Читать онлайн книгу «Zenith» автора Saccinto Saccinto

Zenith
Saccinto Saccinto
Zenith è la storia di un ragazzo che attraversa la morte ed è costretto a salvare nove anime per poter tornare alla vita.
Lo sfondo dark in cui si delinea Zenith è quello della notte della morte del protagonista Sico. Di ritorno a casa con la sua moto, si muove sull'asfalto bagnato dalla pioggia che ha investito Colleterno con il collo incassato tra le spalle per il freddo e per la strana sensazione che qualcosa di orrendo lo stia inseguendo in attesa di poterlo sopraffare. Il vecchio cimitero sulla collina incombe con le sue luci spettrali, la presenza della morte si fa sempre più densa. Sico perde il controllo della moto e finisce giù da una scarpata. La sua morte segna l'inizio delle nove ore della notte. Ogni ora un'anima appena morta raggiungerà Sico. Lui dovrà tornare indietro a prima della morte di ogni anima per poterla salvare, per poterne salvare più di quante ne possa perdere. Soltanto in questo modo potrà tornare alla vita con le nove anime.

Stefano Saccinto
ZENITH

ISBN: 9788873043867

Proprietà letteraria riservata

© Stefano Saccinto

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Gli artwork e il layout di copertina sono stati elaborati da

© Phoenix Scolletta

Editore: Tektime
Questo libro è dedicato a chi si è preso la mia vita.


Certamente, se una concordia pressoché indissolubile connette le estremità finali dei primi elementi agli inizi dei secondi e unisce il calcagno di quelli che precedono alle teste di quelli che seguono immediatamente, tu sarai capace di abbracciare con la mente quell'aurea catena che si forma sempre tesa dal cielo alla terra; così pure, come puoi avere fatto una discesa dal cielo, facilmente potrai ritornare al cielo per una salita ordinata.
    (Da Le ombre delle idee di Giordano Bruno)


