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La Tragedia Dei Trastulli
Guido Pagliarino
Italia, anni ‘60 del XX secolo: Una serie di delitti e disgrazie colpisce ineluttabile, senza soluzione di continuità, uno per volta, i membri d’una famiglia di noti commercianti torinesi, quasi essi fossero i personaggi d’una tragedia greca che, per ineluttabile fato, continua a dipanarsi, episodio dopo episodio, senza veri colpevoli, contro un padre e un figlio entrambi d’animo nobile e i loro famigliari non ignobili. Italia, anni ‘60 del XX secolo: Una serie di delitti colpisce ineluttabile, uno alla volta, i membri d’una famiglia di noti commercianti torinesi, i Trastulli, la cui coppia di  capostipiti ha partecipato alla lotta di Liberazione dal nazifascismo e ha nascosto e protetto, negli anni più bui, ebrei ricercati dalle SS. È una vera e propria tragedia di vita quella che travolge i membri della famiglia, causata da eventi superiori incontrollabili, come la gravissima crisi economica del triennio 1963-1965 che, esplodendo improvvisa, sconvolge drammaticamente l’economia italiana, interrompendo il cosiddetto miracolo economico, cioè l’espansione stupefacente dell’Italia iniziata negli anni ‘50 e sviluppatasi, disordinata ma possente, fin al 1962; o come, nel 1964, un tentativo di colpo di Stato che vede ai propri vertici addirittura alti esponenti politici d’area governativa e il comandante in capo dei Carabinieri, un generale di corpo d’armata eroe pluridecorato della Resistenza: incombendo superni eventi economici, sociali e politici ineluttabili sopra singoli esseri umani, simbolicamente la mitica musa Melpomene ispira una tragedia esistenziale. Cercando giustizia, entrano in scena un commissario capo della Questura torinese, anch'egli eroe della Resistenza avendo partecipato, nel 1943, ancor giovanissimo vice commissario, all’insurrezione della città partenopea onorata dalla Storia quale “Le Quattro Giornate di Napoli”, e il giovane vice brigadiere suo aiutante: indagano, in primo luogo, sopra una morte che ha tutta l’apparenza d’un suicidio per motivi economici, ma che potrebbe aver avuto causa in altissimi interessi politici e militari. Poi altri decessi e disgrazie vanno succedendosi colpendo, a uno a uno, tutti i membri della famiglia Trastulli, e non sempre un famigliare è estraneo al male dell’altro, anche se indubbiamente il fato stesso s’é intromesso superno. Un’altra famiglia intanto, che ha al suo vertice un austero generale di brigata ex partigiano ed è legata alla prima grazie a una salda amicizia fra i due capostipiti, vede intrecciarsi tragicamente le proprie vite a quelle dell’altra. Ultimo libro in ordine di stesura con protagonisti Vittorio D’Aiazzo e Ranieri Velli, ma terza opera della saga secondo l’ordine cronologico degli eventi, una serie che si conclude col romanzo, da tempo in libreria, “Il terrore privato, il terrore politico” ambientato nell’anno 2000.


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Guido Pagliarino

La tragedia dei Trastulli

Romanzo
Guido Pagliarino
La tragedia dei Trastulli
Romanzo
Prima edizione
Opera distribuita da Tektime
Ebook ISBN 9788835419112
Copyright © 2021 Guido Pagliarino – Tutti i diritti appartengono all’autore

Immagine di copertina: Maschera tragica, particolare, mosaico romano I secolo a.C. rappresentante nel suo intero entrambe le maschere teatrali, tragica e comica, Musei Capitolini, Roma

A parte i generici richiami a fatti storici, gli avvenimenti narrati, i personaggi, i nomi di persone, enti, ditte e società e di loro prodotti e servizi che appaiono nell’opera sono immaginari ed è da considerarsi assolutamente casuale e involontario ogni eventuale riferimento alla realtà personale, familiare, professionale o istituzionale, presente o passata, di qualunque persona fisica o giuridica..
Indice

