Читать онлайн книгу «Una Maestra DAsilo Per Il Re» автора Shanae Johnson

Una Maestra D'Asilo Per Il Re
Shanae Johnson
Lui è il re del suo paese. Lei la regina dei pisolini. Riusciranno a governare il loro cuore?
Esmeralda Pickett regna sui sudditi della classe d'asilo in cui insegna. Probabilmente è l'ultima donna adulta a credere nelle favole, viste tutte le storie che racconta ai suoi giovani allievi per farli addormentare. Esme sogna di innamorarsi alla follia di un principe affascinante, quindi, quando un re in carne e ossa la salva dai pericoli del messaggiare camminando, è certa che quello sia l'inizio della storia da favola che da sempre sogna. Anche se tra il re e la maestra volano scintille, la fiaba si interrompe quando Esme scopre che il monarca può sposare solo una donna di sangue blu. Lei è una newyorkese purosangue, ma quello che le scorre nelle vene è semplice sangue rosso.
La prima moglie di Re Leonidas venne scelta per lui alla nascita. Ormai vedovo, Leo ha il diritto di decidere chi sposare, ma non sarà il matrimonio d'amore che sogna in segreto. Il piccolo paese di Cordoba sta affrontando una crisi economica, e sposare una ricca duchessa assicurerebbe il futuro del suo popolo. Ma il suo cuore può permettersi un altro matrimonio senza amore? Mentre Esme e Leo si conoscono, è chiaro che tra loro stia nascendo qualcosa di importante. Ma qualcos'altro – la mancanza di sangue reale di Esme – rischia di separarli per sempre.
Quando ormai l'orologio è vicino alla mezzanotte, riuscirà la nostra eroina ad avere il suo finale da fiaba? O la loro storia diventerà solo un'altra favola finita male?
Scopri se l'amore trionferà in questa dolce e spensierata storia che parla di fidanzamenti reali.
”Una Maestra d'asilo per il Re” è il primo volume di una serie di storie d'amore che vanno oltre la realtà!

Translator: Chiara Vitali


Una Maestra d`Asilo per il Re

Indice
Capitolo Uno (#u88edac6e-611f-5c65-87d7-13314b408897)
Capitolo Due (#u2271d62c-5cc6-53df-b30d-ef9154065216)
Capitolo Tre (#u4e680c67-8d1e-57a3-8761-b419a64d3202)
Capitolo Quattro (#u9de2c3fa-e1f8-54c6-878b-107c34818cb9)
Capitolo Cinque (#uda1aa073-0575-566f-b2f4-5c10db7f0adc)
Capitolo Sei (#u6600e03d-e159-51a0-9d6e-a72c39048245)
Capitolo Sette (#u760fe28a-011e-5dee-bb71-1220f15f5b64)
Capitolo Otto (#u0dac8c73-e6c3-5a39-9a1a-4ef1e65aa9d3)
Capitolo Nove (#ud86b229e-ea09-515b-b2ec-0431b71f29eb)
Capitolo Dieci (#ua2416b76-4652-54b1-8fc3-00f4c09b09a1)
Capitolo Undici (#ufc69c577-bdfb-5a28-89e5-2da737728a19)
Capitolo Dodici (#uacd3de10-66b2-5e99-9f8d-147b607eaaab)
Capitolo Tredici (#u78eff10f-2290-5fdc-8d63-fe71314730e9)
Capitolo Quattordici (#uf7c17175-fd7d-5e08-8b40-31fb82bcca96)
Capitolo Quindici (#uc64ec984-cf2e-5194-a634-014618c5f921)
Capitolo Sedici (#u9c8dce88-006c-5dec-a68b-9f51cd29797b)
Capitolo Diciassette (#ud3f35ac3-a515-5077-9f1e-8d63d9f75e41)
Capitolo Diciotto (#uc1103c38-581f-5f9d-a1e2-56767b46f0d0)
Capitolo Diciannove (#ud3dcdf30-c68f-5f53-abed-6b1665b8980f)
Capitolo Venti (#u7f184f18-5ca5-5450-808f-75a7b47da211)
Capitolo Ventuno (#u06543c14-34ec-550f-816b-8a4260bd0f65)
Capitolo Ventidue (#u07b3aca9-c020-5922-b344-f5025fcdd07e)
Capitolo Ventitré (#u087a33c7-af44-5f22-afaf-f01cf3faf09c)
Capitolo Ventiquattro (#u197ec32c-ca79-5fe8-b8be-526ff8b82b8b)
Capitolo Venticinque (#uff3ebd44-68e7-544a-b90f-c95bbffb2eb7)
Capitolo Ventisei (#ud485b528-c0c1-5b53-8746-960834f3ad30)
Capitolo Ventisette (#u00dbf3ed-e183-5a16-9b86-0e386f7f3cd4)
Epilogo (#u9375b53d-f291-53a3-9261-357ba1d4ac6c)
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio e non devono essere considerati come reali. Qualsiasi riferimento a fatti realmente accaduti o a persone, in vita o defunte, è puramente casuale.

Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo libro può essere utilizzata, riprodotta elettronicamente o stampata senza l’autorizzazione scritta dell’autrice, fatta eccezione per brevi citazioni inserite nelle recensioni.

“The King and the Kindergarten Teacher” © 2019 Ines Johnson
A cura di Alyssa Breck
Prima edizione inglese febbraio 2019 – Stampato negli Stati Uniti d’America

“Una Maestra d’Asilo per il Re” traduzione italiana © 2021 Chiara Vitali
Con la collaborazione di Antonella Caso

Capitolo Uno
Guardando dalla finestra della sua stanza, Leo vide le guglie di alti castelli. Imponenti torri di metallo e vetro punteggiavano il paesaggio. Più in alto, bestie gigantesche ruggivano e lasciavano scie di fumo nel cielo mattutino. Luci multicolori lampeggiavano in lontananza, come se una strega o un mago stessero lanciando un incantesimo. In fondo alla strada, animali a grandezza naturale salutavano i bambini intimoriti e posavano per i passanti chiassosi.
Times Square, a New York, era pura magia.
Leo voleva scendere e farne parte. Ma sarebbe stato impossibile. Il dovere lo chiamava. Lo faceva sempre, motivo per cui raramente dormiva bene la notte.
Poteva anche vivere in un palazzo pieno di domestici, il cui compito principale era quello di servirlo e riverirlo, ma ognuna di quelle persone era, in definitiva, una sua responsabilità. Come loro monarca, i loro mezzi di sussistenza erano nelle sue mani.
«Siete pronto per il vostro discorso, Maestà?»
Re Leonidas si allontanò dai festeggiamenti che si svolgevano in strada. Si diede una spolveratina all’abito formale e allo stemma sul petto. Deteneva un titolo. Sapeva come maneggiare una spada. Ma niente favole o romanticismo nella moderna nobiltà. No. Solo affari e protocollo.
«È importante menzionare le ampie risorse di Cordoba» gli ricordò Giles, che era sia il suo assistente personale che il capo dello staff durante quel viaggio a New York. «Attireranno interessi commerciali maggiori.»
«Sì, lo so.» Leo si avvicinò allo specchio presente nella suite per sistemarsi la cravatta, ma Giles gli allontanò le mani e sciolse il nodo già perfettamente dritto.
«Sarebbe molto vantaggioso se riuscissimo a catturare l’interesse del governo spagnolo. Le loro risorse si sposano alla perfezione con le nostre. Sarebbe un’accoppiata perfetta. In effetti, questa non è l’unica partita che andrebbe a beneficio dei nostri due paesi.»
Leo alzò gli occhi al cielo. Sfortunatamente, Giles non colse l’allusione. Quell’uomo era troppo concentrato a rendere ancora più grazioso il cappio intorno al suo collo.
Erano passati due anni dalla morte della prima moglie di Leo. Giles non era l’unico a tallonarlo perché scegliesse una nuova consorte. L’intero paese era ansioso di avere una nuova regina, e Leo stava iniziando a sentirsi sotto pressione.
