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Scambi
Marco Fogliani
Scambi di persone, di personalità, di ruoli: tutti i racconti dell'autore che hanno a che fare in qualche modo con questo argomento.
Di seguito, in ordine alfabetico, l'elenco dei racconti inseriti nella raccolta:
GEPPETTO, LA FATA TURCHINA E IL GRILLO PARLANTE
IL CAMPIONE E LO STUDENTE
IL GRANDE PARRUCCHIERE
IL PANDORO LUCCICANTE
IL PESO DI UN SEGRETO
LA ROSCIA
LA SCIAMANA
LA VERA STORIA DEL PRINCIPE FELICE
LUISA E ANTONIO
PAOLO E NIKOLAJ
PEN FRIENDS
PIETRO E IL NONNO
PIU' CHE FRATELLI
Si avverte che, dato il carattere tematico della raccolta, alcuni di questi racconti potrebbero essere presenti anche in altre raccolte tematiche dello stesso autore.


Marco Fogliani
Copertina di Marco Fogliani
Aggiornamento al: 21/11/2021

IL CAMPIONE E LO STUDENTE
“Ha capito la domanda? Giovanotto: mi sta a sentire sì o no?”
Riccardo sembrava assente, del tutto indifferente a quanto gli stava dicendo il professore al cui cospetto si trovava seduto per affrontare un esame universitario.
“Ehi, ragazzo: dico a te.”
Il tono di voce stava salendo, segno che il docente stava perdendo la pazienza; ma la giovane assistente intervenne in difesa dello studente.
“La prego, non alzi troppo la voce, professore. Una volta ho avuto a che fare con una ragazza che soffriva di una forma leggera di epilessia. Anche lei aveva dei momenti in cui la mente era come assente. Dicono che in questi casi la cosa migliore sia aspettare che tornino in loro. Gli lasci cinque minuti per riprendersi. Lo conosco bene, ha frequentato tutte le esercitazioni e mi pare un ragazzo molto preparato: non può non conoscere questo argomento basilare.”
“Va bene. Se ha qualche problema di salute, veniamogli incontro; ma non la passerà liscia se scopro che si prende gioco di me. Comunque non abbiamo tempo da perdere. Gli esaminandi sono tanti. Passo ad un altro ragazzo, poi quando ho finito vediamo come si sente.”
L’assistente rimase seduta vicino a Riccardo chiamandolo dolcemente per cognome, e poi anche per nome, e poco dopo riuscì ad avere la sua attenzione.
“Ci sei? Ti senti bene adesso?”
“Sì, direi di sì. Perché? Cosa è successo?”
“Sembravi altrove. Il professore parlava e tu non gli davi retta.”
“Ho avuto l’impressione … come di essere in volo. Mi sentivo leggero e strano.”
“Hai qualche problema di salute? Che so io, ti è già capitato di avere qualche piccola amnesia temporanea?”
“No, non che mi ricordi. Anche se ultimamente ho fatto un sogno strano. Sognavo che …”
“Allora, giovanotto: si sente meglio adesso?”, intervenne il professore che, vedendolo parlare, si era avvicinato.
“Sì, mi sento meglio.”
“Se la sente di iniziare l’esame? Dei suoi sogni, se vuole, ne parla dopo con qualcun altro.”
“Sì professore, sono pronto.”
L’interrogazione andò molto bene.
“Le metto trenta, ma solo se mi promette di tenere d’occhio la sua salute”, gli propose l'esaminatore.
Riccardo annuì.
Il professore si era già allontanato, mentre l’assistente procedeva alla verbalizzazione.
“Se può esserti utile, posso darti il nome di un mio amico, docente a medicina e specialista in problemi neurologici. È molto bravo, ed opera sia in strutture pubbliche che private.” Riccardo fece nuovamente cenno di sì con il capo.
“Non sottovalutare questo problema: potrebbe avere brutte conseguenze anche sul tuo iter scolastico. Hai un’ottima media, e sono convinto che, se non fosse stata per la tua falsa partenza, avresti avuto la lode anche oggi. Sei molto brillante, hai le carte in regola per ambire a qualcosa in campo universitario: borse di studio, dottorato, specializzazioni. A proposito, se vuoi già cominciare ad approfondire questa materia in ottica tesi, vieni pure a trovarmi quando vuoi: in questo dipartimento si lavora bene, e sappiamo apprezzare chi lavora bene.”
Riccardo archiviò anche quell’esame con soddisfazione, preparandosi come sua abitudine a qualche giorno di riposo e spensieratezza; tuttavia le parole dell’assistente lo fecero pensare.
Rifletté non tanto sulla necessità di farsi visitare (“magari se mi succede ancora; ma un professore di grosso calibro chissà quanto vuole”, pensò), quanto sull’opportunità di iniziare già a interessarsi alla tesi e ad un futuro nell’università. Ma soprattutto doveva informarsi sulle possibilità di borse di studio: sapeva che per papà era un vero sacrificio farlo studiare.
La domenica successiva era già pianificato che sarebbe andato allo stadio in compagnia. Non ci andava mai perché gli sembrava che costasse troppo e perché non era poi così tifoso della squadra cittadina come i suoi amici; ma stavolta la sua comitiva disponeva di un biglietto in più. L’avevano avuto a poco prezzo – gli avevano detto - da un ragazzo che non poteva venire. Se avesse approfondito l’argomento, Riccardo avrebbe scoperto che era un modo carino per festeggiarlo senza ferire il suo orgoglio (perché difficilmente avrebbe accettato di venire senza pagare), e al tempo stesso realizzare il suo desiderio di vedere dal vivo Raul Francisco, astro nascente del calcio brasiliano.
“Peccato che Raul Francisco non giochi nella nostra squadra, ma contro. Guai a te se fai il tifo per la squadra sbagliata”, gli dicevano i suoi amici prendendolo in giro.
Ma perché - vi starete chiedendo - tanta curiosità di vedere all’opera quel giocatore? Semplice: perché tutti dicevano che Riccardo gli somigliava tantissimo. Gli era persino capitato che qualcuno lo fermasse per strada e gli chiedesse un autografo, o che gli dicesse: “Bravo, sei forte!”.