    Estate, 1998


Capitolo 1
Il cielo era iniziato a venire giù dalla mattina presto di una giornata dei primi di luglio. Una raffica di grosse gocce di pioggia che sembrava un semplice temporale estivo aveva continuato a battere per tutto il tempo Colleterno, un avvallamento di case e altri edifici, per lo più abbandonati, disteso tra sette colli come Roma. Un posto quasi del tutto disabitato. Si diceva che gli avessero dato quel nome per via del vecchio cimitero delimitato da un basso e irregolare muro di tufi che circondava l'intera vetta della collina più alta, relegata per sempre nel silenzio e nella solitudine della morte.
Le strade di Colleterno erano state invase da fiumi d’acqua che si rigiravano contro gli spigoli dei marciapiedi, lo scroscio insistente di centinaia di fontane echeggiava lungo i canali e si amplificava nelle vie fino a insinuarsi nella testa come un insopportabile sottofondo mentale. Il freddo e il buio erano scesi con la rapidità di un'inaspettata invasione organizzata da forze soprannaturali. Al di là del volume impressionante di acqua, le auto, i pali della luce, i muri, le ringhiere dei balconi e gli angoli dei palazzi erano diventati deformi, ammorbiditi dall'umidità, quasi malleabili.
Avevo passato il pomeriggio con la fronte poggiata al vetro della portafinestra appannato regolarmente dal respiro, in piedi, nascosto in silenzio dietro una tenda come un'ombra immobile attratta dal richiamo di qualcosa di invisibile, a guardare il cielo di luglio piovere sulle terrazze delle case e colare giù per le ruvide facciate, rivestendo le strade, gli alberi e tutto quanto di un velo di piombo liquefatto che rifletteva oscurità. La città si era come diluita in una dimensione senza luce.
La paura di qualcosa di indefinito mi aveva tenuto in piedi contro il vetro per tutto quel tempo. Poi, quando la pioggia aveva smesso di colpo, mi ero risvegliato da quello strano, lunghissimo torpore. Avevo sfossato dall'armadio qualche indumento invernale e avevo scavalcato con un bacio le urla di mia madre che non voleva che uscissi. Avevo tirato lo scooter fuori dal garage e mi ero messo in strada. Avevo disceso il viale di casa lentamente, paralizzato dal freddo dell'aria e dall'oscurità che avvolgeva ogni cosa, col mento dentro il collo della felpa, le maniche fin sopra le dita e il collo incassato nelle spalle.
La casa dei miei nonni era al termine di un labirinto di stradine che portavano in un vicolo cieco e male illuminato alla periferia di Colleterno. All'esterno era un cubo sormontato dalla ringhiera del terrazzo, dalla facciata da rifare e con un solo finestrino grande quanto un libro, in corrispondenza del bagno. All'interno era un'unica stanza a pianterreno comprensiva di cucina, camera da letto e soggiorno, senza finestre. Le pareti screpolate si riunivano in una buia volta che il grande lampadario laccato in oro, dai portalampadine a forma di candele dentro bolle di vetro sottile, quasi non arrivava a illuminare. La pavimentazione era fatta da ruvide mattonelle opache a macchie frastagliate gialle e nere, divise da fughe larghe dentro le quali si formava una caratteristica forma di sporcizia umida e nera.
In sequenza ravvicinata c’erano una stufa a legno per cucinare, il tavolo e il letto. Ai piedi del letto c'era una cassapanca simile alla bara che Django si trascina per tutto un film e di fronte un armadio di legno scuro. Sul fianco dell'armadio qualcuno aveva avuto l'idea di appendere una stampa di Dalì con un manichino in posa drammatica pieno di cassetti. In un angolo irraggiungibile della stanza, sopra il materasso, dalla parte in cui il letto affiancava il muro, c’era una piccola mensola. Un cero, che mia madre continuava a sostituire e tenere acceso, illuminava i volti in bianco e nero di quattro giovani in foto, morti tempo prima. I loro occhi, accesi dal riflesso della fiamma, sembravano muoversi per la stanza. Non sapevo né chi fossero e né perché qualcuno avesse deciso di mantenerli vivi sul piccolo altare, sapevo solo che ogni volta che avevo trovato il coraggio di avvicinarmi a guardarli, da qualche parte nella mia mente una porta si era aperta e aveva cigolato su un corridoio oscuro e io avevo lasciato perdere le foto e mi ero costretto a ignorarle finché la porta nella mia mente non si era chiusa di nuovo.
L'odore di vecchio aveva ormai impregnato qualsiasi cosa all'interno della casa e ogni volta che ci andavo, mia madre riusciva a capirlo soltanto annusandomi i vestiti. L'avrebbe capito anche quella volta, ma i miei nonni erano andati via da un pezzo, avevo una copia delle chiavi e io e i miei amici non avevamo un altro posto dove andare a vedere la semifinale.
Quando i clacson delle moto suonarono dietro la porta di entrata, schiacciai l'ennesima sigaretta nel portacenere e andai ad aprire con una mano sugli occhi per proteggermi dai fari. Alzai la testa. Un rivolo di acqua e ruggine serpeggiava nello spessore della plastica trasparente mentre le ultime gocce si staccavano dalla tettoia sopra la porta. Uno strano silenzio interiore, come un leggero abbassamento di pressione, mi fece salire un conato di vomito. Il sottofondo mentale era scomparso.
«Hai preso le birre?» Claudio si sfregò le mani fra loro, dopo aver parcheggiato la moto.
«Non ho preso niente» tornai dentro, lasciando la porta aperta.
«Male. Partita senza birre è come fumetti senza nuvolette».
«Allora accontentati di guardare le figure».
«Hai visto che giornata?» disse Paolo «Da quest'anno è ufficiale che l'inverno comincia il quattro luglio».
Tornai alla mia sedia davanti al tavolo di fronte alla specchiera.
«Sono da soli sedici anni su questa Terra, ma una cosa del genere non l'avevo mai vista» disse ancora Paolo.
«Come sta la nostra televisione? Ha sempre quel problema dell'audio che prende e non prende?» chiese Claudio. Poi lanciò il giubbotto da qualche parte sul letto.
«Non lo so. Guardavo il telegiornale ma non stavo ascoltando».
«Senza birre e senz'audio. Pensavo che scherzassi quando dicevi che avrei dovuto accontentarmi delle figure».
Si avvicinò alla televisione, dopo aver raccolto il telecomando dal tavolo.
«Questa stufa non si può accendere, vero?».
Girai la testa indietro verso Domenico. Richiuse la porta alle sue spalle.
«Vero».
«Basterebbe un po' di legna».
«Tecnicamente siamo ancora in estate. In estate non si fa deposito di legna. E fuori è un po' difficile trovarne di asciutta» disse Paolo.
«Ma, cazzo, fa freddo. Quel tavolo per esempio non ci serve. Non abbiamo neanche le birre da poggiare. Che ne dici, eh?».
Domenico si avvicinò lentamente al mio orecchio.
«Che ne dici?» sentii il calore del suo fiato.
Mi girai. Non credevo che stesse parlando con me. Tornai a guardare la televisione.
La morte, la morte.
Che strano pensiero.
«Keep silence. Sta per iniziare» disse qualcuno.
La fine.
L'audio fortunatamente c'era.
* * *
Restammo fuori dalla porta a gelare e a fumare l’ultima sigaretta della serata. Cercavamo di muoverci il più possibile sulle gambe e sprecavamo commenti su quanto la Croazia avesse meritato di vincere contro la Francia. In realtà le avevamo commissionato la vendetta per l’eliminazione dell’Italia, ma le cose non erano andate bene.
Dopo aver lanciato via il mio mozzicone, sollevai la sella per prendere il casco dal bauletto. Poi la lasciai ricadere, battendomi una coscia con la mano.
«La corrente».
Cercai il mazzo di chiavi nella tasca. Scartai la rana di gommapiuma e una a una tutte le chiavi fino a trovare quella giusta.
«Fa’ presto. Stiamo crepando» disse Claudio. Cercò di incassare contemporaneamente nuca e gola dentro il collo rialzato della maglia. Paolo fece più o meno la stessa cosa, seduto sulla moto dietro di lui.
«Andatevene a dormire. Chiudo e vi raggiungo nel mondo dei sogni».
«Mi sa che ti abbandono anch'io. Domani mattina presto parto per il campeggio. Roba di un mese. Speriamo di combinare qualcosa con qualcuna, questo è l’ultimo anno» disse Domenico mentre spingeva i talloni a terra per tirare indietro lo scooter.
Misero in moto. Andarono via.
La chiave scattò nella serratura, piegai su e giù la maniglia per sbloccarla. Scavalcai il gradino di ingresso e agitai una mano nel buio per scostare la tenda davanti al contatore. Staccai la corrente. Uscii fuori tirandomi dietro la porta, ruotai la chiave ma si bloccò a metà giro nella serratura. Riprovai un paio di volte, prima di fermarmi a guardarmi attorno.
Alle mie spalle, Colleterno finiva nella distesa di terra arida delle fornaci abbandonate dove lavatrici rotte, anacronistici scaldabagni, divani dalla stoffa lacerata e vecchie vasche da bagno dal fondo nero creavano uno scenario surreale emergendo tra i cactus dei fichi d'India che risalivano, a est, uno dei fianchi della collina del cimitero. Nelle notti di luna piena da lì si riuscivano a vedere persino le lapidi, ma era ancora più inquietante quando su grandi ammassi di nuvole si stagliavano soltanto i suoi contorni indicati dai camini delle due fornaci che puntavano verso il cielo come indici di gigantesche mani squadrate.
Strinsi le dita attorno alla chiave e piantai la suola dello scarpone contro il legno per sfilarla. L'accendino mi cadde dalla tasca e finì in una pozzanghera sotto il marciapiede. Mi piegai per prenderlo, bestemmiai e lo agitai per far venire fuori l’acqua. La ringhiera del terrazzo vibrò, come se ci fosse finito contro qualcosa. Un 'ombra sembrò muoversi sulla mia testa. La alzai di scatto verso il terrazzo e restai immobile a sentire i battiti del cuore accelerare all'improvviso.
Gli abissi del cielo si affacciavano, silenziosi, dalla ringhiera arrugginita, appesantiti da gigantesche masse livide che si spostavano lente come pachidermi. Nonostante non piovesse più da due ore, il carico di nuvole non si era ancora dissolto. Afferrai la chiave, tirai più forte che potevo, facendo tremare i vetri della porta finché non mi ritrovai il mazzo di chiavi nella mano. Lo rimisi in una tasca dei jeans, saltai sullo scooter, affondai il mento nel collo della felpa, misi in moto e mi avviai.
Svoltai nella prima stradina senza accelerare per riprendere la calma. I rami di un fico, simili a dita palmate, si alzavano da dietro un muro che finiva accanto a un sentiero di terra che costeggiava un vecchio casale dall'entrata senza porta. Sotto quell'albero c'era un aratro arrugginito che aveva fatto da postazione e campo base a molte avventure dei pomeriggi di quando ero bambino, ma non avevo mai pensato alla densità del buio che poteva radunarsi sotto le sue fronde di notte. Mi tenni a distanza persino dalla sua ombra.
La pavimentazione in pietra del viale principale si intravide oltre il passaggio tra due vecchie case. Mi fermai al centro della strada. Avevo la fronte e la nuca ghiacciate, le nocche intorpidite e doloranti per il freddo. Girai la testa verso il buio da cui provenivo. Il ginocchio della gamba su cui mi reggevo iniziò a tremare inspiegabilmente. Lo guardai per un attimo per farlo smettere.
Superai lo stretto passaggio con la bocca spalancata e lo sguardo sollevato per sorvegliare le finestre delle due vecchie abitazioni una di fronte all'altra come le sfingi guardiane della Storia infinita. Non si mosse nulla. Mi affacciai nel viale deserto. I muri delle case, i pali dei lampioni, i bidoni dell'immondizia e le saracinesche chiuse dei garage, perfino le pietre su cui giravano, lente, le ruote della mia moto, ogni cosa sembrava viva e addormentata. Nel silenzio crudo di quella notte sembrava di sentire i respiri che si sovrapponevano scompostamente uno all’altro. La mente debole e liquida ruotava intorno nella testa come l'acqua nello scarico del cesso. L’invisibile membrana della realtà si era rotta creando un passaggio che aveva permesso a qualcosa di spaventoso di riversarsi per le strade.
