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Samos
Xisco Bonilla
Romanzo storico che narra le esperienze dei membri di una famiglia di pescatori greci durante la Prima Guerra Punica.
Almices Teópulos, un giovane pescatore, vive con la sua famiglia a Samo, isola del Dodecanneso greco. Il salvataggio casuale di due naufraghi, in pochi anni scatenerà la tragedia nella sua famiglia. L'anno è il 264 a.C., dopo Alessandro Magno, in Grecia, sullo sfondo Cartagine e Roma, le due superpotenze dell'epoca, che si affrontano nella Prima Guerra Punica. In un dramma appassionante i personaggi sono immersi nella guerra che li circonda, combattendo contro padroni, crisi, malattie e contrattempi del destino. Una tela che mostra la vita quotidiana del periodo preromano del Mediterraneo, dalle isole greche a Tiro, Alessandria o Cartagine. Un romanzo che combina l'evoluzione dei personaggi principali con gli eventi storici; il risultato di un'indagine approfondita che viene presentata al lettore in un'epoca tanto sconosciuta quanto affascinante: quel Mediterraneo di Cartaginesi, Romani e pirati, schiavi e liberti. Quanto potrà essere grande?


Xisco Bonilla
SAMOS
Rotta per la Libertà
Tradotto da Valeria Brigante

© 2021 - Francisco Bonilla Garriga

SAMOS
Prima edizione italiana: anno 2021
Prima edizione spagnola: anno 2017
Autore: Xisco Bonilla
(C) dall'opera Francisco Bonilla Garriga

Traduzione italiana: Valeria Bragante

Editoriale: Tektime

Design della copertina: Francisco Bonilla Garriga

Sarà consentita la riproduzione totale o parziale di questo libro, né la sua incorporazione in un sistema informatico, né la sua trasmissione in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo, sia elettronico, meccanico, fotocopia, registrazione o altri metodi. senza la preventiva autorizzazione scritta dell'autore. La violazione dei suddetti diritti può costituire reato contro la proprietà intellettuale (Art. 270 e seguenti del Codice Penale spagnolo).
A mia moglie, Marina, la migliore compagna e amica con cui godersi questo viaggio ricco che è la vita, e alle mie figlie, Ana e Marta, che con il loro incondizionato sostegno hanno reso possibile questo libro.
Un ringraziamento speciale alla traduttrice italiana, Valeria Bragante, per il suo grande impegno e dedizione nel tradurre questo romanzo in una lingua bella come l'italiano.

1 I

«Svegliati!» udì Magone tra un'anarchia di urla e rumori che lo strapparono dal suo sonno profondo. «Svegliati subito!» Riconobbe la voce angosciata del suo compagno e riuscì a sollevare le palpebre.
«Che succede? Perché così tanto clamore?» chiese mentre si strofinava gli occhi.
«I romani! Ci hanno scoperti e stanno per raggiungerci.»
Magone, confuso, guardò assonnato il suo interlocutore, come se non avesse capito il significato delle ultime parole. E poi, con un sussulto, notò il trambusto intorno. La stiva della nave era un andirivieni di uomini. Si preparò a sedersi, ma una forte scossa lo gettò a terra.
Non sapeva dire se fosse passato molto tempo dall'incidente, forse era solo un momento, ma giaceva a terra, tutto immerso in una miscela di acqua salata, urina e feci dalla sentina. Sentì la testa dolorante e riaprì gli occhi. Tutto era buio e il forte mormorio dell'acqua gli indicò l'esistenza di un'importante breccia nello scafo della nave. Cercò inutilmente la luce dei luminari e si rese immediatamente conto che con il colpo erano caduti e dovevano già essere stati sommersi. Aguzzò gli occhi cercando l'apertura attraverso la quale si accedeva in coperta, la stessa voce che lo aveva svegliato lo chiamò di nuovo.
«Sei lì, Magone?»
«Qui, Ascipo!» Allungò una mano verso il punto da cui proveniva la voce, finché non raggiunse il braccio del suo compagno. «Ci hanno speronato, dobbiamo salire sul ponte.»
«Penso di essermi rotto una gamba» rispose Ascipo. «Tu vai, la nave è persa.»
«Assolutamente no» ribadì Magone mentre si alzava dolorante. Si avvicinò a tentoni al suo compagno e lo aiutò a rialzarsi. «Ci siamo incagliati? Siamo vicini alla costa?» Magone riuscì a chiedere mentre guidava il suo amico sul ponte.
«No, siamo ancora in alto mare.» Ascipo fece una breve pausa per riposare. Il dolore alla gamba era insopportabile. «Quando sono sceso, avevamo una nave romana diretta verso di noi. Ci hanno appena speronato con il loro ariete ed è una fortuna che non ci abbiano affondato.»
Alla fine, raggiunsero la scala ridotta che accedeva in coperta. Magone si sporse per chiedere aiuto, ma davanti a lui un disordinato alveare di marinai e soldati si preparava a difendersi dagli aggressori con tutto ciò che avevano a portata di mano. Vide un volto familiare, Utibaal di Lixus lo superò e si prestò ad aiutarlo. Entrambi tirarono Ascipo che, sfinito dallo sforzo, si sedette per osservare la ferita.
«Sei stato fortunato» Magone provò a tirarlo su di morale. «Non credo tu abbia qualcosa di rotto, sembra che qualche pezzo di legno abbia fatto una bistecca con la tua coscia.»
«Da forza! Andiamo!» li interruppe Utibaal. La faccia del mercante, grassa e sudata, sembrava sul punto di esplodere. «I romani ritornano!» esclamò mentre indicava con il braccio teso verso il porto.
Magone si alzò a sedere e aguzzò gli occhi in quella direzione. Era ancora notte, ma la luna illuminava un cielo abbastanza sereno da indovinare la sagoma della trireme romana, che si delineava lugubre sul mare nero. I muscoli di Magone si irrigidirono e una fitta di angoscia attraversò il suo corpo mentre riconosceva le vele di coloro che avevano già ucciso sua moglie e i suoi figli a Siracusa. I loro persecutori non volevano affondarli, volevano salire a bordo.
«Dai, Ascipo.» Aiutò il suo amico ad alzarsi. «Alzati, dobbiamo saltare.»
I tre uomini retrocessero fino al bordo di dritta e Magone guardò indietro per un momento per confermare i suoi oscuri presentimenti. La trireme romana manovrava per abbordare la nave sfortunata e catturare i suoi occupanti come schiavi. Afferrò il braccio di Ascipo e guardò le acque nere implorando il suo dio, Eshmun, di tenerli al sicuro nel suo regno.

La vela latina, a babordo, fiammeggiava leggermente tra i mormorii prodotti dalle onde capricciose che si rompevano contro lo scafo di legno e ricadevano, trasformandosi in schiuma, sul vasto mantello blu che li circondava.
«Attenzione! Se lo scorpione ti punge, potresti non goderti i tuoi dieci anni» disse Hermes a suo figlio. Il pesce rossastro saltava con energia sul ponte con le branchie aperte e le spine cariche di veleno doloroso, irte per difendersi. Almice ritirò il piede nudo appena in tempo.
«Mi dispiace, padre» rispose il giovane mentre le mani abbronzate del marinaio cercavano la preda armate di un bastone di legno tamarindo appuntito e infilzavano il pesce pericoloso mettendolo in un cesto di canapa consunto.
«Quando raccogli le reti, devi stare attento, è già successo altre volte e un giorno puoi prendere un bello spavento» lo istruì affettuosamente suo padre. «Una sua puntura può essere mortale. Ricordati del vecchio Aristofane, che non è arrivato vivo a terra l'anno scorso, dipende solo dalla quantità di veleno che ricevi.»
«Avete ragione, padre» cercò di scusarsi Almice, «ma sapete che ciò che mi piacerebbe di più è essere un soldato e quindi poter viaggiare e conoscere nuovi luoghi.»
«Adoro la fresca brezza del mattino» rispose Hermes, cambiando argomento, come se non avesse sentito le parole irrazionali del suo piccolo. «Non sai quanto siamo fortunati a vivere al mare» il pescatore abbronzato, già trentenne, gli parlava teneramente mentre navigava verso la costa. Con una mano teneva saldamente la barra del timone mentre con l'altra giocava con le scotte per mantenere la vela gonfia nel vento. «La sensazione che gli schizzi del mare lasciano sul mio viso quando tagliamo le onde vale tutti gli sforzi che facciamo. Nessuna avventura ti renderà più felice, figlio mio; inoltre, il lavoro di un soldato è molto ingrato, non c'è felicità né merito nel togliere la vita ad un altro essere umano.»
«Può darsi, ma mi piacerebbe conoscere altri posti e non vedo come riuscirci in altro modo, anche se mi piace pescare» aggiunse Almice rassegnato. «E mi piace anche navigare, soprattutto quando il vento ci spinge veloce, quando inclina la barca così tanto che con la mano tocchiamo l'acqua senza sforzo.»
«Hai ragione, Almice; ma non dirlo a tua madre, sai che non le piace che giochiamo con ciò che ci nutre.» Il padre sorrideva soddisfatto mentre guardava suo figlio mettere il resto del pesce nelle ceste di vimini sul fondo della barca calafatato mille volte con diversi tipi di legno che formavano un mosaico irregolare che si ripeteva in tutta l'imbarcazione. Gli aveva insegnato bene, era sicuro che se sua moglie glielo avesse consentito, avrebbe già potuto pescare da solo. «Dai, prendi la barra per un po', che non compi dieci anni ogni giorno e devi festeggiare, vedrai la cena che tua madre ti preparerà stasera.»
Almice gli restituì uno sguardo di complicità. In teoria gli era proibito prendere il timone. Sua madre aveva sempre avuto paura del mare; infatti, non navigava mai, non si avvicinava nemmeno alla riva per bagnarsi i piedi nelle calde giornate estive. Invece, quando Almice era solo con suo padre, senza che le sorelle potessero dar sfogo alla loro lingua, ogni scusa era sempre sufficiente per Hermes per lasciargli il comando della barca. E si divertiva. Sapeva di averlo nel sangue. I suoi nonni, anche i suoi bisnonni, erano stati marinai o pescatori. E sebbene alcuni di loro perirono nel mare violento, navigare tra le onde continuava ad essere la migliore esperienza al mondo, controllare il vento e talvolta, sempre lontano dalla costa per evitare spiegazioni indesiderate, gareggiare con i figli di altri pescatori fino a quando non riusciva a fargli ammainare le vele. Il tempo al timone passava volando.
A Hermes piaceva guardare la sua progenie guidare la barca verso casa. La verità è che il ragazzo teneva bene il timone, si sentiva molto orgoglioso di lui. Con che velocità era cresciuto, il tempo era volato, quello non era più il suo piccolo figlio, stava diventando un uomo. La prima volta che lo portò in barca, aveva appena due anni, ricordava la sua andatura incerta e traballante mentre i rimproveri della madre risuonavano ancora nella sua memoria. Quel giorno il piccolo Almice non pianse, rimase sempre seduto al centro della barca con gli occhi spalancati e un enorme sorriso inciso sul viso mentre contemplava il mare intorno a lui. Hermes fece un passo indietro nei ricordi, fino al giorno in cui lui stesso aveva avuto il suo primo contatto con il mare, aveva sei o sette anni e suo fratello maggiore era malato, quindi suo padre lo prese per le spalle e gli disse che anche lui era un uomo e avrebbe dovuto prendere il posto di suo fratello nella barca per alcuni giorni; non ne aveva mai calpestata una prima, ma da allora non si era mai più separato dal mare; lo affascinava proprio come ora poteva osservare lo stesso inebriante incantesimo negli occhi di Almice, anche se durante la sua vita non tutte erano state gioie. Aveva circa quindici anni quando i marinai siriani gli confiscarono i frutti di una lunga giornata di lavoro; poi requisirono le reti e picchiarono lui e suo padre. Fu un miracolo che quegli uomini non li avessero catturati per portarli lontano dalla loro casa. Da allora, ogni volta che vedeva una nave sconosciuta, cercava di cambiare rotta, anche se in modo impercettibile. La sua memoria volò fino a ricordare l'ultima nave sconosciuta, avvistata all'alba.
«A cosa pensate, padre?» Hermes restava assorto, con lo sguardo perso all'orizzonte.
«Perché pensi che la trireme che abbiamo visto all'alba sia passata così vicino all'isola?» rispose il suo progenitore tornando al presente.
«Non lo so. Potrebbero portare truppe sull'isola di Kos o inseguire uno schiavo fuggito.» Il padre annuì e alzò lo sguardo verso la costa.
«Beh, ormai siamo vicini, è meglio che mi passi il timone.» Almice obbedì con riluttanza. La costa dell'isola di Samos nella sua parte orientale era piuttosto accidentata. Alcuni scogli spuntavano molto vicini alla superficie ed era facile danneggiare la barca.
Pini, lecci e tamarindi si mescolavano molto vicino alla riva, lasciando alcune radure sulla costa. Doppiarono una piccola penisola e si diressero verso un'incantevole piccola baia con acqua cristallina. La casa dei Teópulos, la sua casa, era già visibile da lì. Sebbene un po' elevata sopra il mare, era vicino al piccolo molo; a circa cento passi di distanza, calcolò Almice. La maggior parte dei pescatori viveva vicino alla grande insenatura, dietro una piccola e pietrosa collina; ma suo padre e un altro pescatore, Andreas, che aveva la casa proprio ai piedi della collina, avevano deciso di costruire un molo nella caletta perché in quel modo l'attrezzatura era più a portata di mano e non dovevano dare tante spiegazioni ai loro vicini. L'unica che a volte si lamentava era sua madre, per la quale l'acqua del torrente era un po' più lontana rispetto alle donne della grande insenatura.
«Preparati a legare la cima al molo.» Almice annuì, avanzò a prua tenendo sollevate le pieghe della veste per evitare di inciampare e afferrò la cima mentre si preparava a saltare a terra.
Con un balzo, il ragazzo raggiunse la banchina precaria e tese la fune. In un attimo la barca fu ben ormeggiata, accanto a quella del suo vicino.
«Ben fatto, figliolo» approvò il padre. «Ora raccogli tutte le cime e piega bene la vela mentre prendo il pesce. Domani, approfittando del fatto che il tempo peggiorerà e che non saremo in grado di salpare, puliremo la barca a fondo. Non ingarbugliarle troppo che è già mezzogiorno e non ci vorrà molto per mangiare.» Afferrò i due cesti di pesce e si diresse alla spiaggia.
Almice restò a raccogliere con cura la vela rattoppata, legandola saldamente al boma. Quindi si preparò a raccogliere alcune cime sparse sul ponte. Prese le estremità e cominciò ad avvolgerle a spirale su sé stesse, come gli aveva insegnato suo padre, evitando così che si impigliassero tra i piedi durante gli incroci. Stava finendo di raccogliere l'ultima quando sentì suo padre chiamarlo dalla spiaggia.
«Almice, vieni, corri!»
Il ragazzo si alzò e vide che suo padre era a metà strada verso casa, accovacciato su ciò che, nonostante godesse di una vista perfetta, identificò come dei fagotti sulla riva; aveva messo da parte i cesti e gli faceva segnali vigorosi agitando un braccio perché si sbrigasse. Almice lasciò l'ultima cima mezzo arrotolata e corse via a piedi nudi verso la spiaggia. Mentre si avvicinava a suo padre, i fagotti sul terreno erano più simili a sagome umane. Quando arrivò accanto ad essi, si rivelarono due uomini inzuppati e martoriati nella sabbia con mezzo corpo ancora nell'acqua.
«Vieni, figlio mio, aiutami a tirarli fuori dall'acqua.» Suo padre stava cercando di girare uno degli uomini in modo che non inghiottisse altra acqua.
«Padre, pesa troppo» si lamentò Almice mentre cercava di spostare il corpo più vicino. Calcolò che doveva essere pesante come il vecchio padrone della taverna del villaggio, che aveva la pancia piena di birra.
«Non preoccuparti, figliolo, lo sto tirando fuori.» Aveva appena lasciato il primo uomo, il più magro, un po' più in alto, sdraiato sulla sabbia asciutta, e afferrò il secondo uomo con l'altro braccio. Padre e figlio tirarono forte e dopo diversi tentativi riuscirono anche a tirarlo fuori dall'acqua.
Almice guardava, tra sorpreso e nervoso, i due naufraghi mentre il padre li esaminava attentamente e li posizionava su un fianco in modo da che potessero sputare l'acqua deglutita. Gli abiti erano molto diversi dai loro, quegli uomini indossavano tuniche di un intenso colore viola, lacerate dagli strapiombi della costa; e sebbene non sembrassero greci per il loro aspetto, Almice non riuscì a identificare da dove venissero, anche se non aveva molte opportunità di vedere degli stranieri nel villaggio.
«Vai a chiamare tua madre per darmi una mano. Poi porta le tue sorelle sulla barca per finire di raccogliere le reti rovinate e ripararle; nel frattempo io e tua madre li asciugheremo e li porteremo a casa, poi verremo a cercarvi per mangiare. Chiedile anche di portare un po' d'acqua e vestiti asciutti.» Hermes sollecitò suo figlio con la mano e Almice obbedì correndo verso la casa.
Almice spinse con forza la porta socchiusa ed entrò precipitosamente in casa.
«Ciao mamma!» esclamò ansimando mentre la cercava con gli occhi.
«Ciao, figliolo, cosa succede? Perché arrivi senza fiato?» Seduta vicino alla finestra, sbucciava le cipolle che teneva in grembo per preparare il pasto. Il suo viso, segnato selvaggiamente dal vaiolo e da un'infanzia difficile, rivelava stupore per l'arrivo così precipitoso del figlio.
«Buon compleanno!» esclamò Janira, la sorellina di Almice, che aveva solo quattro anni, aggrappandosi stretta ai suoi fianchi mentre faceva piccoli salti per arrivare a baciarlo sul viso.
«Grazie» rispose suo fratello accarezzandole i capelli. «Mamma, abbiamo trovato due uomini mezzi affogati sulla spiaggia e nostro padre dice di venire con acqua e vestiti asciutti» rispose a sua madre con una voce ancora in affanno per la corsa, mentre sorrideva alla sorellina.
«Vado subito, prenditi cura di tua sorella, che le altre due sono andate nella grotta per giocare.» Non poté impedire a due cipolle di cadere a terra mentre si alzava di scatto. Non potevano in alcun modo stare tranquilli a casa, la donna si lamentava con sé stessa, c'erano sempre eventi che alteravano la tranquillità della sua famiglia.
«Te le raccolgo io» si offrì Almice. «Mio padre ha detto di riparare le reti e che verrete a cercarci più tardi, quindi porto Janira per raccoglierle e le ripareremo nella grotta.» La madre annuì mentre prendeva con decisione un otre con dell’acqua e delle camicie asciutte.
I tre lasciarono la casa insieme, la madre si diresse verso la spiaggia con passo agile e Almice fece una piccola deviazione con sua sorella in modo che non vedesse i naufraghi. Sua madre gli aveva raccomandato di farlo in modo che Janira non si spaventasse vedendo degli uomini forse feriti e in condizioni terribili.
I due fratelli camminarono accanto ai tamarindi che costeggiavano la spiaggia tenendosi per mano. Janira voleva andare con sua madre per scoprire cosa ci fosse di così importante da averle fatto smettere di preparare il cibo. Lottava come un'indemoniata per liberarsi dalla mano di suo fratello, mentre lui quasi doveva trascinarla per continuare verso la barca. Raggiunse il suo scopo quando la convinse con la promessa di un gioco non appena si fossero riuniti con le loro sorelle. All'arrivo al molo, guardò verso la spiaggia e scoprì che i naufraghi erano già coscienti e seduti, mentre i loro genitori li asciugavano. Vide anche in lontananza l'inconfondibile sagoma del suo vicino Andreas scomparire vicino ad alcuni tamarindi. Era un uomo strano, pensò, non legava con nessuno nel villaggio, l'aveva visto parlare con suo padre solo una volta, con il resto della sua famiglia le conversazioni si limitavano a saluti asciutti e brevi commenti sul tempo.
La grotta si trovava proprio all'altra estremità della baia, nella parte occidentale. L'accesso, aggirando alcune rocce emerse dall'acqua nel tempo, era comodo anche se nascosto alla vista grazie a una curiosa curva fatta dalle rocce. In effetti, molti abitanti del villaggio non ricordavano nemmeno la sua esistenza. Consisteva in una piccola cavità, perforata nella parete rocciosa, che continuava a penetrare nel mare. Aveva un solo ambiente, abbastanza ampio da consentire l’accesso a una dozzina di persone; sebbene a causa della grande apertura dell'ingresso non proteggesse sufficientemente l'interno dall'inclemenza del tempo, motivo per cui non si era mai arrivati ad abitarla come casa ed era diventata il luogo preferito dei figli di Teópulos.
Janira e Almice entrarono nella grotta con una delle reti. C'erano le loro sorelle Telma e Nerisa sedute in un angolo che riordinavano le conchiglie raccolte la mattina presto mentre passeggiavano lungo la spiaggia. I riccioli marroni di Telma le cadevano sui luminosi occhi color miele. Suo padre sapeva che sarebbe stata una brava moglie, a quattordici anni era quasi pronta a lasciare la sua casa e sposare un pescatore del villaggio. Il suo corpo snello, i suoi modi aggraziati, la sua conoscenza di base della scrittura greca, come Almice. Quella era una questione che suo padre considerava di vitale importanza; lui non aveva mai avuto l'opportunità di imparare e faceva in modo che Almice spiegasse alla sorella maggiore tutto ciò che imparava ogni giorno quando andava dal saggio del villaggio, contrariamente all'opinione della madre che considerava la scrittura una tremenda inutilità. Tutto questo la rendeva una buona candidata per i migliori giovani del villaggio. Inoltre, Hermes aveva già parlato con alcune famiglie, all'insaputa della moglie e della figlia maggiore.
Nerisa aveva nove anni, uno in meno di Almice e la sua figura birichina era puro nervosismo. Sua madre le diceva sempre che Zeus si era sbagliato con lei, che avrebbe dovuto essere un maschio. Tutta la finezza e la delicatezza della sorella maggiore erano assenti in lei. Il suo corpo di bambina, con i capelli aggrovigliati, le mani e le gambe piene di graffi che si era procurata saltando e giocando in mezzo ai cespugli inseguendo ora i gatti ora le farfalle. I suoi occhi irrequieti di un color miele chiaro, simili a quelli della sorella maggiore, riflettevano la vivacità dei suoi movimenti.
«Ciao, Nerisa. Ciao Telma, non vi annoiate a giocare sempre alla stessa cosa?» chiese loro Almice, guardando le conchiglie.
«Stiamo separando i gusci di cicale di mare, vongole e telline che abbiamo raccolto questa mattina in spiaggia» rispose Nerisa regalandogli un sorriso.
«Guarda, Janira, abbiamo trovato due stelle marine e anche una chiocciola gigante» la interruppe Telma. Si alzò e prese per mano la sua sorellina per esaminare attentamente i preziosi reperti. «Guarda, questo guscio rotto sembra la macchia sulla nostra gamba.» Janira si chinò per verificare la somiglianza della conchiglia con la voglia che caratterizzava i quattro fratelli; sorrise quando vide la somiglianza e, senza dargli importanza, si sedette a giocare con le conchiglie.
«Nostro padre ha detto che dobbiamo riparare questa rete prima di mangiare» disse autorevolmente Almice mentre la estraeva dal fagotto sulla schiena.
«Lasciale giocare. Noi possiamo rammendarla senza il loro aiuto.» Telma restò in piedi accanto a suo fratello, ispezionando la rete con occhi esperti. «Hai portato tutto il necessario?» Almice annuì.
Rimasero fino a mezzogiorno nella grotta. Le più piccole giocavano con le conchiglie raggruppandole in diversi ordini; prima per forme, poi per colori, distribuendole e scambiandole. Telma e Almice prima pulirono la rete, già parzialmente asciutta, e poi iniziarono a ripararla con la sicurezza data dall'esperienza di un lavoro svolto regolarmente. Quando i rammendi furono terminati, Almice aveva già raccontato a Telma dei naufraghi e, poiché era mezzogiorno, si offrì di vedere se potevano andare a mangiare. Il giovane aggirò i massi vicino alla grotta e si ritrovò di fronte a suo padre.
«Ciao, figlio mio, sono venuto a cercarvi per pranzare. Vai, vai con tua madre che avverto le tue sorelle.» Almice annuì e partì verso casa mentre suo padre accedeva alla grotta per avvertire le figlie.
Il sole iniziava timidamente dall'alto il tragitto del pomeriggio quando tutti arrivarono a casa. Almice rimase in casa con sua madre. Fuori, accanto ad un angolo dell'abitazione, i due naufraghi stavano rannicchiati e avvolti in una coperta, appoggiandosi al muro riscaldandosi con i raggi del re degli astri. I loro sguardi, vuoti, persi nel blu dell'orizzonte. Le bambine li guardavano tra i sussurri, con curiosità mal celata. Suo padre le fece rientrare, parlò per un momento con i naufraghi e poi si riunì con la sua famiglia all'interno della casa. Il tavolo, fatto di vecchie assi, era fiancheggiato da due panche allungate. In una c'erano i tre bambini, Almice, Nerisa e Janira. L'altra restò vuota.
«Niobe, siamo tutti qui, cosa c'è da mangiare?» Sua moglie si avvicinò al tavolo con un piatto.
«Hermes, siediti che il cibo si raffredda» fu la risposta breve, secca e quasi brusca di sua moglie mentre si sedeva. «Telma, siediti anche tu.» La figlia maggiore aveva appena messo sul tavolo i calici di legno d'ulivo, li riempì con la brocca d'acqua, e prese posto tra i suoi genitori, come un muro tra due confini.
Hermes, spaventato dalle forze naturali e soprannaturali del mondo, alzò le mani ringraziando gli dèi per il cibo che avrebbero mangiato, mormorando una semplice preghiera. I bambini, in silenzio, ascoltavano attentamente il padre mentre Niobe aveva gli occhi fissi oltre la finestra. Hermes terminò la sua preghiera e fece segno loro di iniziare a mangiare. Un unico piatto di cibo regnava sul tavolo, al suo interno delle verdure bollite accompagnate da gustosi pezzi di pesce di diversi tipi, Hermes li aveva espressamente messi da parte dalla vendita per poter celebrare il compleanno di suo figlio. Janira allungò la mano con determinazione e prese un pezzo di spigola. Almice, Telma e Nerisa la seguirono, mentre Niobe lanciava occhiate gelide e penetranti al marito.
«Avresti potuto consultarmi prima di soccorrerli. Non mi consulti mai, non sai chi sono né da dove vengono» sussurrò con una voce che suonava accusatrice mentre sbirciava il muro dietro il quale riposavano i naufraghi, nascosti alla vista, assorti nei loro pensieri.
«Aiutare le persone bisognose non è una cosa per cui bisogna consultarsi, è nostro dovere» rispose Hermes con voce calma. «Il mare non fa distinzione di tribù o razze o classi sociali, ci tratta tutti allo stesso modo. Sembra che tu dimentichi che tuo padre, come il mio, morirono ingoiati dal mare.» Sua moglie abbassò gli occhi, ricordando il padre. Il commento di suo marito l'aveva ferita. «Poseidone può essere molto convincente quando vuole, e se i nostri ospiti sono sopravvissuti, non siamo noi a dover mettere in discussione la giustizia divina.»
«Ci porteranno problemi, sono stranieri, sai che non è stata una buona idea portarli qui.» Niobe, con il volto teso e preoccupato, negava con la testa i ragionamenti del marito. I loro figli ascoltavano senza interrompere, continuando a mangiare.
«Sono cartaginesi. Mi hanno ringraziato e mi hanno chiesto di lasciarli andare il più presto possibile, ma ho rifiutato, devono recuperare le forze, non possono continuare il viaggio in quelle condizioni.» Niobe lanciò un'esclamazione alzando le mani. La sua pazienza stava per esaurirsi.
«Ti chiedono di andarsene e tu dici di no, non pensi mai a me?»
«I nostri figli devono imparare cosa è giusto e cosa non lo è. Questi uomini hanno bisogno di aiuto e nessun Teópulos glielo negherà. Non ammetto alcuna discussione al riguardo» il tono di Hermes suonava drastico.
«Avete ragione, padre» osservò Nerisa annuendo.
«Tu non ti intromettere nelle conversazioni degli adulti!» sua madre la rimproverò con uno sguardo che la trafisse. La bambina abbassò la testa.
«Che cosa gli è successo?» chiese Almice nel tentativo di ammorbidire la situazione.
«Sarà meglio che ce lo spieghino loro stessi, ora mangiamo tranquilli e quando avremo finito entreranno. Loro hanno già mangiato qualcosa prima e hanno preferito lasciarsi mangiare senza disturbarci, ci diranno tutto e li lasceremo dormire per un po' per recuperare le forze.»