Erano addirittura nati nello stesso anno, anche se in continenti diversi.
“È come avrei potuto diventare io, con un po’ di fortuna”, pensava alle volte Riccardo. Forse avrebbe anche potuto odiarlo; e invece, vai a capire la mente umana, divenne il suo idolo. Da quando l’aveva scoperto raccoglieva tutte le sue foto, tutte le notizie che trovava su di lui.
Andando allo stadio sapeva in cuor suo che avrebbe tifato per dodici dei giocatori in campo, e per uno più degli altri; e anche i suoi amici lo sapevano.
La notte prima della partita fece un altro strano sogno. Ne ricordò qualcosa, ma non lo raccontò a nessuno: “Mi prenderebbero in giro”, pensò; “sarà solo l’interiorizzazione dell’emozione di vedere il grande Raul”.
Si ricordava di essere stato in aereo, con la sua borsa sportiva e la tuta gialla e verde come quella di tutti gli altri passeggeri. Poi si era visto sulla spiaggia impegnato in una interminabile partita di pallone, bella ma stancante, durante la quale più di una volta aveva anche segnato ed aveva ricevuto complimenti sia dai compagni che dagli avversari. Ma quello che ricordava di più era la stanchezza; tanto che quando si svegliò al mattino gli pareva di sentire ancora i polpacci e le cosce dolenti.
E dire che Riccardo non giocava quasi mai a pallone, decisamente non ne era molto capace.
La domenica pomeriggio si ritrovò in curva coi suoi amici e altri tifosi che facevano un fracasso continuo ed inimmaginabile. Dopo un quarto d'ora di gioco il risultato non era cambiato. Era chiaro però che il migliore, a metà campo, era proprio Raul Francisco. Riccardo avrebbe voluto incitarlo e gioire per le sue prodezze, ma trovandosi circondato da tifosi biancorossocrociati, ossia della squadra di casa, si doveva trattenere. In più, per prendersi gioco di lui, i suoi amici inveivano regolarmente contro il campione brasiliano ogni qual volta toccava palla, ed incitavano i difensori a commettere interventi cattivi contro Raul.
Ad un tratto ce ne fu uno più violento degli altri nei confronti della caviglia di Francisco. “Bene, bene così. Più deciso la prossima volta”, gridò uno dei suoi amici sperando che il campione dovesse lasciare il campo.
Il brasiliano rimase a terra dolorante. Sebbene l'autore del fallo fosse stato ammonito, la reazione della curva a quell'intervento fu di unanime esultanza. Ci fu qualcuno che cominciò a far scoppiare dei petardi, in una specie di scarica. Alla fine ce ne fu uno, isolato, che a Riccardo sembrò molto più forte ma in realtà era solo più vicino. Ne rimase stordito; dopo un attimo di sordità completa gli si annebbiò la vista, tanto che sentì il bisogno di chiudere gli occhi e di coprirseli con le mani.
Li riaprì quasi subito, riprendendo pieno possesso di tutti i suoi sensi. Incredulo, si rese conto di provare una fitta di dolore terribile alla caviglia. Il dolore si attenuava mentre un signore in tuta gialla e verde gliela fasciava stretta stretta.
“Adesso ti passa tutto. Puoi riprendere a giocare, non è niente”, gli disse mentre Riccardo, stupito, constatava di indossare calzoncini corti e scarpini da calcio, e di essere seduto in mezzo al campo di gioco, percependo distintamente l'umidità del prato ed il solletico dei fili d'erba sulla pelle delle gambe.
“Dai, su: prova ad alzarti”, e mentre si rimetteva in piedi scoprendo che effettivamente il dolore si era trasformato in un minimo fastidio, sentì la folla dello stadio fischiare e gridare a gran voce: “Ra-ul, Ra-ul”
Guardò in alto, e vide centinaia, forse migliaia di persone che acclamavano a lui, anzi a Raul, o forse era la stessa cosa.
“Sì”, pensò, “magari poi ci andrò dallo specialista: ma adesso proprio non posso deluderli”.
Cominciò a muoversi e a correre. “Forse è un sogno come stanotte”, pensò. Ricevette subito un passaggio, ma perse palla malamente. Qualcuno fischiò. No, non era esattamente come nel sogno della notte prima. Ricevette un'altra palla e non riuscì neanche a controllarla; stavolta i fischi furono molto sonori. Gli altri sì che sapevano giocare, pensò. Si rese conto che non poteva rimanere in mezzo al campo. Fu preso da un tale sconforto, una tale disperazione, che il dolore alla caviglia gli parve riacutizzarsi. Si lasciò cadere per terra, pensando: “Se è un brutto sogno, forse mi sveglierò”. Ed invece non si svegliò. Rimase per terra, con le mani a coprirsi gli occhi, più per la vergogna che per il dolore, finché alla prima pausa di gioco non tornò il signore di prima in tuta gialla e verde.
“Che hai, che ti ha preso?”, gli chiese quello.
“No, non posso continuare a giocare. Mi deve far sostituire, assolutamente. È l'unica cosa da fare.”
Poi, fingendo di zoppicare e sorretto da quello che evidentemente era il medico della squadra, si portò oltre la linea laterale del campo, a ridosso della panchina. Nonostante il disappunto dell'allenatore, con gran sollievo di Riccardo entrò poco dopo il suo sostituto; e Riccardo (Raul per tutto il resto del mondo), dopo qualche ulteriore controllo da parte del medico, prese posto in panchina.
Era divertente guardare la partita così da vicino, anche se lo spettacolo era molto calato per l'assenza di quello che fin lì era stato decisamente il migliore in campo. Ma chi era poi costui, pensò Riccardo: sono davvero io? Si sforzò di guardare verso la curva, da dove gli risultava che un gruppetto di tifosi tra cui egli stesso Riccardo stessero seguendo l'incontro. Sperava di riuscire a vedersi laggiù, ma la distanza era troppa.