Cap (#ulink_c927b10e-8905-5734-b231-d0077c0301a3)itolo I (#ulink_c927b10e-8905-5734-b231-d0077c0301a3)
Capitolo II (#ulink_c4e1b4e0-0632-5eba-aa50-a5f5de633a60)
Capitolo III (#ulink_bb86cb96-cdee-5a5a-8f18-5b745a9422bd)
Capitolo IV (#ulink_4e158a22-9a8e-5e8d-b712-d05ddbec4f06)
Capitolo (#ulink_a1c7ec9f-b9d7-5148-abc9-15b3dad14c8c)V (#ulink_a1c7ec9f-b9d7-5148-abc9-15b3dad14c8c)
Capitolo (#ulink_b491676f-2020-59e1-99a3-e49382bc0394)VI (#ulink_b491676f-2020-59e1-99a3-e49382bc0394)
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo I X
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Opere dell’autore basat e sulle figure di Vittorio D’Aiazzo e Ranier i Velli ( secondo l’ordine cronologico degli avvenimenti )
Capitolo I (#ulink_d562f0c8-3dda-50de-a7fc-5b3265177634)

Era il primo pomeriggio del 22 dicembre 1961, un venerdì. Il nostro superiore diretto e mio amico Vittorio D’Aiazzo ci aveva radunati nel suo ufficio, un locale luminoso esposto all’esterno su corso Vinzaglio e all’interno sul largo e lungo corridoio al primo piano ospitante la Sezione omicidi e reati contro la persona della Squadra Mobile della Questura di Torino, Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza
, una sezione formata da più unità operative, ciascuna agli ordini d’un commissario. L’ufficio dell’amico non era grandissimo, come quasi tutti a parte due saloni, sullo stesso piano, adibiti a uffici del vice questore e del commissario capo; ma io ci stavo bene, seduto alla mia piccola scrivania, a sinistra di quella dirigenziale del commissario D’Aiazzo del quale ero assistente.
Quel pomeriggio l’amico voleva bagnare con noi, con un aperitivo, l’avanzamento a commissario capo
comunicatogli quella mattina. Noi membri del gruppo eravamo in dieci: oltre a Vittorio e me, il giovanissimo comandante in seconda della nostra unità, il ventiquattrenne vice commissario Aldo Moreno, quattro agenti, due agenti scelti e l’appuntato
Evaristo Sordi, un ventunenne ch’era con noi da meno di diciotto mesi e s’era dimostrato, fin dal principio, assai capace: salendo di grado in grado per meriti, negli anni ‘90 avrebbe raggiunto la più alta posizione per un non laureato: ispettore superiore sostituto ufficiale di pubblica sicurezza, comunemente detto sostituto commissario. Il resto della squadra non aveva dovuto passare attraverso il corridoio per accedere da noi, aveva infatti sede in due stanze a destra della nostra, comunicanti con questa e fra di esse.
Un grande vassoio con due bottiglie di vermouth rosso e una dozzina di bicchieri era stato portato da un bar di rimpetto alla Questura. Su ordine del D’Aiazzo due dei nostri agenti avevano mesciuto.
“Servitevi”, ci aveva detto il neo commissario capo prendendo uno dei bicchieri; e alzatolo, ci aveva diretto, con uno sguardo e un sorriso sornioni: “Che ne dite? Era giunto o no il momento?” e, bevuto il primo sorso: “Uhè, guaglioni, avevo iniziato a servire all’inizio del 1943, mica ieri. Mi spettava o no ’sta promozione?”
“Assolutamente sì!” m’era venuto spontaneo, ben conoscendo i meriti dell’amico, non solo in quanto suo collaboratore da anni, ma essendo noto in tutta la sezione Omicidi che lui, napoletano verace, era stato uno dei valorosi partigiani combattenti delle Quattro Giornate di Napoli
, onorato dalla Repubblica con medaglia d’argento al valor militare sotto la motivazione: Si batteva eroicamente contro i tedeschi nelle gloriose Quattro Giornate di Napoli: giorni nei quali il popolo italiano, per la prima volta nella Storia della Resistenza europea, aveva attaccato e vinto i tedeschi invasori cacciandoli dalla città – e cedendola calda calda agli angloamericani, entrati in Napoli appena dopo, con gran pompa trionfale pur non avendo combattuto.
Tutti s’erano uniti alla mia genuina esclamazione di stima: “Sicuramente”, “Certo che sì”, “Era ora”…
Il D’Aiazzo, in base al regolamento che attribuiva al suo nuovo grado funzioni di indirizzo e coordinamento di più unità organiche nell’ufficio cui i commissari capo sono assegnati, avrebbe avuto mansioni superiori, quindi o sarebbe stato vice comandante delle sezioni della Omicidi sotto il vice questore dirigente, un certo Alonzo Zappulli, o sarebbe stato trasferito altrove con un incarico di pari livello: Non sarò più con lui? m’ero chiesto dopo il brindisi.
Nemmeno fosse stato telepatico, solo un attimo dopo m’aveva detto: “Oh, d’ora in poi avrò a che fare con tutte le nostre sezioni: il commissario capo Maronti è stato promosso vice questore e va a Mantova e io prendo il suo posto. Naturalmente tu, Ran – diminutivo che l’amico m’aveva appioppato storpiando il mio nome Ranieri – nonostante il grado, resti con me – ero solo vice brigadiere
, mentre di solito l’aiutante d’un commissario capo era almeno un brigadiere
se non un maresciallo
– : “Mi spiace che tu sia un firmaiolo
, se fossi giunto dalla Scuola di Polizia com’è per Evaristo
, per anzianità di grado saresti ormai brigadiere, invece di dover aspettare ancora; comunque, che tu sia solo vice brigadiere non m’interessa, ti tengo lo stesso come diretto aiutante. Poi, magari, se prima o poi uscirà un concorso interno per passare in servizio permanente effettivo, tu farai domanda di partecipazione: te li meriti, la qualifica e lo stipendio più alti; e anche di poter percorrere l’intera carriera fin a maresciallo maggiore invece di concluderla come brigadiere.”
“Grazie”, gli avevo risposto. In realtà da qualche tempo m’andava cogliendo, di tanto in tanto, il pensiero di non rimettere firma al termine della riafferma corrente – ero alla seconda – e dedicarmi interamente alla scrittura, mia vera vocazione e campo su cui già avevo avuto saltuari guadagni come giornalista pubblicista e allori come poeta: allori, perché carmina non dant panem. Restava forte la paura, perdendo lo stipendio, di restare, comunque, del tutto senza pane.

