma strana, non te la so spiegare, è tipo…”
Pausa.
“Si dai sembrano due parentesi collegate con una riga zigrinata sotto, e ha un punto esclamativo all’interno, se non sbaglio, ti viene in mente qualche cosa?”
Pausa.
“Cosa? La pressione delle gomme?”
E proprio mentre proferiva quelle parole, d’istinto aprì la porta e scese dal veicolo andando a controllare le gomme.
“Amore, ma qui le gomme sono apposto…no no, aspetta, forse quella d’avanti è bassa, mi sa che hai ragione.”
Pausa.
“Dai ti aspetto, sono qui al centro commerciale a Casalecchio, sono al piano terra, vicino all’entrata, dai dove parcheggio io di solito, ma come…”
Queste furono le ultime parole che riuscii a udire della signora, la quale era talmente presa dal problema dell’auto che non si era accorta che mi ero appropriato del suo portafoglio che fuoriusciva dalla borsa lasciata aperta sopra al seggiolino lato passeggero. Il piano aveva funzionato alla perfezione. Con il pneumatico anteriore bucato, dopo aver preso istruzioni da qualcuno al telefono, la signora era scesa a verificare il problema ed io in quel frangente, ero riuscito ad affacciarmi dal finestrino anteriore e dopo aver verificato la posizione della borsa, mi ero appropriato di ciò che mi interessava.
E ora che dovevo fare? Avevo tra le mani ciò che m’interessava, ma non sapevo come comportarmi. Le scelte erano due: verificare subito il contenuto e sbarazzarmi delle prove, oppure trovare un luogo appartato ed esaminarlo con calma? Optai per la seconda, salii sul primo autobus che passava e mi feci portare in centro. Mi misi a camminare, sempre comunque con il cuore in gola, con la paura di essere fermato e scoperto. Dovevo sbrigarmi a fare ciò che dovevo fare. Dopo essere sceso, imboccai la prima stradina poco trafficata, e aspettando il momento propizio, mi misi a setacciare il contenuto del portafoglio. La giornata direi che l’avevo ampiamente guadagnata. I miei bei 370 euro li avevo racimolati. Intascato il malloppo, non feci altro che lasciar scivolare il portafoglio a terra dietro un muretto, e mi rimisi su via Indipendenza confondendomi con le centinaia di persone che vivevano la loro vita. Non riuscivo a spiegarmelo ma mi sentivo diverso. Forse oggi avevo cominciato a vivere o forse ero tornato bambino, al tempo in cui m’intrufolavo all’interno dei supermercati e dei tabaccai uscendone con delle caramelle. Oggi come allora avevo il cuore che pulsava come una locomotiva lanciata a tutta velocità e i dogmi impostimi dai miei genitori si scioglievano come ghiaccio al sole. Tutte quelle regole e limiti fissati dal lavoro e da una vita regolare e onesta non facevano per me. Erano sempre stati un freno che non riuscivo a togliere, un passo che non riuscivo a compiere, ma ora ero libero. Non avevo un lavoro e uno stipendio fisso, ma certo non sottostavo al volere di nessuno e questo per me era gratificante. La mia vera vita cominciava ora, quella di prima era solamente un sogno dal quale potevo conservare ricordi preziosi per vivere al meglio questa nuova esistenza. Ora come non mai esistevo io, solo ed esclusivamente io e non avrei dovuto rendere conto a nessuno se non a me stesso. Ero galvanizzato. Avevo l’impulso di sferrare un pugno in faccia a chiunque mi guardasse male, ma forse era meglio non esagerare.
Il primo passo sarebbe stato quello di iscrivermi in palestra, ma questo l’avrei fatto l’indomani. Ora era tempo di festeggiare il colpo andato a segno. Ritornai a casa dal mio samaritano, al quale regalai dieci euro, mentendogli sulla loro provenienza. Non volle accettare i miei denari, bensì mi disse che la sera avrebbe invitato a casa degli amici a cena, sempre che a me avesse fatto piacere.
Scesi al negozio di pakistani che stava sotto al palazzo e presi qualche bottiglia di vino, e una di vodka, sapevo che non sarebbero andate sciupate.


























CAPITOLO QUATTRO – Una poesia spontanea –


Eravamo tutti intorno al tavolo. La cena era stata preparata minuziosamente da Fatima, una vicina di Khan, la quale sedeva accanto a lui in atteggiamenti tutt’altro che indifferenti. Nove persone animavano il banchetto e si rifocillavano sontuosamente. Guardavo quelle nuove persone con estremo interesse. Mi trattavano come fossi sempre stato loro amico, come se ci conoscessimo da anni e questo mi faceva stare bene. Per la prima volta nella mia vita mi sentivo a casa, le persone che sedevano accanto a me facevano di tutto per farmi sentire partecipe della loro compagnia e dei loro discorsi. A esser sincero, l’unico interesse che stavo maturando però era per un’amica di Fatima. Il nome con il quale i suoi genitori l’avevano benedetta era Sophia, nome a me sconosciuto ma dal suono incantevole. Come lo erano i suoi occhi neri, egual colore dei capelli, e la carnagione caffelatte. Quello che mi colpì di lei fu non tanto l’aspetto fisico, ma il suo sguardo. Era per me come la mela per Newton e il pericolo sarebbe stato quello di toccare terra. Per tutta la cena, ci scambiammo sorrisi e sguardi complici, sebbene non riuscissi a capire che rapporto avesse con Abdlak, il quale l’aveva stuzzicata diverse molte. In queste occasioni lei lo aveva snobbato, volgendo l’attenzione su di me, e puntualmente lui si agitava, diventando scontroso e irascibile con gli altri ospiti. Non era il mio genere di ragazza, ma la sua carnagione dorata mi faceva risvegliare passioni lontane, il suo sguardo scuro e inteso sembrava assorbire ogni mia emozione senza che questo la tormentasse, anzi, la sentivo leggere dentro la mia anima con estrema facilità. I suoi lunghi capelli neri, dal profumato candore, portavano dentro di me una serenità sconosciuta ma ricercata nel tempo, forse segno di poche notti passate a riposare. Avevo voglia di lei e del significato che rappresentava. Avrei voluto prenderla per mano e portarla fuori, lontano da tutto e da tutti e rimanere seduti a parlare per ore, per poi abbracciarsi così, l’uno stretto all’altra, senza aver più nulla a cui chiedere al mondo, perché mi bastava ciò che avevo tra le braccia e tutto il resto sarebbe stato inutile e superficiale.
Quella sera non andò proprio così, però sapevo che l’avrei rivista, e questo mi aveva fatto trascorrere un sonno non troppo sereno.
Assuefatto dai fumi dell’alcool, e un po’ delirante, tiravo le somme della giornata appena passata. Non era stata una giornata normale, era il primo giorno che vivevo con i profitti della vita illegale. Imparavo a capire che i soldi non avevano né nome né padrone. Erano esclusivamente di chi lì possedeva. Ero riuscito a spendere quei soldi con estrema facilità e disinvoltura e cosa ancora più importante senza senso di colpa, e a dirla tutta, erano i soldi meno sudati in vita mia, o forse nei quali avevo utilizzato più testa per guadagnarmeli. Se ripensavo, che per la stessa cifra, quando avevo sedici anni, avevo lavorato un mese intero in fabbrica ad avvitare piccole viti sull’intelaiatura di centinaia di lampadari, mi rodeva il fegato, considerato che in sole due ore, avevo racimolati gli stessi soldi. Certo mi era andata bene, però non potevo non tenere in considerazione questi piccoli particolari. Coccolato nelle coperte, dalla prima volta che mi ero congedato, ero tornato a fare una vita normale, avevo delle persone che non disprezzavano dormire sotto lo stesso mio tetto, e non mi guardavano come un criminale, ma come una normale persona che nella vita poteva commettere degli errori. Non si lamentavano della mia presenza e del mio alito un po’ alcolico, anzi erano loro a sentirsi a disagio con me, solo per il fatto che io ero Italiano e un tempo anche sbirro. Sentivo che la stima che avevano quelle persone nei miei confronti era più alta della mia, e questo mi faceva stare bene. Il resto non m’importava, ero vivo e dovevo vivere. Quello che il destino mi riservava, lo avrei scoperto passo dopo passo da solo, come avevo sempre fatto.