Cosa avrebbe dovuto fare? Adeguarsi a questa improvvisa ed assurda svolta che aveva preso il corso della sua vita; oppure contrastarla, cercando di riportare la sua esistenza sui binari della normalità? All'inizio, decidendo di non decidere, si rispose che per il momento preferiva godersi la partita, poi ci avrebbe pensato.
“Riccardo! Raul, Raul. Sono Riccardo.” A un tratto, nella confusione e nel frastuono di voci dello stadio gremito, gli parve di distinguere queste parole. “Raul, sono Riccardo Boccadoro. Ti prego, vorrei parlarti.”
Stavolta era sicuro di quello che aveva sentito: era stato pronunciato il suo nome, qualcuno si indirizzava a lui. Riccardo si alzò, cercando di individuare alle sue spalle chi lo stesse chiamando; ma dietro a sé il campo visivo era quasi completamente ostruito dalla panchina.
“Ci vediamo fra cinque minuti allo spogliatoio: ti prego, Raul, non mancare.”
“Lo conosci davvero questo ragazzo?”, gli chiese un compagno di squadra seduto lì di fianco.
“Sì, lo conosco.” Per un attimo fu tentato di chiedergli come arrivare agli spogliatoi; ma poi si disse che li avrebbe trovati da solo, senza destare inutili sospetti.
Zoppicando si infilò giù per delle scale in un corridoio che sembrava vuoto, a parte una guardia della sicurezza.
“Raul, due parole al volo per Radio Campione?”, gli chiese un giovane trafelato, ben vestito ed armato di cuffie e microfono, sorprendendolo alle spalle.
“Vi prego, adesso no, lasciatemi andare a cambiare. È di qua il mio spogliatoio, vero?”
“Sì. Ma come ti senti? La caviglia ti fa male?”
“Sì, molto. Ma ora lasciatemi in pace.”
Aprì la porta di quello che gli sembrava essere uno degli spogliatoi. Non vedendo nessuno stava per richiuderla, ma si sentì chiamare:
“Riccardo. Sono qui.”
Rimase a bocca aperta. Di fronte a lui c’era un altro se stesso che indossava un cappotto e un paio di pantaloni che ben conosceva: gli mancava solo la sua sciarpetta biancorossa.
“Ma è incredibile: sei uguale spiccicato a me!”
Rimasero un po’ a fissarsi, increduli; poi l’altro, che da adesso in poi per comodità chiameremo Raul, lo portò con sé davanti ad uno specchio.
“Qualche differenza c’è. Io ero un po’ più alto, con una massa muscolare più sviluppata e senza questo brutto neo sotto la mascella. Insomma, ero un pochino più bello, ora sono un po’ più bruttino.”
“Già. In compenso io ho una caviglia che prima stava bene e che adesso mi fa male.”
“Senti: non so che cosa tu abbia combinato, ma sembra che almeno mi siano rimasti l’accento portoghese e l’abilità nel giocare a pallone. Che ne diresti se ci scambiassimo i vestiti, prima di combinare qualche altro pasticcio irreparabile?”
“Sì, scambiamoci i vestiti: mi sentirò più a mio agio. Comunque ti assicuro che io non ho fatto niente. Mi sono solo trovato lì, al tuo posto.”
“Spero solo di non perdere la maglia da titolare, dopo quanto hai combinato.”
Raul si spogliò e si fece una rapida doccia. Anche Riccardo decise di fare lo stesso. “Puoi usare il mio shampoo e la mia roba, se vuoi”, gli disse Raul.
Si rivestirono tornando ognuno nei propri abiti civili. Quelli di Raul erano notevolmente più eleganti.
“Ti lascio il mio numero di cellulare per qualunque evenienza”, gli disse Raul estraendo dal suo portafoglio un biglietto da visita. “Non lo dare a nessuno, è il mio numero super privato. E soprattutto mi raccomando: non fare parola di quanto è successo, soprattutto con la stampa. Altrimenti potresti rovinarmi la carriera.” Tirò fuori anche due banconote di grosso taglio: “Queste sono per il disturbo, e per la visita medica. Buona fortuna.” Raul gli strinse la mano per salutarlo, e se ne stava andando.
“Aspetta: chi ci assicura che non succederà di nuovo?” obiettò Riccardo.
Raul si fermò a riflettere. “Hai ragione. Potrebbe succedere ancora. Forse è meglio che restiamo insieme per un po’. Però cerchiamo di non farci notare.”
Col bavero alzato per nascondersi il più possibile, Raul fece strada a Riccardo, imbacuccato nella sua sciarpa biancorossa ritrovata arrotolata nella tasca del cappotto, e sgattaiolarono fuori dallo stadio evitando qualunque possibile incontro. Una volta al sicuro da tifosi e giornalisti, Raul chiamò un taxi col cellulare.
“Andiamo in centro: è meglio rimanere lontano da qui per almeno un paio d’ore. Anzi, ho un’idea migliore.”
Chiamò qualcuno della squadra, forse l’allenatore. Con un accento portoghese più marcato - che evidentemente faceva parte della sua immagine pubblica, ma che volendo poteva attenuare – riferì qualcosa di un suo cugino che era venuto a Roma, e avvertì che sarebbe tornato in sede con mezzi propri.
“Davvero ti è venuto a trovare un tuo parente?”, chiese Riccardo al termine della telefonata.
“Sì: sei tu il mio cugino di cui parlavo. Sei molto credibile in questo ruolo, non è vero? Scherzi a parte, tutti i miei parenti sono in Brasile. È più di un anno che vivo da solo in Italia; ma questo paese mi piace molto.”
“E il tuo papà e la tua mamma ti mancano?”
“Sì, abbastanza; e anche i miei fratelli e le mie sorelle, cinque in tutto. Ma non mi dimentico di loro. Ogni mese gli mando un po’ di soldi. Qui io guadagno bene, ed in Brasile si sopravvive con poco. Ecco un taxi, deve essere il nostro.”
Si sbracciarono per farsi vedere.
“C’è un bell’albergo in cui mi fermo sempre quando vengo qui. Potremmo andarci, se vuoi”, propose Raul.