Il pasto proseguì teso, in un profondo silenzio, un silenzio che nessuno spezzò. Alcune mele rosse segnarono la fine del pasto e Telma si alzò per preparare un infuso.
«Almice, esci e chiedi educatamente se vogliono entrare a bere un po' dell'infuso caldo che tua sorella sta preparando.» Il giovane si alzò incerto. «Padre, non parlo cartaginese» si scusò. «Non preoccuparti, parlano greco e ci capiscono perfettamente» spiegò il padre sorridendo.

Almice rientrò e attese accanto alla porta per lasciare entrare i naufraghi. I due uomini entrarono lentamente, inchinandosi in segno di saluto, ancora avvolti nelle loro coperte. Telma avvicinò al tavolo due sgabelli e si preparò a servire l'infuso fumante.
«Sedetevi, amici.» Hermes si alzò mentre indicava loro gli sgabelli.
«Grazie» risposero i nuovi arrivati in greco.
«Questi sono i miei figli. Oggi Almice compie dieci anni ed è già un buon pescatore.» Il giovane sembrò gonfiarsi di adulazione. «Telma è la più grande delle mie figlie, dobbiamo iniziare presto a cercarle un marito affinché ci dia nipoti forti. Nerisa e Janira sono le più piccole e con le loro risate riempiono di gioia la nostra casa.» Le bambine risero mentre Telma arrossiva.
«Vi siamo molto grati per la vostra ospitalità» il più robusto dei cartaginesi parlava un greco un po' diverso, ma era ben comprensibile. «Sono state delle giornate molto difficili quelle che abbiamo trascorso.» Guardò il suo compagno e questo annuì.
«Cosa vi è successo esattamente?» chiese Almice con indiscreta curiosità. «Come siete riusciti ad arrivare fino a qui?»
«Vedi, ragazzo, la storia è un po' lunga da raccontare, risale a diversi mesi fa e non vogliamo annoiarvi.»
«Avanti, vorremmo conoscere la vostra storia, se non vi dispiace» li incoraggiò Hermes, tenendo in mano la tazza con l'infusione.
«Va bene. Come ho detto, tutto è iniziato diversi mesi fa, quando è morto Agatocle da Messina. Conoscete Messina?» I bambini si guardarono l'un l'altro senza saperlo. Hermes annuì senza esserne sicuro e guardando di lato sua moglie. «È una città che si trova sull'isola della Sicilia, un'isola come la vostra, ma molto più grande. Bene, alla morte di Agatocle, la sua guardia d'élite, chiamati Mamertini o figli di Marte, si ribellarono contro il potere di Siracusa con l'intenzione di trasformare Messina in un regno indipendente.» I bambini e i loro genitori ascoltavano attentamente.
«Gerone, che è il nuovo legittimo re di Sicilia,» continuò l'altro naufrago, «li sconfisse e accerchiò la città di Messina; allora i Mamertini chiesero aiuto a Roma e di fronte a tanta disuguaglianza, Gerone, a sua volta, chiese aiuto alla nostra città, Cartagine, per consolidare il suo regno e in questo modo i romani non lo avrebbero catturato in una sconfitta della battaglia, poiché Messina è un città situata in un posto strategico molto importante che controlla il passaggio di tutte le merci nella penisola italica.»
«Avevamo la situazione sotto controllo» continuò il naufrago più robusto «quando le truppe romane, inviate dal console Appio Claudio, ci sorpresero sbarcando dietro le nostre linee e sconfissero le truppe del re Gerone per poi attaccarci alla nostra base del promontorio Peloro. Il fatto è che l'esercito romano era impressionante, molto ben organizzato; eppure, l'abbiamo quasi sconfitto, ma la battaglia si estese fino al mare e diverse navi, compresa la nostra, furono separate dal gruppo principale. I romani se ne accorsero e una mezza dozzina di trireme romane ci inseguirono per darci la caccia. Senza dubbio hanno pensato che Gerone stesso o un suo parente fosse su una delle nostre navi. Il primo giorno distrussero le altre due navi, noi riuscimmo a fuggire per giorni fino ad avere in vista la vostra isola.» Bevve un po' dell'infusione aromatica per schiarirsi la gola. Alla fine, la scorsa notte ci hanno dato la caccia, ci hanno abbordato di sorpresa e hanno scatenato una carneficina a bordo. Tre di noi, gettandoci in mare, siamo riusciti a sfuggire al massacro a cui siamo stati sottoposti.
«Ma voi siete solo in due» lo interruppe Almice con ansia.
«Sì, hai ragione, Ascipo è annegato poco prima dell'alba.» L'espressione dello straniero era triste.
«Ci dispiace» Hermes voleva scusare suo figlio per l'indiscrezione.
«Non preoccupatevi, sono cose che accadono, il destino che gli dèi hanno in serbo per noi è inappellabile; Melkart ed Eshmun lo sanno bene. Ora dobbiamo prepararci a tornare al più presto nel nostro Paese. Non sappiamo cosa sarà successo in Sicilia.»
«Stamattina, io e mio figlio abbiamo visto una nave romana in navigazione qui vicino.»
«È possibile, i romani sono esperti nel trovare e finire i naufraghi, forse altri compagni sono riusciti a fuggire gettandosi in acqua per cercare di salvarsi la vita.» I bambini erano rimasti con gli occhi spalancati.
«Bene, suppongo che sarete stanchi e vi piacerebbe dormire un poco» lo interruppe Hermes, che non voleva che il naufrago entrasse in dettagli più cruenti di fronte ai figli. Si alzò indicando i bambini. «Noi abbiamo altre faccende, quindi approfittate per riposare, mia moglie ha preparato i letti in modo che possiate dormire comodamente. Domani vedremo come organizzare il vostro ritorno. Forse qualche nave può portarvi in una delle vostre colonie.»
«Vi siamo molto riconoscenti. Fortunatamente abbiamo raggiunto terre in cui Roma ha meno influenza. Hanno ancora paura di quelle che furono le terre del grande Alessandro.»
«In effetti, la nostra isola è governata da Tolomeo d'Egitto, qui non dovete temere nulla dai romani» il loro anfitrione li confortò.
I figli di Hermes e Niobe uscirono di casa, le storie raccontate dai naufraghi li avevano trasportati in altri luoghi di cui non conoscevano nemmeno che l’esistenza. Avevano parlato di battaglie che udite solo nelle storie dei loro dèi e degli antichi eroi greci, battaglie che d'altra parte sembravano distanti nel tempo. Dopotutto, a Samos l'unico pericolo esterno che li minacciava era un abbordaggio pirata, sebbene ciò accadesse solo in alto mare.
Telma, notando come la storia avesse impressionato la sua sorellina, prese Janira tra le braccia e le spiegò con cura che i cartaginesi avevano esagerato un po' con il racconto, che né i romani né nessun altro avevano fatto quelle cose cattive e che non doveva preoccuparsi. Nel frattempo, Nerisa e Almice commentavano la storia raccontata dai naufraghi, immaginando le situazioni vissute dai marinai cartaginesi e i meravigliosi luoghi da cui provenivano.
Hermes lasciò la casa dopo un po' e guardò di traverso Niobe. Lei era ancora arrabbiata e contemplava l'orizzonte con un'espressione seria. Gli dispiaceva che fosse stata così fredda con gli ospiti. Per un momento pensò di convincerla, ma si arrese immediatamente e si rivolse ai figli.
«Telma, Almice, oggi è stata una giornata insolita, andate alla grotta per giocare e al crepuscolo verremo a cercarvi per la cena, così i nostri ospiti avranno riacquistato le forze. Nel frattempo, noi porteremo il pesce ad Andreas in modo che oggi sia lui a consegnarlo alla taverna per venderlo. A quest'ora ne ricaveremo poco, ma sarà meglio di niente.»

I bambini furono d'accordo e andarono in spiaggia per proseguire lungo la riva fino al molo e prendere il sentiero che conduceva alla grotta. Il mormorio del mare poteva essere udito perfettamente da dove si trovavano. La leggera brezza marina si era trasformata in un'aria gioiosa che increspava le onde provocando piccole corone di schiuma sulle loro creste.
Quando arrivarono al molo, Almice si avvicinò alla barca per verificare che fosse ben ormeggiata. Sebbene la caletta fosse ben protetta dal mare, non si poteva mai sapere. Le sue sorelle aspettarono che finisse e raccolsero un'altra rete, già completamente asciutta, per rammendarla nella grotta. L'aria era appena percettibile all'interno della grotta, soffiava dal lato opposto dell'ingresso e questo consentiva una piacevole temperatura nel loro spazio di gioco. Janira e Nerisa continuarono a giocare con le loro conchiglie mentre Telma e Almice iniziarono a lavorare con la rete.
Il pomeriggio trascorse rapidamente per tutti e quattro. Quando Telma e Almice finirono con la rete, presero le bambine e iniziarono a raccogliere piccoli granchi e cirripedi che vivevano tra le rocce sul mare. Le piccole pozzanghere, formate sulle rocce erose quando l'acqua del mare si ritirava dopo la marea, servivano da contenitori improvvisati in cui i granchi erano a loro agio, un po' più al caldo e più protetti che nel mare. La raccolta fu abbondante e divertente. Nerisa trovò un piccolo polpo a poca profondità e si divertirono a cercare di farlo uscire dalle rocce.
«Si sta già facendo buio, Almice, dovremmo andare a casa, non credi?» Telma voleva riposare, l'intera giornata a prendersi cura delle sue sorelle poteva essere estenuante. Inoltre, si rammaricava di non aver potuto portare il pesce alla taverna, così avrebbe visto il bel figlio del padrone di casa. Magari suo padre le avesse organizzato il matrimonio con lui. Doveva farglielo capire più chiaramente la prossima volta che avrebbero parlato.
«Hai ragione, avrebbero già dovuto avvisarci, resta con le piccole mentre porto le reti a casa e chiedo se possiamo tornare per cenare.»
Almice lasciò la grotta scavalcando le rocce dell'ingresso carico di reti. Cominciò a camminare lungo la spiaggia sulla sabbia bagnata verso il molo. Il vento, sempre più fastidioso, schiantava minuscoli granelli di sabbia contro le sue gambe. Lungo la strada immaginava di navigare in mare aperto a bordo di una grande nave e di gettare l’ancora in tutti i porti. Il sole era appena scomparso dietro le montagne e la luce cominciava a declinare. Guardò verso casa sua e scorse la fiamma del focolare dietro le assi consunte che chiudevano la finestra. Oltrepassò il molo e pensò di lasciare le reti nella barca; ma a suo padre non piaceva lasciarle lì di notte da quando un anno fa si erano rotte durante una tempesta, qundi decise di portarle direttamente a casa.
Era già vicino quando un grido soffocato proveniente dall'interno dell’abitazione lo travolse. Avrebbe giurato che fosse suo padre. Ci fu un momento di silenzio, che sembrò un'eternità e poi la porta si aprì di colpo. Almice istintivamente si buttò a terra accanto a un piccolo tamarindo, per paura di essere scoperto. Notò come la sua fronte iniziava a sudare. Tre uomini corpulenti uscirono di casa trascinando un corpo che riconobbe come quello del cartaginese più magro. Parlavano agitati in una strana lingua. I loro vestiti marroni li facevano sembrare più cupi.
Aspettò accovacciato dietro i rami, nascosto tra l'oscurità crescente, che quegli estranei si allontanassero in direzione della piccola pineta dietro la casa. Senza sapere cosa fare, decise di entrare, non si udiva alcun rumore e la porta era rimasta aperta. Depositò le reti di nascosto a pochi passi. Avanzò lentamente, senza fare il minimo rumore. Non si percepiva nessun movimento all'interno.
La paura si impadronì del giovane ragazzo, afferrando e tendendo i suoi muscoli progressivamente mentre gli veniva la pelle d'oca. Almice non sapeva se fosse stato un impulso irrazionale o la sua innata curiosità a fargli finalmente superare le sue paure e avanzare lentamente all'interno della casa. Si avvicinò inquieto, i suoi occhi non riuscivano a capire la scena che apparve davanti ad essi.