La sveglia come ormai mi capitava da diverso tempo, non sapevo neppure da quali lettere fosse composta e che suono avesse. Mi capitava di svegliarmi e di ritornare a dormire per un altro paio d’ore, e nessuno aveva nulla da obbiettare su quello. Dopo la sera appena trascorsa, successivamente che gli ospiti se n’erano andati, mi ero trattenuto con Sophia a svuotare i residui di bottiglia rimasti. Ci facemmo compagnia per un po’ di tempo. Le parole presero colori e direzioni che nessuno dei due il giorno seguente si sarebbe ricordato. L’unica cosa che ricordavo, erano le due pietre di ossidiana che luccicavano quando mi guardava, ne ero assuefatto a tal punto che per sentirla accanto a me quando se n’era andata, avevo cominciato a scrivere una poesia, come se tutto ciò, fosse la cosa più semplice del mondo, e quel gesto avesse la forza e la magia di trattenerla accanto a me un altro istante.



























Il tuo sguardo è come quello d’una pantera
Cosa m’hai fatto questa sera?
Sei affascinante e pericolosa
Sconosciuta e misteriosa

Sei comparsa come d’incanto
Ed io ho sentito il tuo pianto
Non mi son accorto quando sei arrivata
E tanto meno quanto te ne sei andata

Lo stomaco gridava di dolore
Non avevo mai sentito questo ardore
Il sangue ballava nelle vene
Ti prego sciogli le tue catene.















Quando mi svegliai la mattina avevo la testa che rimbombava; era come se ospitasse un batterista principiante ed isterico, il cui ultimo pensiero era cessare di far quel fracasso. Ipotizzavo che probabilmente anche per questo motivo non riuscivo a starmene sdraiato a letto. Mi giravo e rigiravo tra le lenzuola, senza trovare una posizione o soluzione, alche non mi era restato altro che donare la mia presenza al mondo civile.
I piedi toccarono terra a fatica, e non appena mi ero sollevato, mi chiesi che diavolo stavo facendo e dove diamine stavo andando. Strascinai praticamente il corpo in cucina, ma prima che potessi effettuare qualsiasi altra cosa, accesi la televisione per avere un po’ di compagnia. La mia intenzione era ascoltare un po’ di musica per riuscire a svegliarmi lentamente. Pigiai il pulsante del telecomando, e quasi immediatamente ecco accendersi d’incanto, un po’ di sana e orecchiabile musica pop. Con gli occhi da cinese mi destreggiai per la cucina, cercando di non sbattere da qualche parte, e non cominciare così la mattinata con un’imprecazione, anche se ormai era mezzogiorno passato, sempre che le lancette scrutate dai miei occhi e recepite dal mio cervello, fossero corrette. A dire il vero non mi accorgevo quando la musica cessava per lasciare spazio ai conduttori del programma, anche se distrattamente captavo una notizia decisamente importante e inaspettata. La morte di Lucio Dalla. Lì per lì non ci avevo fatto molto caso, forse perché i miei neuroni non riuscivano ancora a interagire tra loro, ma poi con il passare dei minuti e con l’avvicendarsi degli speaker, e dei cronisti e di alcuni personaggi famosi con le loro parole di sconforto, mi rendevo conto che un artista della musica italiana era morto. La cosa non mi riguardava gran che, anche perché non lo conoscevo di persona, sebbene mi era capitato di incrociarlo per le vie di Bologna, seduto a bere qualche cosa in piazza dei Celestini, dove ero solito passare a piedi per raggiungere via d’Azeglio. Lo coglievo lì, tranquillo a chiacchierare come qualsiasi altra persona al mondo. E ora non c’era più. Quando un’artista lasciava questo mondo così inaspettatamente, mi capitava di pensare cos’altro avrebbe potuto dare a tutti noi. Quello che una persona era riuscita a dare sino al giorno del suo addio era indubbiamente importante, ma cos’altro sarebbe riuscita a regalarci? Era una cosa che mi aveva sempre solleticato la mente. Cercare di pronosticare il potenziale di una persona che oramai non c’era più, era alquanto difficile e impossibile da effettuare, però era altrettanto affascinante e misterioso. La speranza era che l’anima di quella persona, come quella di qualsiasi altra persona al mondo che lasciava questa vita terrena, fatta eccezione per persone crudeli ed egoiste, rimanesse immortale, passando in una vita che si stava accendendo proprio in quel momento. Comprendevo che questo fosse un pensiero strano e aggrovigliato, ma se fosse vero, ci permetterebbe di sapere che tutte le persone a cui noi teniamo, e che persino noi stessi, noi come essere umani, avremmo un futuro e non saremmo solamente esseri finiti e limitati; in tutta sincerità però, questa cosa mi faceva molta paura. Come potevo sperare di poter tramandare la mia anima in un’altra persona se non ricordavo il percorso delle vite passate? Anche se questo ragionamento era relativo, considerato che in alcuni momenti della vita mi era capitato di rincontrare l’anima di un altro, di ritrovare o rivivere esperienze già vissute, però mai provate. Forse era stato per una situazione psicologica instabile, o per l’eccesso di alcool o forse perché il passato che avevo consumato in un'altra vita non riusciva a rimanere placato. Sta di fatto che avevo vissuto e provato molte situazioni e sensazioni delle quali però non avevo mai avuto la forza e la capacità di spiegarmele. Credo che il senso di tutto questo si concentri a maggior ragione nell’istinto, nella reazione immediata a un determinato evento, al desiderio forte e incontrollabile d’effettuare qualche cosa, qualunque essa sia, ma che per noi era la più normale e straordinaria al mondo.
“Come posso dire che mi piace tirare con l’arco se non l’ho mai provato e quando accade il gesto mi risulta facile e corretto? Come posso altrettanto affermare di saper interloquire o esprimermi ad un vasto pubblico quando non l’ho mai fatto, però quando mi ritrovo di fronte a centinaia di persone mi sento a mio agio e pieno di me? Come posso sentirmi unico e speciale e tutte le persone che mi circondano me ne danno conferma? Come posso desiderare di conoscere una cultura e una civiltà completamente diversa dalla mia a partire dalla storia, seguendo con la lingua, alle usanze e ai caratteri somatici, a tutto ciò che caratterizza una popolazione da un’altra, e poi studiandola trovarla straordinariamente affascinante e famigliare. A volte non ci sono spiegazioni a determinate cose, esistono, si provano e si portano avanti con la consapevolezza che non si possa dare a tutto una spiegazione, a volte bisogna vivere e farsi trasportare dal nostro cuore e dalla nostra anima, perché questi ultimi conoscono cose e mondi che noi non riusciremo mai a comprendere.”
Le notizie alla tv susseguivano come le canzoni, ma erano solo da contorno ai miei pensieri. Avevo appena terminato di mangiare e ora mi preparavo a uscire, oggi sarebbe stato il mio primo giorno di palestra e speravo che un po’ di fortuna m’avrebbe aiutato, sebbene non riponevo in essa il mio futuro.










