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Sta Scherzando, Padre?
Marco Fogliani
La raccolta include tutti i racconti dell'autore in cui preti, suore, frati o comunque la Chiesa in generale occupano un ruolo di una certa rilevanza.
Di seguito, in ordine alfabetico, l'elenco dei racconti inclusi nella raccolta:
ALICE, QUELLA PICCOLA FIGLIA DI ...
ALLA PROSSIMA TOCCA A ME
FRA CIRINO E DON CICCILLO
FURTO IN CHIESA
IL PESO DI UN SEGRETO
IL SANTO DEI MIRACOLI
L’AMORE DI ROMEO
LA GITA AL SANTUARIO
LA PRIMA IDEA DEL CINEMA
LA TERZA PRIMAVERA
MISSIONE COMPIUTA, SORELLA!
PAOLO E NIKOLAJ
Si fa presente che, dato il carattere tematico della raccolta, alcuni di questi racconti potrebbero essere inclusi anche in altre raccolte dello stesso autore.


Marco Fogliani
Disegno di copertina di Marco Fogliani
Aggiornamento al: 18/11/2021

ALLA PROSSIMA TOCCA A ME
La zia Betty: e chi se ne ricordava? Era la sorella zitella della zia Rosy con cui, da che ne sapevo io, aveva sempre vissuto come fossero una cosa sola, finché diversi anni prima la Rosy era venuta meno e la Betty le era sopravvissuta. Da allora in poi il silenzio, nulla: nessuna notizia di lei come dei figli della Rosy - Giulia, Romina e Pietro - il ramo monzese della nostra famiglia, che presumibilmente avevano continuato a trattarla come di fatto era stata per tutta la sua vita e come meritava di essere considerata: una specie di estensione e prolungamento della loro madre.
La zia Betty: e chi ci pensava più? Finché l’altro giorno non è arrivato il messaggio che diceva che ci aveva lasciato anche lei. A quest’ora avrà avuto novantaquattro, novantacinque anni. Novantasei già compiuti, concludemmo parlandone al telefono con mio fratello e cercando di tirare fuori da due teste un’unica ma più accurata memoria.
In quei giorni mi trovavo da diverse settimane a Milano in trasferta per lavoro. Milano e Monza sono vicine: una fortuna che zia Betty fosse morta proprio quel giorno, pensai - per quanto morire forse non possa mai considerarsi una fortuna.
Avrei potuto partecipare al suo funerale, rivedere qualche cugina che ormai, alle nostre età, si rivedono solo per occasioni molto importanti e il più delle volte non allegre, come in questo caso. Avrei potuto simbolicamente rappresentare il dolore di papà e di tutti i suoi figli e nipoti per la scomparsa dell’ultima zia ancora in vita, dell’ultima ormai ex superstite di cinque tra fratelli e sorelle sparpagliatisi per l’Italia, ciascuno dei quali, a parte Betty e Rosy, aveva seguito un destino tutto suo.
Giulia e Romina erano al primo banco della fila di sinistra, in lutto nero di tutto punto con cappellino e veletta.
“Condoglianze”, dissi a ciascuna di esse mentre le baciavo sulle guance.
Sembravano affrante ma non disperate, difficile pensare che non si aspettassero che a quell’età potesse capitare qualcosa del genere, anche se non c’è mai abbastanza tempo per riuscire a prepararsi alla morte di qualcuno.
“Grazie, Tommaso”, mi rispose Giulia.
“Anche a nome dei miei fratelli”, aggiunsi con Romina.
“Grazie, salutaceli tutti. E anche a casa, tutti quanti”, mi rispose Romina.
Nel mentre, da chissà dove, arrivò anche Pietro e prese posto sulla loro stessa panca. Feci anche a lui le condoglianze, poi andai a sedermi dietro di lui.
Mi sistemai vicino a un’altra signora in lutto, molto anziana, che salutai rispettosamente anche se non sapevo esattamente chi fosse. Forse una parente, la badante: o magari un’amica speciale. Credo che poche persone al mondo soffrissero veramente della perdita di zia Betty.