1 II

«Adesso basta!» esclamò Telma, irritata mentre Janira lanciava sabbia a Nerisa e a lei sui capelli. Quando arriviamo a casa vedrete, la mamma vi ha detto che non si tira la sabbia sulla testa.»
«Ha cominciato Nerisa» le rispose Janira mentre rideva forte e si caricava le mani con altra sabbia bagnata e incrostata per lanciarla sulle sue vittime.
«Devono essere in procinto di arrivare, sai come diventa la mamma quando la ignori.» Janira sembrò riconsiderare seriamente per alcuni istanti la minaccia formulata; quindi, lanciò due manciate di sabbia sulle sue sorelle. Tutte e tre si misero a ridere.
Almice sentì che le gambe lo sostenevano a malapena. Il grasso cartaginese giaceva disteso su un fianco di fronte alla porta, con una grande ferita che spargeva ancora sangue sul terreno formando una pozzanghera scura che raggiungeva i piedi del ragazzo. Almice lo guardò a malapena, i suoi occhi erano fissi sui genitori, il corpo di sua madre disteso sul tavolo, con un coltello conficcato nel collo. Suo padre, a un passo da lei, giaceva sulla schiena, sul pavimento, aveva una grossa ferita al petto e un profondo taglio rosso al collo. Almice gli si avvicinò, il suo corpo ancora caldo rimase inerte, il giovane riconobbe la morte negli occhi aperti dell'uomo che gli aveva dato la vita. All'improvviso il mondo intero precipitò vertiginosamente su di lui. Corse fuori di casa tra i conati di bile, un sudore freddo si era impadronito di tutto il suo corpo e gli costava fatica respirare. Cos'era successo? Perché avevano ucciso i suoi genitori? Cosa doveva fare? Non c'erano risposte a tutte le domande che gli si accumulavano in testa, cercando di aprirsi un varco come se fossero uno sciame di api. Corse con tutte le sue forze verso la casa di Andreas per chiedere aiuto.
Il loro vicino viveva a breve distanza, circa cinquanta o sessanta passi. Abitava vicino alla casa dei Teópulos, e sebbene la vicinanza tra loro fosse visibile dalla spiaggia, da una casa non si vedeva l'altra, un piccolo e folto gruppo di alberi e arbusti in mezzo le manteneva in un relativo isolamento.
Stava già arrivando dal vicino quando all'improvviso si ricordò dei tre uomini che erano passati pochi istanti prima attraverso la pineta e istintivamente diventò furtivo, avanzò fino al bordo degli alberi cercando di controllare il suo respiro alterato e si turbò ancora di più quando vide il vicino parlare con uno di quegli uomini davanti alla porta. Non sapeva cosa fare, doveva avvertire Andreas di ciò che avevano fatto ai suoi genitori, avvertirlo del pericolo in cui si trovava se fosse rimasto con quegli assassini; ma la paura gli impedì di avvisarlo paralizzandogli la gola. Restò accovacciato tra i rami bassi degli alberi. Andreas sembrava felice e l'altro uomo estrasse una borsa dalla sua tunica e la porse al pescatore, che la soppesò in mano producendo un leggero tintinnio. Sicuramente era piena di monete, pensò Almice serrando i denti. Com'era stato sciocco, all'improvviso gli si tolse il velo dagli occhi, Andreas era complice di quegli uomini. Sicuramente voleva tenere per sé la casa di suo padre e, quando li aveva visti sulla spiaggia la mattina, doveva aver avvisato in qualche modo i romani che stavano inseguendo il naufrago, perché dovevano essere romani gli alleati dei Mamertini come raccontato loro dai cartaginesi, ne era sicuro. Provò rabbia e paura. Doveva avvisare immediatamente le sue sorelle. Cominciò a retrocedere lentamente, senza fare rumore in quella che sembrava un'eternità, timoroso di essere scoperto. Appena poté, si alzò e tornò verso casa. Passò a distanza, la porta era ancora aperta, non voleva guardare. Si mise a correre con tutte le sue forze verso la grotta.

«Era ora, dove ti eri cacciato?» Telma, rimasta all'ingresso della grotta, aveva visto suo fratello avvicinarsi nella penombra. Aveva già perso la pazienza con le sue sorelle ed era ansiosa di andarsene. «Ti stiamo aspettando da un sacco di tempo.»
«Non sapevo cosa fare.» Almice parlava con voce rotta. Le lacrime che gli scorrevano sulle guance misero in allarme Telma.
«Perché piangi? Che cosa è successo?» insistette Telma, perdendo la calma.
«Sono morti.» Furono le uniche parole quasi impercettibili che uscirono dalla gola di Almice prima di scoppiare in lacrime. Sua sorella, riacquistata la sua compostezza, lo abbracciò con amore, cercando di calmarlo e fargli spiegare chi intendesse.
«Siediti, Almice, e dimmi con calma cosa è successo.» Stava cercando di rassicurarlo. Le due sorelline, che avevano smesso di giocare per l'arrivo del loro fratello, si avvicinarono per scoprire cosa fosse successo.
«Mentre stavo tornando a casa, ho visto uscire degli uomini» Almice cominciò a parlare balbettando. «Avevo già sentito un grido e non gli avevo dato alcuna importanza, ma mentre mi avvicinavo ho visto alcuni uomini trascinare uno dei naufraghi.» Tirò su il moccio con il naso. «Ho aspettato un momento che si allontanassero, e quando sono entrato ho trovato nostra madre e nostro padre, li hanno uccisi.» Abbracciò forte la sorella cercando di reprimere i singhiozzi.
«Che sciocchezze dici, fratello?» Telma rimaneva incredula, senza reagire a ciò che udivano le sue orecchie. «Smettila di scherzare, che oggi ho esaurito la pazienza con le tue sorelle» lo rimproverò con una voce alterata mentre lo spingeva via per poterlo guardare in faccia.
«Devi credermi, Telma» le rispose Almice guardandola negli occhi. «È vero, nostra madre ha un coltello piantato dietro la testa e nostro padre non respira e ha anche ferite in tutto il corpo. C'è anche l'altro naufrago, morto.» Chiuse gli occhi per un momento, cercando di calmarsi e riordinare le idee. «Non sapevo cosa fare e sono corso a cercare Andreas. Mentre mi avvicinavo, l'ho trovato che usciva da casa sua, per parlare con uno di quegli uomini» mentre Almice parlava, gli occhi di Telma erano pieni di riflessi acquosi per la crescente angoscia. «Andreas e l'altro parlavano come se fossero buoni amici, poi l'uomo ha tirato fuori una piccola borsa che sembrava piena di denaro e l’ha passata ad Andreas. Ero molto spaventato, quindi sono scappato senza essere visto.»
«Dai, andiamo a casa e basta sciocchezze. Almice, non mi piace che tu faccia questi scherzi di cattivo gusto» lo rimproverò Telma senza voler dare credito alle parole del fratello. Le piccole, che ascoltavano attonite senza capire, iniziarono a piangere.
Il tempo stava peggiorando, il vento cominciava a soffiare insistente spingendo le onde contro la costa. I quattro lasciarono la grotta stretti insieme per proteggersi dal crescente freddo notturno. Cominciarono a camminare lentamente verso casa, in silenzio, Janira non capiva cosa stesse succedendo; aveva visto i suoi fratelli discutere e aveva notato che stava accadendo qualcosa di strano. Restava in silenzio, raccolta in sé stessa come se lei fosse responsabile della situazione. Nerisa piangeva. Telma cercava di confortarla spiegandole che Almice aveva avuto un incubo e che ciò che aveva detto loro nella grotta era falso, sebbene il suo tono non fosse convincente. Almice, silenzioso, non riusciva a trattenere le lacrime che non smettevano di solcare il suo viso.
Dopo un po', arrivarono al molo. Almice fermò Telma prendendole delicatamente il braccio.
«Sarebbe meglio che le piccole aspettassero qui, Telma. Non è bene che entrino in casa.
«Piantala! Almice, sicuramente l'hai immaginato; i nostri genitori stanno bene, non c'è nulla di cui preoccuparsi» rispose Telma con i nervi a fior di pelle.
«Telma, per favore, che non entrino.» Gli occhi supplicanti di Almice alla fine convinsero sua sorella, che già credeva che ci fosse qualcosa di vero in ciò che suo fratello le aveva raccontato. La sorella maggiore si rivolse alle più piccole, non sapendo esattamente cosa dirgli.
«Nerisa, voglio che tu stia qui vicino al molo con Janira, devi smettere di piangere e prenderti cura di lei mentre Almice ed io andiamo a vedere cosa è successo. Sarai in grado di badare a Janira?» La bambina annuì, passandosi il braccio sul naso. Prese la piccola e si sedettero insieme sulla spiaggia. Il vento continuava a soffiare e obbligava a socchiudere gli occhi in modo che la sabbia non li irritasse.
«Janira» Telma si rivolse ora alla bambina, «voglio che tu stia qui con Nerisa per raccogliere altre conchiglie mentre Almice ed io andiamo a casa a cercare nostra madre, okay?» La bambina sorrise e annuì, si sporse verso la sabbia e cominciò a cercare delle conchiglie sotto l'oscurità crescente.
Telma e Almice continuarono a camminare verso la loro casa, lui la prese con forza per mano, notando come tremava. Mentre si avvicinavano, il loro passo rallentava, temendo che qualcuno potesse improvvisamente emergere dall'ombra degli alberi. Arrivarono a pochi passi dall'ingresso. Non osservarono alcun movimento intorno. Era tutto tranquillo; troppo tranquillo, pensò Telma. La porta era ancora aperta, come l'aveva lasciata Almice.
Si fermarono all'ingresso, timorosi di guardare all'interno. Incrociarono gli sguardi e Telma si rese conto che suo fratello le aveva detto la verità. Un sudore freddo cominciò a impossessarsi di lei e sentì il cuore battere forte. Si strinsero le mani con più forza ed entrarono. L'odore amaro del sangue impregnò i loro sensi. Gli occhi di Telma incontrarono il corpo disteso del Cartaginese, proprio come le aveva anticipato Almice. Il suo sangue inzuppava parte del terreno emanando un odore pungente. A diversi passi di distanza, il loro padre. Telma si accovacciò accanto a lui, gli occhi pieni di lacrime, incapace di esprimere una parola; gli sollevò leggermente la testa e lo baciò dolcemente e lentamente sulla fronte. Il contatto delle sue labbra con quel corpo tiepido e inerte le produsse un vortice di emozioni che la fece quasi svenire. Almice posò una mano sulla spalla della sorella, più per confortare sé stesso che per consolarla. Trascorsero alcuni momenti, che sembrarono loro un'immensità piena di sentimenti ed emozioni. Con tutto l'amore di cui era capace, Telma posò il corpo del padre di nuovo sul pavimento. Si rese conto di avere le mani intrise di sangue. Si rialzò con un po' di vertigini, per avvicinarsi alla madre. Almice l'aiutò ad aggirare il corpo del loro padre e ad arrivare al tavolo. Sembrava chiaro che la morte della loro madre fosse stata di sorpresa, da dietro, come una cupa conferma della sfiducia che aveva sempre mostrato per il resto della razza umana; il suo corpo statico e pesante, disteso a faccia in giù sul tavolo, presentava un coltello logoro conficcato alla base del cranio. Sul pavimento, accanto a lei, diversi utensili da cucina, come se gli assassini fossero improvvisamente comparsi in casa mentre lei stava preparando la cena per la sua famiglia. Le panche dei tavoli, rotte sul pavimento, indicavano che c'era stata una specie di lotta, che tutto non era stato così veloce. Telma pensò che senza dubbio il loro padre e il Cartaginese si fossero difesi con tutte le loro forze. Hermes aveva numerosi tagli sulle braccia e sul busto. Sicuramente era stata una lotta impari.
«Telma, cosa facciamo?» Almice, con gli occhi di nuovo pieni di lacrime, interrogò la sorella in attesa di una risposta che gli avrebbe restituito i loro genitori, svegliandoli da quel brutto sogno.
«Non capisco. Non so chi abbia potuto fargli questo. Non hanno mai fatto del male a nessuno.» La giovane donna si passò una mano sul viso per asciugare le lacrime. Il sangue delle sue mani segnò il suo viso.
«Sicuramente erano romani. Ricorda che hanno preso vivo l'altro naufrago. Se fossero stati ladri, li avrebbero uccisi tutti.» I suoi occhi scrutarono di nuovo la stanza.
«Andiamo a chiedere aiuto alla taverna. Telemaco ci aiuterà.» Era convinta che il figlio dell’oste potesse fornire loro riparo e aiuto. Doveva essere così. Non avevano nessun altro. «Quindi ritorneremo dai nostri genitori.»
«Va bene, andiamo. Veloce, perché le bambine sono ancora accanto alla barca, non sarebbe bello se si stancassero di aspettare e venissero qui.»
Uscirono con cautela e si diressero verso il villaggio. Dovevano passare davanti alla casa di Andreas se non volevano fare una grande deviazione. Ricordando la sua conversazione con gli assassini dei loro genitori, decisero di essere furtivi. Già nei pressi alla casa del vicino, sentirono alcuni passi nelle avvicinarsi. Si fermarono al riparo dagli alberi, l'oscurità della notte li aiutava.
«Non dobbiamo lasciare alcuna traccia. Deve sembrare un furto.»
«Non preoccupatevi. Rispetterò l'accordo» rispose Andreas. «Ora mi occuperò del corpo dell'uomo che avete portato e poi andrò a casa di Teópulos per finire il lavoro.»
«Assicurati di lasciare tutto a posto, non voglio testimoni.» Ora Telma e Almice potevano distinguerli perfettamente tra gli alberi. Quello che parlava indossava una tunica marrone che copriva parzialmente un pettorale di cuoio.
«Non preoccupatevi. Mi occuperò anche dei loro figli. So che sono nella grotta della spiaggia e aspetteranno che il padre vada a cercarli, una volta so che si sono addormentati lì. Domani sarà l'argomento della conversazione nel villaggio; i ladri si sono accaniti anche sui figli.» Andreas rise furbo e sputò verso dove si nascondevano i fratelli.
«Dai, brindiamo al lavoro ben fatto.» Il Romano diede una pacca sulla spalla di Andreas. «Non deludiamo mai quelli che ci aiutano. Hai già incassato una parte del compenso, il resto vieni a prendertelo domani al villaggio. Ti aspetteremo nella taverna fino a quando il sole inizierà a sorgere.» I due uomini si allontanarono fino ad entrare nella casa di Andreas.

Telma era in preda all'ira. ‘amarezza e lo stupore avevano lasciato il posto alla rabbia. Suo fratello dovette tenerla in modo che non si alzasse quando udirono le parole del vicino che si incriminava da solo. Attesero in tensione finché gli uomini entrarono in casa.
«Non possiamo più andare alla taverna, Telma.»
«Ma dobbiamo chiedere aiuto, non possiamo andare altrove.»
«Aiuto alla taverna? Hai già sentito che alloggiano lì, che non possiamo avvicinarci, non vogliono testimoni e suppongo inoltre che abbiano ucciso anche l'altro Cartaginese, deve essere il cadavere a cui si riferivano, e che Andreas lo seppellirà qui e poi verrà a cercare noi. Nemmeno Telemaco e suo padre potrebbero aiutarci.»
«Cosa possiamo fare allora, Almice?» La ragazza aveva la testa confusa, non sapeva cosa fare.
«Dobbiamo andarcene, Telma» decise Almice, «prendiamo il necessario e andiamo via con le nostre sorelle. La prima cosa che faranno sarà cercarci per toglierci di mezzo.»
«Dove andremo, Almice? Non abbiamo nessuno a cui rivolgerci, siamo perduti.»
«Sì, che ce l'abbiamo.» Il volto di Almice si illuminò. «Possiamo andare dallo zio Castore. L'anno scorso sono andato a fargli visita con nostro padre. Ti ricordi?»
«Non sappiamo dove vive. Non sappiamo nemmeno se ci vorrà con lui. Ricorda che la mamma non voleva nemmeno vederlo.»
«Vive sull'isola di Kos. So che sarà difficile trovarlo, ma non ci è rimasto nessun altro, penso di ricordare dove si trova la baia dove abita.» Almice abbracciò forte la sorella. Non sapevano da che parte andare; quello che sicuramente non potevano permettersi era perdere altro tempo. «Avanti, Telma, andiamo a casa a prendere un po' di acqua e cibo e andiamo a prendere le bambine, sentiranno già la nostra mancanza.»
Tornarono in casa. La stanza era ancora illuminata dai lumi che Hermes aveva acceso al tramonto. I riflessi delle fiamme giocose si diffondevano per la stanza, tremolando sui corpi inerti dei suoi occupanti. Temendo che Andreas apparisse improvvisamente, i giovani andarono a raccogliere tutte le provviste che potevano portare con sé, evitando costantemente di guardare i corpi dei loro genitori. Almice aveva detto a Telma che la traversata poteva durare un giorno o due, ma era meglio essere organizzati. Il ragazzo si avvicinò a un piccolo buco nel muro dove sapeva che suo padre conservava delle monete di scarso valore, come se si trattasse di un autentico tesoro. Avrebbero potuto averne bisogno. Guardò di lato il padre, sentendosi in colpa per aver preso i soldi che aveva risparmiato con tanto tempo e fatica. Nel frattempo, Telma aveva preso pesce e frutta essiccati riponendoli in un grande cesto, inoltre aveva preso due otri pieni d'acqua che sua madre aveva portato dal villaggio la mattina presto. Un rumore vicino alla porta li distrasse dalle loro occupazioni.
«Cos'è stato?» si allarmò Telma. «Andreas?»
«Un ratto» rispose Almice, disgustato, indicando con l'indice l'animale che fiutava con interesse il sangue del Cartaginese.
«Dai, andiamo ora, Andreas può arrivare in qualsiasi momento.» Almice annuì. Si avvicinò alla madre e la baciò con affetto per l'ultima volta. Quindi si inginocchiò davanti a suo padre e gli chiese forza per guidare le sue sorelle verso un porto sicuro. Anche Telma si congedò da loro teneramente. Prima di andarsene, prese due monete dalla borsa del fratello e le mise in bocca ai genitori in modo che potessero pagare il barcaiolo Caronte nel loro viaggio verso l'Ade. Si alzarono dispiaciuti e se ne andarono di soppiatto verso il molo guardandosi alle spalle nel caso vedessero avvicinarsi Andreas.
Sembrava che il vento si fosse calmato un po' e la luna calante spuntava illuminando debolmente la notte. I fratelli si allontanarono rapidamente pensando a tutto ciò che si lasciavano alle spalle. Almice ricordava tristemente come il padre gli aveva permesso di tenere il timone della barca al mattino. Che cambiamento radicale avevano subito le loro vite in poche ore.
«Abbiamo lasciato là vestiti caldi.» Telma fece il gesto di tornare sui suoi passi.
«Cosa fai? Non possiamo tornare indietro, Andreas potrebbe già essere lì» la trattenne Almice. «Perché vuoi i vestiti?»
«C'è vento e le bambine possono stare male. La temperatura scenderà stanotte, basta guardare le nuvole che il vento sta trascinando.» Indicò le nuvole. «Inoltre, non possiamo lasciare i nostri genitori in quel modo.»
«Tranquilla, ci sono diverse coperte nella barca nel caso ci sia qualche contrattempo, noi quattro possiamo usarle per proteggerci. E per loro non possiamo fare più nulla, è molto pericoloso. Dai, torniamo dalle nostre sorelle.»
Il molo era già visibile nella penombra. Mentre si avvicinavano, un'ulteriore tensione si rifletteva sui loro volti. Non vedevano le bambine da nessuna parte.
«Dove si saranno cacciate?» La voce di Telma suonava grave. «Ho detto loro di non muoversi.»
«Non lo so, potrebbero essere tornate alla grotta.»
«Chiamiamole.»
«No!» La voce di Almice fu perentoria. «Pensa ad Andreas, non ci possiamo fare scoprire. Fammi dare un'occhiata alla barca.»