“Ti va invece il cinema? Ho da poco dato un esame, e questo fine settimana volevo distrarmi un po’. È per questo che sono venuto allo stadio, anche se a dire il vero non mi sono tanto rilassato.”
Risero tutti e due.
“Va bene. Scegli pure tu il film ed il cinema, meglio se un po’ lontano da qui. È un’ottima idea, così staremo al buio e non daremo nell’occhio.”
Salirono sul taxi, che nel frattempo era arrivato, e Riccardo diede indicazione al conducente.
Uscirono dal cinema che era buio. Il film era stato bello.
“Hai detto che hai appena passato un esame?”, chiese Raul.
Riccardo assentì.
“È curioso. Proprio l’altra notte ho sognato che davo un esame. È stato quasi un incubo per me che ho fatto solo qualche anno di elementari. Quando mi sono svegliato avevo la testa che mi scoppiava.”
Riccardo ripensò al suo strano sogno di qualche giorno prima, quando si era svegliato con le gambe doloranti.
“Ma è stato un incubo peggiore”, proseguì Raul, “ritrovarmi in curva tra tifosi che lanciavano accidenti e maledizioni di ogni genere contro di te; anzi, contro di me. È stato proprio avvilente. Spero che quelli non fossero tuoi amici, e che tu non sia come loro.”
“Alcuni li conosco un po’. Ma stai tranquillo: io non sono come loro. Anzi, sono un tuo grande ammiratore. Chissà, forse è per questo che è successo quello che è successo. A proposito: ho un’idea. Vieni un attimo a casa mia: ti faccio vedere alcune cose interessanti.”
L’abitazione di Riccardo era lì vicino. Suo padre era in casa e quando li vide chiese sbigottito: “Chi di voi due è mio figlio?”
“Sono io, papà”, rispose Riccardo. “Oggi allo stadio c'era un concorso per il miglior sosia di Raul Francisco. È per questo che i miei amici mi ci hanno portato. Io e lui siamo risultati vincitori a pari merito, con un premio di duecento euro ciascuno”, aggiunse Riccardo quasi meravigliandosi di come gli riusciva bene inventare frottole, pur non avendolo mai fatto.
“Bene, bene. Fanno sempre comodo. Con quello che costano i tuoi libri!”. Quindi, rivolgendosi a Raul: “Sei dei nostri per la cena?”
“Volentieri”, gli rispose col suo miglior accento portoghese.
Riccardo fece entrare Raul in camera sua. Tirò fuori da un cassetto alcuni fogli piegati, e cominciò ad aprirli adagiandoli sul suo letto.
“Questo sei tu”, gli disse mano a mano che dispiegava i suoi poster, “e anche questo, e pure quest’altro. Ti riconosci?”
“E come hai fatto a procurarteli? Neanche mia mamma a casa sua possiede così tante foto di me.”
“Me li hanno dati per lo più i miei amici - alcuni li hai visti oggi allo stadio - per farmi vedere quanto ci somigliamo. E poi ho tutti questi articoli di giornali e riviste che parlano di te. Ma per lo più dicono sciocchezze, secondo me; cose poco importanti e forse neanche vere.”
Raul incuriosito ne lesse qualcuno in silenzio, ogni tanto emettendo qualche breve ed espressivo commento. Ma a un tratto smise di leggere e poggiò tutto.
“Alla tua collezione penso che dovresti aggiungere un altro pezzo importante.” Aprì il suo borsone e ne tirò fuori la maglietta da gioco gialloverde, ancora puzzolente di sudore. “L'hai portata un po' anche tu, quindi te la meriti in pieno. E potrai dire che è originale, non una copia come tante.”
Riccardo fu d'accordo. Cominciò a frugare tra i suoi cassetti. “Devo avere un pennarello indelebile da qualche parte. Così mi ci puoi fare l'autografo e magari anche una dedica, se non ti dispiace.”
“Va bene”, rispose Raul. Prese una penna dal caos della scrivania e iniziò a firmare i poster. “Però, se vuoi il mio parere, questa maglietta devi lavarla e cominciare a usarla un po' più spesso. Per giocarci a pallone, naturalmente: ho visto che hai davvero molto da imparare. E se il mio autografo si scolorisce me lo fai sapere: la prossima volta che passo di qua te lo rifaccio.”
“Mi piacerebbe che fossi tu a insegnarmi a giocare”, rispose Riccardo.
“Temo che non sia possibile. I miei impegni sono molto lontani da qui. Già domani pomeriggio devo essere con la squadra per la visita medica e gli allenamenti.”
Terminato con gli autografi, Raul cominciò affascinato a curiosare nella stanza tra i tanti e disordinati libri di Riccardo.
“Sono tutti tuoi questi libri?”
“Sì, naturalmente.”
“E li hai letti tutti?”
“Tutti. Qualcuno più che letto l'ho studiato. Qualcuno a dire il vero lo devo ancora studiare.”
“Deve essere bello come passatempo. A casa mia di libri non ce n'erano. Solo quelli per imparare a leggere e scrivere, che ci siamo passati l'uno all'altro.” Mentre parlava, evidentemente a suo agio, riaffiorava leggermente il suo simpatico accento portoghese. “Ora i più piccoli possono studiare di più, anche grazie alla mia fortuna. Ma la mia fortuna è dovuta anche a questo: a casa non c'era quasi posto neanche per noi, ed erano tutti contenti che noi andassimo a giocare fuori. E io giocavo a pallone tutto il giorno, dovunque: tornavo a casa solo per dormire e mangiare. Mi divertivo, ed ero anche bravo, come puoi immaginare.”
“Hai detto che hai fatto solo le elementari?”
“Neanche tutte. Forse due o tre anni. Mi piacerebbe mandare un po' di soldi anche alla mia vecchia scuola. Adesso sto studiando l'italiano, e mi riesce abbastanza bene. Ma le altre materie no, non sono portato. Mi ero iscritto a una di quelle scuole per gli adulti, e ho mollato subito.”
“Io ho sempre avuto bisogno di leggere. Di storie nuove, di fantasia, più che altro. Forse perché da piccolo mi leggevano sempre le favole prima di dormire.”