Che malinconia ripensando a quel tempo! Nel 1961 ero un biondo ventinovenne longilineo alto un metro e novanta, non un ingobbito anziano spennacchiato e flaccido come oggidì, e godevo d’una forza leonina: un vigore che posso sentirmi dentro solo più in quei sogni dove ci si ritrova giovani, con il futuro ancora davanti agli occhi, non dietro la schiena. Sono Ranieri Velli e, solo per l’amico Vittorio, Ran. Ormai da tanti decenni – troppi, ahimè! – sono scrittore e giornalista professionista
: colmo d’acciacchi.
Quanto al D’Aiazzo, aveva allora quarantadue anni. Era uomo forte ma non alto, attorno al metro e sessantacinque, e vantava una rigogliosa capigliatura nera che, nel tempo, si sarebbe sempre più sfoltita. Eravamo amici da qualche anno e, privatamente, ci davamo del tu. Chi lo sa: forse il sodalizio era sorto per un mio intervento armato che gli aveva evitato di finir bersaglio d’un pistolero esagitato ch’io avevo ferito e bloccato, un attimo prima che facesse fuoco; o, semplicemente, l’amicizia poteva esser nata avendo gusti consentanei: fra altri comuni interessi, anche Vittorio era appassionato di letteratura classica e tante volte, fuor di servizio, ne parlavamo fra noi, a casa sua o al ristorante o passeggiando tutt’attorno al lungo quadrilatero
di portici che corre in centro città: fra i poeti italiani, dopo Dante, ch’era ovviamente il primo assoluto per entrambi, per me veniva, e viene, l’immenso Leopardi, per lui il Foscolo. D’altronde, complice anche la nostra professione stressante e senza orari, lui era il mio unico amico e, come avevo capito, tal ero io per lui.