CAPITOLO CINQUE – Incontri inaspettati –


Praticamente la quota d’iscrizione e i primi tre mesi d’abbonamento, il minimo richiesto, mi scipparono tutto il malloppo, lasciandomi in tasca la cifra per una pizza. Con la mia bella tenuta, mi ero preparato con estrema calma, avviandomi agli attrezzi. Sbrigate le pratiche con il personal trainer, cominciavo a mettere in moto muscoli da tempo inutilizzati. Cercavo di perdere più tempo possibile, anche perché, oltre a non esserci molta gente, non avevo nient’altro da fare e l’unico mio obbiettivo per oggi era riuscire ad incontrare e conoscere il mio futuro collega di lavoro. Giusto per scaricare un po’ i nervi e visto che era passata più di un’ora, mi misi a correre un po’ sul tapis roulant ascoltando la musica diffusa dall’impianto centralizzato. Non mi garbava moltissimo, ma certo, non avevo a disposizione un Ipod, quindi mi sarei dovuto accontentare.
Mentre era intento a guardare il video che passava nel monitor posizionato di fronte a me della canzone “Welcome to Saint Tropez”, fantasticando sulla mia vita futura. Con gli occhi pieni ancora di quelle splendide ragazze, ecco che si era sovrapposta nella traiettoria del mio sguardo una creatura mitologica, Medusa. Rimasi impietrito al solo suo sguardo. Non una parola riuscii a pronunciare inizialmente, e la sorpresa mi fece quasi inciampare suoi miei passi. Lei se n’era accorta e aveva accennato un leggero sorriso, nascondendolo immediatamente con l’estremità delle dita. Era così carina e spontanea da provocarmi una tenerezza immensa.
“Ciao, non sapevo frequentassi questa palestra, ma è da molto che vieni?”
“Ciao, che sorpresa. Non sapevo che fossi iscritta qui, anche perché se lo avessi saputo sarei venuto decisamente prima. Comunque sì, direi che oggi è il mio primo giorno, vuoi farmi da personal trainer?”
“Eh eh, non credo che tu ne abbia bisogno, e poi Paolo laggiù potrebbe essere geloso, non so se capisci, appena l’ho salutato era indaffarato a guardare il tuo lato B, io starei attento…a meno che…”
“A meno che…cosa? Non vorrai mica scherzare, non che abbia qualcosa in contrario contro gli omosessuali, anzi, più ce ne sono e meglio è per me…visto che sono single…tu che dici?”
“Sei sempre il solito. Certo che molte volte sono proprio uno spreco, ce ne sono molti di così carini…va beh…fa nulla…ora però ti devo salutare, vado, ho il corso di step che mi aspetta, quanto rimani ancora?”
“Ad esser sincero non lo so, però un’altra oretta sicuramente.”
“Bene allora, ci vediamo quando esco, anche se sarò irriconoscibile e puzzolente.”
Beh, secondo me sarai ancora più carina, era quello che avevo pensato ma che non ero riuscito a dirle perché oramai si era allontanata.
Era stata una vera e fortunata coincidenza. Non mi sarei mai aspettato di vedere Isabel in quella palestra, anche perché non avevo la minima idea di dove abitasse e cosa facesse nella vita. L’avevo conosciuta una sera in discoteca, accompagnata a casa e poi mai più richiamata. A essere sincero non le avevo nemmeno chiesto nemmeno il numero di telefono, per quello ero rimasto pietrificato quando l’avevo vista. Coincidenze della vita, pensai, anche se a esser sincero, credevo che queste, non esistevano affatto. Erano come i tasselli del Tetris, i quali girandoli e guardandoli sotto prospettive diverse riuscivano a incastrarsi perfettamente con situazioni e luoghi a volte improbabili, divenendo una volta posizionati, semplici e naturali. A volte non provocavano alcuna reazione, lasciando il gioco immutato, altre volte lo scombussolavano, semplificandolo all’invero simile, o complicandolo in modo irreparabile, o almeno facendolo sembrare così.
Una serie di meccanismi e ingranaggi dai quali non possiamo rifiutarci di intrometterci perché così facendo smetteremo di vivere, ma anche allora, quell’ingranaggio continuerebbe nella sua macchinazione, e in modo prestabilito, irromperebbe nella nostra vita in modo semplice o tragico, ma sicuramente inaspettato, magari citofonando alla porta per una promozione pubblicitaria o passando sotto casa portando a spasso il cane.
Quando però queste coincidenze accadevano nella mia vita, ovvero mi si erano presentate d’avanti, ed io, solamente dopo qualche ora, o qualche giorno, rimembrando su ciò che mi era accaduto, e rendendomene conto a mente lucida, cercavo di darne una spiegazione logica e razionale, e se non ci riuscivo, ovvero ogni occasione, basavo la mia fiducia sul fato, sul destino peccaminoso e crudele che si abbatteva su ognuno di noi. La mia persona si smaterializzava dal corpo e come un burattino comandato da fili invisibili in mano ad una forza superiore, si lasciava guidare e comandare senza nulla potere o nulla fare, se non acconsentire a ogni ordine e movimento impressomi, anche perché se decidevo di intraprendere un’altra strada credevo che la stessa era già stata prestabilita in principio. Insomma tutto ciò che avevo fatto, che facevo, e che un domani avrei fatto, lo immaginavo scritto in un foglio invisibile che potevo solamente scoprirlo giorno dopo giorno. E vedendola sotto questo punto di vista, nulla sarebbe stato nuovo o lasciato al caso e tutto ciò che mi avrebbe circondato, le persone, i paesaggi, gli animali, era parte anch’essi di questo percorso, e volente o nolente non lo potevano cambiare, forse scegliere, anche se quella scelta sarebbe stata esclusivamente e psicologicamente relativa.