Sull’altra panca in prima fila riconobbi a fatica, in compagnia di un altro volto dall’aspetto familiare a cui però non riuscii ad associare un nome, mio cugino Claudio. Era lì per conto di tutto il ramo siciliano della famiglia. Il mio posto, pensai, avrebbe dovuto essere di fianco a loro, sulla loro panca mezza vuota, ma non volli muovermi da dietro alle cugine. L’atmosfera era impregnata di lutto e di dolore, e in quel momento spostarsi da una parte all’altra della chiesa mi sarebbe sembrato irriverente e un po’ sacrilego, quasi come guardare l’orologio o semplicemente pensare ad altro.
Quando un campanello annunciò l’inizio della funzione, la grande chiesa buia si illuminò un poco, ma l’atmosfera rimase tetra.
C’erano poche altre persone - forse cinque o sei banchi in tutto per giunta mezzi vuoti - la maggior parte un po’ distanziate dietro a noi parenti e congiunti. Le loro espressioni, il loro atteggiamento mi sembravano voler dire “la conoscevo appena”, oppure “sono qui per sua nipote”, o “qualcuno dei vicini non poteva non esserci”. Un paio di ragazzi sembrava quasi che fossero lì per sbaglio, forse per guardare la chiesa o in attesa di parlare col prete. O forse invece io non ero così bravo a leggere i pensieri dai loro volti. Sperai tanto che non mi si leggesse in faccia che ero lì principalmente perché mi trovavo nelle vicinanze, e che in realtà da un pezzo negli ultimi anni non mi era capitato di pensare alla zia Betty.
Mentre entrava l’officiante, un vecchietto bassino venne a sistemarsi accanto a me. Lui sì piangeva a dirotto, spontaneo, senza finzioni. Doveva essere qualcuno che le voleva molto bene, pensai. Chissà, magari un vecchio amore. Anche le zitelle probabilmente hanno le loro storie d’amore nel cassetto. O forse una tenera, platonica e recente avventura galante tra due romantici attempati. Elegante, dignitoso, lo avrei detto più sui novanta che sugli ottanta.
Chissà perché vedendolo così commosso mi vennero in mente alcune cose che avevo sentito dire sulla zia Betty, ma che fino ad allora avevo considerato solo come dicerie e pettegolezzi: la consistenza del suo patrimonio, maggiore di quanto ci si potesse aspettare; e la presenza da qualche parte di un suo testamento. Chissà: magari, a sorpresa, l’unico beneficiario sarebbe stato quel vecchietto innamorato di lei, il cui pianto sincero sembrava proprio sgorgargli dal cuore.
Durante tutta la breve funzione piansi anch’io, non solamente per la presenza contagiosa di quel vecchio che non smise di piangere un istante. Ma non lo feci per la zia Betty bensì, come sempre nelle cerimonie funebri a cui partecipavo, per i miei cari al cui ultimo saluto un destino dispettoso mi aveva impedito in modi diversi di essere presente: al funerale di mia madre e a quello della piccola Graziella.
Quel povero vecchio lì a fianco, che ininterrottamente piangeva molto più di me, in qualche modo esercitò su di me un effetto calmante e mi risollevò il morale. Dopo la benedizione finale non riuscii a trattenermi dal cercare di consolarlo.
“Coraggio, non faccia così.” E poi, incuriosito, gli chiesi: “La conosceva bene, mia zia Betty?”
“Io? Si figuri: da quando eravamo piccoli!”, rispose sempre singhiozzando. “Si può dire che siamo cresciuti insieme”, aggiunse.
Strano, pensai tra me, allora anche lui come lei era originario di Otricoli.
“Ma presto ti raggiungerò, mia cara. Il prossimo sarò io, ormai sta per arrivare il mio turno, se solo al mondo c’è un po’ di giustizia.” E coprendosi il volto con le mani ritornò alle sue lacrime singhiozzanti.
Uscendo dalla chiesa, dopo aver firmato il libro delle presenze, mi trovai per caso accanto a Pietro. Siccome avevo intenzione di accompagnarli al cimitero, gli chiesi:
“La portate dove sta la zia Rosy?”. E aggiunsi: “Se può essere utile io ho la macchina vuota, e se serve potrei portare qualcuno”.
“Sì, magari. Bisognerebbe accompagnare il prete, e se possibile anche la signora Bice, quella che stava seduta dietro a Giulia. Penso che verrebbe volentieri. Se aspetti un attimo provo a chiederglielo”, mi disse.