Seguii il lungo viale illuminato a distanza da qualunque cosa. Imboccai senza pensarci una scorciatoia che si snodava in una rete di stradine all'incrocio tra abitazioni malridotte, gran parte delle quali erano state sgomberate anni prima perché inagibili. Di un tetto a tegole era rimasto un costato di legno coperto da lamiere ondulate annerite. Tende di cellophane oscillavano come improvvise apparizioni nel vuoto delle finestre che si affacciavano sulla strada. Vecchi oggetti abbandonati creavano uno spettrale arredamento di ombre sulle pareti interne delle stanze, visibili da grossi squarci nei muri esterni. Le strade del quartiere disabitato si incrociavano deserte e silenziose come gli sterrati delle città fantasma di vecchi film western. Le attraversai andando a passo d'uomo con la moto a centro strada, cercando di non farmi impressionare troppo dagli strani cigolii e fruscii che venivano dal buio delle case.
Soltanto quando arrivai dall'altra parte del quartiere disabitato mi resi conto della strada che stavo percorrendo. La salita del vecchio monastero che portava alla curva delle nicchie e al ponticello di legno. Gli scricchiolii del ponte, la scarsa illuminazione, la vetta del cimitero che appariva con le migliaia di luci arancioni dal fitto tra i platani non erano una bella esperienza da vivere. Ma la cosa peggiore erano le nicchie. Erano disposte sul lungo muro di fianco all'entrata del monastero. Al loro interno stavano in piedi, immobili, nelle tuniche ormai logore, i corpi imbalsamati di alcuni dei monaci che avevano abitato un tempo il monastero. Erano nove, affiancati come statue col volto oscurato dall'ombra dei cappucci calati per nascondere le loro teste morte.
Andai avanti per un breve tratto di salita, superai un vicolo cieco sulla destra e costeggiai il cancello verde del monastero quasi fino all'angolo della strada. Mi fermai. La bocca dello svincolo in fondo alla salita, quello che portava alla curva delle nicchie, emanava un buio talmente denso da sembrare una specie di luce nera. Restai sovrappensiero a guardare il maiale adesivo mezzo staccato che strizzava l’occhio dallo sportello del bauletto sotto il manubrio. Quando eravamo piccoli scavalcavamo il cancello che circondava il monastero, salendo da un dislivello lungo il muro perimetrale, vicino a una cabina grigia della rete elettrica. A volte facevamo delle vere e proprie sfide di coraggio, giocavamo a chi riusciva a superare il cortile interno a croce e ad avvicinarsi di più ai corpi imbalsamati, prima di correre via dalla paura. Il monastero superava di parecchio persino il vecchio cimitero, per i giochi macabri.
Un giorno, uno dei miei compagni non venne a scuola. Il pomeriggio prima, in uno di quei giochi stupidi, aveva perso l'equilibrio mentre scavalcava e la punta di un'asta del cancello gli aveva infilzato una gamba. Era rimasto appeso con l'asta incastrata tra le ossa della gamba per diverso tempo prima che riuscissero a tirarlo giù. Da allora nessun bambino aveva più tentato di scavalcare il cancello verde. Avevamo trovato un'altra strada, più veloce e meno pericolosa, attraverso un canale di scolo sommerso dall'erba alta nel campo dietro il monastero, ma l'immagine di quel bambino appeso per una gamba era ormai diventata nelle nostre menti il segno che i monaci volevano restarsene per conto loro e che non amavano essere disturbati da nessun essere vivente.
Non volevo disturbarli neanche quella notte. Inclinai la moto per tornare indietro, dal quartiere disabitato al viale principale, e accelerai, ma frenai immediatamente. Le tapparelle di una finestra chiusa sul muro del vicolo cieco vibrarono mosse da un vento leggero, sotto la luce che andava e veniva da un lunga luce orizzontale al neon. C'era qualcosa, non era per fare lo stupido, che si era mosso oltre la finestra del vicolo cieco. Una presenza, niente di umano o di animale. La stessa presenza che avevo sentito sbattere contro la ringhiera del terrazzo. La presenza di qualcosa di non vivo.
Ti spalmerai la faccia a terra.
Di nuovo quella stupida voce. Spensi la moto. La sola idea che facesse tutto quel rumore mi aveva terrorizzato di colpo. Mi passai il dorso di una mano sulle labbra, continuavo a inumidirle con la lingua senza rendermene conto. Restai a decidere cosa fare senza muovermi, quasi senza respirare. Il terrore prese a salire insieme al ritmo del battito del cuore, sentivo improvvisamente caldo. Continuavo a credere impossibile quello che stava accadendo.
Il buio emerse allora dal vicolo cieco. Non era il buio normale, quello che si può immaginare di una stradina senza illuminazione in una notte senza luna. Era un buio denso, un'entità che non apparteneva alla realtà, un'oscurità che inghiottiva lentamente tutto ciò che raggiungeva. E dentro il buio, una strana figura di forma umanoide strisciava sul pavimento allungando un braccio nero sul terreno per spingersi in avanti, come se avesse sulle spalle il peso intero di tutto quel buio e fosse lui a trascinarselo dietro, lento, ma inarrestabile.
Era abbastanza. Ingoiai l'idea di attraversare lo strada che affiancava le nicchie. Spinsi i talloni a terra e tirai la moto dal manubrio per rimetterla in salita. La riaccesi e partii. Mi piegai in avanti per compensare la pendenza, svoltai nella strada che girava a elle intorno al monastero. L'aria gelida mi bruciava il viso mentre le ruote divoravano l'asfalto. Il cuore prese a colpire a ripetizione il petto come se volesse disintegrare la coltre di gelo che lo ricopriva. Il muro del monastero e il taglio del marciapiedi, lucidati dall'acqua, correvano ai bordi della mia visuale trasformati in scie eteree ingoiate dalla notte.
Una realtà imprecisa emergeva strato dopo strato dal buio e aggiungeva una piccola porzione di spazio per volta alla sequenza di vicoli già attraversati, prolungandosi senza fine. Era come se la distanza che mi separava dalla via per tornare a casa si allungasse sempre di più sotto il calore e la pressione degli pneumatici, dilatandosi fino all’inverosimile. Mi sembrò di aver corso per tutta la vita su quella moto dentro vicoli e stradine che si ripetevano all’infinito in una notte eterna, come in un gioco di scatole cinesi, senza arrivare mai alla fine.
Seguii l’angolo in cui si piegava la strada quasi senza rallentare. Inclinai talmente tanto la coda della moto che il taglio della gomma slittò sull’asfalto viscido. Riuscii a mettere una gamba a terra mentre lo scooter schizzava via verso il ciglio della strada alla mia destra. Lo seguii per un istante con la mano ancora stretta al manubrio, poi lo lasciai andare. Ruotò a terra su un fianco, leggero come una trottola, nello stridio acuto delle carene incise, finendo contro la staccionata che delimitava la strada. Andai a recuperarlo, mi rimisi in sella e accelerai talmente in fretta che la ruota slittò ancora, senza attrito. La gomma riprese contatto, spinse in avanti la moto di colpo, la ruota anteriore si sollevò per un attimo. In fondo al buio, al di là del ponticello di legno, vibravano le luci dell'ultima svolta per casa.
Mandai giù una sorsata di saliva quando, sui gradini oltre il muro sormontato dall’inferriata verde, l’ombra della prima figura incappucciata si sollevò come se fosse viva, proiettata dal faro della moto nella parte alta della nicchia. Strisciai il mento sulla spalla per girarmi indietro, all'altezza del cancello d’ingresso del monastero, poco prima di raggiungere il ponte di legno.
Dietro di me il mondo non esisteva più. Non era semplicemente immerso nell’oscurità, era definitivamente scomparso in un unico volume nero compatto che aveva assorbito ogni cosa. Le due linee appena visibili che definivano la strada, l’angolo alto in fondo al grande edificio del monastero, persino il cancello verde che dall’ultima svolta aveva preso a correre di asta in asta sul muro perimetrale, tutto si interrompeva senza un perché a metà strada. Da quel momento non riuscii più a disincantarmi dal buio e a tornare a guardare la strada davanti a me. La curvatura dell’asfalto diventava sempre più convessa, più liscia e viscida, la ruota posteriore girava troppo velocemente e slittava da una parte e dall'altra perdendo aderenza.
Le mani erano impietrite dal freddo, le labbra squarciate, la fronte dolorante, mentre dagli occhi lacrime ghiacciate si diramavano lungo il viso. Le ossa e i muscoli si indebolirono di colpo, iniziai a tremare senza controllo, per il freddo, per la paura. Mi resi conto del dolore sotto le unghie soltanto quando sentii che stringevano talmente tanto le manopole da scorticarle. Un'incalzante sequenza di passi in corsa batteva nelle pozzanghere ai bordi del buio che avanzava.
Chiusi gli occhi. Per un attimo le pupille si persero da qualche parte sotto le palpebre. L'asfalto si fece inconsistente sotto la ruota di avanti. Il manubrio diventò leggero come se stessi guidando su una lunga lastra di ghiaccio, iniziò a oscillare in maniera spaventosa, mi sbilanciai, la moto diede una svolta a destra e un netto contraccolpo a sinistra.
La ruota di avanti scivolò via, la moto scomparve sotto di me, la vidi riapparire qualche metro più avanti saltando e ruotando verso il ponte. Da qualche parte, nell'occhio sinistro, un lampo rosso esplose, trasformandosi in un muro d'asfalto. La faccia, la guancia, l’orecchio e la tempia bruciarono sulla strada. Fu come sbattere contro la superficie del tempo che si distorse irrimediabilmente nel paradosso immediato che nulla fosse mai accaduto.
Vidi la moto saltare sui dislivelli delle assi di legno del ponte, prima di scomparire nel buio. Il ponte si interrompeva a metà su un salto di almeno venti metri giù dalla collina, un albero di cui restavano solo le radici mezze divelte si era staccato dal fianco di terra ed era caduto sulla vecchia struttura di legno, sfondandola. La moto era stata ingoiata dal bosco sotto il ponte. Rotolai sui dislivelli delle assi fin dove il ponte si interrompeva, poi sentii il vuoto sotto di me e caddi in un'ondata di aria gelida che mi investiva la faccia gridandomi nelle orecchie un lamento spaventoso.
Rimbalzai sul terreno argilloso decine di metri più sotto, rotolai tra gli alberi come una bambola di pezza. Mi fermai con un braccio incastrato sotto la pancia, disteso a terra, sotto le fronde di un platano, con un occhio aperto e l'altro sprofondato nel fango. Non sentivo più freddo né rumori né alcun dolore. C’era solo l'odore della terra e delle foglie bagnate che saliva nelle narici. Davanti a quell'unico occhio si formarono lentamente delle immagini.
Lei mi veniva incontro in un pomeriggio di sole con un riflesso lucido intorno all’ombelico sotto la camicia azzurra. I suoi fianchi ruotavano tra le mie mani mentre si girava di spalle, la sua pelle diffondeva un profumo che soltanto io potevo sentire. Strisciavo le dita lungo una cucitura dei suoi jeans mentre mi sedevo a terra. Si voltava a guardarmi dall’alto, poi cercava posto nello spazio tra le mie gambe. Scostavo da una parte i suoi capelli, mi avvicinavo al suo collo. Lei inclinava la testa da un lato e si stringeva tutta, appena le mie labbra la sfioravano. La sua mano teneva la mia tra la sua guancia e la spalla. Poi la baciava piano.
Una lacrima calda scese dall’angolo dell’occhio aperto.
Le pareti cadevano a pezzi per l’umidità e scuri squarci di intonaco tumefatto si aprivano nell’alta volta sopra la mia testa. La luce dei lampi fotografava di tanto in tanto la stanza. La mia immagine appariva per un attimo nella grande specchiera di fronte. Ero seduto a una sedia di legno cigolante con gli scarponi poggiati sul tavolo, avevo una maglia nera pesante e un paio di jeans, aspettavo l'arrivo dei miei amici per la semifinale. Da un portacenere si innalzava il fumo di una sigaretta spenta alla meglio. Al telegiornale passava un servizio su un terremoto che aveva distrutto un’intera città da qualche parte in culo alla Russia. Il freddo era penetrato anche all’interno della casa, ce l'avevo nelle ossa, il freddo di una strana giornata di luglio che aveva spezzato quell’estate così lineare. Il vetro di una credenza rifletteva dallo schermo della televisione l'immagine di una scimmia in giacca e cravatta con un cappello da giullare sulla testa. I vecchi mobili, gonfi di anni trascorsi a resistere all’umidità, nascondevano in parte le marce pareti. La mia pelle sarebbe rimasta per sempre impregnata dall'odore di vecchio e di chiuso della casa dei nonni. Mia madre, il giorno dopo, avrebbe scoperto per l'ultima volta che ci ero stato, quando avrebbe annusato il mio cadavere.
Splendida fine.