“Sai, non credevo mi aspettassi.”
“A dire il vero, nemmeno io. Caspita è passata più di un’ora e non me ne sono accorto, tra un esercizio e un altro il tempo è volato. Ma fatti guardare. Ma tu non dovevi uscire sconvolta, sudatissima e irriconoscibile?”
“Perché non lo sono?”
“Beh si, però era per dire che hai rispettato le tue premesse, però sei carina ugualmente.”
“Grazie, che carino che sei, ma non ci starai mica provando?”
La domanda mi aveva lasciato, come dire spiazzato, e solamente perché ero già accaldato dalla corsa sul tapine roulant che non arrossì maggiormente.
“Certo che no, se volevo provarci con te, t’invitavo a cena, non credi.”
“Ah ecco…vorrei ben vedere.” Esternando un bellissimo sorriso.
“Hai qualche impegno per questa sera?”
La domanda mi era uscita schietta e sincera, senza tener conto che non avevo nemmeno i soldi per offrirle una pizza, il massimo che sarei riuscito a permettermi, forse, era un panino al Mc Donalds, sempre che non avesse preso il menù completo. Insomma mi ero inguaiato con le mie stesse mani, per la prima volta, da che la memoria me lo concedeva, speravo che una ragazza non accettasse il mio invito.
“Che scemo che sei. Comunque sì.”
Ecco ero rovinato, e ora cosa le avrei detto?
“Eh…”
“Ma perché quella faccia? Mi hai chiesto se avevo qualche impegno e ti ho detto semplicemente di sì. Mi spiace. Ora devo scappare, continueremo la conversazione la prossima volta, magari domani se vieni.”
“Ok. A domani allora.”
“Buona serata.”
“Anche a te. Ciao.”
“Ciao.”
Mi piaceva. Questo suo atteggiamento cordiale e socievole nei miei confronti, senza sbilanciarsi troppo, e l’aver declinato il primo invito, mantenendo comunque l’argomento aperto per il giorno seguente, garantendomi la sua presenza, era il degno ingegno del sesso femminile. Forse ero io troppo ottimista nei suoi confronti e non capivo come al solito nulla sulle donne, oppure i segnali che mi stava mandando lì stavo percependo perfettamente e dovevo solamente cogliere il momento adatto per farmi avanti.

“Che diavolo stavo facendo.”
Pronunciai a bassa voce tra me e me, forse facendomi sentire dalle persone che passavano lì vicino, le quali effettivamente mi guardarono di sott’occhio quasi fossi uno psicopatico.
Il mio obbiettivo era incontrare e conoscere “Senna”, cercare di avvicinarlo e in qualche modo agganciare dei minimi contatti con lui, sperando di prenderne confidenza entro poco tempo e invece dopo che Isabel se n’era andata, senza pensarci su due volte, m’andai a fare la doccia prendendo l’uscita sempre con la sua immagine in testa, pensando solamente al giorno seguente, tempo in cui probabilmente l’avrei rivista. Questo sarebbe potuto essere anche naturale e accettabile per una persona qualunque, ma non per me, non dovevo perdermi su queste sciocchezze e debolezze, l’avevo fatto sino a qualche mese prima, e mi ero ripromesso che sarei dovuto cambiare. Questa era una nuova vita, maturata sugli errori del passato, perché era di sbagli che si stava parlando.
Uscivo dallo spogliatoio con la mente offuscata, e indispettito dal mio stesso comportamento. Aprendo la porta andai a sbattere contro la prima persona che avevo incrociato.
“Scusami.”
“Ehi, ma che cazzo fai? Non ci vedi. Che sei su un altro mondo?! Dai levati, hai intenzione di startene lì impalato come un mulo?”
“Oh, vedi di rilassarti. E dire che mi sono pure scusato, sai che ti dico, ma chi cazzo ti credi di essere? Se sei nano e non ti vedo non è mica colpa mia! Metti i tacchi la prossima volta, levati va che non riesco a uscire.”
Mi feci avanti dandogli una spallata. Il gesto improvviso gli fece perdere l’equilibrio e arretrare di qualche passo, ma questo mi aveva permesso di passare e raggiungere l’uscita della palestra.
Sentii la voce del personal trainer avvicinarsi nella nostra direzione.
“Senna, tutto bene, cos’è successo, qualche problema?”
“Tutto bene, tranquillo.”
Mi sentii il suo sguardo sulla schiena e ciò mi faceva molto piacere. Non avrei potuto far incontro migliore. Non sapevo se il gesto era stato dettato dalla coincidenza o dalla mia sbadataggine, sta di fatto che sebbene in un primo momento, non l’avessi riconosciuto, successivamente, approfittai della situazione per farmi vedere uno che non si faceva mettere i piedi in testa dal primo che passava, e la cosa non poteva essere che positiva.

Ero sceso dall’autobus e avevo cominciato a passeggiare per tornare a casa, sebbene non fosse proprio casa mia, bensì l’unico posto dove potevo andare. A esser sincero non riuscivo a capire perché l’avevo definito casa. E la risposta non potevo trovarla solamente nel fatto che avevo un tetto sotto al quale dormire, certo anche per questo, anche se dentro di me ero consapevole che era dovuto alle persone che animavano quell’ambiente, e nel loro modo di interagire con me. Erano incredibili, e giorno dopo giorno lì riuscivo ad apprezzare sempre di più, sebbene l’idea che avessi per la loro popolazione in linea generale, rimaneva comunque pessima.
L’imbrunire era sceso, sfumando i contorni dei palazzi con i suoi scuri colori.
Un solo pensiero avevo nella mente, ma più mi ronzava dentro e maggior era la volontà con cui cercavo di cacciarlo via, come si trattasse di una zanzara.
I suoi occhi stavano diventando lentamente il buco nero dei miei pensieri, le sue dimensioni erano piccolissime, ma gradualmente crescevano sino a riempirli completamente; la cosa m’affascinava ma mi faceva una paura immane. Anche perché ora come ora non avevo tempo da perdere con una donna. Avevo fissato un obbiettivo nella mia vita e l’avrei dovuto raggiungere in un modo o nell’altro, ma era altrettanto vero che un uomo non era un vero uomo se non aveva una donna al suo fianco che lo rispettava e lo sorreggeva nei momenti di sconforto qualora fossero entrati senza bussare. Non avrei dovuto fasciarmi la testa prima ancor di rompermela, ma vivere la cosa per come sarebbe andata, fatto sta che lei era veramente incantevole, e non potevo non desiderarla con tutto il mio corpo e la mia mente.