Sapeva di essere responsabile per ogni cittadino del suo paese. Ma ciò dava loro il diritto di avere voce in capitolo nelle sue scelte personali? Lì, nella Terra degli Uomini Liberi, Leo si chiese se la democrazia non fosse un modo per andare oltre il concetto di monarchia.
Guardò di nuovo le luci brillanti della grande città. Se fosse stato solo un cittadino comune, sarebbe stato libero dai suoi doveri e si sarebbe goduto la vita. Andando a Times Square. Assistendo a un evento sportivo senza sconvolgere l’intero Paese. Prendendo una tazza di caffè in un locale tranquillo. Avrebbe potuto chiedere un appuntamento a una ragazza, per quella tazza di caffè – senza che nessuno lo tenesse d’occhio. Era un re di trent’anni, e, per buona parte della sua vita, doveva ancora essere accompagnato da assistenti e uomini della sicurezza.
Cordoba era un piccolo stato, situato su un’isola nel Mediterraneo tra il confine sud-occidentale della Francia e quello nord-orientale della Spagna. Era praticamente sconosciuto, lì in America. Quello era il motivo per cui la sua scorta e il suo entourage erano al minimo. Solo Giles e un autista, il più delle volte. Avrebbe potuto liberarsene con facilità. Aveva visto suo fratello farlo molte volte.
Leo diede le spalle alla finestra e sollevò gli appunti per il suo discorso. Sapeva che migliaia di persone si affidavano a lui per il proprio sostentamento, quindi faceva il suo dovere. E si sarebbe pure trovato una nuova moglie. Prima o poi.
Non poteva chiedere di uscire a una donna qualunque. Proprio come era capitato per il primo matrimonio, anche il secondo sarebbe stato un affare. Non un affare di cuore, ma uno da cui dipendevano gli interessi nazionali.
«La duchessa spagnola, Teresa d’Almodovar, ha ottime referenze. È giovane, istruita, si occupa di beneficenza, e le donne della sua famiglia sono ottime fattrici.»
Leo sarebbe rabbrividito se non avesse sentito quella litania anche per la sua prima moglie. Isabel aveva tutte quelle stesse qualità, ed erano andati d’amore e d’accordo. Ma la cosa era finita lì.
Non aveva mai sperimentato la passione. Non sarebbe mai successo. Non era destino, per un re.
Leo diede un’ultima occhiata ai suoi appunti. Li conosceva tutti a memoria. Nel suo destino c’era la stabilità economica e una moglie che avrebbe soddisfatto le esigenze del suo paese e gli avrebbe dato un erede. Se fossero riusciti ad andare d’accordo, come avevano fatto lui e Isabel, sarebbe stato un vantaggio, ma non un requisito.
«Sono passati due anni» gli ricordò Giles. «Un tempo sufficiente per un lutto rispettoso. Cordoba ha bisogno di un erede.»
«Ho già un’erede.»
«Sapete che la costituzione del nostro paese è patriarcale.» Giles alzò la mano prima che Leo potesse obiettare. «Non abbiamo né il tempo né il supporto per cambiare quella legge. Dovrete trovare una nuova regina e generare un erede maschio. In caso contrario... non voglio prendere in considerazione l’alternativa.»
Come se li avesse sentiti parlare di lui, l’alternativa irruppe nella stanza. Una versione leggermente più giovane e molto più disordinata di Leo aprì la porta e si precipitò dentro la stanza.
I lembi della camicia di Alex erano sbottonati. Gli mancava la cintura. Il colletto era storto e con visibili tracce di rossetto impresse sul tessuto bianco. Probabilmente Alex si era fatto strada tra la baldoria di Times Square.
Leo non invidiava suo fratello, né il suo comportamento da playboy. Invidiava il fatto che potesse scegliere chi amare. Non che suo fratello optasse per una scelta sola. Perché farlo quando poteva averle tutte?
«Buongiorno, Vostra Altezza, è una bellissima mattina di sole» disse Giles, ponendo l’accento sulla parola “mattina”.
«È già mattina? Speravo di riuscire a fare un sonnellino prima che sorgesse il sole.» Alex si riparò gli occhi dalla luce delle prime ore del giorno. «Troppo tardi. Eccolo.»
«Non hai chiuso occhio?» gli chiese Leo.
«Oh, un po’ ho dormito. Solo non nel mio letto.» Alex si tolse la giacca. E, in maniera maleducata, la lasciò cadere sul pavimento, sicuro che qualcuno l’avrebbe raccolta. «Oggi non hai bisogno di me, vero? Nessun nastro da tagliare? Nessuna ereditiera da intrattenere? Nessun giornalista da distrarre con il mio ghigno follemente fotogenico?»
«In realtà», disse Leo, «ho bisogno di te. Hai promesso di portare fuori Pen, oggi.»
Alex sbatté le palpebre, come se si stesse svegliando da un lungo sonno. «L’ho fatto?»
Leo annuì. «Dovete andare in una scuola locale. Voleva visitare una classe dell’asilo.»
«Bene.» Alex sospirò drammaticamente e si passò una mano sulla ricrescita della barba. «Per quella piccoletta non posso venire meno alla parola data. Ho solo bisogno di un pisolino. E di una doccia. E di un cambio di vestiti. E poi sarò come nuovo.»
Alex si accasciò sul divano. Appena chiuse gli occhi, si addormentò. Quell’uomo aveva sempre avuto la capacità di scivolare in un sonno beato ovunque posasse la testa. Era facile, quando non ti importava di niente e nessuno al mondo.
Leo rimise in ordine le sue note e si infilò i fogli nella tasca del cappotto. Prima di andarsene, fece capolino nella stanza di sua figlia. Lei era la piccola donna a cui, per prima, andava la sua lealtà. A parte il suo dovere verso il popolo, sua figlia era la sua ragione di vita.
La principessa Penelope dormiva pacificamente nel letto della camera d’albergo. I suoi capelli scuri si allargavano a ventaglio sulla federa bianca. Sul comodino c’era un libro di frazioni.
A differenza della maggior parte dei bambini di cinque anni, la sua Pen preferiva addormentarsi facendo matematica. Era un tratto che aveva ereditato da sua madre. Isabel aveva studiato ingegneria all’università, anche se sapeva che non le sarebbe tornata utile nei suoi doveri di regina. Ma farlo l’aveva resa felice. I numeri facevano lo stesso con la sua bambina, quindi lui era più che contento di impugnare una matita e fare algebra prima di coricarsi, al posto di leggere una storia.
Perdere sua madre in così giovane età era stata dura, per la sua Penelope. Avrebbe dovuto lasciarla a casa, ma odiava starle lontano. Lei era il vero amore della sua vita.
Il suo angelo dormiva profondamente. Non osò svegliarla, anche se voleva darle il buongiorno prima di dare il via ai suoi impegni. Leo stava iniziando presto la sua giornata, e non voleva che lei saltasse il programma fatto. Specialmente con lo zio messo fuori combattimento nell’altra stanza.
Penelope meritava una madre e lui le avrebbe trovato la migliore possibile. Quello sarebbe stato il suo primo criterio di scelta. Non un interesse economico per il suo paese: Leo si sarebbe concentrato sull’interesse di sua figlia. Con quella determinazione, uscì per guadagnarsi favori per il suo paese e trovare una madre per sua figlia.

Capitolo Due
«Il Principe Azzurro sguainò la spada e corse a salvare la principessa, ma in quel momento...»
«Ma... signorina Pickett?»
A quell’interruzione, Esmeralda Pickett alzò lo sguardo dal libro illustrato. Non era la prima volta che quella storia veniva interrotta. Si era fermata praticamente a ogni pagina del libro per rispondere a una domanda o offrire una spiegazione ai bambini della sua classe dell’asilo, che la guardavano con occhi brillanti. Era orgogliosa di quel gruppetto curioso. Le loro piccole menti erano come spugne, affamate di nuove conoscenze.
«Signorina Pickett, perché la principessa non può sguainare da sola la spada?» Aubrey Thomas arricciò il nasino all’insù mentre cercava di venire a capo del suo problema con la favola. «Hai detto che quello non era il primo principe che cercava di salvarla. E sono tutti nella tana del drago. Quindi ci sono altre spade per terra. Perché lei non ne prende una da sola?»