“Anche a me mi raccontavano le favole. Mia mamma, o anche le mie sorelle. Ma le sapevano tutte a memoria, o forse le inventavano. D'altronde mia mamma tuttora non sa leggere. Ma qui in Italia vado spesso al cinema. È bello, mi piace.”
“Come hai detto che ti chiami?”
“Tutti gli amici mi chiamano Raul. Potete chiamarmi così anche voi, se volete”, rispose l'ospite ai genitori di Riccardo.
La cena era andata via tranquilla, con Raul di poche parole, ma cortese ed educato. Quando gli fu chiesto da dove venisse, si ricordò di una serata di beneficenza in un quartiere periferico e popolare di Palermo e disse di venire da lì. Sembrava quasi che parlasse della povertà del suo Brasile.
“E stasera dove dormi? Vuoi dormire da noi? C'è posto, se vuoi.”
“No grazie. Ho dei conoscenti qui a Roma.” Poi, terminato l'ultimo boccone del dessert: “Complimenti, signora: è tutto davvero molto buono.”
“Oh, non esagerare. Proprio niente di particolare. Se avessi saputo prima che ti fermavi a mangiare ti avrei fatto trovare qualcosa di meglio.”
“Riccardo, vuoi venire anche tu con me in discoteca questa sera? Conosco un locale davvero carino.” Riccardo esitò alla proposta del suo amico. Le discoteche in genere non erano davvero la sua passione; però gli dispiaceva che quella giornata così straordinaria finisse in maniera banale, ed era tentato di seguire il suo idolo per quanto possibile.
“Visto l'esito dell'esame te la meriti davvero una serata di svago”, commentò suo padre.
“Va bene, mi avete convinto: stasera vado a ballare. Datemi solo il tempo di vestirmi in maniera un po' più adatta.”
“A casa tua sono stato tuo ospite, qui sei tu ospite mio”, insistette Raul che per tutta la serata non gli lasciò mettere mano al portafoglio. Lo portò in un posticino davvero molto bello. Musica, tanta gente danzante e consumazioni a volontà. Ma dopo neanche mezz'ora Riccardo si era già stufato di ballare. Si mise seduto, su una specie di poltrona in un angolino, ad osservare quello che succedeva nell'ampio locale illuminato a intermittenza da luci colorate e roteanti. Raul ballava senza sosta; quando si fermava, si metteva a chiacchierare con chi gli capitava. Nessuno sembrava riconoscerlo.
“Dai, vieni a ballare anche tu!”, gli disse cercando di toglierlo da quella poltrona. “No, non posso, con questa caviglia”, rispose Riccardo. Ma non era per quello. Non ne aveva voglia, e forse era troppo impegnato a rimuginare su quanto accaduto quel giorno. Era stata la sua invidia a provocare quel curioso scambio di corpi o di anime? Magari c'era una predisposizione dovuta alla loro somiglianza; o era stata una stregoneria di qualche tifoso? Raul sembrava proprio un bravo ragazzo, più semplice di quanto lo dipingessero i giornali, ma davvero ricco. Però quasi analfabeta, e lontano dalla sua famiglia. Gli dispiaceva davvero, anche se involontariamente ed inspiegabilmente, avergli causato dei problemi.
“È molto bello qui, non trovi?”, gli chiese Raul in un altro suo momento di pausa. Riccardo fece con la testa un cenno che poteva essere anche interpretato come un sì, ma sicuramente non lasciava trasparire nessun entusiasmo.
“Sto pensando di comprare una parte del locale, e diventarne socio; e magari quando mi ritiro dal calcio vengo qui a fare il gestore. O anche solo il barman, mi piacerebbe. Tu che ne dici?”
Riccardo non aveva certo questo tipo di aspirazioni. “Ma non hai intenzione di tornare in Brasile quando avrai finito come calciatore?”
“Non lo so. Bisogna vedere. Se sposo una ragazza italiana è probabile che mi fermo. E poi dicono che non è facile riadattarsi a tornare indietro quando ci si è abituati ad un certo tenore di vita. Ma vedrai che finirò per fare come tanti calciatori: l'allenatore o il commentatore o giornalista sportivo.”
“Per scrivere degli altri calciatori come adesso scrivono di te?”
“Ti riferisci a quegli articoli che mi hai fatto leggere? No, quello è gossip, non giornalismo sportivo.”
E Raul tornò a ballare lasciando Riccardo sulla sua poltrona, intorpidito e appesantito dal sonno. Più tardi Raul venne verso di lui in compagnia di due belle ragazze. Riccardo non capiva quello che si stessero dicendo: pensava che parlassero tra di loro in portoghese. Ma poi fu evidente che si stavano rivolgendo a lui, domandandogli qualcosa che lui non riusciva a capire.
“Mi dispiace, non parlo portoghese”, si scusò Riccardo.
“Dai su, Riccardo, svegliati. Diciamo a te. Vuoi starci a sentire?”
Solo allora si destò e capì di essersi appisolato e di aver sognato, anche se non gli fu chiaro da quanto. “Noi stiamo per andare in un'altra discoteca che apre tra poco. Ti proporrei di venire, siamo in buona compagnia; ma vedo che sei molto stanco. Forse è meglio che ti riaccompagni a casa.”
“Sì, sì, hai ragione”, fu d'accordo Riccardo, anche se proprio in quel momento si rese conto che le due ragazze da sogno vicino a lui erano vere.
Il giorno dopo era quasi mezzogiorno quando la mamma lo venne a svegliare dicendogli che c'era una telefonata per lui. Era Raul.
“Ho preso il primo volo questa mattina, direttamente dalla discoteca, e sono già arrivato. Sono venuto subito al campo a fare due palleggi. È tutto a posto. Voglio dire: io sono io, tu sei rimasto lì. Insomma il mondo è impazzito una volta sola, a quanto pare. Volevo ringraziarti per la compagnia, e sapere della tua caviglia.”