”Va bene. E quell’altro signore là, che ha pianto per tutta la funzione di fianco a me, credi che voglia venire?”. Accennai a quel vecchio ancora inginocchiato in preghiera nello stesso banco di prima.
“Non saprei, non lo conosco. Non ho idea di chi possa essere”, mi rispose Pietro.
Pietro avvisò il sacerdote e la signora Bice, anch’essi lì nei pressi dell’uscita della chiesa. Così in pochi minuti, mentre il feretro veniva caricato sul carro funebre, dietro di esso si era organizzato il piccolo corteo di tre o quattro automobili pronte a seguirlo verso il cimitero.
Durante il non breve tragitto io, don Sergio e la signora Bice rimanemmo perlopiù in silenzio, se non per qualche parola di circostanza che ci si può scambiare tra tre sconosciuti in un’occasione del genere. Ma io avevo ancora in mente l’immagine di quell’anziano signore che durante la funzione aveva pianto vicino a me come una fontanella.
“Scusatemi”, chiesi loro a un certo punto, “ma quel vecchietto che stava con noi in seconda fila singhiozzando tutto il tempo, per caso sapete chi sia? Mi ha detto che conosceva la zia Betty sin da piccolo, ma stranamente Pietro non mi ha saputo dire chi fosse.”
“Ah, il signor Gervaso”, rispose don Sergio. “Vedo che ha avuto modo di parlargli. Sì, lo conosco abbastanza bene, è un nostro affezionato parrocchiano. Sono diversi anni che non si perde un funerale che sia uno, e ad ognuno piange e si dispera come se fosse il proprio. Non è cattivo; e se devo dire, rende i funerali più sentiti e partecipati anche da parte degli altri. Però mi sembra in ottima salute, evidentemente questo lo fa stare bene. Le avrà anche detto che la prossima volta toccherà a lui, che ormai è arrivato il suo turno. Lo dice sempre. E prima o poi finirà per azzeccarci, una volta o l’altra. In ogni caso noi preti della parrocchia siamo già psicologicamente preparati per quel momento. Per il suo funerale ci saremo - come per chiunque altro, naturalmente.”

IL SANTO DEI MIRACOLI
Ammetto che in quel periodo il mio umore non poteva certo dirsi buono. Per problemi alle ossa la mamma di Debora, la mia compagna, era costretta tra il letto e la sedia a rotelle già da parecchio tempo, e le previsioni degli specialisti non lasciavano sperare grandi miglioramenti. Debora ovviamente ne subiva le conseguenze, ed in parte anch’io. Nei momenti liberi eravamo sempre da sua madre. Mai un’occasione di svago, di distrazione; non so quanto tempo ormai che non andavamo al cinema, o che la domenica non si faceva una gita.
Un giorno Debora mi annunciò che aveva programmato per noi una uscita domenicale. Ne fui contento, ma solo finché non mi specificò che sarebbe stata una specie di pellegrinaggio: una visita alla Basilica del Santo a cui sua madre era molto devota. La malattia della madre aveva risvegliato in Debora quel poco di religiosità e bigotteria che, acquisite nell’infanzia, giacevano in lei sopite da anni. Conoscendo il mio ateismo e scetticismo, non mi aveva mai proposto niente di simile. Ero molto preoccupato: ma lo fui ancora di più quando, accennando alla possibilità di non andarci, mi disse senza esitazione che sarebbe andata ugualmente, da sola. Così decisi di accompagnarla.
Il viaggio in autobus lo trovai pessimo. Andammo con una parrocchia (sinceramente non so dire quale né che agganci ci avesse, ma credo nessuno), un gruppo di scalmanati che, chissà mai cosa avevano da essere allegri, giocavano, cantavano e schiamazzavano in continuazione. Ogni tanto qualcuno, vedendoci appartati ed apparentemente seri, cercava inutilmente di coinvolgerci; ma era chiaro che non avevano nessun rispetto per chi la pensava diversamente da loro, e anzi non ritenevano neanche possibile che qualcuno potesse avere convinzioni differenti dalle loro in materia religiosa. Finché venne da noi un sacerdote, credo, dicendoci che non ci aveva mai visto e chiedendoci di noi. Debora gli spiegò la situazione di sua madre e lui, molto raccolto e compunto, rispose che ci comprendeva. (Ma non capiva certamente me!) Comunque gli fui grato perché almeno, dopo quella visita, nessuno più ci disturbò né tentò di coinvolgerci.