Quello era un ottimo ragionamento, specialmente da parte di una bambina di cinque anni che Esme spesso sospettava ne avesse cinquanta. Tutt’intorno a Esme, altre dieci testine dondolavano e si inclinavano considerando quella possibile svolta nella storia. Non cercavano subito la risposta nella maestra. No, discutevano tra di loro le possibilità e i fattori in gioco.
Avevano ascoltato attentamente le prime due pagine. Le interruzioni erano iniziate quando la principessa aveva disobbedito al padre ed era andata nel bosco. I giovani studenti di Esme erano rimasti a bocca aperta e con gli occhi spalancati, come se non avessero mai preso in considerazione l’ipotesi di non seguire le indicazioni dei propri genitori.
Erano rimasti senza fiato e aggrappati al filo della storia quando la principessa aveva accettato il cibo da uno sconosciuto. Kurt Willis e Carla Barrow avevano interrotto il racconto discutendo sui pericoli di accettare da qualcuno che non si conosce caramelle o qualsiasi altra cosa che non fosse ben sigillata e con gli ingredienti e gli allergeni chiaramente etichettati, in modo che mamma e papà potessero leggerli.
Ma la parte migliore l’aveva fatta Tracey Chen. Aveva incrociato le braccine sul petto in preda all’orrore, facendo ondeggiare i codini quando Esme aveva descritto il cattivo della storia come una strega malvagia e aveva mostrato la sua immagine. Tracey era stata certa che Esme stesse discriminando le persone anziane, o quelle con psoriasi ed eczema.
Quale bambino di cinque anni conosceva una di quelle parole, era in grado di pronunciarla e ne comprendeva il significato? Beh, almeno erano tutti coinvolti nel racconto. E quello era il succo dell’apprendimento, no?
«Va bene» disse Esme, riferendosi all’ultima domanda che le era stata posta dai bambini. «E se la principessa raccogliesse la spada? Cosa pensate che farebbe?»
«La principessa con la spada potrebbe uccidere il drago» rispose Aubrey, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Poi potrebbe tornare a casa prima di sera, scusarsi con i suoi genitori e non essere punita troppo severamente per le sue azioni.»
«Ma così ucciderebbe un drago!» intervenne Carla. «È crudeltà verso gli animali.» La bimba era vegana e piangeva ogni volta che vedeva uno dei suoi compagni di classe mangiare bastoncini di pollo o hot dog.
«I draghi non sono reali» le disse Aubrey.
«Lo sono nella mia cultura» ribatté Tracey. «In Cina simboleggiano forza, potere e buona fortuna. Ecco perché la mia gente indossa costumi che li rappresentano durante le feste.»
Kurt Willis tirò su col naso come se il pensiero di un immaginario drago sofferente o di uno in costume a una parata lo facesse stare male. «Penso che dovrebbe sedersi, parlare con il drago e risolvere i loro problemi a parole.»
«Queste sono tutte ottime idee» disse Esme. «Ma cosa credete che dovrebbe fare il principe?»
La classe la osservò in silenzio.
«Mi ero dimenticata di lui» disse Aubrey.
«Perché è ancora lì?» chiese Tracy.
«Per salvarla, no?» rispose Carla.
«Ma è lei che ha combinato un guaio» sostenne Aubrey. «Mia mamma dice che se ti trovi in un pasticcio, devi cavartela da solo.»
Esme non faceva fatica a crederci. La madre di Aubrey parlava in continuazione di regole e procedure. Il primo giorno di scuola, la signora Thomas si era presentata con un documento rilegato di dieci pagine intitolato “Conoscere Aubrey”, in cui era indicato per filo e per segno il rituale del bagno a cui la bambina era stata addestrata da quando aveva un anno. E aveva insistito che Esme lo seguisse alla lettera.
«Nelle favole», disse Esme, rompendo il silenzio, «è compito del principe salvare la principessa e le donzelle in pericolo.»
«Donzelle in pericolo?» Sia Tracey che Carla pronunciarono quelle nuove parole come se le sentissero per la prima volta.
«Ma questo è il mondo reale, signorina Pickett» disse Aubrey. «C’è una regina in Inghilterra e un sacco di principesse.»
«Oggi una di loro viene a trovarci» disse Carla saltellando per l’impazienza.
«Ma è solo una bambina.» Aubrey alzò gli occhi al cielo. «Mia madre ha incontrato una principessa adulta. Salvava i bambini dalle zone di guerra.»
«Ooh» disse Kurt. «Sei riuscita a incontrarla?»
Aubrey annuì. «Mi ha portato dei cioccolatini, ma contenevano latte, quindi non ho potuto mangiarli.»
Tutti i bambini si voltarono e ascoltarono la storia di Aubrey. Il tempo della favola era effettivamente finito, quindi Esme chiuse il libro illustrato.
«Va bene, bambini» disse. «Andate ai vostri materassini. È l’ora del pisolino.»
Ci fu un coro di lamenti, ma tutti fecero come era stato loro detto. Più o meno. Kurt andò all’armadietto per prendere la sua copertina speciale. Aubrey tirò fuori gli auricolari e l’iPhone dal suo zainetto. Una parte del documento di benvenuto di Aubrey diceva che durante il pisolino la piccola doveva ascoltare Brain FM, una app che offriva specifiche sequenze musicali in grado di favorire il sonno e il relax.
Finalmente tutti i bambini si misero stesi per il pisolino di metà mattina. L’insegnante di supporto entrò per permettere a Esme di fare la pausa pranzo, di cui aveva davvero bisogno.
Faceva quel lavoro solo da un paio di mesi, ma quelli non erano bambini normali. Uscita dall’università, aveva sognato di cambiare la vita dei suoi giovani allievi, donando loro la voglia di imparare e ampliando la loro immaginazione. Fino a quel momento, l’unica voglia che le era stato permesso di soddisfare alla Global Learning Preparatory Academy proveniva da prodotti preconfezionati, senza latticini, frutta a guscio e glutine. L’immaginazione veniva soffocata, perché quei bambini non guardavano la TV, e i giochi a cui partecipavano non erano educativi. Esme non stava cambiando proprio un bel nulla.
Afferrò la sua borsa dalla sala insegnanti e si preparò per uscire nella luminosa giornata di New York City. Camminando lungo il corridoio della scuola, sorpassò premi, riconoscimenti ed encomi. I ragazzini degli anni passati catturati nella celluloide sembravano tutti molto seri. Non un sorriso di gioia o occhi che scintillassero di immaginazione.
Esme era ancora determinata a portare divertimento e gioia nella sua classe d’asilo, ma prima aveva bisogno di una pausa. E di qualcosa da mangiare.
«Signorina Pickett.»
Le spalle di Esme si piegarono al suono della voce del preside Clarke. Il modo in cui diceva “signorina” era singolare, e pronunciava male la parte finale, come se la troncasse. Era come se volesse allontanare da lei quel diminutivo in più, e trasformarla, così facendo, in una signora.
Anche a Esme sarebbe piaciuto. Il problema era che non erano molti i ventenni come lei pronti a sistemarsi. Trent’anni. Sembrava fosse quello il momento giusto per fidanzarsi. E guai pensare a fare dei figli prima dei trentacinque, innanzitutto bisognava far decollare la carriera e sistemare la casa, arredarla e renderla a prova di bambino, il tutto seguendo i dettami del feng shui.
Come per la maggior parte delle cose, Esme era una fan dei vecchi metodi. Era una femminista, certo. Del tipo, però, che voleva uguali diritti e pari stipendio, ma gradiva che ci fosse un uomo ad aprirle la porta e pronto a conquistarla. Avrebbe combattuto al fianco del suo principe se un drago, in una torre o durante una parata, li avesse attaccati. Ma perché avrebbe dovuto farlo, quando era a lui che spettava farsi trovare ben equipaggiato?
«Signorina Pickett, ho appena ricevuto un’altra lamentela per del materiale inappropriato letto nella sua classe. Qualcosa su principesse, draghi e spade.»
Esme si voltò di scatto. Come aveva fatto a saperlo? Era appena uscita dalla sua classe.
«La madre di Aubrey Thomas ha appena chiamato.»