“La mia caviglia? Ah, sì. Ora che mi ci fai pensare: se non la muovo non mi da fastidio, e neanche a camminarci.” La mosse un po', per sentire in che stato era. “Solo se la sforzo. Ma starò attento a non correrci e saltarci per un po'. Non è difficile, per me”.
Così è terminata, o quasi, questa incredibile storia. Devo solo aggiungere che Raul fu davvero carino con Riccardo e, proprio come a ognuno dei suoi fratelli, alla fine del mese gli mandò una piccola somma di denaro. E questo regalo mensile divenne una bella consuetudine che, nonostante il trasferimento di Raul ad una grande squadra spagnola all'inizio della stagione successiva, andò avanti fino alla laurea di Riccardo.
L'allontanamento di Raul dall'Italia, pur molto positivo per la carriera del giocatore brasiliano, rese davvero complicato realizzare il loro progetto di incontrarsi nuovamente. Nonostante tutto ci riuscirono, in occasione della laurea di Riccardo che ci teneva moltissimo a che Raul fosse presente alla sua festa. Lo avvisò con molto anticipo, concordarono la data e Raul non solo prese parte alla festa, ma gliela offrì mettendogli a disposizione quel locale di cui nel frattempo era diventato socio. Fu una festa bellissima, come nessun amico o collega di Riccardo poteva immaginare, a cui parteciparono anche personaggi famosi del mondo del calcio e dello spettacolo; una di quelle feste di cui si parla nelle cronache mondane. Riccardo ne fu felicissimo. E continuarono a vivere come cugini.

IL PESO DI UN SEGRETO
La mia vecchia, sdraiata supina nel suo letto, agitava il vecchio campanello sul comodino quasi per amplificare il beep intermittente di una sveglia per lei troppo moderna.
“Ho sentito, ho sentito. Sto arrivando, mamma”.
“È l'ora delle mie medicine. Me le hai preparate le medicine?”
“Ma sì, mamma, sono lì pronte al solito posto dentro al piattino. E anche il tuo bicchiere. Basta che allunghi la mano.”
“Sono le mie, le medicine, vero?”
“Ma certo: e di chi vuoi che siano? C'è forse qualcun altro in questa casa oltre a noi due?”
Quasi per caso i suoi occhi in quel momento erano aperti: ormai li teneva chiusi la maggior parte del suo tempo solo perché, diceva, le costava meno fatica. Ma anche a vederli aperti, così grigi e sempre più persi e sbiaditi, poco cambiava: il loro aspetto confermava chiaramente quanto il dottore ci aveva detto l'ultima volta, e cioè che la sua vista era ormai ridotta al lumicino.
Povera mamma. Vederla in quelle condizioni mi faceva pensare che la vita si fosse presa gioco di lei.
Fino a pochi anni prima, fintantoché il fisico glielo aveva permesso, era stata attrice di teatro, passione che mi aveva trasmesso assieme ai cromosomi. Lo scherzo del destino era che nell'opera di maggior successo da lei interpretata c'era una scena intera in cui lei era proprio in queste condizioni, inferma dentro ad un letto. Forse in quella scena, che io stessa mi ero rivista registrata per decine di volte, se la ricordavano quei pochi, pochissimi che si erano ricordati di lei in questi ultimi anni. Una scena che adesso, confrontata con la realtà, dava piena evidenza di tutti i suoi limiti di attrice.
“Arianna. Aspetta ad andartene. Ti devo dire una cosa. Una cosa importante.” Fece una breve pausa, sollevandosi leggermente ma con grande fatica sui cuscini. “Ultimamente la mia salute sta peggiorando, me ne rendo conto.”
“Ma no, mamma, non dire così. Diciamo che non migliori, questo sì”, le risposi cercando di tirarla su di morale. Ma lei proseguì senza dare il minimo peso alla mia pietosa bugia.
“Per questo penso che sia arrivato il momento. Il momento giusto.”
Temetti che volesse dirmi che stava per morire. In realtà non mi sbagliai di molto.
“È arrivato il momento di confessarmi. Perciò vorrei che mi facessi venire qui un sacerdote.”
“Confessarti? Un sacerdote? Ma stai scherzando! Ti rendi conto di quello che mi stai dicendo? Saranno forse trent'anni che non vedi un prete, voglio dire un prete vero. Forse è da quando mi sono sposata io, che chissà perché ne abbiamo voluto uno. In vita tua hai incontrato più attori vestiti da prete che preti veri; forse non sai neanche cosa sia una messa, se mai ci sei stata.”
“Appunto. È proprio per questo che è arrivato il momento.”
“Ma non hai pensato che forse sarebbe meglio confidarti con qualcun altro che conosci, piuttosto che con uno sconosciuto?”
“Ti prego, Arianna, dammi retta e ubbidiscimi senza storie, almeno stavolta. Per tutta la vita ho sempre dovuto questionare con te. Sarebbe così bello sentire che non mi contraddici e che almeno una volta fai quello che ti chiedo senza polemiche.”
In realtà chiamare un sacerdote era un problema per me, al di là del fastidio di sapere che mia madre preferiva confidarsi con un estraneo anziché con la sua unica figlia. (E che peccati poteva aver commesso, poi!). Non solo io di preti veri non ne conoscevo, ma mi seccava addirittura il solo pensiero di entrare in una chiesa per cercarne uno.
Allora riflettei sul fatto che quanto avevo appena detto su mia madre, e cioè che in vita sua aveva conosciuto più sacerdoti finti che sacerdoti veri, in realtà valeva anche per me. Anch'io appartenevo a un gruppo teatrale, e tutte le parti da prete o vescovo erano state sempre interpretate da Filippo, che per fisionomia e modi di fare sembrava decisamente più adatto di tutti gli altri a quel ruolo, e che per questo motivo aveva col tempo acquisito sulla scena una discreta esperienza in quei panni.
Però … se mia mamma gli avesse rivelato qualche cosa di imbarazzante … e magari alla fine l'avesse saputa lui ed io ne fossi rimasta all'oscuro? No, non mi sembrava davvero una buona idea. Io, ed io sola, in qualità di figlia, mi sentivo autorizzata a compiere questo illecito. Non avrei coinvolto nessun altro.