Il neo commissario capo aveva messo termine in fretta alla bicchierata: “Va bbuo’ guaglioni, adesso al lavoro, ché abbiamo pratiche aperte e, per oggi, siamo ancora nella nostra unità. Domani vi comunicherò i cambiamenti.” Usciti gli altri e rivoltosi a me: “Senti, Ran: a Natale non sarai di turno, che ne diresti se t’invitassi a pranzo al solito ristorante di corso Palestro? Oppure tu e mammà preferite far tavola natalizia assieme?”
Dopo il mio primo incarico, sotto Vittorio ma alla Squadra Mobile di Genova, nel 1959 eravamo stati entrambi trasferiti a Torino, mia città natale, e io ero tornato a vivere coi miei genitori, ben felici d’accogliermi, figlio unico, nel loro piccolo appartamento in un antico caseggiato in via Ignazio Giulio, non troppo lontano dalla Questura. Con nostro gran dolore mio padre era morto nel 1960, di colpo, per un ictus severo che l’aveva colto in casa il 28 dicembre: aveva ancor passato il Natale con mamma e me, allegramente. Quest’anno mia madre sarebbe rimasta sola a tavola, se io avessi accettato l’invito.
“Non so”, avevo risposto dopo un paio di secondi d’incertezza, “ti dico domani?”
Aveva capito: “…e perché non inviti con noi anche mammà?”
“Ah… ma sì, grazie! Magnifico, le riferisco e ti dico domattina.”
“…e domattina sia.”

Mamma aveva preferito non accettare: “Fa’ il pranzo di Natale col tuo superiore, tranquillamente, mangio da sola, non me ne importa: un’insalata, un uovo e una pastasciutta al pomodoro. Io festeggio la Natività di Nostro Signore in chiesa. Però ti vorrei chiedere un favore, Ranieri: quella mattina, vieni con me a messa alla Consolata. Il santuario è proprio qui davanti, non c’è da fare strada, ed è una messa speciale, non solo perché è natalizia ma perché è quella che ho prenotato da mesi in suffragio dell’anima santa di tuo padre. Vieni, no?”
Avevo annuito lietamente: “Certo che vengo! Per papà figúrati se non vengo; e così festeggio pure con te alla tua maniera. A che ora sarebbe?”
“È la messa delle 11” aveva sorriso soddisfatissima d’attrarre a messa, almeno una volta, il figlioletto peccatore.
FOTOGRAFIA FUORI TESTO

Fotografia, con obiettivo grandangolo, del palazzo della Questura di Torino scattata dall’angolo fra Corso Vinzaglio e Via Grattoni, tratta dal Quotidiano Piemontese del 19 agosto 2014 alla pagina internet https://www.quotidianopiemontese.it/2014/08/19/provincia-torino-lacqua-gola-vende-palazzo-questura/ (https://www.quotidianopiemontese.it/2014/08/19/provincia-torino-lacqua-gola-vende-palazzo-questura/)



Capitolo II (#ulink_d562f0c8-3dda-50de-a7fc-5b3265177634)