Capitolo 2
Un piede puntato a terra si mosse, il tallone oscillò. Le nocche strisciarono nel fango, feci leva su un polso che non mi riusciva di girare, ma la fronte restò incollata al terreno. Mi tirai su. Lentamente. Trascinai gli scarponi verso la moto, la ruota davanti continuava a girare a vuoto con un cigolio incessante. Provai a rialzarla, ma non avevo forza. Iniziai a tossire, mentre indietreggiavo. Il sangue colava dalla faccia e dalla bocca, lunghe gocce si diluivano nel velo d’acqua steso in una pozzanghera.
Il silenzio si era fatto solido, come se ci fossero dei filtri o come se l'udito fosse stato compromesso dall'impatto. Il cervello sembrava essersi sganciato dal sostegno che lo reggeva fermo nella testa, i colori delle cose venivano fuori dai contorni, le linee si deformavano davanti ai miei occhi, gli oggetti intorno a me si muovevano mellifluamente, in maniera autonoma, persino sovrapponendosi.
Avvicinai lentamente un dito alla tempia, per rendermi conto dell’entità della ferita. Lo immersi nella morbida carne aperta e barcollai quando sfiorai il ruvido bordo tagliente, come di un dente spezzato, di un profondo spacco lungo il cranio. Ingoiai sangue. Macchie rosse diventavano nere e si allargavano tra i miei occhi e gli alberi, tra i miei occhi e il monastero in alto oltre il ponte distrutto, tra i miei occhi e la notte. Finché non oscurarono ogni cosa. Sul mio corpo si aprivano centinaia di ferite attraverso cui il buio penetrava come aria. Allungai un braccio per raggiungere il tronco di un albero davanti a me, ma quando infilai la mano nel buio, non era più dove avrebbe dovuto essere.
Iniziai a muovermi piano in avanti, con una mano alzata per trovare un punto di riferimento qualsiasi, ma ogni cosa giocava a starsene nascosta un centimetro oltre le mie dita. Tutto si era dissolto, la realtà non esisteva più. Era rimasto soltanto il freddo. Riuscivo a vedere le mie mani, le mie gambe, gli scarponi, ma intorno non c'era altro. Mi fermai, crollai col culo sul pavimento del buio. Mi passai le mani sulla faccia. C'era ancora.
Il propagarsi di un tonfo lontano fece vibrare il terreno sotto di me. Alzai la testa e mi guardai attorno. Qualcosa si muoveva sulla linea d'orizzonte alla mia destra con grande lentezza verso di me. Il buio non poteva oscurare neanche quell'immagine. Mi misi in piedi, mi voltai dall'altra parte e iniziai a camminare.
Dove stai andando? Qui non esiste una direzione.
Continuavo a guardarmi indietro per controllare la distanza che si allungava tra me e l’immagine in fondo al buio. Camminava così piano che dopo un po’ era scomparsa. Smisi di preoccuparmene, ma quando girai la testa in avanti, la rividi avanzare con la stessa pesantezza verso di me, come se le fossi andato incontro invece di distanziarla. Mi fermai. Mi girai in senso inverso e ripresi a camminare per un lungo tratto, ma successe la stessa cosa della prima volta. L’immagine mi seguì finché non fui abbastanza lontano, poi riapparve davanti a me, venendomi incontro.
Mi fermai di nuovo. Scelsi ancora un'altra traiettoria diversa e accelerai il passo. Ancora una volta il piccolo punto in luce si affievolì fino a non essere più visibile, soltanto per ricomparire nel nero davanti a me. Iniziai a correre nel vuoto, deviando ogni volta che vedevo l’immagine riapparire. Qualunque direzione prendessi, l’immagine tornava ad avanzare verso di me, come un riflesso in una serie di invisibili specchi che circondava il buio. Rallentai la corsa.
Non c'era un modo di fuggire o di nascondersi, potevo solo aspettare che la cosa che si muoveva nel buio mi raggiungesse. Tastai il terreno con una mano, mi misi a sedere, calai la testa tra le ginocchia e strinsi le braccia intorno alle gambe. I tonfi proseguirono, sempre con lo stesso ritmo, lento, ma continuo come l’ossessivo sgocciolare di un rubinetto che perde nella notte e prende una forma astratta all'interno di un sogno. Si avvicinavano senza che niente potesse fermarli. Non mi mossi, soltanto non riuscivo a smettere di tremare.
L'ultimo passo impattò contro la superficie qualche metro davanti a me e risalì lungo la colonna vertebrale. Un calore improvviso si diffuse sulla nuca quando la cosa emise un respiro. Un lungo lamento involontario venne fuori attraverso i miei denti digrignati. Sentivo una mole impressionante sospesa su di me. Oscillava piano a destra e sinistra, come se fosse in attesa di un mio movimento. Portai le dita della mano sinistra sulla tempia. La accarezzai delicatamente.