“Ehy Archimede, come va? Andata bene la giornata oggi?”
“Si si, tutto bene.”
Quel personaggio così fuori luogo e incredibilmente inaffidabile, era incarnato in una persona alta circa un metro e settanta, dalla corporatura esile e disidratata, e dal sorriso tutt’atro che perfetto. Quando sorrideva dei piccoli fori scuri,marchiavano il suo sorriso. I capelli neri crescevano a ciuffi qui e là, facendosi notare grazie alla loro lunghezza relativamente corta. Dimostrava molto più dei suoi 24 anni, ma non sembrava interessarsi della cosa, anzi, disprezzare la cura della sua persona, ora che lo conoscevo da poche ore, pareva un risultato cercato, e a dire il vero, pienamente trovato. I vestiti che indossava erano sempre stropicciati e solo saltuariamente profumati, anche se non potevo dire che emanasse un odore sgradevole, ma solo un po’ nauseante. In poche parole era l’opposto del fratello, il quale, anche a causa, o per fortuna del lavoro come interprete, doveva mantenere un certo tipo di dignità e pulizia. Ahmed invece vestita con delle semplici magliette da pochi euro, e dei pantaloni definibili quasi jeans, calzando ovviamente dei sandali, cosa che in casa ometteva puntualmente. Le unghie dei piedi, per com’erano tagliate, sembravano strappate via a morsi.
“Ho capito non hai fatto nulla come al tuo solito, e chi lo sente tuo fratello ora che torna a casa?!”
“Quello che spetta a me, spetta pure a te…non è che tu abbia fatto molto più di me, anzi, te ne sei andato in palestra, giusto?”
“Certo che sono andato in palestra, ma a te quello che faccio io non ti deve interessare, e poi ora come ora l’ultima cosa che mi serve è trovare un lavoro, ma questi non sono affari che ti riguardano, e poi sei tu quello che vive sulle spalle del fratello da anni e prima che tu possa aggiungere qualcosa, la mia sistemazione qui è momentanea, ancora pochi giorni e ringrazierò il sangue del tuo sangue dell’ospitalità che mi ha concesso.”
“Sai, pure io detto così, invece eccomi qua, sono mesi che vado avanti come te e credo che tu sarai uguale a me, poi che te ne frega se trovo lavoro o no, tu non mio parente.”
“C’hai ragione, ma sai che potresti fare, mi potresti aiutare.”
“Fare che cosa?”
“A imparare il marocchino, che ne dici, me la dai una mano?”
“Se paghi, ok.”
“Sei proprio un genio, vedi che faccio bene a chiamarti Archimede, ma con cosa diavolo ti pago se non ho i soldi nemmeno per l’alcool, me lo dici? E poi non ti ho mica chiesto un polmone cavolo, qualche parola al giorno.”
“Ok, è scusa per rimanere più tempo qua, ma ok, basta che non mi rompi, e se dico, oggi no, è oggi no, ok?”
“Si padrone.”
Proprio mentre terminavamo la conversazione ecco sentire il tintinnare delle chiavi fuori dalla porta e comparire dietro all’uscio Khan.
“Buona sera a tutti e due, com’è andata oggi?”
“Prima che tu possa dica qualcosa, io fatto nulla.”
“Ahmed di questo non avevo il minimo dubbio, tu invece Enrico com’è andata la giornata, fatto qualcosa di interessante?”
“Sono andato qualche ora in palestra a scaricare un po’ di tensione accumulata in questo periodo con la speranza di ri-integrarmi nella società, anche se credo che dovrò cambiare città per riuscire a costruirmi una nuova vita, dove nessuno abbia pregiudizi su di me.”
“I pregiudizi ce li hai tu nella tua testa, non ti devi far influenzare dal pensiero degli altri, ognuno di noi è quello che decide di essere, cosa dovrei dire io che, non appena arrivato in Italia e ancora oggi, tutte le persone per strada mi guardavano di sottecchi, e quando sanno che sono marocchino esternano i risentimenti che hanno sulla mia popolazione; tu sotto questo punto di vista sei avvantaggiato, ti basterà frequentare posti che non frequentavi e la conoscenza di persone nuove verrà automaticamente, e poi questa città è così grande che non avrai certo alcun problema a ricostruirti una vita. Una cosa ti consiglio, trovati un lavoro e con esso anche le amicizie verranno. Ma oltre allo sbirro non sai fare null’altro? Possibile che non conosci altri mestieri, o che ti piacciono altri lavori che magari vorresti imparare, sai non si è mai troppo vecchi per imparare cose nuove, anzi, tener la mente attiva aumenta il quoziente intellettivo, almeno così dicono.”
“Non è che non conosco altri lavori, o meglio, è così, però non ho voglia di cementarmi con altre cose e poi in questo periodo non riesco a sgomberare la mente come vorrei. Però a essere sincero un lavoro che mi è sempre piaciuto è quello del barista, stare al contatto con la gente, in mezzo alla musica, alle belle donne, insomma …”
“Si ho capito, all’alcool.”
“Beh, anche, perché no, comunque vedi, il barista, magari domani faccio una passeggiata e vado a chiedere nei locali che non frequentavo, giusto per non trovarmi a rispondere a domande imbarazzanti.”
“Oh bene, vedrai che piano piano riuscirai a sistemare la tua vita. Questa sera che facciamo di bello? Che ne dite se andiamo da Abdlak nel dopocena?”
“Per me va bene, non ho impegni, te Archimede vieni con noi oppure continui ad accecarti in bagno?”
“Ah ah, spiritoso, ma chi ci sarà?”
“Non so chi viene, ma dovremmo essere una decina di persone, dai sempre i soliti e poi cosa diavolo me lo chiedi ogni dannato giorno, solo per farmi dire le solite cose, comunque lì conosci tutti i miei amici, ci vieni o no?”
“Rimango qui ad accecarmi, come ha detto Fra, ma cosa significa?”
“Va beh, come preferisci. Ehy Enrico ti va di prendere un kebab al volo e poi andare da Abdlak?”
“Se offri te, per me va bene.”
“Dai scroccone andiamo.”
“Giuro che un giorno te li ritorno tutti questi soldi, e con gli interessi.”
“Si si, dicono tutti così, tanto lo so come va a finire, che ci ritroviamo tutti e tre davanti a una chiesa con il berretto in mano.”
“Eh eh, mi sa che ci vedi lungo te. Senti una cosa Khan. Ma Abdlak, che lavoro fa? Dove abita? Perché ho l’impressione di averlo già visto ma non ricordo più dove.”
“Abdlak? Lui ha una pizzeria da asporto in via Ferrarese. E non pensare male, non l’hai arrestato credimi. Ti dico io dove l’hai visto. Ti ricordi l’ultimo periodo che lavoravamo assieme?”
“Beh, certo che mi ricordo…perché?”
“Un giorno siamo andati a mangiare assieme, nella pausa pranzo, ti ricordi?”
“Certo…dai non farmi stare sulle spine, spiegati meglio.”
“Quel giorno mi eri venuto a prendere a casa perché vi serviva una traduzione urgente sull’indagine in corso, nel riportarmi indietro, considerato che nessuno dei due aveva cenato, ti avevo invitato a fermati nella pizzeria di Abdlak, e lì lo hai conosciuto.”
“Ah si, ora ricordo. E se non sbaglio c’era anche tuo fratello. Giusto?”
“Giusto.”
“E non ci sono più ritornato perché la pizza faceva schifo.”
“Ah, quello lo sai tu. A me piace.”
“Diciamo che la pizza è un’altra cosa…però ora comprendo come mai quella brutta faccia mi fosse famigliare.”
“Abdlak è una persona sulla quale ti puoi fidare. Ha passato momenti difficili, e come hai potuto constatare, lo hanno segnato, ma ora è una persona diversa.”
“Se lo dici tu mi fido. Dai andiamo se no si fa tardi.”