Restava il fatto che sicuramente il teatro aveva qualche costume di scena adatto. Un abito talare, una bella parrucca e magari una barba finta; e mia madre, che di preti veri non ne conosceva e che ormai ci vedeva male e sfuocato, ci poteva tranquillamente cascare, se fossi stata brava a recitare la parte.
Sì, alla fine avevo deciso: avrei fatto così.
Cambiai la suoneria della sveglia del cellulare in modo che risultasse uguale al campanello di casa, e mi recai al teatro, dove ebbi la fortuna di incontrare Filippo, con cui però non entrai nel dettaglio delle mie intenzioni: gli dissi soltanto che il costume mi serviva per uno scherzo “da prete”. Egli mi aiutò nella scelta di quello più adatto e mi diede una breve infarinatura e qualche dritta sulla confessione e sul mestiere del prete, anche aiutandosi con internet.
Sulla via del ritorno feci in tempo ad imparare a memoria la formula dell'assoluzione e altre formule latine il cui significato mi era poco chiaro, ma che mi sembrarono di sicuro effetto. Rientrata a casa lasciai nell'ingresso tutto l'occorrente per il travestimento, insieme al mio cellulare, ma riferii invece a mia madre di essere stata nelle chiese vicine per cercare un confessore, che sarebbe venuto di lì a poco.
All'ora X suonò il campanello di casa (ovvero la suoneria della mia sveglia), e mi trovò, secondo i piani, nella stanza di mia madre insieme a lei.
“Eccolo, deve essere il sacerdote venuto per la confessione”, le dissi facendo per andare ad aprire la porta di casa; ma uscendo dalla stanza accostai la porta, in modo da non farmi vedere e che eventuali rumori strani o imprevisti venissero attenuati.
“La ringrazio molto di essere venuto, don … come ha detto che si chiama?” “Don Mario”, mi risposi cercando di impostare una voce che fosse il più possibile maschile e rassicurante, mentre al tempo stesso mi sistemavo nei miei nuovi abiti ecclesiastici.
“Gradisce un buon caffè?”, era la scusa migliore che avevo escogitato per assentarmi e giustificare il fatto che mia madre non mi avrebbe visto insieme al prete.
“Volentieri, volentieri, signora. Però … ”. Però stavo incontrando più difficoltà del previsto per sistemarmi la barba finta e la pelata, e mi serviva un altro po' di tempo.
“Però, visto che ci conosciamo così poco, mi farebbe piacere sapere qualche cosa di più su di lei, e soprattutto su sua madre. Perlomeno i vostri nomi.”
Ecco, adesso mi stavo controllando allo specchio ed ero proprio a posto. Tanto ero soddisfatta che non resistetti alla tentazione di farmi un “selfy” col cellulare.
“Arianna, io mi chiamo Arianna. E mia madre Luisa, ha quasi novant'anni. Si accomodi, la prego. È quella porta laggiù. Io intanto vado a preparare il caffè.”
Entrai nella stanza di mamma un po' impacciata nell'abito talare, ma sicuramente irriconoscibile.
“Cara signora Luisa, eccomi qui. Che cosa posso fare per lei?”
“Lei è simpatico e spiritoso, ma sa benissimo perché si trova qui.”
“Repente liberalis stultis gratus est, verum peritis irritos tendit dolos, gloria patri et filio et spiritui sancto sicut erat in principio et nunc et semper in secula seculorum Amen”, le sciorinai quasi in un sussurro ma molto velocemente, tenendo le mani e lo sguardo rivolti al cielo, ottenendo esattamente l'effetto da me desiderato. “E adesso veniamo al dunque”, proseguii, “mi dica tutto, cara signora.”
"È successo tanto tempo fa, saranno ormai forse venti o trent'anni. Mia madre era malata, non proprio come me, ma molto vecchia. Quando la sua amica più cara morì io lo venni a sapere quasi per caso e non ebbi il coraggio di dirglielo. Avevo paura di darle un dispiacere troppo grosso, magari tanto da morirne essa stessa, vista la sua età e la sua salute. E così decisi di fare in modo che non lo venisse a sapere. Volevo solo risparmiarle un dispiacere. Insomma, doveva essere una pietosa bugia, non un inganno e soprattutto non c'era nessuna cattiveria.”
“Decisi di fare una telefonata a mia madre, di fingermi la sua amica ed inventarmi una buona scusa per cui non l'avrebbe più chiamata né sentita. Sa, io ero attrice di teatro: mentire e alterare opportunamente la mia voce non era difficile per me.”
“Lo so, lo so”, pensavo mentre l'ascoltavo nei miei panni da prete; “anch'io sono attrice di teatro, evidentemente me l'hai trasmesso col DNA.”
“Inventai per la sua amica che uno dei suoi figli, che da diversi anni per davvero viveva in Francia, era venuto a trovarla dopo tanto tempo. Le aveva detto che si trasferiva nel nord Italia con la famiglia e che aveva comprato una villa grande e bella dove sarebbero stati comodi tutti insieme; e le aveva proposto di andare a stare da loro. E lei aveva accettato.”
“E fin qui andò tutto bene, se la bevve tranquillamente”, proseguì mia madre. “Ma evidentemente quel giorno aveva voglia di chiacchierare, ed io dovetti improvvisare. Non è che conoscessi molto bene la sua amica: perciò, per evitare di dover parlare troppo e venire smascherata inventandomi cose non vere, feci la vaga e lasciai parlare lei.”
“La conversazione si stava facendo troppo lunga e meditavo di far cadere la linea per interromperla, quando cominciò a prendere una piega inaspettata ma interessante. Perché, non ricordo per quale motivo, lei aveva cominciato a parlare di me. Ma purtroppo, e con mia grande sorpresa, non è che avesse per me le buone parole che mi aspettavo. Anzi, mi dipingeva in modo decisamente negativo. Sì, parlò di me con astio e cattiveria. Si lamentò che non stavo mai a casa, e che quando c'ero la trattavo male, come fosse una bambina, e non le lasciavo fare niente di quello che voleva. Ma ciò che mi diede più fastidio fu invece l'esaltazione che fece di mio fratello: lui fa questo, lui fa quello; lui qui e lui là. Mio fratello che - voglio che lo sappia, padre - ha badato a lei neanche per un anno della sua vita: poi si è risposato, è andato a vivere in campagna e non si è fatto più vedere né sentire.”