L'amalgama appiccicaticcio di sangue, carne e capelli che cercavo con i polpastrelli, non c'era. La ferita era scomparsa. Era tutto a posto, tutto pulito.
Questa non è la realtà.
Alzai lentamente la testa e spostai lo sguardo al di sopra delle ginocchia. Quattro enormi zampe di animale erano rivestite da una coltre di lunghi peli chiari. La pelle, di un rosa sporco, incrostata di melma e filamenti d’erba secca, era incisa da profonde rughe e cicatrici. Il collo mi diventò molle. Uno sconcertante grugno rosa espirava caldi sbuffi ritmati e rilasciava una bava arcuata giallastra. Davanti a me, un suino della taglia di un elefante sovrastava il buio. Lo guardavo senza riuscire a crederci, ma l'animale continuò a oscillare piano, storcendo di tanto in tanto la bocca per emettere un grugnito. I piccoli occhi pelosi mi osservavano.
Mi alzai con una calma irreale. L’enorme testa si mosse piano, attratta da qualcosa verso il basso, poi fece sobbalzare le orecchie leggere con uno schiocco di lingua e uno scatto improvviso di cui non sembrava capace. Abbassai lo sguardo. La mia mano era scomparsa nelle calde fauci fino al polso. Guardai le piccole pupille nere, lucide come se fossero di plastica, e tirai in maniera impercettibile il braccio. Era incastrato. Non feci in tempo a pensarlo che la testa del maiale scattò ancora in avanti di un po’. Dal gomito in giù, in un attimo, il braccio era tutto steso sul letto avvolgente di un quintale di lingua. Non capivo se dovermi preoccupare.
Piantai il palmo della mano sull’ovale umido del naso, infilai per sbaglio un dito in una narice e spinsi mentre tiravo il braccio incastrato più forte che potevo verso di me. Non si spostava di un millimetro. Continuai a fare forza e dare strattoni, cercai di afferrare e stringere qualcosa con la mano all’interno della bocca, ma il maiale restava impassibile. Aspettava che la smettessi. E quando mi fermai a riprendere fiato, con un altro scatto, mi avvolse la spalla, senza alcuno sforzo. Dovevo preoccuparmi.
La testa del maiale si sollevò lentamente. Ruotai il corpo intorno alla giuntura per seguirne il movimento ed evitare che si spezzasse e mi ritrovai con la faccia a pochi centimetri dal muso rosa. La bava giallastra si allungava sotto la mia ascella, ondeggiava e sfilacciava sul pavimento. Trattenni il respiro e smisi di dibattermi. Il maiale sembrò non avere atteso altro, spalancò le fauci e, con l’ostinata lentezza di un pachiderma, mi avviluppò la testa e le spalle.
La mia faccia si compresse sul fondo delle pareti umide della cavità orale, il mio corpo scivolò avanti e indietro risucchiato dalla gola. Un millimetro alla volta, il condotto si allargò, si adattò a me come una guaina di gomma. Iniziai a scendere giù, nel fondo dell’esofago. Una serie indefinita di pugni mi premevano addosso dappertutto e mi spingevano avanti nel condotto sempre più stretto e buio. Una membrana elastica come una busta di plastica aderì alla mia faccia impedendomi di respirare finché non si strappò e mi ritrovai affacciato alla bocca dello stomaco. Cercai un appiglio sui bordi scivolosi, non riuscii a trovarlo e slittai giù, in caduta libera.
Dal nulla si diffuse intorno a me la luce di un cielo disseminato di grandi nuvole bianche. Un orizzonte si assestava in lontananza con i riflessi d’oro di un’alba o di un tramonto. Un freddo flusso d’aria mi investì e mi spinse la felpa sotto il collo, lasciandomi a pancia scoperta nell’assordante fischiare del vento. Cercai di ricacciarla al suo posto per guardare in basso, ma non riuscii a vedere niente finché non venni fuori dall’ultima nuvola.
Mi sfracellai con un boato su un piano solido. Attorno a me si sollevò un immenso sbuffo di polvere. Restai immobile in una concentrazione di tempo infinita, in attesa che la coscienza si spegnesse definitivamente. Non provavo alcun dolore. Sentivo le mani e i piedi enormemente distanti. La mente si era frantumata in migliaia di schegge, ma la coscienza persisteva come un’ostinazione del dormiveglia.
Iniziai lentamente a radunare i pezzi rotti verso il centro del corpo. Provai a muovermi quando mi sembrò di avere di nuovo una consistenza. Mi alzai come un manichino scomposto, un braccio pendeva dal lato sbagliato del gomito, il collo aveva un’inclinazione innaturale, i jeans sembravano contenere un accumulo di frammenti. Le mani, dilatate fino a sembrare finte, si riassestarono sotto i miei occhi, le ginocchia scattarono in linea. Nel cranio e nella mandibola un formicolio delle ossa mi sistemò il volto.
Quando la nuvola di polvere si posò, dalla terrazza dove mi trovavo vidi una città in rovina che si estendeva, vuota e silenziosa, sotto di me. Era fatta di ammassi di case costruite una sopra l’altra in assurde arrampicate verso il cielo, talmente incastrate tra loro da sembrare inaccessibili. Mi girai intorno. La terrazza su cui ero finito era un quadrato senza vie d’uscita a mezza altezza su uno di quegli ammassi di case. Mi appoggiai al parapetto e guardai in alto. Uno squarcio di azzurro filtrava attraverso una finestra dietro cui non c’erano stanze né tetti. Il centro di un pavimento in forte pendenza a quadri larghi gialli e neri si trasformava senza motivo in un tetto di tegole. Una scalinata partiva da un davanzale per finire nel bel mezzo di un muro. Sulla stessa parete, un po’ più in alto, c’era una saracinesca grigia aperta a metà che nascondeva in parte uno specchio. Niente aveva senso. Era come se tutto fosse stato costruito senza l’intenzione di essere utilizzato, persino il grande ponte a campata unica che saltava da una parte all’altra l'intera città.
Sentii una leggera vibrazione sotto la pianta del piede. Ritirai lo sguardo in basso sulla linea all’angolo tra il pavimento e il parapetto e restai in attesa finché non vibrò ancora, assorbendo il propagarsi di un colpo battuto a terra in lontananza. Le vibrazioni si fecero sempre più forti fino a diventare veri e propri terremoti momentanei. Cercavo di bilanciarmi con movimenti in circolo dei piedi, stare troppo vicino al parapetto mi dava la sensazione di cadere di sotto. In un'apertura su un altissimo campanile dal tetto a mongolfiera, un’enorme campana dorata iniziò ad oscillare. Si inclinò espandendo un rintocco che echeggiò e si compattò contro i muri delle case. Dopo alcuni secondi ci fu un altro rintocco. Suonava a morto.
Al di sopra dell’insieme di terrazze costruito in fondo alla città, le lunghe corna di una giraffa salivano e scendevano al ritmo dei terremoti, sormontando una testa di dimensioni spaventose che passeggiò in parata sul collo lungo e dritto. Il corpo gonfio come una cornamusa era sorretto da esili e altissime gambe sbilenche che, impattando contro il terreno, propagavano le onde d’urto da cui erano investiti gli edifici. Tutto iniziò a tremare sotto i miei scarponi. Il terzo rintocco della campana fu scavalcato dal boato delle torri e dei palazzi che venivano giù, di lato, come se una mano gigante li stesse spingendo. Dopo poco la mano raggiunse anche l’insieme di case su cui mi trovavo. Una profonda crepa si ramificò in diagonale sul campanile. La parte superiore si inclinò trascinandosi la campana che rintoccò contro il muro.
Ripresi a cadere velocemente verso il basso. Le ultime cose che vidi furono l’alba o il tramonto che fluiva via, lontano, in un fascio di colori confusi tra i banchi di polvere che si alzavano. Uno sciabordio di acque si modulò sul fragore della città che crollava. Cadevo verso un’estesa superficie di acqua verde scuro che si intravedeva sotto uno strato di vapore. Nella penombra verdastra tutto intorno, ad altezze differenti, le entrate di alcune grotte si protendevano dalla parete rocciosa come bocche con denti di stalattiti e stalagmiti.
I piedi ruppero la superficie dell'acqua e mi trascinarono giù fino a sfiorare il fondo limaccioso che si intorbidì. Risalii lentamente agitando le braccia e mi tenni a galla muovendo le gambe. Da una sponda lontana qualcosa aveva preso la mia direzione, la vedevo emergere e immergersi in mezzo al vapore. Mi ripulii gli occhi con una mano, sputai fuori dai denti l'acqua entrata in bocca. Tra i bianchi addensamenti fumosi che ruotavano in circolo sullo stagno, il muso striato di alghe e limo di una gigantesca rana incideva la superficie delle acque, avvicinandosi. Sopra la sua schiena, una scimmia dal busto dritto la cavalcava con lo sguardo profondo di un marinaio di vedetta in attesa di scorgere terra.
La rana deviò verso una sponda a pochi metri da me, si tenne a un bordo con le zampe e mi guardò. La scimmia girò lentamente la testa e tese una mano. I suoi occhi sembravano occhi umani, tra le guance allargate in due batuffoli di peli bianchi. Nuotai verso di loro, afferrai la mano della scimmia e mi arrampicai con una mano alla parete melmosa e con l'altra al ginocchio della rana. Mi misi seduto dietro la scimmia e immersi le mani nella morbida pelliccia intorno alla sua vita. La rana abbandonò il bordo e si rimise in acqua. Incantai gli occhi sui peli sulla testa della scimmia che ogni tanto si girava a controllare che stessi ancora al mio posto. Percorremmo in silenzio lo stagno respirando vapore fino a una sponda lontana a cui la rana si aggrappò.
Mi lasciai andare all'indietro, scivolai in acqua e allargai le braccia per galleggiare. La rana venne giù dal bordo. Allungò le zampe posteriori e anteriori come se fosse morta di colpo e si inabissò, fino a che la superficie non raggiunse le spalle della scimmia. Poi l'acqua le sommerse del tutto. Immersi una mano sotto la superficie e la agitai, riuscii a intrecciare le dita tra i peli del volto della scimmia, cercai di scendere fino alle braccia, per prenderle una mano, ma ormai era andata giù. Galleggiai fino a riva e affondai i gomiti nella melma. Salii sul bordo, mi stesi a pancia in su, con le gambe ancora immerse in acqua. Restai a respirare per un po', poi mi rigirai per sedermi sulla sponda.
Sentii qualcosa nella tasca. Tirai fuori la bustina del tabacco, aprii la chiusura ermetica. Sia i filtri sia le cartine sia il tabacco al suo interno erano rimasti asciutti. Rullai una sigaretta, la infilai in bocca e sollevai una chiappa per prendere l’accendino dalla tasca posteriore dei jeans. Provai ad accenderlo, ma si era bagnato. Mi alzai e mi misi a camminare nel buio. Continuai a spingere la rotella dell’accendino mentre mi osservavo intorno. Forme appena visibili, curve come pance di donne incinte attraversate da vene nere, erano sospese nell'oscurità. Qualcosa sembrava muoversi al loro interno. Mi avvicinai a una pancia più grande delle altre nel momento in cui l'accendino aveva ripreso a funzionare. Portai la fiamma in avanti per fare luce, allungai una mano. Le dita passarono attraverso la superficie, come se fosse fatta di fumo, facendo vibrare tutto, ma quando ritirai la mano, la pancia riprese la sua forma.
Qualcosa cigolò in fondo al buio. Mi voltai e vidi in lontananza una porta nera senza pareti attorno. Mi avvicinai, la spinsi piano. Un lungo corridoio buio si proiettava su una nuova oscurità. Attraversai la porta e andai avanti. Arrivai in fondo al corridoio. Un abisso infinito si apriva sotto i miei piedi. Mi inclinai in avanti, tenendomi a una parete, e mi affacciai. Allungai un passo che restò sospeso nel vuoto. Oltre il corridoio non esisteva più niente.
Avvicinai l'accendino alla punta della sigaretta per darle fuoco, ma al contatto con la fiamma, il buio iniziò a incendiarsi come un gigantesco foglio di carta nera. Il chiarore si diffuse allargandosi concentricamente, scintille di fuliggine cadevano leggere dal cielo staccandosi dai bordi del buio bruciato dal fuoco. Una luce livida e fredda, una strana luce turchese, avanzò attraverso il buco che continuava ad allargarsi. Indietreggiai, mi misi una mano davanti agli occhi per vedere cosa si nascondeva al di là del buio.
Un sentiero di terra era steso in un campo di sterpaglia a pochi passi da me, fuori dal corridoio. La punta del piede attraversò il confine. La gramigna secca ai lati del sentiero si faceva più alta man mano che andavo avanti, lunghi e sottili giunchi si piegavano tetramente al vento in fondo al campo. Attraverso i banchi di nuvole che percorrevano il cielo notturno filtrava la presenza di stelle lontane che emanavano quel freddo chiarore turchese che si riversava su una prateria spoglia proiettata verso un’alta collina spettrale. Una corona di rovi, sulla quale scheletri di alberi allungavano le loro ombre, si infittiva alla base della collina. Un riflesso della luce turchese si stendeva sulle increspature di un corso d'acqua che proveniva da uno sfondo di colline più lontane e si immergeva tra i giunchi per riapparire al di là del canneto e superare il confine della prateria, serpeggiando per un tratto nel mezzo del nulla. Alla fine del sentiero si allargava un grande campo circolare di terra battuta, al riparo del fianco curvo verso l’interno della collina.
Quando arrivai al centro del campo, il terreno iniziò a vibrare sotto di me. Indietreggiai, inciampai nelle mie stesse scarpe e mi ritrovai seduto a guardare una gigantesca nuvola di terra che si gonfiava. Qualcosa stava risalendo dal profondo. Strisciai all’indietro. Il terremoto si fermò, la nube si disperse lentamente in direzione della collina. Davanti ai miei occhi si erano innalzate due enormi braccia emerse fino ai gomiti con i pugni serrati verso l'alto, completamente rivestite di rampicanti.
Le dita del pugno di sinistra si aprirono, lentamente, dal palmo rivolto al cielo. Una figura seduta, con la testa tra le gambe raccolte e le braccia intorno alle ginocchia, era nascosta dal morbido volume dei capelli ricci e castani. Le lunghe braccia sottili si distesero. Un collo esile sollevò la testa verso l’alto mentre le mani spinsero verso il basso, ai lati delle caviglie. Le ginocchia si portarono in avanti, rette dagli stinchi neri e lucidi. Occhi dalla lucentezza dorata mi guardarono dal viso di lucida ossidiana di una ragazza dalla bellezza impossibile che si metteva in piedi.
Aveva le braccia nelle maniche bianche di una vestaglia che scendeva lungo i fianchi e lungo l'esterno delle gambe e lasciava nuda la parte centrale del seno, del ventre, dell’incisione dell’ombelico e dell’incontro fra le cosce nere e lucide. Bianchi arabeschi di stoffa attraversavano la parte scoperta e univano i due lembi della veste che ondeggiava nella brezza notturna. La ragazza si affacciò dal palmo della mano gigante, con la faccia incuriosita.
«Tu» disse. Il riverbero della sua voce era simile a un lamento di balena «Hai camminato attraverso il nulla e la sostanza eterea dei tuoi sogni. Sai perché sei qui?».
Scossi la testa.
«La realtà si è frantumata, qualcosa di soprannaturale è accaduto, qualcosa che succede una volta ogni generazione» le sue labbra modulavano le parole lentamente, quasi in ritardo rispetto alla voce. Il corpo si muoveva languidamente, come se fosse immerso in un fluido attraverso cui parlava.
Voltò la testa alla sua sinistra, tra i capelli si intravedeva l’incredibile lucentezza della nuca. Il pugno rivesito di rampicanti sulla destra si aprì. Un’altra figura piegata, avvolta da una morbida massa di capelli ricci e biondi iniziò a stiracchiarsi come se si fosse appena svegliata. Due mani bianche, dalle dita lunghe e sottili, sollevarono i capelli sopra la fronte. Gli zigomi sporgenti, attraversati da riflessi azzurri, tendevano la pelle delle guance bianca e lucida come alabastro. Anche il suo corpo era nudo, dentro il vestito nero unito da ricami sul seno bianco e pieno, sul ventre morbido, sulle gambe scolpite. Si alzò in piedi e si affacciò come aveva fatto l’altra, osservandomi con gli occhi d’argento.
«Una volta ogni generazione» disse. La sua voce era come un rumore, un disturbo, come il crepitio del ghiaccio che si incrina.
«In una notte d’inverno che ha invaso l'estate» iniziò la prima voce «Un’essenza sente il presagio della morte che la sta cercando. I suoi sensi si allertano e si acuiscono fino a permetterle di vedere l'invisibile, di sentire il silenzio, di credere all'incredibile e di affacciarsi su una dimensione oscura, al di là della vita, prima ancora che la morte sia riuscita ad afferrarla».
«Da una porta aperta tra le due dimensioni è possibile guardare la morte dalla vita, ma è anche possibile guardare al contrario, la vita dalla morte. La morte sopraggiunge, la porta resta aperta, l’essenza non è più viva, non è ancora morta, non del tutto. La morte non può impossessarsene completamente, ma soltanto per una notte. Questa è una di quelle notti» continuò la seconda voce.
«Tu sei l’essenza che ha sentito la morte arrivare, le sei sfuggito attraverso il passaggio che hai lasciato aperto. Hai portato la morte nella vita e la vita nella morte, hai generato un paradosso che dovrai risolvere fino alla fine di questa notte, quando la porta dovrà essere di nuovo chiusa» concluse la prima voce.
L’eco delle due voci mi volteggiò intorno come un vento che saliva a spirale, intrecciandole. Chiusi e riaprii gli occhi un paio di volte, guardai prima una e poi l'altra ragazza. Avevano un’età indefinita. Alcuni riflessi, sui loro volti, rischiaravano lineamenti morbidi di adolescenti, altri tagli di luce incidevano profonde rughe sulla loro pelle. Mi portai le mani alle tempie, cercai di contenere la velocità con cui avevano preso a rincorrersi i pensieri.
«D’accordo» dissi «L’unica cosa che si è aperta questa sera è stata la mia testa. C’era una crepa larga quanto un dito proprio qui, sulla tempia, che deve aver danneggiato il cervello, ma non importa. Come avete fatto ad apparire? E come si fa ad uscire da questa allucinazione?».
«Non siamo apparse per nostra volontà, non senza che tu ci abbia cercato» la ragazza dalla pelle bianca aprì un braccio verso l'altra per poi ripiegarlo su di sé.
«Tu ci hai chiamate».
«Io?».
Io le ho chiamate.
Ancora quella stupida voce nella testa. Mi guardai attorno.
«Nove anime» ricominciò la prima voce «raggiungeranno la collina, questa notte».
«Nove anime in bilico. Attraverseranno il confine e resteranno sospese».
«La tua essenza potrà cambiare gli eventi e salvarle, se saprai orientarti nel buio».
Il terreno riprese a tremare. Indietreggiai senza sapere dove direzionare lo sguardo e i piedi. Una base di piramide sormontata da una lunga e stretta torre dalle pareti devastate dal tempo venne fuori dal terreno da qualche parte a est, come era successo poco prima con le due braccia rivestite di rampicanti. Sulla facciata rivolta a noi, nove alte finestre ad arco erano in linea con la grande entrata alla base.
«Avrai nove ore».
«La torre resterà in attesa di ognuna delle anime».
«Fino al termine di questa notte».
«Finché non avrai fatto la tua ultima scelta».
«Ognuna delle vostre vite sarà restituita se salverai più anime di quante ne perderai».
«Nessuna delle vostre vite sarà restituita se perderai più anime di quante ne salverai».
«In un’unica sorte comune di cui sarai responsabile».
Si sollevò un silenzio attraversato da centinaia di sussurri che si prolungavano in echi ossessivi nella piccola valle.
«Non sono stato capace di salvare neppure la mia vita» dissi, indicando al di là del buio alle mie spalle. Ma i due pugni di rampicanti si stavano già richiudendo.
Mi ritrovai tra le dita la sigaretta che non avevo più acceso alla fine del corridoio. La guardai, la feci rotolare nel palmo. Non avevo più nessuna voglia di fumare, ma la accesi lo stesso.