Aubrey “Puzza sotto il Naso” Thomas. Quella ragazzina aveva un cellulare. Aveva scritto un messaggio alla madre? Beh, sapeva già leggere. La maggior parte dei bambini di cinque anni della sua classe erano a livello di quelli di seconda elementare, e si annoiavano durante le sue lezioni sull’alfabeto.
«I genitori ci affidano il compito di preparare i loro figli al mondo reale, signorina Pickett.»
Possibile che nessuno credesse all’esistenza del romanticismo, nel mondo reale? Che esistessero ancora uomini disposti a uccidere un drago per il loro vero amore? A quanto pareva, no. La maggior parte degli uomini della sua età sconfiggeva troll virtuali facendo scorrere un dito sulla tastiera e niente più.
«Credo che lei abbia un futuro brillante, qui con noi» disse il preside Clarke. «Ma se continuo a ricevere chiamate…»
«Stavo cercando di dare una lezione morale» rispose Esme. «Ma non sono riuscita ad arrivare alla fine della favola.»
«Provi con una storia differente, la prossima volta. Magari con una biografia.»
Esme respirò attraverso il naso per tenere la bocca chiusa. I fatti nudi e crudi, secondo lei, erano per i ragazzi più grandi.
«Oggi vengono a farci visita due persone molto importanti. Il principe e la principessa di Cordoba. Vogliamo fare una buona impressione.»
Ecco l’unica cosa a cui tutti, in quella scuola, erano interessati. Fare una bella figura. Non stimolare l’immaginazione.
«Vado a prendermi una fetta di torta» disse Esme. «Posso portarle qualcosa?»
«Torta? Carboidrati nel pomeriggio? Mio Dio, lei vive pericolosamente, signorina Pickett.»
Con un altro profondo respiro attraverso il naso, Esme tenne la bocca chiusa e uscì dall’edificio. Tirò fuori il cellulare dalla tasca, e, prima ancora di aver girato l’angolo, scrisse a Jan di scaldarle una fetta del suo dolce preferito.
Premette il tasto INVIA. Quando alzò lo sguardo, faticò a credere ai suoi occhi. C’era un drago in mezzo alla strada. E stava volando dritto verso di lei.

Capitolo Tre
Mentre guardava fuori dal finestrino della macchina, la città di New York scorreva davanti agli occhi di Leo in cemento grigio, denim blu e luci fluorescenti. Gli scorreva davanti era un modo di dire. Avrebbe potuto camminare più velocemente di quanto l’auto viaggiasse nel traffico. Quella strada trafficata era più simile a un parcheggio che a un percorso.
«Mi dispiace che ci si metta così tanto, signori» disse l’autista.
Si toccò il cappello mentre guardava Leo e Giles sul sedile posteriore. Il loro autista era originario di New York. Era sembrato deliziato quando aveva saputo che avrebbe portato in giro un re in carne e ossa. In effetti, aveva davvero ridacchiato come una scolaretta quando si era trovato faccia a faccia con Leo.
«Si figuri, tutto a posto» gli disse Leo.
«Ha detto che vuole andarsene da questo posto, Altezza?»
Leo aveva viaggiato molto prima di salire al trono. Ai tempi della scuola, aveva trascorso molto tempo in Germania, dove aveva imparato a esprimersi in modo chiaro e coinciso. Dopo la scuola, aveva lavorato a lungo nelle missioni nell’Africa francofona, dove l’accento era molto marcato.
Eccelleva nella comunicazione. Tranne che lì a New York, dove gli accenti, che sembravano degli scioglilingua, i doppi negativi e i significati capovolti di alcune parole spesso lo coglievano alla sprovvista. E viceversa, a quanto pareva.
«No» disse Leo. «Voglio dire che il traffico non è colpa sua.»
L’autista annuì. «Mi scusi. Il suo è un inglese da ricconi. Ho già abbastanza problemi a capire le persone del Jersey.»
Leo rise a quella battuta. Nonostante i problemi di comunicazione, gli piaceva parlare con l’autista sin da quando era andato a prenderli all’aeroporto. Avrebbero potuto utilizzare il loro autista di Cordoba, ma l’ambasciata aveva detto che sarebbe stato meglio averne uno nativo di New York, quella settimana, quando i diplomatici di tutto il mondo avrebbero intasato le strade.
Leo guardò quei nastri di asfalto. Cosa non avrebbe dato anche per un solo attimo di libertà! Un momento per scomparire tra la folla.
«Perché non usciamo e ce la facciamo a piedi?» propose Leo.
Giles sbuffò come se qualcosa di aspro e sgradevole si fosse fatto strada con gli artigli dal fondo della sua gola. «Siete un re. Un re non cammina. Soprattutto in una città straniera.»
«Nessuno sa chi sono, qui. Potrei essere un uomo qualunque che passeggia per strada.»
In quel momento Giles arricciò il naso come se avesse fiutato qualcosa di veramente disgustoso. «Appartenete a un lignaggio di grandi guerrieri e leader, i quali, secoli fa, avrebbero schiacciato ribelli come questi se avessero osato non essere d’accordo con il loro re. Siete tutt’altro che un uomo qualunque.»
Leo azzardò un’occhiata nello specchietto retrovisore. «Senza offesa» disse all’autista.
«Non mi offendo» rispose prontamente lui. «Non sono sicuro di aver capito bene tutto quello che ha detto.»
Leo ridacchiò di nuovo, e poi il suo stomaco entrò in azione. «Quello che io so per certo è che sono affamato.»
«Ha fatto colazione nella suite dell’hotel.» Giles non alzò nemmeno lo sguardo. Sfogliava le carte del suo dossier.
«Ho di nuovo fame» si lamentò Leo, suonando simile alla sua bambina di cinque anni prima di andare a letto.
«Naturalmente» disse Giles sottovoce ma abbastanza forte perché Leo potesse sentirlo. «Ci siamo quasi. Sono certo che ci sarà da mangiare in abbondanza.»
Sebbene Leo indossasse la corona e sedesse su un trono, sentiva che la sua vita non era mai stata sua. Prima che fosse Giles a gestire i suoi programmi, erano stati i suoi genitori a pianificare ogni sua mossa. A volte si chiedeva se il castello immerso tra le nuvole dove risiedeva non fosse in realtà una gabbia dorata.
Si rivolse di nuovo allo scenario di New York che aveva davanti. Quando la macchina svoltò in una strada laterale, ai suoi occhi apparve un castello. O qualcosa che si avvicinava a un castello. Invece delle torrette, la tenda parasole ricordava la crosta di una torta salata. L’insegna sopra la porta identificava il negozio come il Peppers’ Pies.
Fuori dalla vetrina c’era un cartello che accoglieva i dignitari dei molti paesi presenti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si teneva a pochi isolati di distanza. L’auto si mosse abbastanza lentamente da permettere a Leo di leggere le offerte speciali del giorno. Nel menu c’erano torte di carne australiane, bundevara serbe e... possibile?
«Accosta» disse Leo.
«Vostra Maestà, non abbiamo tempo.»
Leo rivolse uno sguardo al cruscotto. Avevano ancora un’ora intera prima del suo discorso. A Giles piaceva semplicemente essere estremamente in anticipo a tutti gli eventi per scongiurare ogni possibilità di catastrofe. Non ce n’era mai stata una.
«Puoi riservare al tuo re un momento per soddisfare i suoi bisogni più elementari.»
Giles sbuffò di nuovo ma cedette.
L’autista si fermò e parcheggiò proprio davanti al negozio di torte. Non era esattamente un parcheggio regolare, ma la targa diplomatica offriva loro un minimo margine di manovra.
Leo si allungò verso la maniglia della portiera, ma Giles lo batté sul tempo, saltò fuori dall’auto e si trovò dall’altra parte del veicolo prima che i piedi di Leo toccassero terra.
«Non c’è bisogno che entriate e provochiate un gran trambusto» disse Giles. «Posso ordinare io per voi ciò che volete. Così potremo ripartire quanto prima.»