“Eccoci arrivati a casa di Abdlak. Prima di entrare, prendi la borsa che c’è nel bagagliaio…e dì che la offri tu. E non ti preoccupare, l’ho già inserita nel tuo debito.”
“Grazie, non saprò ringraziarti abbastanza.”
“Buona sera a tutti, Enrico ha voluto farvi una sorpresa e ha portato un po’ da bere. Abdlak spero che tu non abbia comperato troppe cose.”
“Beh, l’alcool non va a male, quindi se ne rimane lo teniamo per la prossima volta che ci vediamo a casa mia.”
Sin dalla prima volta che avevo visto Abdlak mi aveva dato un’impressione ambigua. Era un uomo sulla quarantina, e se non aveva quarant’anni di certo li portava maluccio. Solitamente mi era capitato di pensare che le persone paffutelle dimostrassero meno dell’età che avevano, ma nel caso suo era diverso. Il viso rovinato, per chissà quale assurdo motivo, e lo sguardo non troppo amichevole, lo rendeva una persona a primo impatto cattiva e con la quale era meglio non averci a che fare. Non importava se indossasse una camicia e un paio di jeans sgualciti, quando ci si ritrovava ad avere a che fare con Abdlak, datemi retta, era meglio girare i tacchi e andarsene. Teneva la barba sempre ben curata e i capelli rasati a pelo, apostrofandogli un’aurea scorbutica. Il suo modo di vestire poteva essere approssimativo, ma era comodo e di qualità, e di certo non lasciato al caso. Il sembrare leggermente trasandato faceva parte della sua persona e di certo gli serviva per nascondere qualcosa sotto ai vestiti.
Avevamo parcheggiato la macchina ai piedi di una palazzina dall’aspetto elegante, incastonata in due palazzi dall’ugual sembianza. Il quartiere trasmetteva signorilità e sicurezza. Le sue lavorazioni barocche lasciavano a bocca aperta chiunque si soffermasse ad ammirarle, e in quel tramonto, dettato dallo stupendo gioco di luci, il sacrilegio più grande sarebbe stato non degnarle di uno sguardo. Già posati i primi passi sull’asfalto, una leggera brezza primaverile cullava le note medio orientali fuoriuscenti dall’immobile del padrone di casa. Sebbene i miei sensi erano impegnati ad assorbire gli stimoli provenienti dal mondo esterno, il mio cuore pulsava per inalare la sua anidride carbonica. Una volta aperto l’uscio di casa e aver ricevuto gli onori da tutti i presenti, il mio sguardo si dannava in cerca della sua musa. Avevo voglia di vederla, sfiorarla, volevo ritrovare l’ossigeno dopo ore di agonia, ma non ci riuscii, perché lei non c’era. Mi rassegnai, e mettendomi comodo, cominciai a parlare con chi avevo più confidenza, l’alcool. Versai un po’ di lemon sul bicchiere di vodka e tutto venne più naturale. Proprio mentre mi stavo per riempire il secondo bicchiere ecco che la mia mano fu avvolta da un’altra mano, soffice e calda.
“Lascia, faccio io, se non ti dispiace.”
Il mio sguardo andò inizialmente alla mano posata sulla mia e lentamente a salire sul suo volto. Sentii una vampata di calore salirmi dallo stomaco sin alla testa, una sensazione tanto strana, quanto meravigliosa. Una volta che i nostri sguardi s’incrociarono, fu come se il mondo intorno si fosse fermato. Eravamo stati scagliati in un paese sconosciuto e noi eravamo gli unici due interpreti delle nostre parole. Non la conoscevo affatto ma la sentivo mia come non avevo mai sentito nessun’altra. Ora che le nostre mani erano tutt’una, non la volevo lasciare, non volevo spezzare quell’incantesimo meraviglioso e unico. Fu lei a sciogliere il legame per offrirmi da bere e com’era arrivata se ne andò lasciandomi come uno stoccafisso.
La seguii con lo sguardo, il suo ondeggiare tra il fumo dei narghilè, le donava un’aurea ancor più misteriosa. Dopo aver aspirato due/tre boccate, si fece trasportare del ritmo che risuonava nella casa. Quella melodia era qualcosa di magico e incantevole, il ritmo accoppiato al movimento di un corpo così perfetto e aggraziato mi lasciò a bocca aperta. Facevo scendere la bevanda minuziosamente preparata per aver l’autrice di quel servigio il più presto di nuovo accanto a me. Mi guardò assaporare la sua opera e una volta posato il bicchiere si defilò nel terrazzo che le stava alle spalle. Non potei non seguirla. In un primo momento le mie gambe cedettero come se avessi perso tutte le forze, rovinando sul divano. Fui preso del tutto in contropiede, non mi era mai capitato e sembrava che non volessero rispondere ai miei voleri, intanto dalla vetrata del terrazzo c’era Sophia che nella penombra controllava i miei movimenti. Riuscii a recuperare le forze e a deliziarmi della compagnia della mia incantatrice.
“Noi non possiamo fare quello che stiamo facendo.”
La guardai in modo incredulo.
“Cos’è che stiamo facendo?”
“Sai benissimo di cosa parlo. Anch’io ti sento vicino a me, ti desidero con ogni cellula del mio corpo, ma forse è l’alcool che parla. Però non posso…lo so che non mi capirai, però un giorno forse riusciremo a stare assieme.”
“Non ti capisco…”
“Nemmeno io riesco a capirmi.”
Con gli occhi che scrutavano l’orizzonte, come rapita da un’altra dimensione, aggiunse: “quando ti senti solo, rapito, indifeso e senti che il mondo ti crolla addosso, dove vai Enrico?”
La guardavo con curiosità senza riuscire a darle una risposta. Guardavo il profilo del suo volto, sprofondando nella luminosità della luna, riflessa dal suo occhio sinistro, senza riuscire a esternare i miei pensieri, ma questo per una semplice ragione, lei lì monopolizzava. Sino a che non concentrò la sua attenzione su di me.
“Sei mai stata ai giardini di villa Spada?”
Un’ombra vellutata e fulminea attraversò il suo sguardo e prima che potessi formulare qualsiasi pensiero o domanda, m’incalzò con la sua risposta.
“No. Non so dove siano. Mi ci porterai un giorno Enrico? Dimmi di sì, te ne prego. Anche se è una bugia, dimmi di sì, ne ho bisogno.”
“Sì. Andremmo. Andremmo lì, come in qualsiasi altro posto tu vorrai. A me basta stare con te.”
A quelle parole, il sorriso che mi aveva regalato, aveva illuminato quella notte d’estate. Poi d’un tratto e senza dire nulla più, entrò in casa lasciandomi a bocca aperta. Come un cretino la guardai andarsene. Non mi aveva dato l’opportunità di assimilare le sue parole e di replicare. Ma perché dirmi tutte quelle cose, perché colpirmi così duramente senza darmi una spiegazione? E perché era triste mentre lo diceva? Non ci capivo nulla. Non ci avevo mai capito nulla! Rimasi lì come un idiota a pensare e ripensare ai suoi discorsi, senza trovarne una giustificazione. Rincasai e annebbiai ciò che provavo con la vodka. L’alcool per me era come una spugna che riusciva inizialmente a confondere i lineamenti dei problemi, successivamente a marcarli in profondità, sino a trasmettermi le sensazioni peggiori che potevo provare, facendoli divenire i più importanti e insormontabili del mondo, e infine rimpicciolendoli in misura millesimale, almeno sino a che la sbornia sarebbe durata. Anche perché, arrivata la sveglia, ritornavano più forti e ridondanti che mai, accompagnati dall’amico d’avventure; il mal di testa.
Il suo comportamento mi mutò completamente, divenni un fantasma, una comparsa senza spirito e accondiscendenza. Non volevo parlare con nessuno, cercavo di distrarmi, di rilassarmi con la musica, ma sinché lei era lì a pochi metri da me non riuscivo a comportarmi diversamente. Di tanto in tanto scambiavo due parole e qualche battuta con i miei nuovi amici, ma non riuscivo a far nient’altro, come avrei potuto? Lei lo sapeva, lo percepiva, ma più cercavo in lei qualche carezza spirituale e più lei mi schiaffeggiava con il suo atteggiamento indifferente, gigioneggiante e irriverente. Presi il mio bicchiere, dopo averlo fatto straripare e uscii nuovamente in cerca di quiete.
Le luci dell’alba mi sorpresero. Il freddo cominciò ad attecchire la mia carne e il mio spirito. Il pavimento di legno della veranda aveva cullato il mio riposo come meglio aveva potuto e la coperta del cane, coadiuvata dal suo padrone, erano riusciti a farmi sentire meno solo. Nelle prime fasi del risveglio speravo che la creatura che stava accanto a me fosse tutt’altro che un Rotvailer, e invece, prima l’alito, e poi il suo pelo, mi avevano fatto tornare con i piedi per terra, anche se a lui sembrava non disgustare la mia compagnia.
Rientrai in casa. Tutti stavano dormendo, chi sul divano, chi per terra, ma lei non c’era e a dir la verità, il solo pensiero di sapere dove fosse in quel momento mi faceva venire il volta stomaco.
Presi le poche cose che avevo e me ne andai, avevo voglia di fare due passi e prendere una boccata d’aria fresca per ossigenare la mente e scacciare lontano il suo pensiero. Da quando l’avevo conosciuta sembrava che tutti i miei problemi fossero scomparsi e lei fosse la mia unica ragione di vita, l’unica dannazione reale per annientarmi l’anima.