Avevano raggiunto il molo e non c'era traccia delle loro sorelle. Almice avanzò sulle assi cigolanti finché non raggiunse la barca. Le nuvole avevano coperto di nuovo la scarsa luna ed era difficile distinguere l'interno della barca.
«Sono lì?» chiese Telma in preda all’angoscia.
«Non vedo nulla, aspetta che salgo.» Almice saltò dentro. Non ricordava di aver lasciato le cime così mal posizionate. Le spinse via.
«Siete già arrivati?» Nerisa si stiracchiò tra gli sbadigli. Almice ebbe un sussulto.
«Che spavento mi hai fatto prendere!» Il giovane fece un passo indietro. «Telma, sono qui.» Sentì la sorella maggiore avanzare lungo il molo.
«Dov'è Janira?» chiese di nuovo Almice a Nerisa. «Immagino sia con te.»
«É qui.» Sollevò alcune reti rimaste nella barca, scoprendo la sua sorellina, profondamente addormentata «Avevamo sonno e, per non disturbarvi, ci siamo messe nella barca.» Almice sorrise sollevato mentre Telma saliva a bordo.
«Ci avete fatto preoccupare. Per fortuna state bene.»
«E papà?» Nerisa era inquieta, normalmente a quell'ora a casa già dormivano.
«Tesoro, papà e mamma non sono più qui.» Telma le accarezzò i capelli, cercando di mantenere la calma. «Alcuni uomini sono entrati in casa e li hanno uccisi. Dobbiamo andarcene, non possiamo tornare a casa.» In quel momento, le dispiacque essere così brusca.
«Non può essere.» Cominciò a piangere senza capire. «Voglio andare dalla mamma.» Provò a saltare fuori dalla barca per correre a casa; Almice la trattenne per un braccio.
«Vita mia, non possiamo tornare a casa, non possiamo tornare indietro. Andreas vuole uccidere anche noi.» La abbracciò con affetto.
«Almice, guarda!» esclamò Telma mentre indicava la casa, nell'oscurità si distingueva l'ingresso scarsamente illuminato, Almice osservò il movimento di una sagoma sulla soglia della porta.
«Andreas ci sta già cercando. Telma, prepara la barca.» Lasciò il braccio Nerisa e saltò sul molo. Per un momento pensò che quella potesse essere l'ultima volta che lo calpestava.
«Che cosa hai intenzione di fare, Almice? Andreas arriverà presto.» Il giovane non disse nulla, si diresse deciso verso la barca di Andreas con un coltello in mano e iniziò a fare a brandelli le vele del suo vicino.
«Corri, Almice! Viene da questa parte.» Il ragazzo si girò verso la casa e osservò che la sagoma si ingrandiva sempre di più, il suo vicino li aveva già visti. Le vele erano già strappate, gettò i remi in acqua e saltò di nuovo sul molo.
«Telma, veloce, molla gli ormeggi!» gridò Almice mentre tagliava gli ormeggi del suo vicino e spingeva la barca verso il mare. Si voltò verso la casa e vide come Andreas fosse molto vicino al molo. Telma aveva già la barca libera dalle funi e il giovane la spinse in mare, saltandoci dentro.
«Voi, aspettate!» Andreas stava già gridando vicino al molo. Telma e Almice avevano preso i remi e ognuno su un lato remavano con tutta la forza di cui erano capaci. La barca di Andreas, libera, con gli ormeggi rotti e spinta dal vento, si stava allontanando.
«Aspettate, maledetti!» Andreas, che in pochi secondi aveva raggiunto la fine del molo, vide la barca di Almice ormai fuori portata. Si voltò per salire sulla sua imbarcazione e imprecò di nuovo quando la individuò ad una decina di bracciate di distanza, che si allontanava lentamente verso il mare aperto. Non ci pensò due volte, saltò in mare per recuperare la barca.
«Almice, Andreas si è gettato in acqua, vuole recuperare la barca per inseguirci.» Nerisa guardava con timore verso la costa per tenere d'occhio le manovre del vicino.
«Non preoccuparti, l'ho lasciata senza vele. Nerisa, prendi il mio remo e continua a remare con Telma.» Le passò il remo e senza perdere tempo iniziò a issare la vela. L'aveva fatto molte volte, in competizione con altri figli di pescatori. I movimenti automatici resero l’imbarcazione pronta in poco tempo. Le sue sorelle continuavano a remare.
«Andreas è già nella sua barca!» esclamò terrorizzata Nerisa, che non smetteva di guardare lateralmente per vedere se il vicino si stava avvicinando. L'uomo era appena salito a bordo della sua imbarcazione e aveva iniziato a dispiegare le vele. Il vento iniziava a soffiare di nuovo e il mare si agitava con più forza. Le nuvole avevano liberato un ampio spazio attorno alla luna e la sua scarsa luce illuminava la scena. Almice si voltò in tempo per vedere il vicino che alzava le mani verso di loro, probabilmente maledicendo la distruzione che il ragazzo aveva praticato sulle sue vele. Il vento non permise loro di udire la serie di imprecazioni.
«Telma, Nerisa, potete smettere di remare, ora il vento ci spingerà e Andreas non può più raggiungerci.»
«Non so se sia stata una buona idea, Almice, il vento sta rinforzando e le onde aumentano. Temo per noi.» Telma guardava il mare agitato con preoccupazione.
«Fidati di me, conosco gli scogli di questa zona e possiamo navigare senza problemi; faremo rotta verso sud lungo il canale per allontanarci dalla costa e poi ad est, verso Kos. Quindi vedremo come nostro zio ci riceve; nel frattempo, saremo al sicuro da Andreas e da quei romani. Ora provate a dormire un po'.» Nerisa era spaventata per quanto accaduto, così come i suoi fratelli. Prese una delle coperte e si rannicchiò per ripararsi dal vento vicino a Janira, che dormiva ancora profondamente senza accorgersi di nulla. Telma si rannicchiò con un'altra coperta, un po' più lontano dalle sue sorelle, vicino alla prua. Almice, accanto al timone da buon timoniere, guidava la barca, salvandola dalle trappole rocciose che si nascondevano sotto le onde in quella zona dell'isola.
Passavano le ore e il vento soffiava. Le onde acquistavano forza, ma senza minacciare la barca. Nerisa si aggrappava a Janira con forza. Era preoccupata che qualche movimento improvviso della barca potesse farla cadere in mare. Non riusciva a dormire. Non riusciva a smettere di pensare ai genitori. Non capiva cosa le avevano detto i suoi fratelli maggiori. Che senso aveva non poter più vedere i loro genitori? Perché erano stati uccisi? Perché stavano scappando? Troppe domande per una bambina di nove anni. Quanto le sarebbe piaciuto dire a suo padre che voleva diventare una pescatrice come lui. Non aveva mai osato dirglielo perché non c'erano ragazze né donne pescatrici nel villaggio, era un lavoro da uomini. Ricordò come si sentisse invidiosa del fratello quando suo padre gli aveva detto che doveva andare a pescare con lui ogni giorno. Sua madre non l'aveva mai capita; una volta le disse che non voleva aiutarla perché quello che voleva fare era andare in mare con Almice e il padre. Lei la mise in castigo per due giorni vietandole di uscire di casa. Cosa le sarebbe accaduto adesso? Continuò a pensare malinconica ai suoi genitori mentre le lacrime le solcavano le guance con la stessa cadenza con cui le onde colpivano lo scafo della barca.
Telma rimase raggomitolata a prua, con un po' di mal di mare. Non poteva dare credito alla sventura che si era abbattuta su di loro. Incolpava l'oste per aver accolto i romani, incolpava anche il naufrago per essere stato trascinato dal mare sulla loro spiaggia. Pensò che non avrebbe mai più rivisto il suo amato Telemaco, ma fu sorpresa da quanto poco le importasse. Le loro intenzioni matrimoniali erano state cancellate con la stessa rapidità con cui erano accaduti gli ultimi eventi. Discuteva costantemente con sua madre, ma le mancava così tanto. Le mattine passate a preparare metodicamente le vecchie ricette memorizzate da sua madre negli anni. I rimproveri quando Telma improvvisava e cambiava qualche ingrediente. Non capì mai la ragione di quell'odio che a volte la madre sembrava avere nei confronti di tutti, anche se sapeva benissimo che la sua infanzia non era stata facile. Ora si sentiva sola di fronte alle avversità, come una volta in cui era caduta tra gli scogli sulla spiaggia e la marea si era alzata. Aveva insistito che i suoi fratelli si allontanassero e non si preoccupassero per lei, ma Almice era andato in cerca dei genitori, che alla fine l’avevano salvata dalla marea. Chi li avrebbe sostenuti ora? Come si sarebbe presa cura dei suoi fratelli? A volte cominciava a capire i sentimenti che sua madre nutriva per il resto del mondo. Le persone non erano buone, sembrava che aspettassero qualsiasi opportunità per nuocere alla persona che avevano accanto, per approfittare delle sventure degli altri per prosperare egoisticamente. Si sentì un'entità estranea da ciò che la circondava, un essere fragile, circondato da pericoli in agguato ovunque.
Almice iniziò a sentire le braccia stanche. Aveva navigato verso sud per diverse ore virando dolcemente fino a fare rotta verso est in modo che le sue sorelle non si accorgessero del cambio di direzione. Poco dopo essere salpati, dovette ridurre la superficie della vela perché il vento minacciava di peggiorare. Aveva schivato gli scogli della baia e sapeva che Andreas non poteva inseguirli, ci sarebbero volute ore per riparare le vele e non aveva remi per raggiungerli. La sua mente viaggiò fino a quella mattina, quando lo scorpione saltava sul fondo della barca. Sorrise malinconicamente. Vide suo padre parlare con lui animatamente mentre teneva il timone della barca con rotta sicura verso la baia. Sentì il braccio vacillare sul timone e lo afferrò più forte. Sarebbe arrivato a Kos, avrebbe portato le sue sorelle in un buon porto e poi, non sapeva come, avrebbe fatto pagare ad Andreas quel tradimento. Non sapeva se suo zio li avrebbe accolti, ma non gli importava granché. Se suo zio non li voleva con sé, nemmeno loro avevano bisogno di lui. Avevano la barca e lui sapeva pescare, non gli sarebbe mancato il cibo e sarebbero andati avanti. Alzò gli occhi al cielo implorando la protezione degli dèi.

1 III

Dopo mezzanotte, nuvole dense nascondevano la luna timida e l'oscurità aveva preso possesso dell'immensità del mare. Almice non aveva alcun riferimento visivo per seguire la rotta. Ora dubitava delle proprie reali possibilità, di poter realizzare il viaggio proposto alle sorelle. Chiaramente gli mancava l'esperienza per poter pilotare la barca in quelle condizioni, semplicemente si lasciava guidare dall’intuizione. Era passata quasi un'ora da quando non aveva più individuato nessuna stella per confermare la rotta. Il vento non era aumentato; ma poiché avevano lasciato il canale, formato tra l'isola di Samos e la terraferma, le onde erano più intense, schizzavano costantemente sul ponte della barca e l'incrocio a volte era eterno. Telma si sentiva fradicia, era andata a sedersi accanto alle sorelle. Nerisa, da parte sua, continuava ad essere spaventata nel tentativo di confortare Janira, che si era svegliata e piangeva inconsolabilmente chiamando la madre. Almice si lamentava con sé stesso per la rotta che aveva preso, invece di andare dritto verso est e raggiungere il vicino continente. Aveva preferito andare a sud per depistare sia il vicino che i romani, se avessero avuto la nave nell'altra baia. Ora non sapeva con certezza quanto fossero lontani dal continente, che nelle giornate limpide era perfettamente visibile da Samos. Sapeva che l'isola di Kos era a sud di quella di Samos, e quindi era molto difficile perdersi; ma la rotta che aveva tracciato con suo padre durante il viaggio verso l'isola seguiva la costa del continente fino a un'altra estensione che quasi raggiungeva Kos. Alla fine, sembrò che le nuvole concedessero una tregua lasciando passare la luce della timorosa luna, Almice guardò l'orizzonte in mezzo all'oscurità sempre più debole alla ricerca di un punto di riferimento che li avrebbe ricondotti di nuovo sulla buona strada. Improvvisamente la barca virò bruscamente scossa da un colpo di mare. Telma, di soprassalto, afferrò l'albero maestro. Le piccole si aggrapparono alla sorella.
«Almice! Che stai facendo?» Nerisa lo rimproverò.
«Mi dispiace» si scusò il fratello, correggendo la rotta. «Abbiamo terra di fronte, ma è troppo presto perché sia l'isola di Kos, né il continente.
«Non sai dove siamo?» La domanda rese nervoso Almice. Il ragazzo si portò la mano alla fronte cercando di ricordare le descrizioni delle isole vicine fatte dai pescatori del villaggio.
«Suppongo che potrebbe essere l'isola di Agathonisi, non sono mai stato qui con nostro padre. In tal caso, siamo sulla buona strada; sebbene sia una zona pericolosa, con molti piccoli isolotti intorno e potremmo incagliarci, meglio se stiamo lontani dalla costa e aspettiamo fino all'alba.
«Siamo ancora lontani da Kos?
«Se è l'isola che dico io, abbiamo ancora un'intera giornata di traversata o un po' di più. Non possiamo continuare a navigare verso di essa in questo momento. Dobbiamo aspettare ad una certa distanza, in modo da non avere incidenti. Spero che la tempesta si attenui e, se le nuvole si dissipano un po' di più, saprò con certezza la rotta che devo seguire. Riposate un po', Poseidone vuole che le onde ci diano una tregua.»

L'alba si fece attendere. Le bambine rimasero in silenzio, stordite. Nerisa non aveva più chiaro il suo desiderio di essere una pescatrice, non pensava che il mare fosse così duro. Telma, sconvolta dall'oscillazione della barca, rimaneva con gli occhi chiusi pregando dentro sé stessa. Janira si era finalmente addormentata per puro sfinimento. Almice, stanco di combattere contro il mare, si sforzava di tenere la barca lontana dalla costa. Alla fine, la tempesta sembrò essere passata con meno forza di quanto lui avesse stimato, ringraziò gli dèi e si alzò in piedi sulla prua dell'imbarcazione. Questa volta intravide la costa irregolare dell'isola con i suoi frangenti alla luce dell'alba, individuò diversi isolotti. Senza dubbio si trattava di Agathonisi. Si sciacquò la faccia con un po' d'acqua e alzò la vela per prendere un po' di vento. Presto la barca riprese la rotta.
A mezzogiorno stavano già vedendo di nuovo la costa continentale all'orizzonte e il ragazzo variò la rotta verso sud. Fortunatamente, non c'era la minima traccia di Andreas o dei romani, senza dubbio li avevano depistati. Si erano leggermente discostati dalla direzione che volevano prendere all'inizio della traversata, ma l'avevano recuperata. Il problema era che le nuvole si stavano addensando di nuovo minacciando una tempesta simile a quella della scorsa notte. Sebbene le bambine avessero mangiato qualcosa, non erano in buone condizioni. La mancanza di abitudine alla navigazione aveva lasciato tutte e tre con un mal mare che non sarebbe scomparso fino a quando non avessero toccato terra.
Il sole cominciava a calare quando si scatenò un forte vento che costrinse Almice a ripiegare l'intera vela. Telma e il giovane si misero a remare. Le onde peggiorarono e presto cominciò a piovere. Se guardavano verso il mare, il cielo di piombo si confondeva con il mantello d'acqua. Almice prese la decisione di avvicinarsi un po' di più alla costa. Non voleva rischiare l'abbordaggio di una nave sconosciuta, la zona era famosa per i pirati che la attraversavano; ma il rischio di imbarcare acqua era maggiore. La tempesta minacciava di essere molto più intensa rispetto a quella della notte precedente.

Il pomeriggio passò e la tempesta continuava a guadagnare forza, la barca aveva la costa a duecento o trecento passi. Almice non voleva rischiare di avvicinarsi per paura di possibili frangenti, quando subirono un colpo tremendo che gli risuonò nelle orecchie come un secco gemito.
«Cosa è successo!» Telma sobbalzò abbracciando forte le sorelle. Il giovane diede una rapida occhiata al ponte dell'imbarcazione.
«Abbiamo una falla nello scafo.» Almice si alzò rapidamente per cercare di tappare la breccia che si era formata a prua. Non era una grande fessura, ma l'acqua spingeva per inondare lo scafo della barca, non sarebbero arrivati molto lontano se non riuscivano a tapparla. Le piccole iniziarono a piangere di nuovo e la tensione si impadronì di loro un'altra volta.
«Posso aiutarti?» Telma, che aveva lasciato il remo per rassicurare le sorelle, si fece avanti per aiutare il fratello.
«Passami la pece e la canapa, sono laggiù.» Indicò una scatola di legno di abete ancorata sotto una delle sponde.
Telma fu sorpresa dalla capacità del fratello di risolvere quel problema inaspettato. La falla fu riparata, ma la tempesta seguì il suo corso e scoprirono nervosamente che il remo dimenticato da Telma era scomparso rubato dal mare. Con un solo remo, guidare la barca nel mezzo delle onde era una missione quasi impossibile. Almice decise di issare la vela un terzo per poter navigare con il vento e guidare così la barca tra le acque agitate.