Mia madre e io eravamo usciti dal santuario della Consolata poco prima di mezzogiorno, mancavano tre quarti d’ora all’appuntamento e Vittorio non aveva ancor iniziato a prender messa a Santa Barbara, sua parrocchia non molto lontana, in via Assarotti. M’aveva dato appuntamento davanti alla chiesa per l’una meno un quarto.
“Buon Natale, caro”, m’aveva salutato la mamma con una carezza.
“Buon Natale”, le avevo risposto sorridendo con intimo affetto, ma senza esternazioni fisiche: non ero mai stato espansivo, nemmeno da bambino, e mia madre in quegli anni ne aveva sofferto, come m’avrebbe detto tanto tempo dopo, ma bonariamente, per sua dolcezza di carattere: una sola volta, poi non me l’aveva più rinfacciato, il che non significava che non se ne dolesse ancora, come oggidì posso intuire essendomi addolcito col passare degli anni; soltanto, non me lo faceva più capire. Penso che, viceversa, a mio padre il mio distacco sentimentale non importasse molto, egli era simile a me, o meglio io a lui. Così mia madre era doppiamente colpita. Oggidì farei ben diversamente con loro, ma da decenni non ci sono più.
Mamma se n’era tornata a casa mentr’io m’ero avviato verso via Assarotti, a passo lento. Ero arrivato comunque in anticipo, per cui avevo girovagato un po’ per la zona. Verso l’una meno venti ero stato di nuovo davanti alla chiesa e avevo aspettato; un’attesa breve, l’amico se n’era uscito cogli altri fedeli dopo pochi minuti.
Aveva prenotato il pranzo natalizio per le tredici. Il ristorante, un esercizio antico che esercita ancor oggi, è quasi in via Garibaldi e non lontano da Santa Barbara, per cui s’era giunti in fretta.