La vita fa schifo. Mi accorgo giorno dopo giorno che questo pensiero mi accompagna in ogni singola giornata. Non importa che sia inverno o estate, che sia sobrio o ubriaco, che sia giorno oppure notte, non fa alcuna differenza, non riesco a mutarlo. Di tanto in tanto tendo a dimenticarmelo, ma puntualmente è sempre lì a rinfrescarmi la memoria, perché almeno in questa vita, sono sicuro che non avrò mai l’opportunità di essere veramente felice. La potrò inseguire, avvicinare, ma mai raggiungere. Riuscirò a beneficiare dei suoi influssi positivi ma non riuscirò a mangiarne i dolci frutti. Sento dire che la vita è una ruota, che gira un po’ per tutti, si ma in quella ruota credo non sia inserito il mio nome, perché chiunque mi circonda, a differenza mia, ha una vita normale e tranquilla. L’alcool anestetizza i pensieri del cuore. Non ho voglia e non ho forza di pensare. Mi basterebbe così poco per essere felice ma ciò non mi è concesso. Forse sono io che non mi accontento di ciò che mi si presenta d’avanti, ma è altrettanto vero che devo seguire il mio istinto per scegliere la strada giusta da seguire.
Ma che cos’ho che non va? Perché non riesco ad adattarmi, accontentarmi di chi mi sta intorno e mi desidera, perché allontano queste persone come fossero estranei, perché cerco sempre qualcosa in più, qualcosa che sino ad ora non ho mai trovato? Continuo comunque a cercare, ad alimentare la fiamma che brucia dentro di me, alla ricerca di qualcosa che nemmeno io conosco e del quale ignoro l’esistenza. Ma non riesco a fermarmi, ad assecondare la mia personalità, la mia coscienza, il mio istinto, guardo avanti, forse troppo, forse troppo poco, ma non riesco farne a meno, è come respirare e se smettessi potrei anche morire. Spero di terminare presto questa mia ricerca, spero di placare il mio animo e la mia mente, ho voglia di farlo e di innamorarmi.
Che cos’è l’Amore? E’ un sentimento strano e contorno ma allo stesso tempo semplice e sincero. Un istinto incontrollabile e irrefrenabile che ti fa vedere oltre qualsiasi ostacolo. Quando sei innamorato e la persona che ti sta accanto condivide pienamente questo desiderio è come essere in paradiso. Nessuno sa descrivere com’è il paradiso e se esista, ma quando nasce l’Amore per una persona e questo è corrisposto, la felicità invade tutto il tuo cuore, eliminando qualsiasi piega e ombra esistente sino a quel momento. Qualsiasi cosa accada, c’è una persona speciale che ti sta accanto, pronta a confortarti, ad ascoltarti, a consigliarti, insomma a condividere ogni momento, ed è felice di fare parte della tua vita, praticamente di te.
Cammino distrattamente per le vie della città incurante delle persone che incrocio e delle abitazioni che al mio passaggio tralascio, come fossero opere insignificanti e non degne d’ammirazione. Cerco di liberare la mente lanciandola in qualsiasi percorso mi volesse trasportare, incurante del mezzo con il quale farlo e del luogo da raggiungere. Un passo si sussegue all’altro, quasi per inerzia. Sento come se la mia ombra fosse rimasta a casa di Abdlak a dormire in compagnia di Attila e della sua coperta, mentre il corpo si è alzato e sta affrontato questo viaggio senza di essa, trasmettendomi una sensazione tutt’altro che conosciuta, non riuscendo a capire la differenza tra i sogni e la realtà. In queste due condizioni vedo la mia vita fragile e instabile, come se da un momento all’altro tutto si potesse capovolgere, facendomi ritrovare in un’altra dimensione senza che me ne accorgessi. Da un lato tutto questo è tanto affascinante quanto sconvolgente. È altrettanto vero però che non riesco a trovare un punto fisso sul quale concentrare le debolezze, evolvo la mia vita e i miei pensieri senza porvi un obbiettivo, perché tutto sembra tanto raggiungibile quanto distante. È una concezione alquanto paradossale ma della quale non riesco a scrollarmi di dosso, e ogni volta che mi avvicino a un obbiettivo, questo si allontana di altri dieci centimetri, è lì, lo vedo, mi basta solamente allungare la mano per poterlo afferrare ma non ci riesco, ho paura, paura di essere deluso da quello che mi può dare, mi piace vederlo lì, essere consapevole che mi basta spostarmi di soli dieci centimetri per suggellare ciò che desidero e quando il coraggio di fare questa scelta m’invade corpo e anima, ecco che si allontana nuovamente, destabilizzando il mio universo e con esso anche la sicurezza di me stesso. Cerco di analizzare i miei pensieri perché non riesco a comprendere il significato delle parole che ronzano nella mia testa. Penso alle esperienze passate, alle persone con le quali ho avuto la fortuna e sfortuna di condividere la mia vita. Insomma sono pensieri dettati dal subconscio e non riesco a darne una spiegazione. Forse sono dettati dall’alcool che continua ad alimentare i neuroni nella mia testa destabilizzandoli nel loro lavoro. Mille volte ho cercato di capire i miei pensieri e le mie azioni, ma ogni volta che ci provo, mi trovo a scoprire che non mi conosco affatto, e questo mi spaventa, sconvolgendomi.