Arrivati alla Basilica, pioveva. Io non volli entrare ed aspettai fuori il ritorno di Debora e degli altri, sotto una specie di tettoia in compagnia di altri turisti sconosciuti. Fu lì che mi imbattei in uno squinternato dal buffo cappello rosso e verde che, seppi in seguito, era un po’ lo scemo del paese ed era conosciuto da tutti con il nome o soprannome di Giovenale. O meglio, fu lui che scelse di battibeccare con me. Lo stavo già osservando perché, incurante della pioggia che continuava a cadere insistente e gesticolando come se parlasse con qualcuno, descriveva sul sagrato degli strani giri senza logica. Poi ad un tratto, come se avesse finalmente trovato un senso al suo zigzagare, venne da me e, quasi a continuare un discorso che in realtà non era mai iniziato:
“… perché il Santo che abbiamo noi non è soltanto il nostro Patrono, un santo come tanti altri. Lui è davvero potente. Quando ci si mette può fare qualunque cosa. Parlo dei miracoli, sì: di quelli veri. Se sei venuto a chiedere una grazia, facile che lui te la conceda anche a costo di fare un miracolo.”
Io ascoltavo senza mostrare di dargli troppa attenzione, e resistetti bene alla tentazione di fare qualche commento sarcastico. Ma quello proseguì:
“Però devi almeno accendergli un cero, dargli una monetina. Sennò il miracolo magari non arriva.”
A questo punto non riuscii a trattenere il mio anticlericalismo e commentai, seppure a voce bassa e quasi tra me:
“Sì, lo so che i soldi fanno miracoli. Con quelli si può tutto, checché ne dicano alcuni. Pensa un po’: i soldi e la credulità della gente fanno in modo che questo mercato di superstizione prosperi da secoli, insieme a tutti i preti che ci mangiano sopra…”
Giovenale dovette aver sentito, e parve così irritato da queste parole che io, quasi spaventato, mi interruppi. La pioggia continuava a cadere su di lui più forte che mai, e mi parve che in cielo, come se fosse anch’esso adirato, si scatenasse un fulmine spaventoso.
“Tu non ti rendi conto di quello che dici. Spero per te che un giorno il Santo ti apra gli occhi e ti faccia capire la verità.”
Dicendo queste parole aveva uno sguardo profondo, pungente, quasi spiritato: molto diverso dall’espressione ebete di poco prima. Mi si era avvicinato minaccioso, a tal punto che temetti per la mia incolumità. Per fortuna, con mio grande sollievo, si ritrasse quasi subito riprendendo, come se niente fosse successo, il suo zigzagare distratto e senza senso sul sagrato della chiesa.
Poco dopo Debora ritornò insieme al resto della comitiva.
“Hai una monetina da darmi, per fare un'offerta alla reliquia del Santo?”, mi chiese. Era zuppa per la pioggia, nonostante l’ombrello.
Sicuro di averla, senza esitazione feci per aprire il mio marsupio da viaggio alla ricerca di una moneta. Ma mentre aprivo la zip mi fermai: all’improvviso si era aperto uno squarcio tra le nuvole, e si era allargato così tanto e così in fretta da lasciarci tutti a bocca aperta. In un attimo aveva smesso di piovere, e la luminosità dell’aria e dell’atmosfera erano cambiate in modo che sembrava di essere passati dalla notte al giorno. Stavamo assistendo a qualcosa di straordinario; ma rimasi ancora più stupito quando, aperto il marsupio, mi resi conto che non c’erano più le cose di valore che dovevano esserci, e cioè le chiavi, il telefonino, il portafoglio e il portamonete. Al loro posto, invece, un ramoscello di fiorellini bianchi e rosa. Sbiancai.
“I miei soldi! I miei documenti! È sparito tutto!”
Se non fosse capitato a me, forse sarei stato contento che quella noiosa gita venisse un po’ movimentata. Intorno a me tutti a cercare, a chiedere, a fare congetture; ed io, che fino allora mi ero sforzato di mantenere il più possibile le distanze da quel gruppo di persone che mi stavano antipatiche, fui costretto a svelare a tutti cosa conteneva il mio marsupio, dove l’avevo portato e quando l’avevo aperto l’ultima volta.