Il giorno lasciò il posto alla notte e il vento aumentò. L'impulso che la nave riceveva, anche con una superficie di vele così piccola, le dava una velocità eccessiva. Il breccia continuava a far filtrare acqua, ma al momento non era un problema preoccupante. Almice calcolava che, a quella velocità, prima dell'alba avrebbero raggiunto Kos. La vela era stata forzata al massimo e lui la teneva costantemente d'occhio. I nodi che aveva fatto per mantenere aperta solo una parte della vela si sciolsero senza preavviso e l'intera vela si gonfiò improvvisamente. La nave oscillò bruscamente a prua e un rombo secco risuonò dall'albero maestro. I ragazzi alzarono lo sguardo e fissarono la vela strappata che svolazzava con violenza. La nave andò alla deriva scossa dalle onde forti. I quattro spaventati si strinsero intorno all'albero maestro per resistere ai colpi che subiva l'imbarcazione, pregando che la barca non si avvicinasse agli scogli della costa. Almice prese coraggio e cercò di ammainare la vela traballante con l'intenzione di ripararla, ma i suoi sforzi si rivelarono inutili, scoprì che era un compito impossibile nel mezzo della tempesta. Con il crepuscolo persero di vista il riferimento visivo della costa, la barca fu trascinata via dai capricci delle onde e presto Almice non seppe in quale direzione la tempesta li stesse spingendo.

L'alba sorprese l’imbarcazione dei Teópulos. Era stata una notte lunga e tesa e alla fine erano caduti sfiniti per la stanchezza uno dopo l'altro. Telma fu la prima a svegliarsi e controllò con calma che i quattro fossero ancora a bordo. Nonostante i danni, la barca aveva superato la tempesta. Alzò gli occhi e guardò la vela a brandelli, poi rivolse lo sguardo all'orizzonte, attorno alla barca, ma non vide terra in nessuna direzione. Si sentì di nuovo preda della preoccupazione e svegliò Almice.
«Fratello, svegliati.» Gli mise delicatamente una mano sulla spalla. Almice aprì gli occhi. Sdraiato sulla schiena osservò il cielo un po' nuvoloso, non sembrava che stesse per piovere. Si sedette stiracchiandosi.
«Buongiorno, Telma. Come stai? E le piccole?»
«Stanca, è stata una notte molto lunga, ho ancora mal di mare. Tu ti sei addormentato e poi le piccole si sono fatte i loro bisogni addosso.»
«Sì, sento l'odore.» Diede loro uno sguardo affettuoso. Dormivano ancora. «Ieri sera ero esausto e avevo dei problemi a tenere gli occhi aperti» tentò di scusarsi.
«Almice, sono preoccupata, non si vede terra da nessuna parte, dobbiamo fare qualcosa.»
«Non abbiamo un'altra vela a bordo. Dovremo prendere una delle coperte e usarla come vela.»
«Pensi che funzionerà?» Telma si preparò a raccogliere una delle coperte inzuppate dalla tempesta.

Mezzogiorno si avvicinava e il vento, così forte il giorno prima, non mostrava segni di comparire. Janira, stanca per la brusca traversata, alternava momenti di sonno e veglia a pianti e incubi. Nerisa si era chiusa in sé stessa. Si svegliò poco dopo i suoi fratelli maggiori e, senza una parola, si rannicchiò in un angolo guardando il mare come una statua di pietra. Telma provò a parlarle diverse volte; lei le rispondeva solo con monosillabi, tornando sempre con lo sguardo all'orizzonte. La vecchia coperta legata all'albero maestro della barca era così pesante che non si gonfiava nemmeno con la leggera brezza che si avvertiva. Quasi sempre Almice cercava di orientare la barca verso est, lottando con l'unico remo contro la corrente mentre Telma teneva il timone.
«Una barca!» esclamò Nerisa con un pizzico di speranza nella voce. «Guarda, Almice! Una barca laggiù.» Nerisa indicava insistentemente a babordo. Suo fratello guardò in quella direzione.
«Non sappiamo se sono amici oppure no, Nerisa, è meglio che non ci vedano, dobbiamo agire con cautela» le rispose Almice. In effetti, all'orizzonte si vedeva una piccola vela.
«In questo modo, non arriveremo da nessuna parte, fratello.» Telma si era unita alla conversazione. «Non ci resta quasi più acqua e non sappiamo se abbiamo terra nelle vicinanze. Forse possono aiutarci.»
«È molto rischioso» insistette il fratello, dubitando che sarebbe stata la cosa migliore.
«Almice, sembri nostra madre, che diffida sempre delle persone» lo rimproverò sua sorella maggiore. «Non possiamo rischiare di più, Janira deve riposare o la perderemo. Non abbiamo altra scelta che chiedere aiuto.» Nerisa la assecondava con la testa.
«Va bene, vireremo verso quella barca, forse possono vederci.» Modificò la rotta dell’imbarcazione, togliendo per un momento il timone a sua sorella; quindi, iniziò a remare con l'unico remo verso la barca che sembrava avvicinarsi a loro.
La vela si avvicinò lentamente. I Teópulos diedero per scontato di essere stati individuati. Quando fu a circa cinquecento braccia di distanza, calcolò Almice, la barca virò in modo inequivocabile verso di loro. La sorte era stata decisa, avevano dei soldi, se erano pescatori, supponevano di poter pagare un passaggio per Kos; se non lo erano, sarebbe stato meglio se tutto fosse accaduto rapidamente, pensò il ragazzo. Era una imbarcazione molto più grande della barchetta malconcia di Hermes Teópulos. Una grande vela triangolare la spingeva decisamente verso di loro. Dalla piccola barca si vedevano diverse persone manovrare sul ponte. L'agitazione a bordo avvertì Almice che si stavano preparando all'abbordaggio, iniziarono a piegare la vela.
«Oh, della barca! Chi siete?» La voce proveniva da prua, un uomo di corporatura massiccia alzò le mani con un gesto amichevole. Almice si apprestò a rispondere.
«Veniamo da Samos, la tempesta ha strappato la nostra vela e andiamo alla deriva. Abbiamo bisogno di aiuto per arrivare a Kos.»
«Si vede che la vostra barca è danneggiata, salite a bordo, andiamo verso Nisyros, vicino all'isola di Kos. Immagino che potremo lasciarvi da qualche parte sull'isola.»
Le due imbarcazioni si posizionarono fianco a fianco e i giovani salirono a bordo lasciando la piccola barca vuota, alla deriva. L'uomo corpulento che aveva parlato apparve davanti a loro.
«Buongiorno, ragazzi. Sono Zamar, il capitano di questo guscio. Benvenuti sulla mia barca.» Sorrise maliziosamente. «Questi sono i miei uomini.» Fece un gesto indicando i membri del suo equipaggio. Una dozzina di uomini di varie età, trasandati e sporchi. I fratelli iniziarono a temere che non fossero esattamente pescatori. Alcuni marinai lanciavano occhiate lascive al seno di Telma, che risaltava grazie all'abito della ragazza, ancora inzuppato per la tempesta. La barca era certamente di grandi dimensioni, doveva avere diversi compartimenti per l'equipaggio e un notevole spazio di carico. Non si vedeva nessuna rete.
«Grazie per averci raccolti» ruppe il ghiaccio Almice. «Cosa possiamo offrirvi come ricompensa?»
«Non vi preoccupate di questo ora, andate a riposare, tra un paio d'ore mangeremo e parleremo di tutto.» Il capitano, sorridendo, fece un gesto perché scendessero all'interno della barca. I ragazzi, un po' sospettosi, si sentivano esausti e dopo aver parlato brevemente tra loro finirono per accettare l'invito.
L'interno della nave era spartano, scesero dei gradini di legno e si ritrovarono nella stiva. Su entrambi i lati, alcune anfore immagazzinate si sostenevano a vicenda in modo irregolare vicino a delle cuccette che dovevano servire per far riposare l'equipaggio. Il marinaio che li guidava si diresse a prua e li fece entrare in una piccola stanza. Si congedò da loro lasciando la porta aperta e i Teópulos si rilassarono. Era un piccolo recinto, più piccolo del ponte della sua nave, ma era asciutto e se si sdraiavano ci stavano perfettamente. Almice e Telma erano ancora inquieti, la fatica accumulata durante le ore della fuga aveva messo a dura prova i quattro e presto tutti finirono per arrendersi al sonno.

«Lasciatemi maledetti! Lasciatemi andare! Almice, aiutami!» Le urla di Telma svegliarono i suoi fratelli. La prima cosa che Almice pensò fu che la sorella fosse in preda ad un incubo. Aprì gli occhi e si sedette per capire cosa stesse succedendo.
«Lasciate stare mia sorella!» Il ragazzo balzò in piedi pronto a difenderla, ma un tremendo pugno lo fece cadere sulle bambine, che urlavano spaventate.
«Resta qui, moccioso!» Un marinaio barbuto lo minacciava con i pugni in guardia. Almice si alzò di nuovo e senza pensarci due volte avanzò verso il marinaio e gli diede un forte calcio tra le gambe, prendendolo di sorpresa e facendolo contorcere ululando di dolore. Il giovane gli saltò addosso. Un altro marinaio incrociò la gamba facendogli lo sgambetto e Almice, sprovveduto, cadde a faccia in giù accanto alle scale, ai piedi di Zamar. Il capitano della nave, forte e arrogante, gli stava di fronte. Almice notò il suo naso, un grosso naso aquilino mezzo schiacciato e deviato, il risultato di uno sfortunato scontro con un altro possente avversario. Una grossa cicatrice solcava la sua fronte finendo sopra il sopracciglio dell’occhio sinistro, dandogli un aspetto ancora più fiero.
«Vi ho ordinato di lasciarli riposare. Lasciatela stare!» I marinai si spaventarono quando sentirono l'ordine del capitano alle loro spalle.
«È la nostra ricompensa» recriminò uno degli uomini, quello che teneva stretta Telma per un braccio. Zamar tirò fuori un piccolo pugnale e lo portò con la velocità del pensiero al collo di quello che aveva parlato.
«Lasciala andare! Subito!» Il tono era autorevole e non lasciava dubbi. Il marinaio lasciò andare la ragazza. Telma si accovacciò piangendo accanto al fratello. «Voi tre, salite sul ponte e che non vi veda più in giro qui sotto.» Quindi abbassò lo sguardo sui ragazzi. «Per quanto riguarda voi due, è meglio che torniate nella vostra cabina.» Vi prego di scusare il mio equipaggio, sono uomini di mare e non hanno le maniere adatte a curare gli ospiti. Vi assicuro che non vi daranno più fastidio.»
I due fratelli, ancora scossi, si alzarono e tornarono insieme nella cabina. Abbracciarono le loro sorelle. Nessuno parlò. Spaventati, non sapevano se potessero fidarsi del capitano della barca. Zamar, che al momento li rispettava; si allontanò farfugliando qualcosa tra sé mentre si dirigeva verso il ponte. Passò mezzogiorno e, sebbene avessero un secchio pieno d'acqua nella loro cabina, nessuno scese per offrire loro del cibo. Si guardarono bene dall'andare a chiedere da mangiare. Lasciarono passare la giornata in silenzio, pensando nel loro intimo che era stato un errore salire su quella imbarcazine, guardandosi l'un l'altro con la paura riflessa sui loro volti fino al tardo pomeriggio.
«Si può sapere a cosa stavate pensando, idioti?» Zamar si rivolse ai tre marinai nella privacy della loro piccola sistemazione sul ponte. «Avete solo segatura in testa?» Uno dei marinai, quello che aveva preso Telma, parlò.
«Captano, ci avevi detto che in questo viaggio avremmo avuto il nostro bottino e abbiamo pensato che ...»
Zamar lo interruppe con rabbia:
«Avete pensato! Non avete nemmeno una minima idea di come stanno le cose. Forse non conoscete il valore che questi ragazzini possono avere a Tiro? Sicuramente i quattro sono ancora vergini. E voglio che lo rimangano!» ribadì l'ordine trapassandoli con gli occhi. «È chiaro?» I tre elementi annuirono. «Non hanno idea della navigazione, mi è bastato vedere la loro barca. Vogliono andare a Kos, quindi li porteremo lì.»
«Ma se noi non possiamo avvicinarci a Kos dall'anno scorso, ci cattureranno» lo interruppe l'altro marinaio in tono ironico.
«Non capite niente, stupidi. Meglio per tutti se pensano di essere liberi all'interno della nostra barca, in questo modo non ci daranno problemi finché non arriveremo a Tiro. In questo viaggio non abbiamo avuto molta fortuna con gli abbordaggi, ma questi ragazzi valgono molto più di quanto loro stessi immaginano. So che non siamo in un porto da molto tempo per riposare; ma aspettate, se qualcuno di voi fa loro il minimo danno, lo lascerò nel primo porto dove attraccheremo senza paga né bottino. Spero che vi sia chiaro, ci sono molti soldi in gioco e non lascerò che nessuno di voi rovini tutto pensando come un animale.»
La barca si stava dirigendo verso est. Navigò tutto il giorno; il mare calmo e il dolce vento da nordovest erano favorevoli. Al crepuscolo, il capitano mandò a chiamare i ragazzini nel suo alloggio. Un marinaio andò a cercarli e loro, affamati e diffidenti, si affrettarono a salire in coperta, sbirciando tutto l'equipaggio che trovavano sul loro cammino.
«Avanti, amici miei» disse Zamar sorridendo dalla porta. «Spero che abbiate riposato un po', noi abbiamo lavorato molto qui in coperta e abbiamo pensato che dopo l'incidente di stamattina fosse meglio lasciarvi riposare fino al pomeriggio.» I fratelli entrarono nella stretta cabina e si sedettero insieme su una delle panchine fissate al suolo.
«Buon pomeriggio, capitano» cominciò a parlare Almice. «Perché i suoi uomini si sono comportati così?» Zamar si aspettava quella domanda.
«Dovete scusarli, sono a bordo da molto tempo e talvolta esagerano un po'. Li ho già rimproverati. Bene, ditemi, so che volete andare a Kos, ma non so come siate arrivati fino al punto in cui vi abbiamo raccolto.» Almice gli raccontò rapidamente, senza entrare in molti dettagli, la fuga da Samos e l'odissea affrontata con la loro barca. Apparentemente Zamar stava ascoltando con attenzione mentre calcolava quanto poteva ottenere per ciascuno di loro al mercato degli schiavi di Tiro.
«Così siete dei fuggitivi.»
«No, per niente» chiarì Telma, un po' contrariata dall'osservazione. «Non siamo dei fuggitivi. Abbiamo lasciato Samos perché non avevamo più famiglia lì, il nostro parente più stretto è a Kos.
«Scusatemi, non era mia intenzione offendervi. Comunque sia, ora siete in salvo sulla mia barca. Dai, sono sicuro che avete fame, mangiate un po'.» Si sedette anche lui al tavolo e si servì una succulenta coscia di pollo arrosto. Nerisa e Janira lo imitarono immediatamente mordendo avidamente il cibo. Telma e Almice incrociarono gli sguardi, dubitando per un momento prima di unirsi anche loro al pasto.
La cena passò tranquillamente, i ragazzi riacquistarono le forze e saziarono il loro appetito, erano passati due giorni da quando i genitori erano stati uccisi, due giorni eterni in mezzo al mare. Non erano abituati a mangiare carne, la loro dieta abituale includeva quasi sempre pesce e verdure e la carne veniva assaggiata solo in occasioni eccezionali. Recuperarono il desiderio di andare avanti.
«Vedo che non mangiavate da un po' di tempo.» Zamar si grattò la testa mentre parlava, scavando tra i capelli arruffati.
«Sì, abbiamo portato del cibo, ma in poca quantità; quasi tutto pesce essiccato, pensavamo che la traversata sarebbe stata più semplice. A quest'ora pensavamo di stare a Kos.»
«Il mare fa prendere molti spaventi. Fortunatamente siete vivi, anche se avete deviato abbastanza dalla vostra rotta.»
«Siamo così lontani da Kos?» Almice era sorpreso.
«Non molto, ad un paio di giorni; si capisce che la corrente vi ha trascinato verso ovest. In ogni caso, vi porteremo lì. Non significa deviare troppo dalla nostra rotta.»
«Per questo non si preoccupi, capitano, abbiamo del denaro per pagare il passaggio.» Almice prese le monete dall'interno dei suoi abiti e le offrì a Zamar. Il capitano le osservò, erano monete coniate dai Tolomei.
«Sono pochi soldi, ma sufficienti» si schiarì la gola e cambiò argomento, riponendo le monete nella borsa. «Domani sarà una lunga giornata, sarà meglio che vi ritiriate per riposare.»
«Faremo così, capitano.» rispose Telma alzandosi.
«Ancora una cosa, preferisco che non passiate per il ponte, lo dico per l'equipaggio, sono brave persone, ma è meglio prevenire.» Zamar spogliava la giovane donna con gli occhi mentre parlava. La ragazza aveva sicuramente molto più valore dei suoi fratelli nei mercati di Tiro. Il pirata sorrise tre sé mentre li congedava.
La notte trascorse senza ulteriori incidenti. Janira si addormentò velocemente. Telma e Nerisa erano preoccupate perché la bambina non parlava affatto, in due giorni praticamente non aveva detto nulla, né pianto né giocato. Era come se si fosse chiusa in sé stessa, isolandosi da tutto ciò che la circondava. Almice si sentiva responsabile della situazione di tutti loro, specialmente Janira; dopo tutto, era la più indifesa.