La presenza di Leo per strada avrebbe potuto causare un po’ di confusione a Cordoba, dove la gente sapeva chi e cosa fosse. Ma lì, per le strade di New York, nessuno gli avrebbe rivolto nemmeno mezza occhiata. Tuttavia, Giles lo guardò male quando Leo scese dall’auto.
«Sono sicuro che andrà tutto bene» disse Leo.
«Mi permetta un po’ di scetticismo, Maestà» gli rispose Giles. «Cosa ne dice di aspettare vicino alla macchina?»
«Va bene» disse Leo, e sbuffò a sua volta. Sarebbe stato fuori a respirare l’aria fresca e vagamente puzzolente per qualche istante.
Con un altro sbuffo, Giles si voltò ed entrò.
Leo volse lo sguardo e osservò la terra degli Uomini Liberi. Sollevò la testa verso il cielo. Con gli occhi alzati tra gli enormi edifici, si sentiva piccolo. Guardando in mezzo al mare di gente, si sentiva insignificante.
Una persona lo sfiorò, urtandogli la spalla. «Attento!» gli urlò dietro quell’uomo.
Leo non reagì a quell’affronto. Non aveva mai sperimentato la maleducazione in prima persona. Fu un’esperienza nuova, e scelse di riderci sopra. Il che non rese più felice la persona che si stava allontanando, che si accigliò e continuò a camminare.
Alcune donne superarono Leo. Lo scrutarono dall’alto in basso. Gli sguardi che gli lanciarono da sopra le spalle andarono a segno. Avrebbe potuto approfittarne. Ma, ovviamente, non lo fece.
A parte essere il padre di una bambina, Leo non era mai stato un tipo da una botta e via. A differenza di suo fratello. Per tutta la vita, Leo era stato un tipo da una donna sola. E poiché era stato fidanzato dalla nascita, era rimasto fedele all’unica donna a cui aveva fatto le sue promesse.
L’unica donna che avesse mai baciato era stata la sua defunta moglie. La prossima donna che avrebbe baciato avrebbe avuto lo stesso titolo e la stessa responsabilità. Era il suo destino. Uno che accettava.
Leo si voltò e guardò la strada. Il traffico era diminuito nei pochi minuti da quando avevano parcheggiato. I veicoli ancora una volta si muovevano prossimi al limite di velocità. Tranne che ai semafori e agli attraversamenti pedonali.
All’incrocio davanti a lui, una donna abbassò gli occhi verso il suo telefono. I pedoni si erano allontanati dal centro della strada ed erano al sicuro sul marciapiede. Ma quella donna non prestava attenzione alla mano rossa che, nel semaforo, le faceva segno di fermarsi. Era troppo concentrata sul cellulare.
Un furgone svoltò l’angolo, procedendo a forte velocità. La donna continuava a guardare in basso. Dall’angolo in cui lei si trovava, Leo capì che era nel punto cieco dell’autista. Nessuno dei due vedeva l’altro sulla sua strada.
Forse fu il sangue guerriero dei suoi antenati moreschi. O lo spirito avventuroso dei suoi antenati Conquistadores. Oppure fu l’arroganza degli aristocratici francesi nel suo albero genealogico a prendere il sopravvento. Qualunque cosa lo mise in moto, Leo non pensò. Si limitò ad agire.
Si precipitò intorno alla macchina e in strada. Con nemmeno un secondo da perdere, mise le braccia intorno alla donna e la tirò a sé. Una frazione di secondo più tardi, il paraurti del furgone occupò lo spazio in cui lei si era trovata. La forza dello strattone di Leo e l’impatto del corpo di lei che si schiantava contro il suo li fece finire entrambi a terra.
La donna gridò di sorpresa. I freni del furgone stridettero in segno di protesta. Leo grugnì mentre cadeva sulla schiena con la donna sopra di lui.
«Oh, mio Dio» sussurrò lei. «Oh, mio Dio. Oh, mio Dio.»
Alzò lo sguardo verso il furgone che era a meno di mezzo metro da loro. Abbassò lo sguardo su Leo che era disteso sotto di lei. Magari era stata l’esperienza di premorte, ma Leo avrebbe potuto giurare di aver visto delle stelline che le scintillavano sopra la testa.
«Ehi, voi due piccioncini, prendetevi una stanza e spostatevi dalla strada» gridò loro l’autista del furgone prima di girare le ruote e aggirare i loro corpi intrecciati.
Il veicolo ripartì con un’esplosione di gas di scarico. Leo coprì il viso della donna con una spalla per proteggerla da quei fumi pestilenziali. Quando l’aria si schiarì, rimase a fissare gli occhi marroni più abbaglianti e profondi che avesse mai visto. Erano di un marrone così scuro da sembrare nero, ma c’era una luce al centro di essi che si irradiava verso l’esterno. Per un momento, Leo rimase stordito.
«Uccisa da un drago» disse lei.
Lui abbassò gli occhi sulle sue labbra. Non portava il rossetto, probabilmente solo un lucidalabbra, visto che erano lucide e profumavano leggermente di menta e ciliegie. «Chiedo scusa?»
«Sono stata quasi uccisa da un drago» rispose lei, poi guardò in direzione del furgone in partenza. Fu allora che Leo notò il drago verde sul fianco del mezzo, che descriveva nel dettaglio i servizi della Lavanderia a Secco Dragon. «Lei mi ha salvato» gli disse. «Il mio cavaliere con l’armatura scintillante.»
«Non sono un cavaliere.»
«Il mio libro dice così.»
Gli sorrise, e lui ancora una volta rimase senza parole. Il suo sguardo si fermò di nuovo su quelle labbra. E poi, meraviglia delle meraviglie, lei fece sgattaiolare la lingua rosa fuori dall’angolo della bocca per inumidirsi le labbra già lucide. La fame di Leo si moltiplicò di dieci volte.
Ci volle una serie di clacson per riportarlo al presente e al pericolo che ancora li affliggeva. Erano ancora in mezzo alla strada con le auto che sfrecciavano per passare accanto ai loro corpi avvinghiati.
La sua damigella si sollevò facendo leva sul suo petto per raddrizzarsi. Poi si chinò e tese la mano a Leo. Lui fissò quell’offerta per un secondo intero, chiedendosi come fosse successo che i ruoli si erano invertiti.
Alla fine, prese la mano di lei tra la sua, ma non approfittò della forza di quella ragazza per rimettersi in piedi. Si alzò da solo. Mentre lo faceva, si crogiolò nel tocco della pelle di lei contro la sua.
Si spostarono sul marciapiede, ancora mano nella mano. Troppo presto, la ragazza lasciò la presa. Poi prontamente gli diede una pacca sulle gambe dei pantaloni, pericolosamente vicino ai gioielli della corona.
«Oh, no» gli disse. «Ho rovinato il suo vestito.»
Leo abbassò lo sguardo per vedere che c’erano delle macchie sul lato della giacca e su una delle gambe dei pantaloni. Una donna non lo toccava da tanto tempo. Anche se lo stava spazzolando con un po’ troppa intensità.
«Ero di fretta» gli disse, concentrandosi sui granelli di sporco e sudiciume sul tessuto dei suoi vestiti. «Stavo cercando di ordinare qualcosa da mangiare sul telefono. Sono in pausa pranzo e non ho molto tempo. Ecco perché stavo guardando il cellulare. E ora sto parlando a vanvera. Quella è la sua auto?»
Leo aveva problemi a tenere il passo. Guardò la donna, poi il cellulare che lei ancora stringeva in mano, di nuovo lei e poi la sua macchina. «Sì.»
«Lo sa che non può parcheggiare lì? Le faranno una multa.»
Lui scosse la testa. «Immunità diplomatica.»
«Oh. Oh, conosco quella bandiera. È la bandiera di Cordoba.»
L’arancione, il rosso e il blu rappresentavano i diversi paesi da cui proveniva la maggior parte della gente di Cordoba. Con la bandiera del suo paese esposta in modo ben visibile e orgoglioso sull’auto, Leo disse addio al suo anonimato.
«Lavora per il principe?» gli chiese.
Senza pensare, la verità gli uscì di bocca. «No, sono il re.»
«Oh, lavora per il re? Che cosa eccitante!»