Alla fine andai con Debora alla più vicina stazione dei carabinieri per sporgere denuncia. Ci accompagnò un ragazzo del gruppo, particolarmente premuroso, secondo Debora, o invadente, secondo me.
La giornata per me procedeva di male in peggio: prima il brutto tempo e i bigotti della parrocchia, poi il prete, il matto, il furto e adesso anche i carabinieri.
Beh, avrete capito che neanche le forze dell’ordine mi stanno gran che simpatiche: meglio i carabinieri che la polizia, almeno ci sono tante barzellette su di loro che ci tengono di buon umore. Non che quello che incontrai quel giorno fosse peggio degli altri: devo dire anzi cortese e rispettoso, povero diavolo. Ma ebbe una reazione per me sconcertante quando, dopo che ebbi raccontato e fatto verbalizzare tutto, aggiunsi che avevo dei sospetti su chi poteva avermi derubato e riferii che secondo me era stato un tipo strano con in testa un cappello rosso e verde.
“Uno col cappello rosso e verde? Giovenale?”, e rendendosi conto che non potevo conoscerne il nome, mi fece vedere una sua fotografia. Sì, era lui.
“Vede… questo ragazzo, povero disgraziato, non ha mai fatto male a una mosca. È un po’ il portafortuna del paese, una specie di attrazione turistica. E a parte la nomea di possedere poteri paranormali, per cui comunque nessuno si metterebbe mai contro di lui, è molto amato dalla gente”. Dopo una pausa di riflessione, aggiunse: “Ma su quali elementi, precisamente, basa i suoi sospetti su di lui?”
“Mi ha aggredito verbalmente. A tal punto che ho temuto seriamente che volesse alzare le mani su di me.”
“Qualcun altro ha assistito a questa scena, e può confermarlo?”
No, non potevo portare nessuno come testimone di quello che era accaduto.
“E sia, verbalizzerò ugualmente; ma guardi che su queste basi non possiamo prendere alcun provvedimento ufficiale nei confronti di Giovenale. Magari possiamo andargli a parlare, chiedere se sa qualcosa, questo sì…”
Beh, cosa potevo aspettarmi di diverso? Storicamente le forze dell’ordine sono sempre state asservite agli interessi del clero. Ce l’hanno nei cromosomi, secondo me. Quindi non rimasi stupito più di tanto di quella reazione. Rimasi molto seccato invece quando, per concludere, l’appuntato aggiunse (quasi a farmi capire che dubitava in toto di quanto gli avevo raccontato):
“Comunque stasera, al suo ritorno a casa, controlli bene anche lì: a volte capita…”
“…che per caso invece dei miei documenti abbia infilato nel marsupio un rametto di fiori? Non credo proprio”, risposi polemicamente, e me ne andai.
Al ritorno a casa, ciliegina sulla torta di quella giornata per me così poco entusiasmante, dovevamo passare dalla mamma di Debora. Era tardi e buio ed ero stanco, anche se nel viaggio di ritorno ero riuscito a dormicchiare. “Spero che sia già addormentata, così ci sbrighiamo subito”, pensavo mentre Debora girava la chiave nella toppa di casa di sua madre. Si sentiva un rumore di passi: probabilmente l’infermiera ci stava aspettando sveglia. Ma quando aprimmo la porta vedemmo sua madre che, da sola e aiutandosi con le stampelle, ci veniva incontro.
“Mamma! … ma ti sei alzata?!”, esclamò stupita Debora al vederla. Le andò incontro a sorreggerla, un po’ preoccupata che potesse perdesse l’equilibrio.
“Stai tranquilla, ce la faccio. Ce la farei anche senza le grucce, se volessi, ma è meglio non esagerare: è la prima volta dopo tanto tempo. Oggi mi sono sentita proprio bene, e ho provato ad alzarmi. L’infermiera dice che potrebbe essere il cambio di stagione, ma io sono sicura che è stato il Santo che ha fatto un miracolo. Anzi, lo avete fatto voi, che siete andati a trovarlo. Ancora non riesco a crederci.”
Già. Stentavo a crederlo anche io. Non so quante volte quel giorno mi ero chiesto chi me lo avesse fatto fare, ed avevo ripetuto a me stesso che in vita mia non avrei fatto più niente che somigliasse anche lontanamente ad un pellegrinaggio.