“Lo so, lo so … voglio dire, lo immagino. A volte càpitano situazioni come queste nelle famiglie, anche nelle migliori. Con gli anziani bisogna aver pazienza”, buttai lì per calarmi meglio nella mia parte.
“È questo il punto”, riprese lei, “che io, che di pazienza fino ad allora ne avevo avuto tanta, la persi tutta in un colpo. Se proprio ti trovi tanto male con me e a casa mia dove per anni non fai altro che portarmi impicci e problemi, ho pensato, allora vattene una buona volta. Non so come abbia potuto assalirmi un pensiero del genere, ma non sono riuscita a controllarlo. Con una scusa ho interrotto la comunicazione, ed ho cominciato a pensare al modo migliore di fargliela pagare. Ho pensato sùbito alle sue medicine: gliele faccio mancare. Anzi, gliele sostituisco. Tanto sembrano più o meno tutte uguali. Quella della pressione col diuretico, e un altro con una pasticca di uguale forma e colore che avevo tra le mie, non so neanche per cosa fosse. Così feci, fintantoché, dopo una quindicina di giorni, lei peggiorò. Quando ciò accadde, guarda caso, il suo medico curante era in ferie, e io la convinsi ad aspettare che tornasse piuttosto che affidarsi ad un altro. Ma poi anche quando tornò non glielo dissi. E solo quando stette molto male mi decisi a chiamare un dottore; ma un altro, di cui qualcuno mi aveva parlato piuttosto male e che non la conosceva. Nonostante il ricovero in ospedale, mia madre non ce la fece.”
Sentendo questo racconto rimasi quasi pietrificata, come una statua di sale. Cercavo di digerire quello che mia madre mi aveva appena detto ma la mia mente si rifiutava: era quasi assente, come in coma. Non riuscivo davvero a credere alle mie orecchie.
“E allora?”, mi chiese lei, visto il prolungarsi evidentemente esagerato del mio silenzio.
“E allora, mamma, che cosa diavolo hai combinato alla mia povera nonnina?”, pensai tra me, come se la mia mente si fosse risvegliata al'improvviso alla sua domanda. “Il papà lo diceva spesso che avevi una rotella fuori posto, una vena di follia. E pensare che io non gli ho mai creduto.”
“E allora cosa?”, le chiesi, cercando di risvegliami da quella specie di brutto sogno.
“Allora la penitenza, padre. E l'assoluzione. Lo so che ho fatto una cosa molto brutta, ma me la può dare lo stesso l'assoluzione?”
Non ero in grado di ragionare. Pronunciai velocemente e a bassa voce la formula dell'assoluzione che avevo imparato quella stessa mattina, concludendo con un ampio segno di croce a mo' di benedizione.
“La prego, mi dia anche una penitenza. Anche se portarsi da sola il peso di questo segreto per tanti anni è già stato per me una mezza punizione, credo che non sia sufficiente.”
Cercai di pensare ad una penitenza un po' dura nei suoi confronti, ma proprio non mi venne in mente nulla. Poverina, era pur sempre la mia povera vecchia mamma.
“Dica cinque Ave Marie … anzi, facciamo dieci … dopo ogni pasto … compresa la colazione … finché il Signore le darà vita. E adesso voglia scusarmi, ma devo andare. C'è un'altra signora che ha bisogno di me e che mi sta aspettando. Stia in pace, e coraggio.”
Uscii dalla stanza un po' alla chetichella e tornai nei miei soliti abiti. Cambiandomi mi tornarono in mente i dettagli della mia finzione, per la quale avevo previsto che il sacerdote prendesse il caffè.
“Padre, si sta dimenticando del suo caffè!”, dissi con la mia voce di donna.
“La ringrazio, ma devo proprio scappare”, risposi con la voce del prete e sbattei la porta dell'ingresso per far sentire bene che era uscito.
Che pessima idea che mi era venuta in mente, di andarmi ad impicciare degli affari di mia madre!
Ancora nel panico, riportai al teatro gli abiti che avevo preso in prestito; dopodiché passai, stavolta veramente, nella vicina parrocchia a cercare un prete per la confessione.
“Sì, vengo subito. Gli darò anche l'unzione dei malati, se le sue condizioni sono quelle che mi hai riferito”, mi disse con grande pacatezza e disponibilità il primo sacerdote che incontrai.
“Mamma, svegliati mamma. Ti ho portato un sacerdote per la confessione, come mi avevi chiesto”, le dissi, appena entrata, interrompendo il suo sonnellino.
“Ma come? Se mi sono confessata appena poche ore fa”, mi ha risposto lei.
“Ma che dici, mamma? Te lo sei sognata? O hai avuto delle allucinazioni? Devo chiedere al medico se qualcuno di questi nuovi farmaci che ti ha prescritto può portare conseguenze di questo tipo, come effetti collaterali. Adesso vi lascio soli, che ho un po' da fare in cucina.”
Il prete si trattenne parecchio, forse anche mezz'ora. Quando uscì dalla stanza di mamma era sereno e tranquillo, né più né meno di quando vi era entrato.
“Avete finito? Tutto bene?”, gli chiesi.
“Sì, sì, tutto a posto.”
“Venga, che le offro un caffè.” Lui accettò volentieri, mentre io, ancora nel panico, fui seriamente tentata di chiedergli di confessare anche me. Ma non lo feci. Gli dissi soltanto:
“Per fortuna che ci siete voi preti.”
Non ho mai parlato con nessuno di quanto successo quel giorno, nemmeno con mia madre; che però, ho notato, da allora in poi ha preso l'abitudine di recitare dieci Ave Maria dopo ogni pasto (compresa la colazione), e mi pare anche qualcuna prima di mangiare.

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