Chiaramente, lei lo aveva frainteso. Doveva essere di nuovo l’accento. Ma Leo decise di approfittarne. Un piccolo brivido lo percorse all’idea che il suo anonimato fosse stato ripristinato. «Non è per niente eccitante. Il re si occupa degli affari di Stato. Agricoltura, tasse, immobili.»
«Ma anche lei vive nel castello? Mi piacerebbe saperne di più. Posso offrirle una tazza di caffè e una fetta di torta come ringraziamento per il salvataggio?»
Una tazza di caffè da una bellissima sconosciuta? «Certo.»
Mentre si avvicinavano alla porta del negozio di torte, Leo vide che Giles lo osservava accigliato. Fece segno all’uomo di tenere la bocca chiusa. Giles lo fissò, e Leo poté sentire lo sbuffo dall’altra parte del locale. Ma, per una volta, l’uomo fece come gli era stato ordinato e tenne la bocca chiusa. Anche se tirata in una linea di chiara disapprovazione.
«Io mi chiamo Esme, a proposito.»
«Io Leo.»

Capitolo Quattro
Nonostante tutte le favole, i romanzi rosa e i film di Hallmark che Esme divorava, non si era mai considerata il tipo da damigella in pericolo. Ma, ragazzi, aveva funzionato benissimo! Esme era caduta tra le braccia di un vero eroe.
Tecnicamente, si era schiantata contro di lui mentre faceva la cosa più innocua e stereotipata che una millennial americana potesse fare. Ma chi se ne fregava, visto che aveva dato buoni risultati, e lei sarebbe sopravvissuta per raccontare quella storia. E che storia, si stava accingendo a essere!
Leo le tese il braccio in un perfetto angolo retto, da galantuomo. Proprio come nei film d’epoca della BBC che lei da bambina guardava alla televisione pubblica. Fu presa dal panico per un secondo, incerta sul da farsi.
Doveva infilargli la mano sotto il gomito e stringere le dita nell’incavo? O appoggiargli la mano sull’avambraccio, posando leggermente le dita? Che cosa aveva fatto l’attrice che interpretava Elizabeth con Mr. Darcy in Orgoglio e Pregiudizio? Non nel film di due ore con Keira Knightley trasmesso fino alla nausea via cavo. In quello deliziosamente lungo, diviso in episodi, che faceva partire nei fine settimana durante le raccolte fondi.
Alla fine, decise che voleva un po’ di azione. E così Esme gli mise semplicemente la mano tra le costole e il bicipite. Le sue nocche sfiorarono la giacca elegante che aveva rovinato con la sua epica distrazione. Quel capo era più fine del suo vestito più costoso. Non che quello rivelasse molto di lei, dal momento che tendeva a fare acquisti nei negozi dell’usato e non sulla Fifth Avenue. Ma ogni pensiero la abbandonò quando le sue dita incontrarono i muscoli di lui.
E... oh, cavolo... quelli sì che erano muscoli!
Quel tizio che lavorava a palazzo non era uno sciattone. C’erano più colline sul suo braccio che valli nel Grand Canyon. Si chiese che cosa facesse per il re. Doveva far parte della security, con quel fisico, la faccia seria e le doti da eroe.
Forse era Capitano della Guardia Reale? Possibile fosse un cavaliere? Nei libri di fiabe, gli uomini che proteggevano i re erano sempre cavalieri. Ma lui aveva detto di non essere un cavaliere. Tuttavia, per lei avrebbe sempre indossato le vesti di un cavaliere dall’armatura scintillante.
E, solo per dimostrare la cosa, le tenne la porta e le permise di precederlo. Chinò anche leggermente la testa mentre le permetteva di superarlo. Il cuore di Esme fece un sussulto e una giravolta e alla fine le si schiantò contro le costole.
Oh, cavolo, era in guai seri.
Al bancone c’era un uomo che li guardava accigliato. Aveva la stessa abbronzatura dorata e lo stesso aspetto bello e cupo di Leo. Era vestito come lui, ma era chiaramente più vecchio. Probabilmente solo di pochi anni. Non c’erano rughe sul suo viso, ma i suoi occhi erano velati dallo sfinimento.
«Ho deciso di mangiare qui la mia torta, Giles» disse Leo. «So che abbiamo un programma da seguire e che dobbiamo arrivare all’ONU per il discorso del re. Non ci metterò troppo.»
Quell'uomo, Giles guardò Leo da sopra la testa di Esme. Poi abbassò lo sguardo su di lei. Se possibile, il suo cipiglio si fece ancora più severo, come se avesse fiutato qualcosa da una fogna. Ma inclinò la testa. Con un’altra occhiata a Esme, lasciò il contenitore di torta da asporto sul bancone e si diresse verso la porta.
«Mi dispiace.» Leo si sedette accanto a lei al bancone. «Giles odia essere in ritardo.»
«Non voglio impedirti di fare il tuo lavoro.» Era una bugia. Sì, voleva tenerlo con sé.
«Abbiamo tutto il tempo per arrivarci. Giles pensa che arrivare in tempo significhi essere in ritardo.»
«Anche io non ho molto tempo. Posso fare solo una breve pausa pranzo. Ancora più breve, ora, visto che ho sfiorato la morte.»
«Che cosa?»
Entrambi si voltarono per guardare la donna dietro il bancone. Aveva sbattuto le mani sul bancone insieme a quell’esclamazione. Il rumore era stato solo un tonfo sordo poiché le sue mani erano coperte da un paio di guanti da forno.
Esme alzò le mani per calmarla. «Era solo un modo di dire, Jan.»
«Spesso sei incline al drammatico, tesoro, ma c’è sempre un minimo di verità.» Jan conosceva Esme fin troppo bene. Capitava, essendo migliori amiche.
«Mentre ti stavo scrivendo, non guardavo dove stavo andando e sono finita nel traffico.»
Gli occhi di Jan si spalancarono e divennero tondi come una teglia da torta.
«Per fortuna, Leo, qui, ha salvato sia la mia vita che il mio telefono da un sicuro disastro.»
«Giuro, Esme, hai sempre la testa tra le nuvole. Devi tenere i piedi e gli occhi per terra.»
Jan fece scivolare una fetta di torta verso Esme. La crosta era scurita da striature nere e il ripieno verde fuoriusciva dai lati. «A proposito di esperienze di pre-morte, ecco la tua torta di mele avvelenate.»
Esme si strofinò le mani, preparandosi ad assaporare il suo piatto preferito.
«Avvelenate?» chiese Leo, il viso contorto dall’orrore. Ma anche con quella smorfia, era ancora diabolicamente bello.
«Oh, è uno scherzo» chiarì Esme. «Porto il nome di una principessa.»
Qualcosa cambiò nei lineamenti di Leo. Esme non riuscì a capire se fosse sorpresa o sgomento.
«La principessa Esmeralda, protagonista nel Gobbo di Notre Dame della Disney.»
«Conosco la storia» disse lui. «Ma lei non mangiava una mela. E non era una principessa. Era una persona comune.»
Esme scrollò le spalle. «Licenza poetica.»
Di nuovo, lo sguardo di lui divenne imperscrutabile.
«Questa è per te, vero?» Jan tirò fuori la torta di Leo dal suo contenitore e la mise su un piatto.
Spezie provenienti da una terra straniera solleticarono il naso di Esme. Il loro calore le scaldò le guance. La dolcezza del profumo le solleticava la lingua, invogliandola a chiederne un boccone.
«Questo è il motivo per cui mi sono fermato» disse Leo. «Non potevo resistere a un tentativo di realizzare un piatto di autentica cucina cordovana. E questo sembra e profuma proprio come una bisteeva.»
Detto ciò infilò la forchetta e prese un morso. Alzò gli occhi al cielo, in estasi, il che era un evento comune lì nella panetteria di Jan.
«Ha lo stesso sapore della bisteeva che fa il cuoco di palazzo» disse Leo, prendendo un altro boccone. «No, meglio. Per favore, non fategli sapere che l’ho detto.»
Jan sorrise da un orecchio all’altro di fronte all’ennesimo cliente convertito alla sua cucina.
«Leo, questa è la mia migliore amica nonché creatrice delle migliori torte del mondo, Jan.»