Penso che, essendo il giorno di Natale e noi soltanto in due, non sarebbe stato possibile avere una gran bella sistemazione in nessun ristorante. Ci avevano ficcati a un tavolinetto equilatero in un angolo della sala. Tutte le sedie erano già occupate al nostro arrivo, a parte quelle d’una tavolata presso l’ingresso, che risultava però prenotata, come segnalava un cartellino che avevo visto di sfuggita entrando. Dopo un cinque minuti era giunto un gruppo che, su indicazione d’un cameriere, vi aveva preso posto: un gruppo che, come ancora non potevo sapere, in futuro avrebbe interessato a lungo le nostre indagini, perché sarebbe finito in una tal sequela di funesti eventi che, quasi, potremmo parlare di tragedia greca. Erano in sette: una coppia sulla settantina avanzata, un uomo sui quaranta con una graziosa donna per mano, apparentemente un po’ più giovane di lui, che poteva essere sua moglie, dato che stavano entrando assieme a loro una ragazzina e una bimba che avevo supposto loro figlie; ultimo, un uomo giovane piuttosto somigliante al precedente, forse suo fratello. L’anziano signore doveva conoscere Vittorio e aver conservato buona vista nonostante l’età non più verde, gli aveva infatti indirizzato lo sguardo e lanciato “Auguri commissario”, contraccambiato quasi subito dall’amico che, alzato lo sguardo e ravvisatolo, gli aveva rilanciato “Buon Natale, geometra.”
“Abitano anch’essi in via Cernaia, nel mio stesso palazzo e sullo stesso mio pianerottolo”, m’aveva detto Vittorio a bassa voce, “e a parte la nuora, lavorano tutti in un’azienda di famiglia. Hanno due appartamenti affiancati e comunicanti fra loro per una porta interna: in uno, stanno padre e madre anziani e il figlio secondogenito, scapolo, nell’altro, il loro primogenito con la sua famiglia. In origine, quando c’erano ancor solo gli anziani Trastulli e i loro figli, si trattava d’un solo appartamento di ben trecento metri quadrati, come m’aveva spettegolato un giorno il nostro portinaio, uomo incontenibilmente linguacciuto. Lo divisero in due, con alcune modifiche per avere due cucine e quattro bagni, quando il primogenito si sposò e i genitori gli assegnarono uno dei due alloggi. La loro sala da pranzo e un’altra camera dei capostipiti confinano col mio appartamento e, per le pareti purtroppo sottilissime, capita qualche sera, all’ora di cena, ch’io debba ascoltarmi, nolente, certe loro noiose discussioni ad alta voce che hanno quasi sempre per oggetto il lavoro. L’edificio, tu lo sai, Ran, è ottocentesco e tutti gli alloggi hanno pareti spesse, come s’usava una volta quando costruivano bene: non così però è il muro che mi divide dai Trastulli, solo una fila di mattoncini, suppongo, carta velina, per dirla esagerando. Come mai solo quella parete? mi chiederai. Semplice: l’appartamento mio e quello dei Trastulli, e questo me l’aveva detto non il portinaio ma una signora la cui famiglia abita nel palazzo da generazioni, fin dall’800, erano una sola dimora faraonica da arciricconi, appartenente a due sorelle, certe marchese del Ton Chamus Goncour, forse valdostane o forse d’ascendenza savoiarda, dato il cognome francese. Le mie stanze, che come sai sono piccoline a parte la camera da letto, erano la zona della servitù delle due nobildonne e il mio ingresso dal pianerottolo l’entrata di servizio. Quando morì anche la seconda sorella, gli eredi, loro cugini, vendettero l’alloggio e, data la superficie abnorme, qualcosa come quasi 400 metri quadrati, poterono trovare non una ma solo due famiglie compratrici, quella dei Trastulli, che se ne presero più di 300 metri quadrati, e quella di certi Ferraris che ne acquistarono una novantina, che avrebbero poi venduto a me nel ‘59, quando mi sarei trasferito a Torino da Genova. Quei lazzaroni d’ingannatori
di cugini non trovarono niente di meglio che separare i due alloggi coi muri di carta velina di cui t’ho detto. Così, in un palazzo con muri spessissimi, io mi trovo, unico e solo, a dover sentire quei vicini parlare ad alta voce a cena, e per di più sempre e solo di noiosissimi affari. Aveva sorriso allegro: “Va bbuo’, Ran, adesso però fine delle lamentazioni
non bibliche e vediamo cos’hanno preparato di buono qui.” Aveva preso la copia del menù che aveva dinnanzi, come tutti noi, sopra un tovagliolo ben ripiegato adagiato sul piatto per gli antipasti. Come potevo direttamente vedere sul mio esemplare, la carta dei cibi e delle bevande era decorata con disegnini d’abeti dorati schematici, facenti serto all’allettante elenco. Aveva iniziato a leggere, a mezza voce perché udissi ma senz’infastidire i vicini di tavolo: “Antipasti caldi alla piemontese, agnolotti al sugo di brasato o, a scelta, al burro fuso, poi… beh, ovviamente il brasato, con contorni vari; e per finire, il dessert: frutta fresca, panna cotta a cucchiaio affogata nel cioccolato sciolto e, questa la va da sé, fetta di panettone o di pandoro, a scelta, ricoperta di crema pasticcera. Quanto al bere, aperitivo Torino Milano, sì, lo conosco, è buono: un cocktail semplice composto da vermouth di Torino e aperitivo di Milano
rosso, cubetti di ghiaccio e una buccia d’arancia. Ovviamente a Milano lo chiamano Milano Torino. Inoltre vino da tavola della casa in caraffa, rosso o bianco a scelta, per me bianco e vedi tu per te, e coi dolci, una flûte di prosecco veneto o di moscato piemontese. Va bbuo’, Ran, a quanto pare è tutto di tuo gusto. Per un napoletano come me, in mezzo agli altri piatti, un primo con frutti di mare e una pietanza di pesce ci sarebbero stati benissimo, ma”, aveva fatto una smorfia tra il divertito e il dispiaciuto di simulata sopportazione, “pazienza, m’accontenterò.”