Le due donne si misero sedute e si abbracciarono. Vidi Debora che, in silenzio, non riusciva a trattenere le lacrime per la commozione e la felicità.
“Grazie soprattutto a te”, mi disse sua madre, “so che sicuramente ti è pesato molto. E grazie dei fiori: così in alto non puoi essere stato che tu a metterli. Li ho visti solo oggi che mi sono alzata.”
Caddi dalle nuvole. Quali fiori?
Guardai in alto e vidi, all’ultimo ripiano della libreria, un vaso pieno di bellissimi fiori bianchi e rosa. Sarà stata l’infermiera, pensai. Era una signora filippina molto disponibile e piena di dignità, ed evidentemente molto razionale se quel giorno, nonostante fosse anche lei molto religiosa, non aveva gridato anche lei al miracolo. Magari era salita con la scala. “Forse per i fiori devi ringraziare Eliana, la nuova infermiera”, dissi. “A proposito: dov’è adesso?”
“L’ho mandata a dormire”
Guardai ancora i fiori. Sembravano lo stesso tipo di fiori che quel giorno mi ero trovato nel marsupio. Possibile? Mi avvicinai per vedere meglio. Salii su una sedia. Sì, erano gli stessi fiori. E sul vaso… ma guarda, non sapevo che la mamma di Debora ne avesse uno così. C’era l’effigie del Santo. Lo stesso tipo di vaso che quel giorno avevo visto in vendita nelle bancarelle davanti alla Basilica. Guardai con più attenzione. Vicino al vaso c’era qualcosa. Allungai la mano e sentii tra le dita un telefonino. Era il mio. Vicino c’erano anche un portafoglio, le chiavi e il portamonete, tutto quanto ero convinto che mi avessero rubato. Senza dire niente misi ogni cosa al suo posto nelle mie tasche, riflettendo su cosa potesse essere successo.
“Come vedi ci sono occasioni in cui la fede può più di qualunque altra cosa. Persino del denaro”, mi disse Debora. Già, il denaro. Non avevo controllato se nel portafoglio c’era ancora tutto. I documenti e le carte di credito c’erano ancora, ma il contante era sparito.
Di quel misterioso ritrovamento non dissi niente a nessuno, né allora né mai. A malincuore, nonostante la sparizione dei contanti, il mattino dopo chiamai i carabinieri per dire che avevo ritrovato tutto, e ritirai la denuncia.
Riflettei molto su quanto era successo. Ero molto indeciso su diverse ipotesi. Forse uno scherzo da prete ai miei danni, ben organizzato da Debora con la collaborazione di sua madre e dei parrocchiani; o forse un furto da parte dell’insospettabile Eliana, donna dalla doppia personalità o forse addirittura tripla: infermiera ladra e guaritrice. Ma se veramente era una guaritrice, allora quei soldi se li era meritati e non potevo certamente definirla ladra.
Restava il fatto, innegabilmente positivo, dell’improvvisa guarigione della mamma di Debora, per cui anche l’ipotesi del miracolo non poteva essere esclusa. Ed era una ipotesi che, benché distruggesse tutta la mia filosofia e la razionalità del mio modo di pensare, tutto sommato poteva anche non dispiacermi. In quest’ultima ipotesi, però rimaneva il mistero della sparizione dei soldi, che il Santo mi avrebbe sottratto forse per farmi un dispetto o forse per aumentare i miei dubbi: perché se invece di soldi ne avessi trovati di più, al miracolo ci avrei creduto più facilmente.

LA GITA AL SANTUARIO
È successo quasi un anno fa, il 29 settembre. Io e Paolo eravamo fidanzati ufficialmente già da anni, tanto che ormai iniziavo a pensare che lo saremmo stati per tutta la vita. Tra noi stava cominciando a prevalere l'abitudine, ed anch'io stavo rischiando di assuefarmi all'assenza del vero slancio dell'amore, immaginato e sognato evidentemente solo da parte mia nei primissimi tempi in cui c'eravamo conosciuti.
Sì, al nostro rapporto mancava decisamente qualcosa. E allora ben venisse quella gita, che si prospettava davvero importante per noi. Lui che finalmente mi veniva incontro in uno dei miei desideri più grandi e più agognati: andare insieme a visitare il santuario della Madonna del Pineto.