«Piacere di conoscerti, Jane.»
«No, solo Jan» lo corresse. «Niente “e” in fondo. Sono troppo semplice per chiamarmi Jane. Solo Jan.»
Leo lasciò cadere la forchetta e tese la mano a Jan. Lei gli porse quella con il guanto da forno per una stretta. Lui sorrise e le girò la mano con il palmo rivolto verso l’alto e piantò un bacio sul tessuto ricoperto di margherite.
«Wow» disse Jan. «Questa è una novità.»
Wow davvero. Esme non aveva mai ricevuto un baciamano. Nessun ragazzo lo aveva mai fatto per lei, che lo sognava anche troppo. Forse Leo avrebbe potuto farlo anche con lei, se fosse stata nella posizione giusta quando si erano incontrati.
«Sei stata a Cordoba?» chiese Leo.
«Non sono mai andata da nessuna parte» rispose Jan. «Ho sempre avuto un talento per le spezie. I piccoli chiodi di garofano, i dolci e i fiori possono trasportare le papille gustative di una persona in giro per il mondo e ritorno spendendo poco e niente.»
Leo annuì. «Le mandorle sono così dolci che sembra che tu le abbia colte direttamente da un albero a Maiorca. Il cumino mi scalda la bocca come se fossi steso su una spiaggia del Mediterraneo. E hai usato il piccione invece del pollo.»
«Sono sorpresa che tu riesca a notare la differenza.»
«Hai un dono.»
Leo prese un altro boccone della sua torta. Chiuse gli occhi e gemette di gioia. Non c’era musica nel negozio di torte. Tutto ciò che si sentiva era un coro di gemiti felici dei clienti. Musica per le orecchie di Jan.
La sua amica guardò Leo, poi Esme. Tenacemente single, rivolse a Esme un sorriso di approvazione prima di spostarsi per servire un altro cliente. Esme rivolse la sua attenzione alla sua fetta. Ne mangiò un pezzetto mentre pensava a un argomento di conversazione per mantenere l’interesse dell’uomo che le sedeva accanto.
«Allora, Leo, com’è il re di Cordoba? È vecchio e incline alla follia come Re Lear? È un idiota maldestro come il padre di Jasmine in Aladdin? O è fuori di testa come la Regina di Cuori in Alice nel Paese delle Meraviglie?»
«Hai una bella immaginazione.»
«È la mia maledizione.»
«Mi piace.» Leo mangiò l’ultimo pezzetto della sua torta, chiudendo gli occhi mentre estraeva lentamente i rebbi della forchetta dalla bocca.
Esme era ipnotizzata. Oh, essere uno di quei quattro denti metallici.
«Però sei in errore sulle regole monarchiche» le disse.
«Chiedo scusa?»
«Parlo della monarchia moderna. Gestire un regno è molto simile a gestire un’azienda quotata nel Fortune 500, solo più difficile.»
«Come mai?»
«Nei tempi antichi e medievali, i re erano considerati i rappresentanti di Dio in terra. Possedevano i terreni e spesso le persone che vivevano su di essi. Nel corso del tempo, il loro potere venne limitato dai nobili feudali, perché i monarchi non potevano gestire da soli quell’immensa quantità di terra e risorse. Più tardi, fecero affidamento sull’assistenza della Chiesa. Anche se, il più delle volte, erano messi alle strette dal papato. I re giurarono di mantenere la pace, amministrare la giustizia, sostenere le leggi e proteggere i poveri che risiedevano nei loro possedimenti. La democrazia è cresciuta man mano che le persone diventavano autonome, ma l’influenza del re è rimasta forte in molti paesi.»
Fu una deliziosa lezione di storia. Ma lei non riusciva a capirne il senso. «Allora cosa fa in realtà il re?»
«In quest’epoca, i re e le regine delle nazioni delegano il loro potere in modo che la polizia mantenga la pace, i tribunali dispensino la giustizia e i governi si occupino di legiferare. E, in alcune monarchie, sono semplicemente delle figure di rappresentanza.»
«A Cordoba?»
«A Cordoba mi piace credere che il re guidi il regno. Ma non lo fa da solo. C’è un parlamento.»
«Come in Inghilterra? Quindi il re non si limita a farsi scattare delle foto e andare in vacanza?»
«Si procura anche affari remunerativi per le industrie del Paese. Fa accordi in base alle loro risorse. È il primo responsabile dell’economia, anche con i legislatori al timone. Cordoba ha una lunga storia di regnanti che giocano un ruolo attivo. Questa tradizione continua anche oggi.»
«Sembra un grande uomo» disse Esme. «Non proprio roba da fiabe.»
«L’aristocrazia non rispecchia granché ciò che viene scritto nei libri di fiabe. Quelli di sangue reale di solito sposano altri di sangue reale. Si sente parlare solo di eccezioni come i Windsor, e sono spesso sui tabloid, non sui libri per bambini.»
«Quindi non credi nel romanticismo o nelle favole?»
«Sono due cose diverse. Le favole sono storie inventate.»
«E il romanticismo?»
Leo guardò in lontananza. «Il romanticismo è reale. Ma non tutti possono permetterselo.»
«Non riesco a immaginare di sposarmi per nient’altro che per amore. Che senso avrebbe?»
«Sicurezza finanziaria. Protezione. Dovere. Ecco perché la nobiltà si sposava in passato, così come nel presente. Molte persone comuni si sposano ancora per convenienza. L’amore romantico ha solo poche centinaia di anni.»
«Se ne scrive da millenni.»
«Ed ecco le favole.»
«Beh, allora è una fortuna che noi due siamo persone comuni e possiamo scegliere di sposarci per amore e non per dovere.»
«Sì. Siamo proprio fortunati.»
Una gola si schiarì alle loro spalle. Esme alzò lo sguardo per vedere il disapprovante Giles che la fissava ancora una volta.
«Le mie scuse, Esme, ma il dovere mi chiama.» C’era vero rammarico nella voce di Leo. «Devo tornare al lavoro. È stato bello conoscerti.»
Allungò la mano. Lei gli porse la sua. Aveva qualche briciola di torta sulla punta delle dita. Tentò di tirare indietro la mano nel tentativo di pulirla, ma Leo gliela fermò. Le girò il palmo e lo baciò.
Le farfalle esplosero nel ventre di Esme. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma aveva la lingua incollata al palato. E nel momento in cui il cervello riprese a funzionare, lui se n’era andato.

Capitolo Cinque
Leo raccolse con la punta delle dita le ultime briciole di quel dolce che gli ricordava casa e se le leccò. La crosta dorata lo aveva trasportato sulle spiagge sabbiose dell’isola appena a est di Barcellona. Le note dolci e fruttate gli avevano ricordato la regione vinicola francese a nord di Cordoba. E la miscela di spezie aveva dato un calcio ai suoi antenati moreschi che venivano dal sud. La pasticcera aveva catturato tutta la storia e la cultura di Cordoba in un boccone perfetto.
«Puoi ordinarne un po’ per la cena di stasera?» chiese Leo a Giles.
Il suo assistente tirò fuori il cellulare e fece l’ordine mentre Leo si leccava l’ultimo pezzetto dalla punta delle dita. Era maleducato succhiarsi le dita, certo, ma nessuno lo stava guardando. Giles era occupato al telefono con la pasticciera. L’autista aveva gli occhi sulla strada. E la mente di Leo era... altrove.
Poco più avanti, vide il furgone della lavanderia con il disegno del drago verde parcheggiato davanti a un negozio. Se fosse stato in movimento, Leo avrebbe potuto essere tentato di lanciarsi nella mischia ancora una volta. Ma la sua damigella era sistemata al sicuro su uno sgabello nel negozio di torte.
Leo si chiese se, accostando l’orecchio al telefono di Giles, fosse stato possibile sentire la risata tintinnante di quella donna. Lei aveva trattenuto il fiato mentre si chinava in avanti e lo ascoltava recitare i noiosi dettagli del lavoro di un re, un lavoro che lui aveva finto non fosse il suo. Eppure, ne era rimasta comunque affascinata.