La mattina salirono per un po' sul ponte per fare colazione con il capitano; era una buona scusa per respirare l'aria fresca. Gli sguardi lascivi che alcuni uomini lanciarono a Telma li fecero tornare presto sottocoperta. Avevano molto tempo per pensare. Almice scoprì che stavano andando ad est, era chiaro che avevano deviato; sebbene il capitano non avesse detto che fossero così lontani da Kos, non capiva come fossero riusciti ad allontanarsi così tanto dalla loro rotta originale. Consumarono pranzo e cena sottocoperta, preferirono non uscire sul ponte. Il capitano scese più volte a trovarli affinché si sentissero più sicuri, anticipandogli che probabilmente sarebbero arrivati a Kos alla fine del giorno successivo.
Doveva essere già oltre mezzanotte quando delle mani ruvide afferrarono Telma tappandole la bocca. Cercò di lottare, ma diversi uomini la tenevano e la portarono fuori dalla stanzetta senza che i suoi fratelli si accorgessero di nulla. Cercò di liberarsi per chiedere aiuto, come l'altra volta, spaventata, temendo il peggio, ma le mani dei suoi rapitori si strinsero come catene sui suoi mani e piedi. La portarono alla base dell'albero maestro, sottocoperta. Questi uomini parlavano a bassa voce mentre gli occhi spaventati di Telma cercavano di trovare una via d'uscita inesistente da quella assurdità. Pur sentendosi impotente, cercò disperatamente di divincolarsi dai suoi stupratori. Un duro colpo alla testa fece cessare la sua lotta.
Uno dei marinai le strappò la tela che le copriva il busto. I suoi seni emersero tremuli alla luce dei luminari, riflettendo il sudore causato dalla lotta. Un altro membro dell'equipaggio, senza fare rumore, le sollevò il resto degli abiti fino alla vita e diede libero sfogo ai suoi più bassi istinti. Telma tornò in sé urlando per il terrore. Era pienamente consapevole di ciò che stava accadendo, le sue peggiori paure stavano diventando realtà e doveva fuggire in ogni modo. Gli stupratori avevano abbassato la guardia e Telma aveva le mani libere così cercò di liberarsi del corpulento marinaio che la stava possedendo. In quel momento, Almice si svegliò di soprassalto per il rumore, si guardò intorno e vide sua sorella in mezzo alla stiva sotto il corpo del marinaio. Corse fuori pieno di rabbia verso l'aggressore, brandì un coltellino che teneva nascosto nei vestiti e dal quale non si separava mai, mentre Telma continuava a strillare e lottare, affondando le unghie con tutta la sua forza negli occhi del bastardo che le stava sopra. Gli altri marinai tentavano di allontanare le mani di Telma dagli occhi del loro compagno.
«Lasciala, figlio di puttana!» Almice si avventò su uno degli uomini che gli sbarrava il passo conficcandogli la piccola lama nella spalla. La vittima gli sferrò una ginocchiata allo stomaco, lasciandolo steso a terra senza aria.
«Lasciami, cagna!» Il marinaio che stava violentando Telma si mise a sedere pieno di dolore, con un occhio lacerato e fuori dall’orbita. Afferrò la ragazza per il collo con tutte le sue forze e le sbatté la testa più volte contro la base dell'albero maestro con insolita violenza mentre urlava. Fu l'ultima cosa che fece.
«Che cazzo state facendo, idioti!» Zamar aveva appena infilzato il marinaio da dietro con la sua spada. «Vi avevo detto di stare lontano da loro. Stupidi!» Un altro marinaio lo affrontò con una spessa barra di legno.
«Chi ti credi di essere per darci ordini?» Era un essere enorme, che restava piegato per evitare con la testa il tetto della stiva, Almice, ancora a terra, osservava la scena senza osare alzarsi, non aveva mai visto un uomo così grande. Si avventò sbuffando su Zamar, che fece un rapido movimento con la mano sinistra e un paio di coltelli rimasero si conficcarono nel torace di quella torre, che crollò come una massa inerte vicino alle pietre che fungevano da contrappeso della nave. Il terzo uomo, quello che aveva ferito Almice, lasciò cadere il bastone che brandiva, implorando clemenza. La lama della spada di Zamar fu infilzata nella carne umana una seconda volta quella notte.
Nerisa e Janira si erano svegliate, spaventate dal clamore della rissa e osservavano la scena con orrore senza il coraggio di lasciare la propria cabina o addirittura muoversi. Rimasero immobili come statue. Gli altri membri dell’equipaggio si avvicinarono, in attesa. Almice si alzò a sedere e si mosse lentamente verso la sorella maggiore. Telma era inerte, la testa deformata da colpi, i capelli arruffati e alcuni rivoli di sangue le scendevano sul collo. I suoi occhi senza vita e inzuppati di lacrime erano rivolti al ponte. Le abbassò i vestiti per coprirle il sesso e le coprì il seno.
«Come sta tua sorella?» si interessò Zamar, avvicinandosi a lui.
«Ci hai detto che eravamo al sicuro con te!» Il ragazzo lo rimproverò, la sua voce era un amalgama di rabbia e disprezzo. «Mia sorella è morta, i tuoi uomini l'hanno uccisa. Questo è il tuo maledetto aiuto?» Girò la faccia verso Zamar con uno sguardo gelido, che per un istante alterò la fredda compostezza del capitano.
«Non volevo che ciò accadesse, mi dispiace per tua sorella. Ho perso molti soldi a causa di questi idioti, ma ora non mi daranno più fastidio.» Inguainò la spada nel fodero.
«Dei soldi? Cosa volevi fare con noi, miserabile?» Zamar gli ruppe un labbro con un pugno. Almice sopportò il dolore mentre il sangue gli affiorava dall'interno del labbro filtrando attraverso la gola e lasciandogli un sapore amaro.
«Disgraziati! Venderò te e le tue sorelle a Tiro, arriveremo in città tra una settimana.» rise sonoramente. «Pensavate che con alcune monete avreste potuto pagare il passaggio? È un peccato che tua sorella sia morta, mi avrebbero dato molto denaro per lei. Almeno ho voi e il corpo della tua amata sorella potrà soddisfare il resto dell'equipaggio mentre è ancora caldo, finalmente servirà a qualcosa di più che lamentarsi.» Almice lo colpì, accecato dalla rabbia. Ma un colpo secco alla schiena lo lasciò di nuovo privo di sensi.
Dopo un po'. Almice si svegliò chiuso nel piccolo recinto accanto alle sue sorelline, che stavano piangendo. Dall'altra parte del parapetto di legno che fungeva da muro, si udivano dei rumori. Tentò di aprire la porta spingendola ma era bloccata dall'esterno, erano chiusi dentro. Allora Almice guardò attraverso le fessure delle assi rosicchiate. Ciò che vide lo lasciò abbattuto. Alcuni uomini di Zamar facevano la fila per abusare del corpo senza vita di sua sorella. Non rispettavano nemmeno i morti. Cominciò a gridare, imprecare e supplicare, ma sembrava che le sue urla non potessero andare oltre la piccola cella. Gli dèi dovevano essere occupati in altri compiti più importanti per non voler intervenire in quel macabro evento. Continuò un tempo infinito a minacciare e implorare fino a quando non cedette alle emozioni e cominciò a piangere con le sorelle, distogliendo gli occhi dalle fessure della cella. Che cosa avevano fatto agli dèi perché tutte le disgrazie del mondo si abbattessero su di loro una dopo l'altra? Quali speranze gli restavano in questa vita? Quale sarebbe stato il futuro sinistro che inevitabilmente si stendeva sopra di loro? Non c'era più nulla al mondo che contava. Forse nemmeno i loro dèi erano veri, potevano anche non esistere. Almice voleva morire, magari fossero tutti riuniti insieme ai loro genitori.
«Su, figlioli» la voce di un marinaio li chiamava con dei colpi alla porta della stanzetta. Nerisa fu la prima ad aprire gli occhi, doveva essere già mezzogiorno. La piccola apertura che illuminava la loro cella nella prua della nave lasciava passare una luce diafana. I suoi occhi erano irritati dal pianto. Si sollevò per svegliare la sorella. Janira aprì gli occhi terrorizzata, immaginando qualche nuova calamità. Sua sorella le sorrise e l'abbracciò forte. Anche Almice si svegliò e si mise una mano sul labbro, riusciva a malapena a sfiorarlo senza emettere un gemito.
La porta si aprì e il marinaio chiese loro seccamente di uscire. Almice lo guardò attentamente, cercando di riconoscere nella sua faccia uno di quelli che ore prima erano in fila per profanare il corpo di sua sorella, ma non lo riconobbe. L'uomo li esortò a salire sul ponte. Almice afferrò le mani delle sorelle e si diressero con passo esitante verso i gradini che salivano sul ponte. Accanto alla base dell'albero maestro, una piccola macchia rossastra indicava il luogo in cui sua sorella era stata strappata alla vita. Si guardò intorno con gli occhi, non riuscì a localizzare il suo corpo.
Nerisa non si era sbagliata, il sole era già alto quando sbucarono sul ponte. Una giornata di sole li salutava. Nuove lacrime apparvero negli occhi della giovane donna, forse a causa della luce abbagliante o perché né sua sorella né i genitori potevano più contemplare quel sole. Janira non aveva ancora detto una parola. I suoi occhi rimanevano costantemente terrorizzati, guardando sempre il terreno senza voler contemplare la realtà che la circondava. Almice si rimproverò per essersi addormentato senza sapere cosa ne era stato del corpo della sorella. Lo cercò di nuovo sul ponte, ma notò solo alcuni tessuti macchiati di sangue accanto al lato di dritta. Suppose che l'avessero gettata in acqua, insieme ai cadaveri dei suoi stupratori. Il solo pensiero gli diede i brividi.
«Spero che abbiate riposato.» Zamar salutò come se durante la notte tutto fosse successo con assoluta normalità. Il giovane fu sorpreso da questo tremendo sangue freddo. Quell'uomo si era liberato di diversi membri dell’equipaggio e poi, senza scrupoli, aveva permesso ad altri di disonorare il corpo senza vita di Telma.
«Vi ho mandato a chiamare per dirvi che cosa ne sarà di voi d'ora in poi. Queste sono cose che succedono, ieri sera con tua sorella non avrebbe dovuto accadere nulla; quindi, per evitare qualsiasi altro incidente, posizioneremo dei bellissimi ceppi sui vostri piedi in modo che non possiate fare sciocchezze. Non voglio perdere altri soldi.»
«Non puoi farci questo!» Nerisa aveva il viso stravolto.
«Beh, penso che il genio vi derivi dalla vostra famiglia» rise il capitano. «Senti, piccola, posso fare quello che voglio con te, persino offrirti ai pesci come cibo. Vostra sorella li ha già nutriti stasera.»
«Sei un miserabile!» Almice lottò con furia ma i suoi rapitori lo tenevano ben stretto.
«No, non più di quelli che hanno ucciso i vostri genitori.» Almice fu sorpreso, non gli avevano raccontato come erano morti i loro genitori. «Sorpreso?» Zamar continuò come se gli avesse letto nel pensiero. «Sognate ad alta voce e i vostri incubi sono già noti all'intero equipaggio. Come ho detto, non voglio che moriate, voglio solo essere pagato bene per voi. La vita dello schiavo non è così male, sarete sempre nutriti. E se non possono darvi da mangiare, vi venderanno a un altro. Sarete proprietà con un valore. La gente dell'Oriente non maltratta i propri schiavi, a volte li tratta persino meglio dei propri familiari.»
«Cosa ti abbiamo fatto? Ti abbiamo solo chiesto aiuto.» Nerisa non capiva l'atteggiamento del capitano.
«Così è la vita, ragazzina, siete molto giovani e avete tutta la vita davanti a voi per progredire e arrivare ad essere liberti, tutto dipenderà da voi. Per ora, trascorrerete una settimana all'ombra, il tempo che impiegheremo per arrivare a Tiro, sarà la cosa migliore per voi, non vorrete che vi succeda ciò che è accaduto a vostra sorella?»
«Ci hai detto di fidarti di te, che ci avresti portato a Kos.» Almice era sempre più furioso. «Fin dall'inizio volevi farci diventare schiavi!»
«Quando vi abbiamo individuati alla deriva, avevate già superato l'isola di Kos. Quello che abbiamo fatto è stato darvi una possibilità. Sareste finiti bruciati dal sole e morti di sete in mezzo al mare, ora almeno avete un'opportunità e noi una ricompensa per avervi soccorso. Non si tratta di nulla di personale, è il nostro lavoro. Ci rivedremo a Tiro.» Il capitano si voltò e si diresse alla sua cabina, mentre i marinai iniziarono a mettere loro le catene.

I giorni passarono lentamente sotto il ponte della nave. La piccola apertura della stiva e l'unico pasto al giorno che gli servivano erano gli unici riferimenti del passare del tempo che i Teópulos avevano. Il cibo era diventato una miscela di farina e acqua difficile da deglutire. L'acqua non mancava, ma lo spazio era ridotto e i bisogni corporali, rinchiusi com’erano, li facevano in un angolo della stanzetta.
Sebbene i primi due giorni furono molto difficili, Nerisa e Almice cercarono di convincere la loro sorellina a recuperare la parola. Non riuscirono nemmeno ad ottenere un minimo balbettio della ragazzina. Almice aveva trovato un piccolo pezzo di carbone sul pavimento, con cui disegnare degli scarabocchi per far divertire la sorella. Quando calava il buio, Nerisa si inventava piccole storie che cercavano senza successo di strappare un sorriso alla bambina.
Il tempo era bello e la traversata non presentò contrattempi. Zamar ottemperò a quanto promesso e i ragazzi non uscirono dalla loro cella né furono infastiditi nuovamente dall'equipaggio. Janira non recuperò la parola; non appena i suoi fratelli smettevano di parlarle, abbassava la testa guardando a terra per ore. Mangiava appena la sbobba che le davano e sembrava che stesse perdendo peso col passare dei giorni.
Nerisa e Almice ebbero molto tempo per parlare di tutto quello che era accaduto. Avevano molta nostalgia dei genitori e di Telma. Approfittarono delle ore di reclusione per raccontarsi molte cose su sé stessi e le loro esperienze di vita. Ripassarono a fondo le loro brevi vite. Impararono di più su loro stessi in quei giorni che in tutti gli anni precedenti. Quanto era matura Nerisa per la sua età, pensò Almice, quale forza presentasse. I primi giorni aveva pianto molto, ma ora suo fratello credeva che fosse molto più forte di lui. Lei pensava lo stesso del fratello, si sentiva orgogliosa di lui e voleva sollevargli il morale a tutti i costi. Evitavano di parlare di cosa sarebbe successo una volta arrivati a Tiro. Quando la loro sorellina lasciava che condividessero i suoi pensieri, cercavano di far uscire Janira dall'abisso interiore in cui era precipitata, ma era uno sforzo arduo con scarsi risultati. La bambina stava cadendo in una forte depressione in cui affondava gradualmente senza che i suoi fratelli sapessero come aiutarla

I giorni passarono e la traversata finì. A metà mattina dell'ottavo giorno di reclusione, Zamar si affacciò alla loro cella con il volto di una persona gentile incapace di nuocere a chiunque. Avevano raggiunto Tiro.