Paolo - che figuriamoci, non dico che fosse ateo ma la religione ed i santi non erano proprio i suoi argomenti preferiti - era ben consapevole di quanto quel luogo fosse davvero sacro ed importante anche per me, oltre che per i miei genitori: i quali proprio al Pineto, oltre trent'anni prima, si erano dichiarati il loro amore, chiamando la Vergine a loro testimone e protettrice.
“Beh, in fondo se ci sposeremo in chiesa è molto probabile che lo faremo là, e quindi è bene che prima o poi lo vada a vedere per farmene un'idea”, mi aveva spiegato proponendomi di partecipare a quella gita (tra l'altro organizzata dal parroco, persona che lui mal sopportava).
Mi aveva quasi commosso. “Allora stai pensando che ormai sia giunto il momento di sposarci?”, gli avevo chiesto.
“Beh, veramente non è esattamente ciò che ho detto, né quello a cui stavo pensando.”
Benché avesse così sùbito raffreddato le mie speranze, questo era comunque per me un chiaro segno che in lui e tra di noi qualcosa stava cambiando.
La gita, di un fine settimana, prevedeva la visita guidata piuttosto particolareggiata di tutti i luoghi di interesse all'interno e all'intorno del Santuario, gestito dai frati minori Valverdiani. E inoltre: momenti liturgici e di riflessione comunitaria guidati da un certo padre Francesco, un omone a cui l'appellativo di frate minore proprio mal si adattava; la cena nella mensa del convento insieme ai frati e agli altri pellegrini; il pernottamento, noi donne nell'Ostello femminile e gli uomini nelle celle di un'ala del convento; e naturalmente la santa Messa domenicale.
Ora accadde che sabato sera, terminata la cena, il gruppo si era dato appuntamento dopo un'oretta davanti alla chiesa, così da dare tempo e modo a chi volesse di farsi una doccia, cambiarsi d'abito, riposarsi un poco della lunga e fin lì faticosa giornata; o, come nel mio caso, anche tutte e tre queste cose. Ci aspettava poi una passeggiata tutti insieme sotto le stelle, là dove si diceva che una volta la Vergine avesse ammansito un lupo affamato, facendogli risparmiare due poveri fratellini indifesi.
Ma all'appuntamento col gruppo, Paolo non si presentò. Io mi allarmai della sua assenza, e chiesi ai suoi compagni di stanza di aiutarmi a cercarlo.
Lo trovammo infine, dopo quasi un quarto d'ora di ricerche, all'interno del Santuario – ancora aperto - nella cappellina forse più piccola ed oscura, una di quelle giù nella cripta. Egli era là, da solo e al buio, inginocchiato in raccoglimento con le mani unite a coprirsi il volto, al cospetto di uno dei più antichi dipinti dalla Vergine.
“Paolo, che hai? Non ti senti bene?”
“No, no. Niente, amore. Non preoccuparti. Va tutto bene.”
A quelle rassicurazioni, i suoi compagni di stanza si tranquillizzarono e tornarono a raggiungere gli altri. Io invece rimasi lì, con lui, per capire cosa gli fosse successo.
“Dimmi Paolo: ti è successo qualcosa? Hai qualche problema? A me puoi dirlo. Se non ti confidi con me, con chi altro?”
“No, no. Nessun problema. Però … non so … sì, diciamo che è successo qualcosa. Qualcosa di molto, molto importante. E forse hai ragione tu. Sì, è giusto che tu sia la prima a saperlo. Perché so che tu mi vuoi un bene dell'anima, più di chiunque altro … e, adesso lo so con certezza, anch'io te ne voglio tanto, e sento di doverlo dire prima di tutto a te.”
Beh, aveva cominciato in questo modo ed io pensavo: è merito della Vergine, l'effetto del Santuario. Sta parlando di amore, non l'ha mai fatto in questi termini, con questa intensità. Lo abbracciai, commossa, e strinsi la sua testa al mio petto.
Rimanemmo così per un po', ma quando sciolsi il mio abbraccio Paolo, seppure titubante, proseguì:
“Vedi … il fatto è che oggi, qui, io ho capito. Ho capito tutto. Tutta la mia vita. Ho capito me stesso, i miei pensieri, i miei dubbi. Quello che davvero voglio fare, e quello che davvero mi darebbe gioia. Quello che ha senso, e quello che non ne ha. Tutto si è chiuso, tutto torna, tutto quadra. Il fatto è che io oggi, qui, ho capito che quello che voglio, quello che veramente e soltanto avrebbe senso e darebbe significato alla mia vita, sarebbe che io diventassi frate.”