Capitolo 3
La prima anima non aveva le sembianze di un’anima. Era un ragazzo lungo e magro con le spalle a spigoli. Portava una giacca e un paio di pantaloni grigio chiaro, una camicia bianca aperta sul collo e scarpe nere. Avanzava tra l'erba alta e rada con le ginocchia sollevate. Gli occhi castani dalle ciglia lunghe mi guardavano sopra un naso con la punta schiacciata sul volto rettangolare. La strana lucentezza della pelle la faceva sembrare vagamente plastificata.
«Pensavo che non avrei trovato nessuno qui. Sono venti minuti che cammino» disse. Fece altri due ampi passi e si fermò, allungò una mano «Ambrose Denitti. Designer di interni. Interni di lusso».
Il polso della camicia venne fuori dalla manica della giacca. Trattenne il fianco della stessa con l'altra mano.
«Che razza di situazione» dissi. Mi alzai da terra, dalla sterpaglia dove me n'ero stato seduto fino ad allora. Strinsi la mano davanti a me.
«Sico» dissi.
La fronte dell'anima si corrugò. Tirai un'ultima boccata dalla terza o quarta sigaretta da quando ero arrivato, prima di schiacciarla sotto la punta dello scarpone. Le spalle appuntite traslarono di lato per farmi spazio. Mi allungai verso il sentiero.
«Ho l'auto che si è fermata sulla statale. Non so che cosa le sia preso, non mi ha mai dato problemi. Per quello che l’ho pagata, c’è da non crederci. A dire il vero devo essere uscito un po' fuori strada» fece frusciare la giacca, allungando un braccio all'indietro mentre mi camminava accanto «Ho provato a contattare il soccorso stradale, ma non c'è campo» controllò il display di un grosso cellulare, ticchettandoci sopra con due dita «Non è che mi faresti provare con il tuo?» mi puntò con l’antenna del telefono.
Scossi la testa e alzai le spalle.
L’aria intorno a noi era cambiata, un vento leggero si era alzato, mentre nel cielo le nuvole si assottigliavano piano.
«Posso pagarti la telefonata» disse l’anima, allargando le braccia.
Mi fermai, mi girai verso di lui «Non ho un telefono» dissi.
«Va bene, va bene. Facciamo così: vieni con me fino alla macchina e resta almeno a controllarla mentre io cerco aiuto».
Feci ancora no con la testa.
«Senti, sei l'unico che può aiutarmi. Non vedo nessun altro qui,» fece un giro completo su se stesso «ho un Porsche Boxster grigio metallizzato con tettuccio apribile automatico e interni in pelle rossa immatricolato sei mesi fa, fermo fuori strada a non so quanti chilometri. Che dici, vogliamo lasciarlo lì incustodito per molto?».
Ripresi a camminare, il ragazzo mi seguì. Scavalcammo l'erba alta ai bordi del sentiero per avvicinarci alle due braccia di rampicanti. Gli ultimi steli di gramigna gli finirono dentro i pantaloni, scostò la gamba con rabbia e assestò un calcio a un cespuglio rinsecchito, sradicandolo. Bestemmiò qualcosa tra sé e sé.
«Domani sono pieno di appuntamenti, devo chiudere due contratti importanti. Non posso stare qui a perdere tempo con te, ma mi serve il tuo aiuto» si fermò.
Una mano lanciò il telefono all’altra, scivolò sotto la stoffa della giacca e cavò un portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni. Lo aprì con il pollice. Tirò fuori con l’indice e il medio un pezzo da cinquanta e lo sventolò verso di me. Il riflesso bianco spalmato sulla punta piatta del naso lo faceva sembrare ridicolo.
«Prendili, dài». Credeva di essere ancora vivo.
La morte è un concetto relativo. Basta solo andarci oltre.
«Ti è mai capitato» dissi «di pensare a qualcosa che non abbia a che fare con la tua vita?».
«Che cosa vuoi dire?».
«Che dovresti pensare di rinunciare ai tuoi appuntamenti».
«Dici che andrà via tutta la notte per tirare fuori la macchina?» gettò il pollice alle sue spalle. La banconota scivolò di nuovo nell’apertura di pelle. La mano scomparve dietro il suo culo.
«Dico che adesso è tardi per pensare a queste cose».
«Dici?».
«Dico che sei morto».
«Morto? Che cosa vuoi dire con morto?».
«Tutto quel buio l’hai visto? L’erba che comincia di punto in bianco nel vuoto? Questa strana luce turchese, queste due braccia enormi che vengono fuori dal terreno?» poggiai una mano sul braccio più vicino, appena raggiunto «Ti sembra la vita, questa? Ti sembra la realtà?».
Si allontanò di qualche passo, si puntò addosso le dita di entrambe le mani.
«E io? Ti sembro uno che è morto? Non lo vedi che sto in piedi? Sono solo uscito fuori strada. Certo, devo aver tamponato qualcosa, adesso non ricordo. Ma poi ho camminato fino a qui» quasi urlò.
I due pugni giganti, con le foglie prese da un leggero fremito, iniziarono a schiudersi sopra di noi. Ci spostammo più indietro. Le ragazze si sollevarono, Ambrose si ritrasse alla loro vista. La ragazza vestita di bianco gli accennò un invito ad avvicinarsi. Il suo viso continuava a mutare. Adesso sembrava quello di una adolescente e anche il suo corpo non era più quello di una donna, le braccia e le gambe si erano fatte più esili e i seni neri, che erano stati sodi, adesso erano appena accennati.
«Che cosa ci fanno nude? Chi sono?» Ambrose si rivolse a me.
Alzai le spalle.
«Ambrose» iniziò la voce della ragazza vestita di nero «Hai ventisei anni. Li hai attraversati tutti senza un solo piccolo dolore e senza un solo piccolo affetto. Non hai mai conosciuto sacrifici o rinunce. Ti sei ritrovato a ventitré anni a capo dell’azienda di tuo padre, senza un percorso di studi, senza alcun merito, ma per diritto di discendenza. Nei giorni della sua morte, non provavi niente. Soltanto la voglia irrefrenabile di prendere possesso dei tuoi nuovi beni per vivere una vita dinamica, in continuo movimento e in continua mutazione. Hai iniziato a cambiare auto e donne come un bambino che fa presto a dimenticare un gioco vecchio per uno nuovo. La tua vita è stata una corsa continua lontano dalla verità che ti sembrava così noiosa e statica. Una vita di continue bugie. Dette a chi? Dette a te stesso. Che ne pensi, hai avuto una morte abbastanza dinamica?».
«Io non sono morto» scattò di nuovo il ragazzo «Mi si è fermata l’auto. Ho avuto un piccolo incidente mentre rientravo. Ho sbattuto contro qualcosa, ma non è stato niente di grave. Vi sto parlando, sono davanti ai vostri occhi. Non sono morto» tentò di convincerci agitando il cellulare.
«Mente a se stesso, come ha sempre fatto, tanto da aver confuso la verità con le sue bugie. Non è in grado di ricordare. E oramai non c'è più tempo. La sua auto corre a grande velocità lungo una strada di campagna. Un sorpasso azzardato nei pressi di un dosso spezzerà la sua vita questa sera. Dovrai evitare l’impatto» la ragazza dal vestito bianco si rivolse a me.
«O lasciare che la morte faccia il suo corso» aggiunse l'altra, con lo sguardo fisso sul volto di Ambrose.
«Tieni a mente che alla sua sono legate tutte le altre vite. A partire dalla tua».
Le dita delle mani da cui ci parlavano iniziarono a richiudersi. Le due ragazze si sedettero senza smettere di guardarci.
«Aspettate» Ambrose riprese ad agitarsi nel completo grigio «Voi non lo sapete, non potete saperne niente, della mia vita e di quello che mi è successo. Voglio sapere chi vi ha detto quelle cose su mio padre, voglio sapere chi siete».
«Siamo spiriti della morte» un sussurro filtrò attraverso il sorriso che sezionò il viso della ragazza dalla pelle bianca «Lei è la Dolce Illusione. Io sono la Pura Verità».
I pugni si serrarono definitivamente, Ambrose si girò verso di me, indicandoli con la punta del telefono tesa alla fine del braccio alle sue spalle.
«Ma lo senti come parlano, lo senti cosa dicono? Sono completamente pazze. E tu credi alle loro cazzate?».
«Io non credo a niente» mi avviai verso il buio.
«Aspetta» la mano di Ambrose mi afferrò una spalla. Mi girai. «Dove stai andando?» chiese.
«Non lo so».
«Benissimo, vuol dire che verrò con te» fece per infilarsi il telefono in tasca. Come uno sciabolare di enormi lamiere, le pareti nere volteggiarono nell’aria del buio immenso davanti ai nostri occhi, al di là del prato turchese, per ricomporre il corridoio oscuro. La mano di Ambrose scivolò giù dalla mia spalla.
«Sei sicuro?» gli chiesi. «Non direi». «Perfetto». Ripresi la via. Questa volta la prima anima se ne restò ferma ad aspettare.
* * *
Le nuvole avevano ripreso ad ammassarsi nel cielo sopra la statale srotolata dai contorni vaghi di una città lontana come un lungo tappeto d’asfalto steso in un saliscendi infinito verso la notte. Camminavo affianco al guardrail con gli occhi puntati a terra e calciavo una pietra per farla rotolare in salita. Continuavo a strofinarmi le mani per il freddo.
Non avevo mai avuto un'allucinazione così realistica. In realtà non avevo mai avuto alcuna allucinazione, neppure quando da piccolo lo schienale della sella della bici di un mio amico si era infilato nel manubrio della mia bici mentre impennava e tornando a terra mi aveva catapultato all'indietro facendomi svenire. Non lo so quanto ero stato vicino alla morte quella volta, ma ricordo soltanto un buio leggero e un silenzio di pace. Niente porci giganti o cose del genere. Niente colline tetre, niente anime da salvare per tornare alla vita.
Dietro un vecchio cancello arancione, una lampadina lasciata accesa illuminava i tavoli quadrati e le panche di legno accatastati nel cortile di una balera. Tristi triangoli colorati ondeggiavano nell’aria su un filo sospeso da una parte all’altra del cortile. Il buio si insinuava nei cunicoli contorti tra gli ulivi tutto intorno. Ogni tanto qualcosa si muoveva in mezzo all'erba della campagna. Lanciavo un'occhiata di sfuggita e andavo avanti. Una civetta si alzò in volo dalla chioma di un albero vicino, le grandi ali scure si distesero contro il cielo rossastro, facendomi finire al centro della strada. Mi chiedevo che fine aveva fatto il mondo. Colleterno, Domenico, Claudio, Paolo, i miei unici amici. I miei genitori. Mi chiedevo di Lei.
Mi chiedevo quanto fossero lontani e cosa stesse facendo ognuno di loro. Stavano dormendo di sicuro. Forse vagando attraverso i loro sogni, avrebbero potuto incrociare i miei e intravedermi, avremmo potuto incontrarci ancora. Oppure tutto iniziava davvero a finire e non avrei mai più visto nessuno di loro. Non si sopravvive a una cosa come quella che mi era capitata. Questo non era nient'altro che l'ultimo sogno di un uomo già morto, un film per un solo spettatore, un sogno vivido come un'altra forma di realtà viva dall'altra parte della notte. Mi sentivo perso in una solitudine definitiva, come quando avevo ascoltato per la prima volta quella tristissima canzone degli Smashing Pumpkins, For Martha, di un disco che Claudio aveva comprato da poco. Un incredibile senso di abbandono mi gelò per un attimo e mi fece salire le lacrime agli occhi. Ingoiai, mi strinsi a me, continuai a strisciare gli scarponi sull'asfalto.