Esme lo aveva chiamato cavaliere, un eroe. Da vero re, quelle definizioni non gli appartenevano. Era solo un nobile in giacca e cravatta. Un uomo d’affari. E il titolo lo poneva come una figura di spicco con molte responsabilità. Una di quelle responsabilità era trovare una nuova moglie.
Pensò al sorriso di Esme. A quanto spontanee fossero state le battute tra di loro. Alla sua immaginazione selvaggia. Al suo accento americano e al bell’aspetto da ragazza della porta accanto. Era così americana che di più non poteva essere, e senza una goccia di sangue blu che le scorresse nelle vene.
Era tutta sbagliata per lui, ovviamente. Di certo non era la candidata ideale da far sedere accanto a lui sul trono. Ma una deliziosa compagna seduta accanto a lui su uno sgabello.
Gli era piaciuta la loro conversazione. Gli era piaciuta la fuga che lei gli aveva offerto, anche se solo per un momento. Davanti a una fetta di torta, era stato un uomo normale che chiacchierava del più e del meno con una bella ragazza. Lui non aveva mai fatto niente di banale in vita sua. Ogni sua mossa, pensiero e decisione erano una questione di Stato.
Il tempo passato con Esme era stato come una fuga in un libro di favole. Ora era di nuovo al lavoro mentre l’auto si fermava al quartier generale delle Nazioni Unite.
L’alta struttura in vetro e cemento era simile a qualsiasi altro edificio per uffici in città. Ciò che la distingueva era la schiera di bandiere che sventolavano dai pennoni. Ce n’erano decine. Centonovantatre, per l’esattezza. Leo individuò facilmente la bandiera cordovana con i suoi fedeli colori arancione, rosso e blu.
«Ha i suoi appunti?» chiese Giles.
Certo che li aveva. Era sempre preparato. Ma Giles doveva fare quella domanda, era il suo lavoro.
Leo sapeva che altri nella posizione di Giles avevano vita dura con i nobili che servivano. Alex non riusciva a tenersi un cameriere o un assistente. Uomini e donne si arrendevano nel giro di poche settimane cercando di domare la sua natura ribelle. La maggior parte delle volte, non riuscivano a trovare Alex perché era salito su un jet o su uno yacht ed era in qualche angolo sperduto del globo a riempirsi la pancia di piatti esotici. Leo era il perfetto datore di lavoro, Giles non avrebbe dovuto davvero lamentarsi.
«Che cosa è successo al suo vestito?» Giles lo guardò con orrore. In fondo alla sua giacca erano rimaste alcune macchie, regalo degli istanti trascorsi sull’asfalto con Esme.
«Oh, ho salvato una damigella in pericolo. Esme, la donna del negozio di torte.» Con il suo nome sulla lingua, Leo si gustò un’ultima esplosione di dolcezza che gli era rimasta incastrata dietro gli incisivi superiori, e che in qualche modo si era perso. Ingoiò quell’ultimo bocconcino e lo sentì spostarsi nella parte posteriore della gola e giù per il petto.
Giles non si stava divertendo per niente. «Ecco, prenda la mia giacca.»
Lui lo fece. Per fortuna, lui e Giles avevano la stessa taglia, e la giacca di Giles era elegante quasi quanto quella di Leo. Con quel disastro scongiurato, e le ultime tracce della sua avventura sparite, si diressero verso l’edificio.
Il ruolo dell’ONU era quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionali. Cordoba non era sotto minaccia e non ne fronteggiava una da secoli. Un tempo, gli antenati di Leo avevano una roccaforte nelle terre di quelle che sarebbero diventate le attuali Spagna e Francia. Ma la storia violenta divide le popolazioni, e i confini erano stati spostati fino a quando, alla fine, i cordovani moderni si erano trovati a vivere su un’isola lussureggiante nel Mediterraneo.
La sua gente non poteva davvero lamentarsi. La loro isola era circondata da spiagge incontaminate. Nell’interno c’erano valli lussureggianti e alte montagne. Il terreno era fertile e c’erano pesci in abbondanza.
Uno degli articoli della Carta delle Nazioni Unite imponeva di proteggere i diritti umani. Cordoba non era accusata di violazioni del genere. Anche in un paese popolato da ex nemici che avevano saccheggiato gli antenati l’uno dell’altro, ora c’era armonia tra i francesi, gli spagnoli e gli africani.
Quando si trattava di aiuti umanitari, grazie alla sua industria della pesca e al petrolio trovato intorno all’isola, Cordoba era abbastanza ricca da aiutare i suoi vicini. Ma c’erano altre opportunità da cogliere. Leo era lì per tendere la mano per un altro degli obiettivi stabiliti dalle Nazioni Unite, quello dello sviluppo sostenibile.
«Siamo un piccolo stato insulare» disse dal suo posto sul leggio. «Abbiamo avuto grande successo e prosperità, e vorremmo condividerle con voi, nostri concittadini internazionali. I nostri antenati hanno affrontato guerre e spostato confini, sono stati segregati e integrati, ma, nonostante tutto, sono sopravvissuti e ne sono usciti più forti. Possiamo essere piccoli, ma siamo potenti.»
Nel suo discorso, non menzionò che l’anno precedente la povertà era cresciuta, o che la gravidanza adolescenziale era pericolosamente in aumento. I cittadini più anziani erano finanziariamente stabili e soddisfatti grazie a industrie economicamente consolidate. Ma i giovani di Cordoba avevano poche prospettive di lavoro e troppo tempo libero. Coloro che erano brillanti e ambiziosi stavano lasciando il paese a frotte. Coloro che vedevano poca o nessuna opportunità stavano procrastinando e procreando.
Il governo doveva creare una nuova industria per tenere occupati i suoi giovani e convincerli a rimanere nel paese. Ma tutte le risorse cordovane erano state sfruttate. Aveva bisogno di sangue fresco, sangue blu fresco.
Alla fine del suo discorso, Leo venne salutato con garbati applausi. Sapeva di essere riuscito nel suo intento quando due individui gli si avvicinarono. Per tutto il tempo, il discorso era stato rivolto solo a loro due.
Il duca di Almodovar era un uomo corpulento con la pancia rotonda e un paio di baffi grigi arricciati. Aveva usato il suo titolo per costruire un impero sul mare, proprio come i suoi antenati pirati. Era suo il favore che Leo corteggiava. Ma, cosa più importante, era l’attenzione della donna che camminava accanto a lui che Leo sperava di catturare.
«Re Leonidas, le presento mia figlia, Lady Teresa Nadal, la futura duchessa di Almodovar.»
Lady Teresa fece un inchino e poi tese la mano. Leo prese la mano offerta, posando un leggero bacio sulle nocche di Lady Teresa. Si era aspettato la zaffata intensa di un profumo costoso. Fu piacevolmente sorpreso dall’odore dolce e speziato della cannella.
«Sono rimasta molto colpita dal suo discorso» disse Lady Teresa. «Mi chiedevo se potesse trovare un po’ di tempo nel suo programma per parlare di affari.»
«Per favore, perdoni mia figlia» disse il duca. «Gli affari di famiglia non sono mai lontani dalla sua bella testolina.»
Quello che era nei pensieri della maggior parte delle giovani aristocratiche era l’attività preferita di famiglia, cioè la linea di successione reale. Aveva sentito dire che Lady Teresa aveva più interessi nell’industria, il che si adattava perfettamente alle sue esigenze.
«Non mi dispiace affatto» rispose Leo. «In effetti, stasera ho organizzato una cena con alcuni ospiti. Solo una piccola riunione a cui parteciperanno il senatore dello Stato, il sindaco e pochi altri dignitari. Mi farebbe piacere se lei e sua figlia voleste unirvi a noi.»
«Mio padre ha un altro impegno» disse Lady Teresa. «Ma io ne sarei felicissima.»
La famiglia Almodovar era uno degli impresari nel settore delle costruzioni navali di maggior successo in tutta Europa. Cordoba aveva massimizzato l’uso della sua terra. Ora Leo mirava a conquistare le acque. Aveva bisogno di una collaborazione con quella famiglia per farlo. Quale modo migliore per costruire un ponte del farlo alla vecchia maniera? Un matrimonio reale.

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