Sentendo quelle parole rimasi interdetta, credetti in un primo tempo di non aver capito.
“Co … co … cosa hai detto? Vuoi diventare frate?”
Nonostante la sua risposta affermativa, con un cenno del capo, io continuavo a non capire, o a non voler capire.
“Ma poco fa mi hai detto che mi vuoi tanto bene, e che io per te vengo prima di chiunque altro … ”
“Certo che ti voglio tanto bene. E sicuramente anche molto più di prima, di ieri, di questo viaggio. Ma non in modo esclusivo, limitante. Perché è come se avessi trovato la chiave per schiudere un forziere, aprire un tesoro che era dentro di me e che non sapevo di possedere. Grazie a Dio ho capito che il mio amore è una forza enorme, ed è molto, molto di più di quanto potessi offrire fino a ieri a poche persone, o soltanto a te. Amando Gesù posso dare davvero tanto a tante persone che di me, di questo amore immenso hanno bisogno.”
“Allora mi stai dicendo che non mi ami più, e che invece ami Gesù?”
“No. Ti sto dicendo invece che ti amo più di prima, amando Gesù.”
“ … e che non hai più intenzione di sposarmi?”
Lui non mi rispose. Io scoppiai a piangere, di un pianto isterico, e cominciai a tempestarlo di pugni, con tutta la rabbia e la disperazione che avevo in corpo.
“Tu non mi vuoi più, non mi ami più, per colpa di Gesù! Ecco cosa mi stai dicendo. Maledetto, maledetto bastardo!” Non ricordo cosa altro gli abbia detto, probabilmente usai un linguaggio poco adatto al luogo in cui ci trovavamo. Piangevo ed urlavo, e picchiavo e scalciavo, e devo avergli fatto anche molto male, poverino. Lui non disse niente, e insieme ad altri fedeli accorsi cercò di fermarmi.
“Vedrai, il Signore darà la forza anche a te per superare questa situazione”, sono le sue ultime parole che ricordo di aver sentito, prima che qualcuno, cercando di consolarmi, mi riaccompagnasse quasi a forza nella mia stanza.
Da allora non ho più rivisto Paolo. So che ha poi parlato col capo gruppo, chiedendogli che al ritorno mi accompagnassero a casa fino al portone e avvertendolo che non lo aspettassero il giorno dopo, perché non avrebbe proseguito la gita e non sarebbe tornato con noi.
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“Mi creda commissario, questo è tutto. Ma perché mi ha chiesto di Paolo, non gli sarà mica successo qualcosa?”
“In realtà è quello che stiamo cercando di capire.”
“I miei fratelli i primi tempi l'hanno cercato, sia là al Santuario che in città, e forse neanche con buone intenzioni. Volevano fargli cambiare idea, o forse fargliela pagare – sa, loro hanno un po' il sangue caldo. Ma per fortuna non sono riusciti a trovarlo, o almeno così mi hanno detto. Comprensibile, se voleva iniziare una nuova vita. Io ho pensato che fosse andato missionario da qualche parte in una delle tante missioni Valverdiane nel mondo. Ma ero tranquilla che non gli fosse successo nulla, perché ho avuto modo più volte di sentire la sua mamma ed era tranquilla anche lei. Evidentemente aveva sue notizie in qualche modo, anche se non me le riferì mai. E se era tranquilla lei, ero sicura che suo figlio stesse bene ed ero tranquilla anch'io. Ma adesso … gli è successo qualcosa?”
“In effetti è stata proprio la madre a contattarci l'altro giorno. E anche una compagnia d'assicurazioni con cui lui, o qualcuno per lui, aveva stipulato una polizza sulla vita … sapeva nulla di qualcosa del genere?”
Lei scosse la testa, per dire di no.
“Se vuole la terremo informata sugli sviluppi delle indagini. Mi dica lei, come crede”.
“No grazie, meglio di no. Tanto, in fondo, per me Paolo è come se fosse già morto, il 29 settembre dello scorso anno.”

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