Raggiunsi l’unico dosso visibile nel raggio di alcuni chilometri, subito dopo una stazione di servizio, e mi voltai indietro a guardare. Non c’erano fari in avvicinamento, tutto sembrava tranquillo. Mi appoggiai al guardrail col fondo dei jeans, ci sedetti sopra, poi presi a colpirlo a ritmo con i talloni. Tirai fuori tabacco, filtri e cartine. Nella leggera foschia che iniziava a sollevarsi dal terreno, mi venne in mente una storia che Domenico ci raccontava spesso. Diceva che era accaduta veramente, ma aveva tutte le caratteristiche di una leggenda metropolitana.
Una notte suo zio rientrava da un lungo viaggio in macchina con la famiglia. A un centinaio di chilometri da Torino trovarono un banco di nebbia fitta che li costrinse a una fila interminabile che andò avanti a passo d'uomo per più di un'ora. Lo zio guidava con la fronte attaccata al parabrezza, il volante schiacciato al petto e i tergicristalli che andavano al massimo per spingere via l'umidità che non smetteva di formarsi. I bambini erano terrorizzati, la moglie continuava a ripetergli di stare attento. La nebbia si infittiva come non avevano mai visto. Qualcuno davanti alla fila decise che non si poteva più proseguire, azionò le quattro frecce e si fermò a bordo strada. La fila si bloccò del tutto.
Dopo molto tempo, quando la nebbia iniziò a diradarsi, le macchine ripartirono una a una. Ripartì anche lui. Si rimise con il petto sul volante, azionò la freccia per superare e si lasciò distanziare dalla macchina che lo precedeva per avere la visibilità della corsia di sorpasso. L'aria diventava sempre più tersa, i nervi dello zio iniziarono a distendersi. Ma mentre accelerava per spostarsi di corsia, il busto di una donna apparve dalla strada, si alzò a sedere dall'asfalto e finì contro il paraurti.
Lo zio lanciò un urlo, sentì il tonfo del torace della donna che rimbalzava contro l'auto e quello della testa che si spappolava sull'asfalto. Inchiodò e scese per andare a vedere che cosa era successo, sicuro di aver avuto una specie di visione. Invece aveva visto bene. Una donna era davvero stesa lì a terra col cervello che tappezzava l'asfalto. Era una prostituta che era rimasta sul ciglio della strada per tutto il tempo in cui le auto si erano fermate per la nebbia. Aveva aspettato che ci fosse maggiore visibilità per poter passare e quando la nebbia aveva cominciato a dissolversi, si era incamminata, nello stesso momento in cui le auto erano ripartite. Le prime erano riuscite a schivarla, ma quella davanti allo zio di Domenico l'aveva investita senza ucciderla. A finirla era stato lui.
Accesi la sigaretta. L’intermittenza di due fari in lontananza segnalò l’arrivo di un’auto che saliva e scendeva lentamente una serie di cunette che precedevano il rettilineo prima del dosso. Aumentò la velocità quando si immise sul piano regolare e si tenne sulla linea centrale della strada finché non diventò continua.
Una seconda auto rischiarò la statale con i coni di luce dei fari che cambiavano angolazione per i continui colpi d’assestamento dati al volante dal guidatore. Percorse il tratto di cunette sobbalzando senza controllo e, in meno di niente, si mise in coda all’altra vettura. Il muso liftato di un’auto da corsa dava scatti nevrotici verso il centro strada per superare, senza riuscire a trovare lo spazio.
Saltai giù dal guardrail e raggiunsi il centro della strada, nel punto più alto del dosso. Mentre andavo, nella nebbia che saliva, guardai giù dall'altra parte. L’asfalto scendeva inclinandosi in una curva a neanche un centinaio di metri. Una debole luce si proiettò sulle frecce bianche dei cartelli neri in sequenza. Era tardi, ormai, per dare retta al dubbio che avessi scelto il posto peggiore per evitare l’impatto. L’auto di Ambrose si ricavò lo spazio a colpi di gas, l’altra si fece da parte. Dietro di me, il riflesso dei fari si intensificava sulla superficie bianca e nera dei cartelli. Il rumore che vibrava sul guardrail non era quello di un’auto.
Restai immobile a tirare dalla sigaretta e spingere fuori il fumo che si arrotolava nell’aria densa. La Porsche andava troppo forte. Avrei fatto la fine della prostituta del racconto di Domenico. Quando il paraurti di un enorme autotreno emerse dalla curva oltre il dosso, raggiunsi il bordo della strada più vicino, scavalcai il guardrail e mi allontanai di qualche metro. Poi mi girai.
Uno stridere di gomme squarciò l’aria, sormontato dalle urla dei clacson delle due auto e dal frastuono di quello dell’autotreno che sbandò in modo spaventoso per deviare. La cabina oscillò in cima alla salita, fuori dalla carreggiata, poi verso la strada, il rimorchio si sbilanciò in contrasto alla sterzata. Sembrava una bestia di dimensioni mastodontiche che inciampa e vacilla prima di crollare abbattuta.
La Porsche finì dritta contro l’angolo anteriore sinistro del muso dell’autotreno. L’onda d’urto che si propagò fece tremare l’aria, il tetto di chiome di alberi oltre la strada e le luci della stazione di servizio. Un unico mostro di ferraglia, vetro e gomma si spinse verso l’alto per la violenza, una serie a catena di scintillii investì l'ignara notte d’estate e una pioggia arcuata di detriti esplose, rimbalzando a decine di metri di distanza. Poi, trascinato dal contraccolpo del rimorchio, l’autotreno si inclinò sul fianco e si schiantò al terreno, strisciò per qualche metro e sbalzò a grande distanza quello che restava della Porsche. L’altra auto schizzò incolume sull’asfalto e inchiodò prima della curva oltre il dosso.
Aspettai che tutto si fermasse prima di attraversare la nube di terra sospesa nella foschia e innalzata dal telone del rimorchio. Mi misi sulla strada, cercai l’auto di Ambrose. La gente era venuta fuori dalla stazione di servizio, a piedi, si era fermata a vedere. Alcuni si passavano le mani sulla testa, altri cercavano di spiegare a quelli che avevano accanto, qualcuno correva avanti e indietro per capire cosa fare. Vedevo le loro ombre muoversi attraverso il filtro bianco della nebbia. Dall’altra parte, nell’auto in discesa illuminata a intermittenza dalle quattro frecce, una figura se ne stava seduta con il volto nelle mani, mentre qualcuno veniva fuori, guardava la strada e attraversava di corsa. La sua voce mi raggiunse prima di lui.
«Mi ha superato sul dosso. Ho detto “Questo è pazzo!”, non credevo che…» il ragazzo si schiantò i pugni sulle cosce «Avrei dovuto rallentare, avrei dovuto lasciarlo passare» iniziò a disperarsi piegandosi in due con una mano sugli occhi.
Andai a prenderlo per un braccio, lo trascinai verso la cabina dell’autotreno. Ci affacciammo a guardare. L’uomo al suo interno se ne stava col tronco tenuto al sedile dalla cintura di sicurezza, la testa riversa da un lato e un rivolo di sangue che si allungava dalla stempiatura tra i capelli verso il basso.
L’hai fatto secco, bella prova.
Dopo qualche secondo iniziò a muoversi e si liberò dalla cintura. Si toccò la ferita e cercò di capire cosa fosse successo, mettendosi in piedi oltre il parabrezza come dietro una teca di vetro attraversata dalle crepe che si diramavano.
«Tiriamolo fuori» dissi.
Feci cenno all’uomo di allontanarsi, mi ficcai la sigaretta tra i denti, piantai la suola della scarpa su una crepa e la mossi piano avanti e indietro, allontanando subito la gamba. Il vetro venne giù un pezzo alla volta. Il ragazzo accanto a me allungò una mano. L’uomo la prese, scavalcò quel che restava del parabrezza ed ebbe un mancamento. Lo trasportammo vicino all’auto del ragazzo, stendendolo oltre il ciglio della strada, al riparo, sotto il guardrail. La ragazza che se n’era stata per tutto il tempo all’interno della macchina scese velocemente.
«È vivo?» chiese.
«È vivo, sì, è vivo» rispose il ragazzo. La strinse e le baciò una guancia quando lei iniziò a piangere.
«Dobbiamo estrarre l’altro uomo» si rivolse poi a me.
La ragazza si chinò sul corpo del ferito. Il suo modo di osservarlo, mentre ravviava i capelli dietro il piccolo orecchio, la delicatezza e la spontaneità con cui la sua mano scivolava tra le mani dell’uomo, stringendone una, mi fece provare qualcosa di strano. Nonostante fossero due sconosciuti, per lei adesso quell'uomo era la cosa più importante al mondo. Avrei voluto sentirmi così anch’io, una sola volta, per qualcuno. Avrei voluto essere l’uomo ferito sul ciglio della strada e che Lei fosse la ragazza piegata su di me. Indietreggiai di qualche passo, poi mi voltai risalendo verso il dosso e mi incamminai in discesa. Lanciai via la sigaretta.
Mi fermai davanti a quella che fino a poco prima era stata una Porsche Boxster grigio metallizzato. Gli uomini della stazione di servizio venivano in fretta verso di noi, ma si fermarono di colpo quando il fuoco divampò intorno alla carrozzeria. Per quello che era stata pagata.
«Gli estintori» urlò qualcuno e corsero tutti indietro.
Cercai il corpo con lo sguardo, sembrava che fosse stato inghiottito dal mostro di lamiere. Poi vidi qualcosa. Un occhio, disumanamente spalancato, rivolto nella mia direzione. Intorno a quell’occhio ricostruii i contorni del viso deformato con le labbra aperte all’inverosimile. L’altra metà del volto era completamente schiacciata sul cruscotto spinto contro i sedili anteriori in pelle rossa. Aggrottai le sopracciglia e tesi un orecchio. Il sottofondo irreale di I wanna be adored, una vecchia canzone degli Stone Roses, veniva fuori dallo stereo che funzionava ancora.
Una pozza di sangue si ampliava a pochi centimetri dalle mie scarpe, come se stesse cercando di raggiungermi. Le gocce, lunghe e fluide, fuoriuscivano dalla base dello sportello chiuso. Immersi un piede nel sangue, camminai nel cono visivo di quell’unico occhio. Mi chiesi se quella che osservavo, al di là del terrore che mostrava, fosse o meno un’espressione interrogativa nel crepitio della plastica che bolliva.
Il riflesso sulla punta piatta del naso di Ambrose si allargò, il bagliore aumentò in un attimo. Scoppiai a ridere senza riuscire a trattenermi. Poi alzai le braccia per coprirmi il volto. Se l’occhio di Ambrose aveva ancora la capacità di vedere, la mia immagine che rideva fu l’ultima cosa che restò impressa nella sua retina. Nell’arco di un solo secondo, una nuova vampata devastò la notte, mischiando sangue, abiti e lamiere, fumo e vite spezzate e avvolgendomi in un vortice di dolore abbagliante che rase al suolo tutto quello che c’era intorno. Mi contorsi per un tempo infinito in quel dolore indescrivibile.