1 IV

La giornata era soleggiata a Tiro. La città si trovava sulla costa orientale del Mediterraneo, quel mare centrale che comunicava con il mondo intero, il Mare Nostrum che i romani cercavano di monopolizzare per il loro impero emergente. La metropoli, rasa al suolo quasi un secolo prima da Alessandro Magno e dalle sue truppe, si trovava in un punto strategico che costituiva una porta naturale con i Paesi dell'Oriente. Le vecchie rotte delle carovane, che per qualche tempo cambiarono il loro itinerario, tornarono presto a Tiro. La vecchia città, distrutta anni prima quasi interamente, iniziò a risorgere dalle sue ceneri con nuove energie.
Le rotte dell'Asia, che arrivavano attraversando l'Eufrate e il Tigri, alimentavano la città di merci esotiche che in seguito erano distribuite verso sud ai mercati egiziani, verso nord in seguito all'estensione di quello che era l'impero macedone e verso il mare Mediterraneo raggiungendo le colonne di Melkart e anche oltre il mondo civilizzato grazie allo zelo commerciale dei suoi mercanti. In cambio, Tiro era diventata una fonte di risorse per i Persiani e i loro vicini limitrofi, fornendo loro vino, olio, ceramiche e, soprattutto, schiavi. La città un tempo demolita era diventata il principale mercato sulla costa orientale del Mediterraneo per l'acquisto e la vendita di carne umana come manodopera. La sua situazione strategica le permetteva di fornire schiavi a molti trafficanti che vagavano per le principali città del Mediterraneo orientale e le terre del vicino Oriente.
Qualsiasi essere umano poteva cadere in stato di schiavitù. Le guerre e le liti tribali erano la principale via di rifornimento per gli schiavi che in seguito riempivano di forza lavoro templi, terreni agricoli e proprietà private. Un altro modo importante di conversione in schiavitù era quello generato dal mancato pagamento dei debiti contratti con altri cittadini o con le diverse istituzioni; in molte regioni si veniva puniti con il pagamento del debito per mezzo della perdita della libertà per un periodo di tempo determinato. La disperazione e lo sradicamento potevano anche portare alla schiavitù. Janira, Nerisa e Almice osservavano la città dal ponte della nave, preoccupati per il futuro. Nel loro villaggio non avevano mai visto uno schiavo; anche se sapevano perfettamente di cosa si trattasse; le persone abbandonate dagli dèi che avevano perso la libertà. E così si sentivano i tre, abbandonati dagli dèi, sottoposti ai loro capricci e spinti sull'abisso dell'incertezza. Il loro timore principale era di essere separati. Janira non capiva bene la situazione, gli eventi degli ultimi giorni sfuggivano completamente alla sua comprensione. Nerisa e Almice avevano provato a spiegarglielo il giorno prima, ma la bambina non capiva perché dovevano andare a vivere a casa di uno sconosciuto. Lei voleva insistentemente tornare a casa sua con i genitori, queste furono le uniche parole che riuscirono a farle pronunciare nei giorni della prigionia.
Il porto di Tiro presentava agli occhi dei visitatori un trambusto commerciale paragonabile ad altre grandi città del mondo. Numerose navi entravano e uscivano costantemente dal porto. Attaccate le une alle altre, a causa della mancanza di spazio sui moli. La barca di Zamar attraccò a fianco di un'altra imbarcazione di dimensioni simili. I capitani si salutarono. La lingua che usavano era strana. Almice avrebbe poi scoperto che parlavano in fenicio. Per raggiungere il molo del porto, i ragazzini dovettero passare in catene, tra gli sguardi indifferenti dell'equipaggio delle altre navi, da una imbarcazione all'altra fino a quando non misero piede sulla terraferma.
Nerisa e Almice tentarono ancora una volta di convincere il pirata a rinunciare all’intenzione di venderli; la risposta fu un colpo alle costole del ragazzo, diligentemente propinato da uno dei marinai. Janira si aggrappò forte al braccio della sorella.
Il piccolo gruppo, guidato da Zamar e scortato da quattro marinai, iniziò ad avanzare attraverso la darsena congestionata della città. L'odore del porto era intenso, le bancarelle con le sarde arrostite diffondevano l'aroma caratteristico e penetrante di quel piatto caratteristico. Le bancarelle situate lungo le strade vendevano anche birra, vino e vari cibi molto stagionati che impregnavano i sensi dei passanti con forti aromi. Le viscere dei tre bambini brontolavano per la fame alla vista di quei cibi, avevano trascorso più di una settimana a nutrirsi esclusivamente di acqua con farina e dei resti di cibo che alcuni marinai gli avevano dato qualche volta.
Gli uomini di Zamar li condussero lungo vie strette e buie addentrandosi nella città popolata. Gli odori del porto lasciarono il posto ad altri tipi di odori altrettanto profondi. Le feci degli abitanti si ammassavano lungo i bordi dei vicoli e gli insetti si muovevano accanto ad esse liberamente. Anche alcuni roditori apprezzavano l'atmosfera e Almice ricordò la scena vissuta con Telma giorni prima nella loro casa. Il percorso nella città li condusse attraverso diversi quartieri. Era la prima volta che i ragazzi si trovavano in una grande città. Ad eccezione di Almice, le sorelle non avevano mai lasciato il piccolo villaggio, una popolazione di meno di duecento anime. Janira continuava a camminare incurante delle catene ai piedi. I suoi occhi erano spalancati, guardando molti strani personaggi in quella città piena di sfumature. Almice fu deluso da ciò che vide mentre entravano nella metropoli; più che una città, sembrava un porcile, così diversa dalle lontane acropoli greche che aveva visitato con suo padre. Nerisa non immaginava quante persone potessero vivere stipate in così poco spazio. Mentre le mancavano la spiaggia e la casa, istintivamente afferrò più forte la mano della sorellina.
Camminarono a lungo attraverso strade irregolari e caotiche. Attraversarono il quartiere dei conciatori, che lavoravano i pellami producendo un odore nauseabondo e fetido che permeava le narici di tutti i passanti. Attraversarono anche il quartiere dei cestai, dove osservarono in alcuni magnifici portali opere d'arte fatte di palma e canna esposte per essere acquistate dal miglior offerente. In quello dei tessitori, le strade erano ricoperte da centinaia di tessuti e tappeti che coprivano le pareti delle case formando un mosaico multicolore che sembrava lasciare il posto a un altro mondo. Nerisa ammirò i colori vivaci dei tessuti che davano vita alle figure in molti modi. Continuarono a camminare fino a che a poco a poco le case iniziarono a distanziarsi. Svoltarono ad un incrocio e davanti al gruppo si aprirono, sulle mura, le colline che flirtavano con la città.
Le caviglie dei ragazzini sanguinavano già quando attraversarono le mura. Zamar e il suo gruppo presero uno stretto sentiero scarsamente percorso che si perdeva arrampicandosi dietro una piccola collina. Dopo aver raggiunto la cima arrotondata, i ragazzini guardarono la loro destinazione dall'altra parte. Ai piedi della collina, sul suo pendio orientale, c'era un ridotto gruppo di case circondato da una piccola palizzata che occupava un'importante area di terreno.
Almice aguzzò la vista osservando le grandi gabbie di legno all'interno della palizzata e si rese conto che Zamar li stava portando lì. Il sentiero scendeva serpeggiante fino a raggiungere il recinto e proseguiva accanto alla palizzata costruita con tronchi di legno irregolari, paglia secca e fango che formavano un muro leggermente più alto della statura di un adulto. Pensava che non sarebbe stato difficile da saltare. Continuarono lungo la struttura fino a una grande porta chiusa formata da due spesse lastre di legno. Zamar estrasse la sua spada di bronzo e colpì con energia una delle porte con l'impugnatura dell'arma. Attesero alcuni istanti e la porta cominciò ad aprirsi. Un uomo molto piccolo, dell'altezza di Nerisa, iniziò ad aprire la pesante porta per lasciare il posto al seguito del pirata. Il nano riconobbe il capitano e lo salutò servile, si scambiarono alcune parole e l'omino gli fece un gesto per invitarlo a seguirlo. L'intero gruppo avanzò attraverso il recinto dopo il capitano. I ragazzini si guardavano intorno con il timore dell'ignoto riflesso negli occhi.
L'interno del recinto era spazioso, con un'ampia spianata punteggiata su entrambi i lati da diversi edifici di fango. Molte persone si dedicavano a diverse faccende. Era come se fosse un piccolo paese, cresciuto all'ombra di una grande città. Al centro della spianata c'erano le enormi strutture di legno che Almice aveva visto dalla cima della collina e spiccavano su tutto il resto. Il gruppo continuò ad avanzare fino a superarle. L'odore emanato dalle gabbie era aspro e penetrante. I ragazzini osservavano gli individui rinchiusi lì dentro. Sporchi, mal vestiti o addirittura nudi, i loro occhi spenti li guardarono passare come se fossero fantasmi. Uomini, donne e bambini, divisi in diversi scomparti. Individui che erano spaventosi e altri che ispiravano pietà. Tutti molto diversi l'uno dall'altro. Tutti loro erano schiavi.
Il nano avanzò verso una costruzione di pietra che si trovava sul fondo della palizzata. Il gruppo si fermò vicino all’edificio. Il piccolo uomo parlò a Zamar in quella strana lingua che Almice aveva già sentito e i due uomini avanzarono fino a perdersi all'interno della casa.
Era passato un bel po' di tempo da quando il capitano era entrato in quello che sembrava essere l'edificio principale del recinto. I marinai si rilassarono parlando delle loro cose e i tre ragazzini, che rimasero in catene, si scambiarono a bassa voce delle impressioni su quel luogo quando la porta della casa si aprì di nuovo, questa volta per far posto a Zamar insieme ad un uomo di circa cinquant'anni, con la barba folta e grigia, un po' più basso del pirata e di corporatura robusta, sicuramente per il buon cibo. Entrambi avanzarono senza parlare fino ai ragazzini. Lo sconosciuto si piantò di fronte ai tre fratelli guardandoli con occhi esperti, esaminando i possibili difetti della merce, valutandone le possibilità commerciali. Li costrinse ad aprire la bocca, ma Almice resistette finché un altro colpo alle costole non gli fece cambiare atteggiamento. L'ispezione fu molto breve. L'uomo scambiò alcune parole con Zamar ed entrambi tornarono all'interno della casa.
I ragazzini ora divennero più consapevoli della loro situazione. Stavano negoziando il prezzo. Sembrava che il loro destino fosse deciso e che, nonostante le loro insistenti suppliche, il capitano li avrebbe venduti a quell'uomo. Si tennero tutte e tre per mano mentre si scambiavano delle occhiate spaventate.
La porta si aprì di nuovo e Zamar uscì sorridendo. Si chiuse la porta alle sue spalle e si avvicinò al gruppo. I ragazzi pensarono per un momento di essersi sbagliati.
«Beh, sembra che le nostre strade si separino qui.» Camminò verso i ragazzini alzando le braccia senza riuscire a reprimere un sorriso sulle labbra. «Avete già un proprietario.»
«Cosa ci hai fatto?» Nerisa parlò con risentimento, con voce insicura. Quella era la conferma delle sue peggiori paure.
«Vi ho venduto a uno dei più noti commercianti di schiavi di Tiro, e a un prezzo molto buono.» Si toccò con la mano destra la borsa che portava appesa ai vestiti. «Non vi ci vorrà molto per conoscere la vostra nuova casa. Deve ammortizzare ciò che ha pagato per voi.»
«Sei un essere spregevole» lo accusò Almice.
«Non credo, come ti ho spiegato qualche giorno fa, vi ho fatto un favore prendendovi a bordo e impedendovi di morire di sete, anche se mi dispiace per vostra sorella. Gli ho chiesto di provare a vendervi insieme» mentì scusandosi davanti ai ragazzini. «Abbiamo fatto solo uno scambio, vi ho salvato e voi mi avete ricompensato per questo; per il resto, è stato un piacere.»
Il pirata si congedò senza aspettare una risposta e si rivolse ai suoi uomini facendogli cenno di accompagnarlo, si voltò e si diresse verso l'uscita dal recinto. I fratelli restarono lì, in attesa del loro futuro incerto, sorvegliati da due uomini muscolosi come torri che avevano circa trent'anni.
Dopo un po', la porta dell'edificio si riaprì e il mercante di schiavi si avvicinò ai ragazzini.
«Quanti anni hai?» si rivolse ad Almice in un greco rarefatto.
«Dieci.» La voce del ragazzo suonava timida, incerta.
«E cosa sai fare?» Il mercante scrutò il ragazzo con gli occhi.
«Sono un pescatore, ma non abbiamo fatto nulla per essere qui.» Il suo interlocutore sembrò non sentirlo.
«Parli solo greco?
«Lo parlo e lo scrivo.
«Lo scrivi? Caspita, molto interessante. E voi?» Si rivolse a Nerisa e Janira.
«Aiutiamo nostra madre in casa, parliamo greco ed io lo scrivo anche un po'.»
Janira restò in silenzio.
«Molto interessante» ripeté tra sé. «Non trascorrerete molto tempo qui. Domani è giorno di mercato, quindi faremo un breve giro in città e che gli dèi possano essere misericordiosi e portarvi fortuna.» Li salutò con un gesto inespressivo.
I due uomini che continuavano a sorvegliare i ragazzini li portarono alle gabbie sulla spianata. Quando arrivarono accanto ad esse, uno di loro aprì una porta spostando una pesante barra di metallo. Li fecero entrare e chiusero la porta dietro di loro con un chiavistello. La gabbia era vuota, sembrava riservata a loro. L'unico oggetto all'interno era una piccola brocca piena d'acqua. Nonostante le catene ai piedi, Janira corse verso l’acqua e cominciò a bere. I suoi fratelli si avvicinarono per imitarla. Si dissetarono e si sedettero all'ombra di alcune assi di legno che costituivano il tetto della gabbia. Si rannicchiarono insieme, come quando avevano perso la sorella e restarono con sguardi senza speranza, sguardi identici a quelli di altre persone rinchiuse nelle gabbie adiacenti. Non c'erano parole, nessuno dei prigionieri parlava, solo un mutismo assoluto. Le parole non avrebbero restituito loro la libertà.
Il resto della giornata trascorse in eterno silenzio. Janira guardava attraverso le sbarre gli enormi cani che dormivano sulla spianata, approfittando dell'ombra degli edifici vicini. Nerisa piangeva inconsolabile pensando cosa sarebbe successo a sua sorella se fossero stati separati. Intanto Almice continuava a pensare che questa poteva essere l'ultima notte trascorsa con le sorelle, gli dispiaceva di averle deluse e di non essere stato in grado di fare nulla per aiutare i genitori.

Era tardo pomeriggio quando un piccolo gruppo di uomini si avvicinò alle gabbie seguito da alcuni cani che annusavano in giro annoiati, spaventando alcune mosche con la coda. I visitatori si fermarono davanti al recinto, ispezionando i suoi occupanti. Parlavano la stessa lingua che i ragazzini avevano sentito sulle labbra di Zamar. Una lingua strana, pensò Almice, sebbene il significato fosse chiaro, sembravano fare una preselezione visiva della merce che avrebbero acquistato il giorno successivo. Il giovane allora cominciò ad osservare quegli uomini. Erano undici o dodici, ben vestiti. Le loro tuniche tradivano un buon livello sociale ed economico. Almice immaginò le loro professioni: commercianti, principi, persone potenti senza dubbio. Con i loro vari volti, alcuni amabili, altri di aspetto insidioso e meschino, quegli uomini li stavano studiando con curiosità. Cosa li aveva portati lì a comprare degli schiavi? Concluse che sia il destino suo che delle sue sorelle era completamente affidato al caso.

Che strano contemplare l'alba con il sole che sorgeva dall'entroterra. Almice e le sue sorelle lo avevano sempre visto nascere dal mare. I tre avevano trascorso la notte irrequieti, chiudendo gli occhi per piccoli istanti per riaprirli di nuovo spaventati con il timore di perdere il contatto l'uno con l'altro. Nerisa aveva scambiato qualche parola con una donna greca che era nel recinto adiacente. Spiegò che erano nella proprietà di uno dei più grandi commercianti di schiavi della regione. Lei era finita lì perché suo padre non aveva potuto pagare alcuni debiti di gioco e l'aveva ceduta il tempo sufficiente per raccogliere l'importo necessario e riscattare la sua libertà, ma più di un mese fa. Spiegò anche che un giorno alla settimana caricavano due carri pieni di schiavi e li portavano al mercato di Tiro per venderli. L'offerta di schiavi nella proprietà sembrava essere costante.
Il disco solare era già completamente visibile quando una dozzina di uomini avanzarono verso le gabbie accompagnati da due carri trainati da coppie di buoi. Quella era anche una mattinata di mercato in città. I ragazzi si alzarono in piedi, nervosi. Due uomini si avvicinarono e loro si abbracciarono con forza, spaventati. Gli uomini li obbligarono a salire su uno dei carri. Dalle sponde di legno sbucavano lunghi pali che puntavano verso il cielo. Tenuti insieme da altri tronchi più sottili, posti in posizione orizzontale, formavano una fitta rete sormontata da un'altra fitta rete di tronchi, più sottili, come un tetto che impediva l'evasione. Sul retro, un robusto cancello si chiuse quando gli ultimi occupanti salirono a bordo del carro. In breve tempo i due carri furono pieni. Almice contò dodici persone nel suo carro e sei nell'altro. Gli occupanti dell'altro carro erano uomini più o meno tozzi, tutti con i ceppi a mani e piedi e anche tutti uniti da una stessa catena. Sembravano uomini pericolosi, a giudicare dalle misure prese dai loro custodi, otto uomini pesantemente armati scortavano il carro. Sul loro mezzo solo due guardiani li sorvegliavano, uno seduto di fronte alla gabbia e l'altro a piedi dietro il cancello. Almice si fermò quindi a guardare i suoi compagni di viaggio. Le sorelle erano in piedi accanto a lui, senza spazio per sedersi. Di fronte, accanto al guidatore del carro, cinque giovani donne che avevano circa vent'anni, con i capelli neri come l'ambra e la pelle olivastra, i loro lineamenti sembravano provenire da terre lontane. Dall'altro lato, la donna che aveva parlato di notte con Nerisa urlava ai carcerieri che si trattava di un errore, che doveva aspettare suo padre. Accanto a lei una coppia abbracciava il figlio, circa dell'età di Almice.
Videro arrivare il mercante seduto su un sontuoso palanchino ornato da veli dai colori vivaci sorretto da quattro corpulenti portatori color ebano. Il trafficante aveva indossato i suoi abiti migliori. Passò a guidare la comitiva, che si mise in marcia. Attraversarono la palizzata e si diressero a sud, Almice fu sorpreso di essersi lasciato alle spalle il sentiero che avevano intrapreso con Zamar il giorno prima.
«Dove ci stanno portando, Almice?»
«Suppongo a venderci, Janira; ma non so se a Tiro, questa non è la strada che abbiamo percorso ieri.»
«Io voglio venire con te.»
«Tranquilla, tesoro, non ci separeranno, siamo fratelli, hai sentito cosa ha detto Zamar.»
«Non ne sono così sicura.» Nerisa si intromise nella conversazione.
«Perché dici questo, Nerisa? Non ha senso che ci separino.»
«Cos'ha senso? Non cercare il senso, Almice, pensa a cosa ci è successo finora, pensa a cosa hanno fatto a quella donna.» Volse gli occhi verso la donna che continuava a chiamare l'uomo che l'aveva messa sul carro, insistendo sul fatto che di trattava di un errore. «Temo il peggio, ci venderanno separatamente, ne sono sicura.» Gli occhi di Nerisa riflettevano neri presagi.
«Non può essere, non ci credo.»
«Non preoccuparti adesso, Janira.» Almice lanciò un'occhiata di traverso a Nerisa. «Possiamo fare una cosa per essere sicuri». Le sorelle lo guardarono in attesa. «La verità è che non sappiamo quando né a chi ci venderanno. Non sappiamo se ci separeranno, cosa ci accada o chi ci comprerà, l'importante è che rimarremo vivi e possiamo giurare che, indipendentemente da quanto saremo separati, non riposeremo fino a quando ci incontreremo di nuovo.» Le sorelle avevano gli occhi lucidi, sul punto di piangere.
«Giuriamolo ora.» Nerisa afferrò con forza le mani dei fratelli.
«Sì, sicuramente ci incontreremo.» La bambina adesso si mostrava un po' più vivace.
«Giuriamolo allora.» Almice strinse anche la mano di Janira, formando così uno stretto cerchio tra loro tre. «Ripetete con me: giuro che ovunque sarò, cercherò i miei fratelli finché non li troverò e recupererò la libertà insieme a loro. Lo giuro sui miei genitori.» Le sorelle ripeterono il giuramento mentre gli altri occupanti del carro tranne la donna, che aveva già smesso di urlare contro i suoi rapitori, li guardavano senza capire le loro parole, pronunciate in una lingua straniera in quelle terre. I tre fratelli si abbracciarono con affetto, proprio come avevano fatto in innumerevoli occasioni da quando Almice aveva compiuto dieci anni. Le lacrime ora scendevano libere sulle loro guance.
La comitiva continuò a spostarsi verso sud per costeggiare una delle colline e poi dirigersi ad ovest, verso il mare. Presto fu in vista la città. Tiro era una città che dopo la ricostruzione era cresciuta lungo la costa, sfruttando le possibilità di comunicazione marittima offerte dalla sua ambita posizione geografica. Mentre si avvicinavano alla parte meridionale della città, sempre più persone andavano e venivano occupate dalle loro faccende quotidiane. Arrivarono fino ai piedi della piccola muraglia. Almice fu sorpreso dal fatto che una città così grande aveva delle mura così basse. In seguito, avrebbe scoperto che i suoi abitanti non davano più credito alle mura. La città, che un tempo si vantava di essere la più sicura e inespugnabile del mondo, era rimasta infatti imbattuta finché cento anni prima il grande Alessandro l'aveva assediata con le sue armate macedoni e l'aveva presa oltre ogni aspettativa. Sotto le mura, un notevole numero di persone continuava ad andare e venire da un luogo all'altro. La comitiva arrivò lì e si fermò di fronte ad alte piattaforme di legno molto affollate.
I carri si fermarono accanto a negozi colorati e il trafficante entrò in uno di essi. Le guardie aprirono il cancello del carro dove stavano i ragazzini e mandarono i loro occupanti in un altro negozio, costruito su una base di lunghe aste di legno scuro tese con robuste corde di canapa e spessi tessuti multicolori come pareti. I prigionieri attraversarono il negozio e uscirono da un'apertura posteriore, dove una serie di grossi pali bloccati nel terreno servivano ad incatenare gli schiavi. Era una piccola spianata nascosta nell'area esterna dove avevano lasciato i carri, lontano dagli occhi dei curiosi. Da lì i ragazzi potevano contemplare la parte posteriore delle piattaforme. Una rudimentale scala metteva in comunicazione la spianata con le piattaforme. Le guardie portarono gli occupanti dell'altro carro vicino ai pali. Come durante il viaggio, rimasero pesantemente sorvegliati.
Dopo un po', apparve il mercante. Arrivò parlando animatamente con un altro uomo elegantemente vestito con una ricca tunica di colori vivaci e raffinati sandali intrecciati ai piedi. Osservarono da vicino gli incatenati e continuarono con la loro conversazione. Il mormorio della gente all'esterno aumentò mentre il sole sorgeva nel cielo. A metà mattina, il compare del mercante salì la scala fino alla piattaforma e iniziò a lanciare appelli alle persone che si affollavano lì sotto. Le guardie presero a fatica gli uomini dall'altro carro e li fecero salire sulla piattaforma. L'uomo con la tunica multicolore offrì al pubblico il gruppo di uomini corpulenti che erano ancora sotto stretta sorveglianza, mostrando la potente muscolatura di uno di essi o esaltando la statura di un altro.
«Li stanno vendendo. Li stanno vendendo insieme.» Nerisa sembrava speranzosa.
«È vero» affermò Janira. «Ci venderanno insieme.»
La vendita continuava tra l'uomo della piattaforma e gli offerenti tra il pubblico. I ragazzi non capivano le loro parole, ma sembrava chiaro che stessero contrattando. Così continuarono per un po' di tempo, che sembrò eterno fino a quando tre di loro furono fatti scendere da alcune delle guardie, passarono accanto ai ragazzi, aizzati dalle lance delle loro guardiani e furono spinti di nuovo nel negozio.
«Sono stati venduti separatamente.» Le parole del ragazzo riflettevano una gravità e un pessimismo schiaccianti. Le sue sorelle rimasero in silenzio. Si abbracciarono di nuovo, come se fosse l'ultima volta.
La vendita sulla piattaforma continuò per gran parte della mattinata, fino a quando non fu il turno dei tre ragazzini. Le guardie li fecero salire insieme alla donna greca e alla coppia con il bambino. Tutti rimasero in silenzio, spaventati da ciò che sarebbe potuto accadere, con le catene in piedi. Le guardie del variopinto gruppo non sembravano preoccupate della possibilità che gli schiavi potessero scappare.
Dall'alto si contemplava l'intera atmosfera della piazza. C'erano diverse piattaforme, poste in un semicerchio che occupava una vasta area, molte persone si aggiravano tra di esse ascoltando le parole dei venditori e guardando la merce umana esposta lì sopra. L'uomo con la tunica policroma iniziò la sua serie di argomentazioni per vendere meglio i suoi prodotti. La folla iniziò a raggrupparsi intorno, per godersi lo spettacolo. Presto iniziarono le offerte. Quando la vendita fu chiusa, una donna carica di perline lanciò un grido di vittoria, le guardie presero Janira e la trascinarono giù. Almice e Nerisa cercarono di seguirla urlando e lottando, ma diversi colpi alla schiena li dissuasero.
Le offerte ripresero mentre i fratelli vedevano impotenti con gli occhi pieni di lacrime come Janira si perdeva tra la folla, senza avere nemmeno il tempo di dire addio alla sorellina. Il venditore alzò sempre più la voce per attirare l'attenzione di potenziali acquirenti, indicando ora uno, poi un altro. Un altro accordo fu chiuso e le guardie presero l'uomo tra le urla di sua moglie e suo figlio. L'eccitazione tra la gente aumentò. Era come se il pubblico si divertisse molto con la sofferenza degli schiavi.
Il venditore continuò con la vendita. L'asta ricominciò, senza che i ragazzi capissero cosa venisse detto. Questa volta fu più feroce, e le guardie alla fine trascinarono giù Nerisa e la donna con cui lei aveva parlato durante la notte. Nerisa, incapace di articolare le parole, lanciò uno sguardo profondo e triste a suo fratello, pensando che sarebbe stata l'ultima volta che l'avrebbe visto. Scese i gradini come poté, le gambe la sostenevano a malapena, con gli occhi di nuovo pieni di lacrime e il cuore in frantumi.
Almice si sentì sopraffatto, aveva appena perso tutti i legami con la sua famiglia. Non si rese conto del tempo trascorso fino a quando una delle guardie non lo spinse giù dalle scale. Il giovane uscì dalle sue fantasticherie e capì di avere già un proprietario. La guardia lo introdusse nel negozio in cui erano precedentemente entrati con l'altro ragazzo. I due si guardarono spaventati senza sapere cosa gli riservasse il destino; apparentemente, li avevano venduti allo stesso padrone. Un uomo, che Almice non aveva notato prima, si alzò per salutare altri quattro che entrarono nel negozio, parlarono per un momento e uno di loro si avvicinò ai ragazzi, esaminandoli attentamente. Almice lo riconobbe come uno di quelli che erano stati nella tenuta del mercante il giorno prima, aveva una carnagione scura, naso aquilino e capelli neri, circa venticinque anni e uno sguardo gentile. Parlarono di nuovo e quell'uomo tirò fuori dalla veste una borsa di cuio e pagò con una manciata di monete il proprietario del negozio.
Con un sorriso rassicurante, si rivolse a loro, parlandogli in quella lingua sconosciuta, e due colpi di bastone colpirono il dorso dei giovani, indicando che era passata l'ora della gentilezza e che era il momento di mettersi in marcia. Almice si stava stancando dei sorrisi amichevoli e dei colpi sulla schiena.
L'uomo si diresse verso l'interno della città, entrando attraverso la porta sud della piccola muraglia. Gli altri tre lo seguivano, spingendo e deridendo Almice e l'altro ragazzo. La città era una rete complicata e caotica di strade che si snodavano, scendevano o si arrampicavano senza nessun ordine. Attraversarono quartieri densamente popolati, i cui abitanti non prestarono quasi attenzione al piccolo gruppo. I ragazzi camminavano con le catene sulle caviglie, il che rallentava la marcia. Le ferite alle caviglie di Almice sanguinarono di nuovo. Attraversarono strade puzzolenti, in alcune tratti inondate di feci e urina, emanando un forte odore che il ragazzo considerava già come abituale di qualsiasi grande città. Entrambi i ragazzi erano disorientati, le strade a zig-zag avevano cancellato il loro senso dell'orientamento. Rimasero sorpresi quando dietro un angolo apparve il mare davanti a loro. Il vicolo terminava in una stretta apertura del muro, che conduceva a un lungo viale che costeggiava la costa. Da lì proseguirono verso nord. In lontananza era perfettamente visibile quella che una volta era la città originaria di Tiro, e che grazie al grande Alessandro restò per sempre legata al continente.
La lunga strada, in realtà una stretta striscia di terra tra il mare e il muro, era piena di gente che lavorava per la pesca. Almice riconobbe molti attrezzi simili a quelli usati dal padre e dagli altri uomini del villaggio. I pescatori scuriti dal sole sistemavano le reti o preparavano il pesce per portarlo a salare nelle terre dell'interno. Alcune donne e bambini aiutavano in questo lavoro. Le barche da pesca erano in qualche modo diverse, presentavano forme più allungate nello scafo e per lo più non avevano occhi o manifestazioni divine a prua, anche se alcune a poppa mostravano una figura equina intagliata. I bassi edifici costruiti tra la strada e il muro erano molto fragili e piccoli a vedersi. Almice pensava che molti di essi all'interno ospitassero intere famiglie come la sua. Ricordò sua madre che preparava da mangiare vicino alla finestra di casa.
La strada continuava verso nord. Mentre si avvicinavano alla penisola che un tempo era la grande e inespugnabile Tiro, le piccole case lasciavano il posto a magazzini sempre più grandi. La flotta di navi ormeggiate sul fondo non era più formata da pescherecci; erano per lo più navi mercantili e qualche nave da guerra, probabilmente della stessa città.
L'uomo si voltò di nuovo verso il muro, in quel punto un po' più lontano dalla costa, ed entrarono attraverso un'altra piccola porta, zigzagando per alcune strade fino a quando non finirono in una piazza piena di mercanti che esponevano i loro oggetti sul terreno in vista di possibili acquirenti. Tessitori, allevatori, orticoltori, scribi, indovini, guaritori e venditori di ciondoli; tutto ciò di cui si poteva aver bisogno era sicuramente in quella piazza. La attraversarono nel centro ed entrarono in un'altra strada, senza uscita, che terminava in un piccolo cortile preceduto da un grande arco. Si diressero verso una porta sulla destra. Un servitore salutò l'uomo e aprì loro la porta. Entrarono in un altro cortile interno, che sembrava più un giardino che il patio interno di una casa. Alte palme indicavano spudoratamente il cielo mentre aranci arrotondati punteggiavano il cortile, circondati da siepi basse e spesse che formavano una struttura geometrica attorno agli alberi. Il piccolo gruppo si fermò all'ombra delle palme.
In mezzo al patio, un vecchio di circa quarant'anni impartiva istruzioni ad un giardiniere mentre osservava attentamente le foglie di un arancio. Il gruppo aspettò all'ombra, apparentemente in attesa di quell'uomo. Restarono in attesa per un po' mentre il vecchio continuava ad ispezionare le foglie degli aranci. I due giovani, in piedi, sorvegliati dai loro accompagnatori, di tanto in tanto si guardavano di sottecchi. Almice aveva notato che il suo compagno di sventura aveva pianto quando lo separarono da sua madre ed era rimasto a testa bassa per tutto il tragitto. Ora entrambi guardavano nervosamente il recinto in cui si trovavano. Il vecchio si avvicinò al piccolo gruppo e diede loro un'occhiata mentre si rivolgeva all'uomo che li aveva acquistati. Cominciarono a parlare in quella lingua, i loro sguardi saltavano da un ragazzo all'altro. Il vecchio si rivolse quindi a loro parlando in greco.
«Buongiorno, sono Abta, un commerciante di Tiro e a partire da oggi il vostro nuovo proprietario.» Almice fu sorpreso che quest'uomo si rivolgesse loro in greco. «Vi ho acquisito perché ho bisogno di mani forti e giovani per i miei affari nel porto e ho anche bisogno che le persone del porto parlino greco. Voi siete greci, vero?
«Sì», confermò Almice, mentre il compagno annuiva.
«Dovete sapere che ho l'abitudine di chiamare i miei schiavi per il luogo da dove provengono. Ho capito che uno di voi è di Naxos e l'altro di Samos. Quale dei due viene da Naxos?»
«Io» balbettò l'altro giovane, a capo chino.
«Bene, allora d'ora in poi ti chiameremo Naxos e tu, Samos» concluse guardando Almice. «Ora Aylos» rivolgendosi all'uomo che li aveva acquistati «vi spiegherà come funziona l'ordine a casa mia. Dovete tenere presente che sono molto severo con gli schiavi. Al minimo problema, vi venderò o vi farò giustiziare; tuttavia, se mi servite come dovrebbe essere, può darsi che alla fine dei vostri giorni vi conceda la libertà di morire come uomini liberi. Dipende solo da voi. Se avete qualche abilità o se possedete qualche virtù speciale, voglio saperlo, qualunque cosa crediate sia importante, potete riferirla ad Aylos e lui me lo farà sapere. Se non vi comportate come ci aspettiamo, verrete puniti. Se, al contrario, supererete le aspettative che riponiamo in voi, vivrete molto meglio di quanto avreste potuto vivere nei vostri luoghi di origine, non vi mancheranno le donne e se ciò che volete con gli anni è avere una famiglia vi sarà permesso, sempre che sia con altri schiavi della mia proprietà.»
I ragazzi rimasero zitti, senza sapere cosa rispondere, sebbene il loro interlocutore non si aspettasse di ricevere alcuna risposta da parte loro. Abta si rivolse ad Aylos in quella strana lingua e poi si perse nel giardino, contemplando di nuovo le foglie verdi e lanceolate dei suoi preziosi aranci.