Dal finestrino aperto della macchina di un teenager fermo al semaforo, la musica di Eminem conquistava i miei nervi… “Not Afraid” aumentando la rabbia e l’adrenalina che mi scorreva nelle vene. Avevo cominciato a cantare e a caricarmi. Non avevo motivo per farlo ma mi veniva naturale. Non dovevo. Avevo bisogno di stare calmo perché potevo fare delle stupidaggini. Mi ero messo a fissare il ragazzo al semaforo senza giustificazione, forse perché guardandolo era come se ricevessi direttamente quell’energia. Apprezzavo la musica e anche la macchina, un’Audi S3 bianco perla, dal tettuccio nero apribile. Quella non era una macchina, era un gioiellino, sarebbe stato il mio primo acquisto quando la vita avrebbe cominciato un po’ a girare. Ero curioso di vedere se al volante c’era il solito figlio di papà. Feci due passi avanti e con mio grande stupore vidi Senna. Il mio caro e vecchio amico Senna, quale coincidenza. Se solo avessi avuto un’auto degna di essere chiamata auto, l’avrei potuto stuzzicare per farci un giretto spinto per le vie della città, anche se a veder bene non era solo. Accanto a lui c’era una ragazza della quale però non riuscivo a vederne i lineamenti per scoprire chi fosse e se la conoscevo. Sapevo che era sposato e non diedi troppo peso a quella presenza, anche se averla conosciuta m’avrebbe agevolato la conoscenza della banda e non poco. Dal vetro abbassato sbucava il suo braccio completamente tatuato. Teneva la mano posata sull’esterno della carrozzeria, e tra le dita risaltava l’incandescenza di una sigaretta, a contorno dei numerosi anelli. Vedevo che indossava un paio di Rayban a goccia, colorandolo della fragile sicurezza appartenente alle persone che si sentono invincibili, e la quale sembrava riuscisse a proteggerle dal male del mondo. Sorrideva, assecondando la sua compagna, e di tanto di tanto si affacciava dal finestrino per espellere il fumo della “paglia”. Ebbene avevo scoperto che era anche mancino, ma non credo che sarebbe stato un dettaglio importante. Ero affascinato dal suo tatuaggio e non riuscivo a toglierli gli occhi di dosso. Era sempre stato un mio sogno, ma aimè, a causa del lavoro, non avevo la possibilità di farlo. Ora però sarebbe stato tutto diverso. Non appena l’autunno avrebbe cominciato a ingiallire i paesaggi, le mie braccia avrebbero cominciato a prendere un po’ di quel colore.
Distolsi l’attenzione dai due piccioncini, che sentii allontanarsi al verde, dietro il rombo del motore e la scia di rap americano. Ripensai alla mia vecchia auto, rinchiusa nel garage del mio avvocato, dove nessuno l’avrebbe potuta trovare e nessuno sarebbe riuscito a sequestrarla. L’unico inconveniente era che non potevo utilizzarla, e a dire il vero, quell’Audi TT nera, mi mancava da morire. Mi mancava il rombo del suo motore, la lancetta della benzina che scendeva a vista d’occhio non appena si premeva sull’acceleratore, ma ancor di più mi mancava guidare accarezzato dal vento, senza che una banale e inutile cappotta ostacolasse il filtrare dei raggi solari. Chissà quando sarei riuscito a guidarla nuovamente? Tutta quella storia era assurda. Ogni giorno che passava, ero convinto che mi stessero facendo uno scherzo. Io, sovrintendente della polizia di stato, che per il suo lavoro avevo sacrificato tutta la sua vita, ora mi trovavo per strada come se quegli anni e quell’impegno non era mai esistito. Oramai non gli importava più nulla. Mi ero rassegnato al fatto, che se così doveva andare, sarebbe andata così. Come detto, era il fato a scegliere per noi, non il contrario.

Il pensiero di poter cambiare il mio destino si faceva sempre più forte e insistente, ma il fatto che mi ritrovassi a condividere la vita con le solite persone mi scoraggiava. Dovevo cominciare a sbilanciarmi, allacciare nuove conoscenze, cambiare città. Avevo provato già diverse volte a fare tutto questo, ma poi mi ritrovavo a essere al punto di partenza, un po’ per pigrizia e un po’ per paura, ma forse questo era il momento adatto, non avevo scelta. Dovevo dare una svolta drastica alla mia vita, oppure sarei rimasto un poveraccio che si accontentava di quello che gli passava sotto il naso giorno dopo giorno. Non riuscivo a capacitarmi di come non riuscissi a sfuggire al mio destino, alla linea guida della vita, alla strada maestra tracciata per il mio cammino. Avevo voglia di uscire dal sentiero battuto e camminare sui prati verdi e colorati, con tutte le loro insidie e problematiche. Avevo voglia di vedere boschi e deserti, paesaggi belli e brutti, insomma volevo sentirmi vivo perché, se non facevo così, non sarei mai stato felice e avrei continuato a sentire il mio animo intrappolato in quel sentiero, come se ci fossero stati dei fili dell’alta tensione a impedirmi di uscire. L’oppressione che sentivo forse era uno stimolo per farmi cambiare drasticamente, prendere e gettarmi fuori pista. Giorno dopo giorno mi ripetevo che la vita era la mia, ne avevo una soltanto e non riuscivo a trovare una ragione sensata per far ammalare il mio cuore e la mia anima, e tutto perché non facevo quello che sentivo. Me l’ero sempre chiesto, e sino a quel momento avevo cercato di vivere senza rimorsi, senza svegliarmi la mattina con il pensiero: “e se avessi fatto così…e se fossi andato in quella parte del mondo…se solo avessi incontrato le persone giuste…se fossi andato a chiederle come si chiamava…se solo avessi avuto il coraggio di farmi avanti fregandomene delle persone che mi stavano attorno, riuscendo così a vivere la mia vita da protagonista e non da spettatore”

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