Capitolo 4
Alzai la testa verso il volto della ragazza vestita di bianco. Sembrava serio e preoccupato. Vecchio. Il suo seno si era nuovamente riempito, il suo corpo aveva ripreso le forme morbide che aveva prima dell’arrivo di Ambrose. Infilai il mento nel collo della felpa, con le mani nelle tasche senza neppure ascoltare quello che stava dicendo. Non mi ero mai sentito così perso dentro me stesso come quando avevo attraversato il buio ricolmo di semisfere sospese e il corridoio oscuro per tornare alla collina. La mia essenza altalenava tra esaltazione e frustrazione in un continuo trasfigurare senza forma. Vedevo pezzi di verità e non una verità completa, mi sembrava di arrivare a una meta, poi venivo risucchiato via, tornando al punto di partenza, senza riuscire a tenere il controllo di quella che era per davvero la mia volontà. Non avevo una volontà.
Scossi la testa in risposta alla domanda che indirettamente mi ponevano gli sguardi delle tre figure. Chiusi gli occhi, senza dire una parola. Cercavo di accantonare il ricordo di ciò che era accaduto. Proteggevo la mia scelta con il silenzio o qualcosa del genere. Salvare qualcuno non aveva senso. Non sarebbe cambiato nulla, si sarebbe solo protratto un altro egoismo personale. Il mondo non avrebbe sentito la mancanza di Ambrose e al mondo non eravamo utili né io, né tutti quelli che sarebbero arrivati quella notte. Rappresentavamo la stupidità della vita, una speranza che, come tutte le inutili speranze, non sarebbe mai arrivata a niente di concreto. Eravamo evanescenti. Il ruolo che ci spettava era quello di spettri che non appartenevano più al mondo. Che, forse, non gli erano mai appartenuti.
Vidi il grande braccio piegarsi lentamente, fino a portare la piattaforma dall’aspetto di una mano al terreno. La ragazza vestita di nero, la Pura Verità, scese, raggiunse il ragazzo, gli mise una mano sulla spalla mentre lui immergeva con apparente disperazione la faccia tra le mani. Improvvisamente mi sembrò di sentire freddo.
Ambrose fu accompagnato in una lenta passeggiata verso la torre. Si voltò per un’ultima volta a guardarmi, a guardare il buio che era stato la sua vita. Forse rimpianse qualcosa, forse la morte gli era servita di più che l’esistenza stessa. Poi la ragazza lo spinse dentro, con tatto, quasi con compassione.
Dopo un lungo tempo inciso dalle crepe di un silenzio funebre, scese lei sola dalla torre marcescente. Le lunghe gambe sfilarono in un’andatura veloce, illuminata dal chiaro della pelle liscia e tesa sulle curve di donna. Mi voltai. Mi allontanai dalle due mani di rampicanti mentre la ragazza riprendeva la sua posizione e il braccio si rialzava poco per volta da terra.
Trascinai i piedi verso il confine del prato, là dove poco prima c'era stato il corridoio oscuro. Sul taglio netto del buio pendevano gli ultimi steli di erba turchese. Mi sedetti lì, con il fondo dei jeans sulla terra e le caviglie, sovrapposte l'una all'altra, immerse nel vuoto.
Dove si sta spingendo il tuo sguardo? Che cosa vedi, attraverso il buio?
Un oscuro futuro. Chiusi gli occhi per vederlo meglio.
* * *
Aveva i capelli scalati di media lunghezza, gli occhi piccoli e vicini tra loro, dietro un paio di occhiali da vista dalle lenti azzurre altrettanto piccole e rotonde. Indossava un paio di pantaloni bianchi troppo stretti, una camicia aperta sul collo, rosa con le righe sottili grigie che si deformavano aderendo al fisico flaccido, un paio di ridicoli mocassini bianchi alla moda portati senza calze e un maglione poggiato sulle spalle con le maniche riversate in avanti e i polsi annodati fra loro. Sul taschino della camicia, in un sottile ricamo viola, c'era una coppia di iniziali. Aveva almeno una quarantina d'anni. Stipulava polizze assicurative sulla vita. Quel genere di cose per cui una volta morto danno un corrispettivo in denaro alla tua famiglia.
Valentino era una di quelle persone capaci di far saltare i nervi soltanto col suono della loro voce e di quelle strane erre arrotolate talmente in alto da evaporare dalle parole. La maggior parte di quelle che aveva detto fino ad allora erano una raffica di stronzate. E la sua voce non si era ancora fermata da quando era arrivato.
«…e poi il lavoro bisogna inventarselo, non è più come una volta. Bisogna essere intraprendenti, stare al passo, avere delle ambizioni. Io ho fatto un sacco di sacrifici, adesso è arrivato il mio turno di passare a capo di zona. Ho dato la svolta, mi sono sempre dato da fare. La fatica che fai per gli altri, prima o poi saranno gli altri a farla per te».
«Che sacrifici hai fatto?».
«Stare tutto il giorno fuori casa, mangiare un primo di fretta con il buono aziendale per andare a trovare un cliente, continuare a fare giri fuori orario o restare in ufficio a sistemare le pratiche fino a tardi. La mia giornata di lavoro inizia alle sette di mattino e finisce a mezzanotte. Sono a disposizione del capo ventiquattro ore su ventiquattro. Vado a prendere i suoi figli a scuola, gli faccio la spesa, gli faccio da autista quando capita. Ho rinunciato spesso al giorno di riposo per accompagnarlo ai convegni. Lo faccio per amicizia».
«Se lo fai per amicizia, perché lo metti tra i sacrifici?».
«Io ci tengo alla mia azienda» Valentino sorrise «Non credere che siccome passo la maggior parte del tempo seduto a parlare, il mio lavoro non sia pesante. Lo è più degli altri, anzi. Devo convincere le persone. E per farlo bisogna avere le idee chiare ed essere informati su tutto. Solo così puoi diventare il loro mentore e solo quando ti riconoscono come mentore, puoi dare un valore alla loro vita».
«Tu dai valore alla loro vita?».
«Sì, beh, è solo una delle mie battute» si passò un dito sotto il naso.
Feci un paio di passi indietro, prima di voltarmi verso il campo dove si innalzavano le due braccia di rampicanti.
«Hai assicurato anche la tua vita?» ci avviammo.
«Stai scherzando? Non so come facciano a vivere tranquilli quelli che non l'hanno fatto. Purtroppo fino a ora ho potuto permettermi soltanto una delle polizze base. Ma, con la promozione, andrò immediatamente a maggiorare il premio».
«Daranno una bella somma ai tuoi parenti» dissi.
«Quando morirò, sì» i mocassini bianchi si scontrarono tra loro, Valentino si aggrappò con una mano alla mia spalla «Io dico sempre che la vita è un tavolo verde. Bisogna saper cogliere l'occasione e sapere quando è il momento di aumentare la posta. Non tutti sono abbastanza furbi».
«Qual è adesso la tua posta?» mi voltai verso di lui.
«Eh?».
«Quanto vale la tua vita?».
«Beh. Al punto in cui sono, ha assunto un certo valore, bisogna ammetterlo. Finché ero un semplice agente di zona, nonostante il grande potenziale di vendita, non è che valesse granché. I sacrifici non si fanno per niente» ridacchiò, si sistemò gli occhiali.
Tirai fuori l’armamentario per una sigaretta, la rullai stancamente mentre ci fermavamo.
«Non riesco a capire queste cose. L'azienda, il capo, la promozione…» accesi la sigaretta, bussando sul gomito del primo braccio di rampicanti, le ragazze tardavano a risvegliarsi «Finché accetti di dover chiamare qualcuno tuo superiore, sarai matematicamente il suo inferiore».
Guardai all’insù, ma le dita non davano segno di volersi smuovere. Valentino sorrise con sdegno, avvicinandosi.
«Oggi ho meno superiori di un tempo».
«Vuol dire solo che sei meno inferiore».
«Vuol dire anche che c’è più gente inferiore a me. Io ci ho saputo fare» si puntò un dito sul petto abbondante su cui si tendeva la stoffa rosa della camicia personalizzata «Ho avuto delle ambizioni. Sai cosa dicevo sempre agli altri? Se lavorate come cani e non avete sogni, voi continuerete a lavorare per sempre e io un giorno potrò permettermi di avere qualcuno sotto di me» allargò le braccia.
«Era questo il tuo sogno?».
«Quale?».
«Comandare, avere qualcuno sotto di te?».
«Perché la libertà cosa credi che sia?» sorrise, incredulo «A proposito di inferiori e superiori, ci sono interessi superiori per i giovani come te».
«Stai sbagliando persona» mi misi a cercare per terra.
«Immaginavo che l'avresti detto. Alla tua età si hanno altre cose per la testa, la morte appare lontana».
«Non così tanto» tirai su un pezzo di terra raggrumata.
«Benissimo» le mani di Valentino sfregarono l'una contro l'altra, era venuto fuori il mentore «Un domani avrai una moglie e dei figli, non sai in che condizioni di lavoro sarai. I nostri contratti prevedono il pagamento dell'indennizzo per la dipartita, cosa che tutelerebbe i tuoi famigliari in caso di morte, oppure la riscossione dell'intera somma al momento della pensione. C'è anche la possibilità di rateizzare l'incasso come integrazione alla pensione. Che cosa ne dici?».
«Che hai scelto proprio la notte giusta».
Lanciai il pezzo di terra in alto sopra la mia testa. Si infranse contro lo spigolo del dito medio della grande mano e sparse polvere e terriccio dappertutto.
«Come?» chiese Valentino facendosi indietro e riparando la testa sotto una mano.
«Niente» dissi. Mi ripulii la maglia dalla polvere.
Le due grandi mani al di sopra di noi si scossero fragorosamente. Stagliate in quell'irreale chiarore turchese proveniente dal cielo che si apriva tra le nuvole, le forme lucide e sinuose delle due ragazze si alzarono in piedi e offrirono limpidi paesaggi di carne. Valentino lasciò pendere la mascella tra le guance flaccide, con la testa alzata.
«La seconda anima ha varcato le soglie della notte» la Dolce Illusione avanzò verso la punta di un dito della grande mano, si chinò verso di noi, chiuse le gambe e lasciò che i lunghi capelli le cadessero davanti a una spalla.
Mi sedetti, incrociai le gambe, piantai una mano sotto il mento.
«Che cosa ti attrae, Valentino, della vita? Il denaro, l'affetto, il potere?» la Pura Verità si affacciò dal palmo di rampicanti.
«Niente di tutto questo» la Dolce Illusione scosse la testa.
«Quello che hai sognato durante tutte le notti della tua vita è stata la libertà».
Valentino mosse le spalle. Teneva una mano dentro l'altra congiunte sul davanti come durante una premiazione. Lanciai via la sigaretta senza neanche finirla.
«Eri arrivato a un passo. Stavi per vederla da vicino. Te ne saresti accorto?» riprese la ragazza dal vestito nero. Girò gli occhi verso l’altra.
«Non ti saresti accorto di aver rincorso qualcosa di diverso da quello che credevi».
«Sai perché sei qui?».
Valentino cercò di risvegliarsi, scuotendo debolmente la testa «Stavo… volevo chiederlo a lui, ma abbiamo parlato di altro» mi indicò con una mano.
«È incapace di comprendere, incapace persino di sospettare» la ragazza dal vestito bianco ricambiò lo sguardo dell’altra, le ciglia calarono sul riflesso d’oro degli occhi.
«Anche lui ha dimenticato che questa notte prima o poi sarebbe arrivata. Crede di essere ancora vivo».
«Mentre il suo corpo galleggia in mare aperto trascinato dalla tempesta».
«Il mio corpo?» si guardò addosso, schiacciando il doppio mento sul petto. Si girò verso di me
«Non capisco quello che stanno dicendo. Pensano che sia stupido?».
«Può darsi» alzai le sopracciglia.
«Dovrai raggiungerlo prima che cada dal pontile lungo il quale passeggiava» la Dolce Illusione puntò il suo sguardo nel mio.
«Passeggiavo sul molo, esattamente,» protestò Valentino «vorrei vedere se voi non avreste bevuto un po' di più alla festa della vostra promozione».
«Oppure potrai startene a guardare la sua ombra che barcolla incurante della pioggia a dirotto, per poi scomparire inghiottita dalle onde» le rughe si infittirono intorno alle labbra nello strano sorriso della Pura Verità.
«Non ho mai esagerato con gli alcolici in vita mia. Mai» Valentino stese un braccio in orizzontale «Ci tengo, alla salute».
Mi alzai in piedi, piantai una mano sulla sua spalla. «Sei sicuro di conoscere davvero il valore della tua vita?».
«Non capisco perché continui a chiedermelo» voltò la testa da un lato cercandomi con gli occhi. Scostò la mia mano con la spalla.
«Perché è arrivato il momento di riscuotere il tuo premio» gli dissi e iniziai a spingerlo lentamente dalla schiena.
«Dove mi stai portando?».
«Lì, in quella torre dove tutto finisce».
«Ehi, aspetta un attimo, che cosa vuol dire?».
«Che la tua assicurazione non ti garantisce la vita eterna. Hai perso di vista la prima legge: tutto si muove verso la morte. Anche tu».
«Fermo!» l’ordine delle voci delle due ragazze echeggiò nel campo e fece quasi vibrare l'erba tutto intorno. Mi voltai verso le grandi mani.
«Non puoi costringerlo alla torre finché la sua ora non sarà terminata».
«Nessuno può attraversare la porta della torre prima del tempo. Dovrai tornare indietro per mutare la sua sorte» disse la ragazza vestita di bianco.
«O per lasciarla inalterata» concluse la voce dell’altra, filtrando attraverso i denti serrati.
«Stanno dicendo che puoi salvarmi?».
«Rinuncio alla sua salvezza» dissi, ma non accadde niente.
Le dita delle grandi mani si mossero. Valentino si girò a guardarle finché non si chiusero completamente.
«Questo assurdo posto in cui mi trovo è davvero la morte?».
«Soltanto l'anticamera. O qualcosa del genere».
«Adesso capisco perché ho attraversato tutto quel buio» abbassò lo sguardo verso il terreno «Non è possibile. Sono esattamente uguale a un’ora fa. Ho ancora i miei vestiti» tastò le iniziali sulla tasca della camicia «Sembra tutto così reale. E pensare che mi aspettavo qualcosa di grande da questa notte».
«Più grande di questo non credo ci sia molto».
«È vero quello che hanno detto le due ragazze? Che puoi salvarmi?» gli occhi si muovevano velocemente dietro le lenti azzurre.
Continuai a guardarlo senza rispondere.
«Chi sei, se puoi salvare la gente dalla morte?» mi chiese.
«Uno che è morto questa notte, come te».
«Come è possibile? Se sei soltanto uno che è morto, chi ti ha dato questo potere?».
«Non lo so, non ne so niente» cercai di divincolarmi dalle sue mani che continuavano ad aggrapparsi alla felpa.
«Devi farlo. Tu devi salvarmi,» storse le labbra intorno alle due file di piccoli denti inclinati verso l'interno della bocca «non puoi lasciarmi morire senza fare niente. Hai sentito cosa hanno detto. Hanno detto che ero a un passo dalla libertà, che adesso inizia il bello della vita».
«Non preoccuparti, è soltanto un'illusione. Il bello non inizia mai».
«Smettila di fare il coglione. Lo dici solo perché non è a te che manca così poco per realizzare i tuoi desideri» mi mostrò uno spazio minuscolo tra due dita «È per questo che non vuoi salvarmi?».
Sentii i suoi occhi indagare sul mio volto. Alzai lo sguardo. Mi venne da ridere «Perché la libertà cosa credi che sia?».
Vidi gli occhi impazzire dalla rabbia muovendosi freneticamente. Due pugni mi raggiunsero nello stesso momento, uno sul collo e uno nello stomaco. Mi piegai a terra.
Valentino trovò lo spazio per passare e iniziò a correre pesantemente verso il buio. Il suo culo stretto nei pantaloni bianchi si agitava inutilmente per riportarlo alla vita. Mi alzai in piedi e mi misi a correre dietro di lui. Riuscii a bloccarlo lanciandomi a volo e agganciando le sue gambe poco prima che raggiungesse il corridoio oscuro che si era appena riformato. Cademmo in avanti. Strisciai sul terreno per mettermi seduto sopra di lui che si dimenava e si contorceva con i gomiti stretti sui fianchi. Mi piantò una mano sotto il mento e mi spinse la testa verso l'alto.
Cercai di tenerlo fermo per la camicia con una mano, mentre facevo oscillare l'altra sopra la sua faccia senza riuscire a mirare. Intravidi il suo naso, calai un colpo di palmo. Valentino diede uno strattone più forte per scansarsi e la tasca si strappò. Un buco si aprì nella camicia, la tasca mi restò in mano.
«La mia camicia» si risucchiò la saliva dalle labbra. Mi tirò via la tasca di mano e la riportò al petto, cercando il punto da cui si era staccata.
Lo afferrai per i capelli e lo trascinai per un pezzo a quattro zampe, le ginocchia continuavano a scivolargli e a strisciare sulla terra. Poi riuscì a sollevarsi in piedi. I mocassini bianchi sbattevano sul sentiero in lunghi passi veloci per rincorrere la testa ancora tenuta per i capelli dalla mia mano.
Aprii la porta della torre. Le mani di Valentino si strinsero intorno al mio polso sopra la sua testa. Riuscì a staccare la mia mano dai suoi capelli, strappandosi una fitta ciocca sulla tempia. Si passò due dita sulla fronte per sistemarli, con la chiazza vuota che lasciava intravedere la pelle arrossata. Quando decise che potevano andare bene, Valentino si sistemò anche la camicia e gli occhiali. Le ginocchia e le chiappe dei pantaloni bianchi erano striati di marrone e verde, ma Valentino non se n'era accorto.
«Cammino da me» disse.
Uno slancio di orgoglio.
Interessante. Un vero slancio di orgoglio.
Salimmo insieme la scala che portava al secondo piano. Spalancai la porta della stanza.
«Entra» spiegai, con calma.
«Non voglio».
Allungai le mani per afferrarlo. Valentino alzò le spalle e ci incassò dentro la testa, serrando gli occhi come un bambino. Fermai a metà strada un rovescio che stava per arrivargli dritto nei denti. Lo presi per i gomiti, lo sbilanciai in avanti e lo lanciai a terra, gli occhiali gli saltarono via mentre rotolava sul pavimento verso il centro della stanza.
Non entrare.
C’era qualcosa di strano in quel posto. Una specie di deformazione della realtà, un impercettibile errore fisico, una contrazione spaziale. Pressione, densità, qualcosa di invisibile e opprimente si concentrava tra le quattro pareti spoglie di pietra grezza giallastra.
Non entrare.
Entrai nella stanza.

Capitolo 5
Un'enorme sfera ruotava a velocità supersonica e cambiava direzione ogni volta che cercavo di dare forma a un pensiero. Il cervello si comprimeva contro la calotta cranica tra forza centripeta e centrifuga, le scariche elettriche bruciavano come ferite aperte tra le sinapsi. Ero sdraiato di schiena sulla sfera, schiacciato contro la sua superficie. La mente ondeggiava come un liquido dentro la testa. Anche questa impressione si era trasformata in pensiero, dando un ultimo slancio direzionale alla sfera. Tutto rallentò. Non mi sembrava più di avere un volto e neppure un corpo. Il mondo era diventato vago come se fosse fatto soltanto di idee, come se fosse sempre stata la mia mente a immaginarlo e come se si fosse ormai stancata di farlo perché le idee facevano troppo male.

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