Quando quell'uomo la portò giù dalla piattaforma, Janira non capiva cosa stesse succedendo. Tentò di opporre resistenza; ma lui la afferrò al volo e, una volta all'interno del negozio, una donna più anziana, di oltre trent'anni, le fece togliere le catene dai piedi e le mise una catena più sottile e leggera attorno al collo. Lei cercò di spiegare a quella donna che si erano sbagliati, che i suoi fratelli erano ancora sulla piattaforma, ma tutti parlavano quella strana lingua che era impossibile da capire.
La donna lasciò il negozio nervosamente, trascinando Janira con sé. Era raggiante per il suo nuovo acquisto. C'erano voluti molto tempo e coccole per convincere suo marito in modo che potessero comprare una schiava che la sollevasse dalla fatica quotidiana del suo lavoro. Le amiche le avevano detto che non avrebbe mai avuto la possibilità di acquistare una schiava per aiutare lei e le sue due figlie nella taverna. Avevano bisogno di altre mani senza pagare alcuno stipendio, la soluzione più pratica era comprare una schiava a buon mercato. Le sarebbe piaciuto pagare lo stesso per qualcuna delle schiave più grandi, di circa dieci anni; ma perse la vendita e dovette accontentarsi di quella piccola. Quella ragazza con il tempo le sarebbe stata più utile e poteva anche modellarla a suo piacimento. D'altra parte, non sarebbe stato un problema per suo marito, la sua più grande paura era che potesse esserle infedele con chiunque, compresa una schiava.
Janira afferrava la catena con le mani per evitare i colpi sul collo, sapeva già di cosa fossero capaci le catene sulle caviglie e non voleva nemmeno immaginare cosa le sarebbe potuto succedere con lo sfregamento della catena sul collo. Entrarono in città e vagarono per i vicoli intricati. Il tragitto non fu lungo. Presto arrivarono ad una casa di fango di due altezze. La donna aprì la porta ed entrò nella sua taverna. La bambina non era mai entrata in una taverna prima, ma sapeva da Telma com'era la taverna del villaggio, anche se non ci aveva mai messo piede. Sua sorella le aveva raccontato che lì si radunavano gli uomini per bere e mangiare e che in alcune avevano persino spazio per passare la notte. Quella era una grande sala, con una mezza dozzina di tavoli allungati in cui diversi clienti bevevano e mangiavano nel mezzo delle urla. La bambina abbassò la testa, vergognandosi di trovarsi in un posto come quello, che sua madre le consigliava di evitare sempre, perché una ragazza rispettabile non dovrebbe mai mettervi piede. Il pavimento era pieno di avanzi di cibo e alcuni insetti correvano tra le gambe dei tavoli in cerca del loro sostentamento. Janira si sentì disgustata, distolse lo sguardo. A sinistra, un bancone separava lo spazio dai tavoli nell'area della cucina. Un uomo grosso afferrava alcuni piatti di cibo affondando le dita nei pezzi di quella brodaglia per reggerli meglio e portarli verso uno dei tavoli. Accanto a lui, una ragazza sui vent'anni prendeva delle brocche con una mano per portarle allo stesso tavolo e spingeva via le mosche con l'altra mano. L'odore del cibo stantio inondava la stanza. In fondo, una scala dava accesso al piano superiore, la donna tese la catena e la condusse verso il fondo; lì attraversarono una porta accanto alle scale e accedettero a un piccolo cortile, circondato da alte mura appartenenti alle case adiacenti. C’era un piccolo capanno di legno pieno di buchi tra le assi e con la porta aperta. La donna si fermò dicendole qualcosa in quella strana lingua mentre indicava il capanno.
Janira dedusse che avrebbe dovuto stare lì, nel capanno, ma non sapeva cosa fare o come compiacere quella signora. La donna si avvicinò al collo della bambina e la liberò dalla catena, poi lasciò il cortile lasciandola sola e Janira sentì che un catenaccio trafiggeva la porta dall'altra parte. Si palpò il collo con le mani e si guardò intorno. Il patio comprendeva un piccolo recinto a circa dieci o quindici passi dalla piccola, le cui alte mura lo rendevano insormontabile. Il capanno era l'unica costruzione; accanto ad esso, un piccolo cespuglio, un po' più alto di lei, dava l'unica nota di colore al recinto. Si avvicinò a quella specie di stalla. Si fermò quando vide che era occupata da un paio di capre. Non le piacevano le capre, avevano occhi così strani, una volta Almice le aveva raccontato che erano esseri malvagi, ma necessari per il latte e il formaggio. Si rannicchiò sulla porta del capanno, timorosa di disturbare gli animali. Se avesse potuto avere sua madre accanto a lei, per stringerla con le sue calde braccia. Cosa sarebbe successo ai suoi fratelli? Li avrebbero venduti insieme? Ricordò il giuramento fatto ore prima sul carro, e pregò gli dèi come le aveva insegnato sua madre in modo di potersi riunire presto con loro, così che potessero trovarla.

Nerisa sentì il cuore spezzarsi mentre scendeva i gradini della piattaforma. Quando entrarono nel negozio, si afferrò alla sua compagna di sventura. Entrambe guardavano i due uomini che avevano fatto un'offerta per loro. Lasciarono il negozio, tolsero loro le catene e le legarono sul retro di un carro carico di anfore e recipienti. Salirono sul carro trainato da due buoi e si misero in marcia. Loro avrebbero dovuto fare la strada a piedi.
Camminarono per tre lunghi giorni verso sud-est, sempre a piedi, fermandosi più volte al giorno per riposare, approfittando degli abbeveratoi d'acqua per gli animali che incontravano lungo la strada. Attraversarono diversi villaggi e le persone che incrociavano di solito guardavano con indifferenza le due donne. Al crepuscolo del terzo giorno, il piccolo gruppo si appollaiò su una piccola collina e gli uomini sorrisero guardando in basso; di fronte al gruppo, il sole al tramonto illuminava con la sua luce arancione un enorme campo di viti che circondava quasi completamente un piccolo gruppo di case protette da un muro di pietra. Da quell'altezza potevano vedere le persone all'interno del recinto. Animali e persone erano occupati nelle loro faccende in attesa della fine della giornata. Il gruppo prese il dolce sentiero che scendeva verso il recinto delle case. I due uomini parlavano animatamente, indicando le viti. Cleanta, così si chiamava la donna greca, si rivolse a voce bassa a Nerisa.
«Stanno parlando delle condizioni delle loro viti, apparentemente il nostro destino sono quelle case che vediamo. Suppongo che presto sapremo cosa ci riservano le Parche.»
«Non sembrano persone cattive» rispose Nerisa, sorpresa dalle prime parole che la sua interlocutrice aveva pronunciato dall'inizio della marcia giorni prima. «Penso che abbiano bisogno di persone che lavorino nelle loro terre, quindi molte viti richiedono molta manodopera.»
«Sei incredibile, Nerisa, hai perso i tuoi genitori e ti hanno separato dai tuoi fratelli, sei diventata una schiava e la tua voce è ferma e sicura.» Gli occhi di Cleanta la guardarono con ammirazione.
«Non credere che io sia così forte. Mio padre ci ha insegnato che dobbiamo sempre comportarci secondo ogni momento. Non voglio essere una schiava e farò di tutto per uscire da dove sono ora e tornare dai miei fratelli. Nel frattempo, non mi servirà a nulla oppormi, devo aspettare l'occasione giusta e tu dovresti fare lo stesso.»
«Io tornare? E dove? Sono sicura che mio padre mi ha venduta per pagare i suoi debiti e continuare a giocare, e mia madre non ha fatto nulla per impedirlo. No, Nerisa, non ho nessun posto dove tornare. Non m'importa. Quando ci hanno messe sul carro per venderci, mi sono resa conto di quanto ero stata stupida a pensare che mio padre mi avrebbe tirata fuori di lì. Io non ho una famiglia, solo alcuni lontani parenti di mia madre che vivono a Rodi; quindi, sono sola.»
«Stai con me.» La voce di Nerisa era chiara, senza esitazioni. «Mia sorella maggiore è stata violentata e uccisa un paio di settimane fa. Tu hai la sua stessa età. Voglio essere la tua sorellina.» Gli occhi di Cleanta si appannarono davanti alla determinazione della sua amica.
«Hai nove anni, ma quando parli sembri più grande di me. La tua forza d'animo mi sorprende.» Sembrò esitare un momento. «D'accordo, sarò la tua sorella maggiore.» Si tennero per mano mentre gli uomini continuavano a guidare il carro e parlare dei loro argomenti, ignari della conversazione delle due ragazze.
Erano a poca distanza dal recinto quando una coppia di cani neri attraversò la porta abbaiando verso di loro e agitando le code vivacemente. Dietro di loro, due ragazzi uscirono di corsa verso il carro.
«Ciao, papà» esclamarono i giovani all'unisono, rivolgendosi al più anziano dei due uomini. Scuri di carnagione e vivaci, Nerisa calcolò che il più piccolo avesse una decina di anni e l'altro circa quindici. Cleanta le traduceva a bassa voce la conversazione dei loro padroni.
«Ciao, figli miei. Come è andata qui?» L'uomo sorrise mentre guidava il carro verso l'ingresso.
«Molto bene» questa volta rispose il ragazzo più grande. «I lavori sono stati eseguiti come avete ordinato, padre, e i preparativi per la celebrazione sono quasi pronti.»
«Bene, corri e vai a chiamare tua madre e tua sorella mentre sganciamo i cavalli.» I ragazzi corsero verso la grande casa; il carro si diresse verso una stalla a sinistra, all'interno del perimetro della proprietà. Il recinto era ampio, quasi grande quanto il villaggio di Nerisa. Una decina di edifici si trovavano nella parte interna fortificata. La zona delle stalle doveva costituire un terzo dell'estensione. Due edifici di altezza diversa dominavano il tutto, situati al centro del recinto. Senza dubbio devono essere le dipendenze dei padroni della tenuta. A destra, un gruppo di case ad un solo piano, dall'aspetto più fragile, sembravano a Nerisa l'alloggio per i contadini e gli schiavi del luogo.
Un contadino aprì le porte della stalla ed entrarono all'interno. Gli uomini scesero e lasciarono i cavalli alle loro mangiatoie. Quindi si avvicinarono all'uscita della stalla, lasciando Nerisa e Cleanta legate sul retro del carro, come se fossero parte del veicolo.
«Ciao tesoro! Quanto mi sei mancata.» L'uomo più anziano abbracciò con forza la donna che era appena arrivata. Accanto a loro c'era una donna più giovane; l'altro uomo arrossì quando la vide.
«Saluta la tua futura moglie, non essere timido.» Ora l'uomo più anziano si stava rivolgendo al suo compagno di viaggio, dicendogli di avvicinarsi alla giovane donna.
«Ciao, Thera, il viaggio mi è sembrato eterno lontano da qui.» Entrambi i giovani arrossirono guardandosi negli occhi, mantenendo una distanza di sicurezza tra i loro corpi. Una risatina li sottrasse ai loro pensieri.
«Figlia mia, futuro genero, mi sono permesso di portarvi un regalo per celebrare il vostro matrimonio imminente.» Fece l'occhiolino all'altro uomo e si voltò verso il carro avvicinandosi alle ragazze.
«Fanno parte della prebenda. Due schiave in modo che tu, figlia mia, possa dedicare tutto il tuo tempo a tuo marito e ai miei futuri nipoti, e loro eseguiranno tutti i lavori di casa.» Cleanta e Nerisa si guardarono, non era necessaria alcuna traduzione. Facevano parte della dote di nozze per la nuova coppia.

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