Mangia e bevi, eravamo stati fuori solo a metà pomeriggio. Davanti a noi era appena sortita la famiglia dei condòmini dell’amico e s’era avviata, una quindicina di metri avanti, nella nostra stessa direzione verso via Cernaia. Stavano discutendo tutti assieme, senza cautela, suppongo essendone complici profonde libagioni prandiali. Le loro parole ci arrivavano confusamente, ma dopo non molto s’era alzata alta e chiara la voce della donna anziana che, inalberando una mùtria malmoltosa, come non si poteva evitare di vedere nonostante metri di distanza, aveva detto bruscamente: “Basta adesso! Anche a Natale?! La volete smettere di fare i caini?”
Evidentemente, ce l’aveva coi figli.
Vittorio m’aveva sussurrato di rallentare e lasciarli allontanare. Poiché il gruppo marciava lentamente e continuava a restarci a portata di voce, dopo qualche passo m’aveva fatto segno col pollice destro di svoltare da quella parte nella prossima via Boucheron. Ne avrei compreso presto la ragione: gli era venuto l’uzzo di parlarmi di quella famiglia, forse essendo anche per lui complici l’aperitivo, il vino e lo spumante; malgrado ciò, era sì allegro ma sempre lucido, infatti non aveva voluto che i suoi chiacchierandi vicini sentissero.
Aveva esordito: “Tanto per far conversazione mentre camminiamo… oh, ti va di fare due passi per digerire, no?”
“Certamente.”
“Solito giro dei portici?”
“Perfetto.”
“Bene. Dunque volevo dirti qualcosa di quelle persone… ecco, adesso giriamo qui a sinistra, così arriviamo egualmente in via Cernaia, l’attraversiamo e imbocchiamo direttamente corso Vinzaglio.”
Avevamo svoltato in via Manzoni.
“Ti stavo dicendo di quella famiglia: Ha un grosso negozio dove lavorano tutti a parte la nuora, con diversi commessi. Vendono lavatrici, frigoriferi, televisori, registratori, giradischi e dischi: gli ho comprato anch’io un paio di 33 giri, l’altro mese.”
“Jazz?”
“No, che jazz e jazz: a te piace il jazz?”
“Eh, molto!”
“Va bbuo’ a me invece piace la musica sinfonica e operistica: no, era Mozart. Comunque, stavo per dirti che il negozio è quasi sempre pieno di gente, i Trastulli stanno godendosi il boom economico
. Hanno sei vetrine e due piani d’esposizione e vendita, qui vicino, in via Garibaldi, sotto i portici quasi in piazza Statuto. Ditta molto vecchia, anche se in passato non vendevano ovviamente televisori e registratori, perché non c’erano. Penso trattassero soprattutto cose come grammofoni a molla e apparecchi radio. Comunque era una ditta conosciuta e florida da anni già prima del boom: l’avevano aperta nel 1930 i due vecchi poco dopo il matrimonio, con un capitale che lui aveva ereditato dal padre appena defunto. L’anno di fondazione del negozio è scritto dappertutto, dentro i locali e sulle vetrine. L’insegna che corre su queste riporta il cognome di famiglia: Trastulli seguito da Televisori Elettrodomestici Apparecchiature Musica.” Il vecchio è diplomato geometra…”
“…lo so, l’avevi chiamato così salutandolo.”
“Già. È il geometra Aristide Trastulli. Prima d’ereditare lavorava come dipendente in un’impresa edile, e aveva conosciuto la futura moglie, Iride, un giorno che per lavoro era salito a casa del principale: lei era la donna di servizio. Il loro primogenito si chiama Arturo, non ha avuto molta voglia di studiare, ha la terza media, o meglio la terza ginnasio come si chiamava una volta
, è andato a lavorare coi suoi a quattordici anni. Il secondo figlio, Clemente, ha maggiori studi, prese il diploma di perito mercantile prima d’entrare in ditta coi genitori. Tornando alla loro madre signora Iride, è la decima figlia di contadini. Come tutti nella sua famiglia aveva studiato poco, anche se si esprime con proprietà. Subito dopo l’esame di terza elementare
aveva dovuto aiutare i suoi nel lavoro, come già facevano i fratelli e una delle sorelle; raggiunti i quattordici anni, com’era stato per le altre sorelle, era stata inurbata dai genitori e indirizzata al mestiere di domestica, essendoci troppe bocche da sfamare per il piccolo appezzamento di terra familiare. Sono tutte cose che ho saputo nel corso del tempo dall’ostiario, come io lo definisco.
“Ostiario?”
“Non sai chi erano gli ostiari?”
“Hm… mea culpa”, avevo finto di dolermene.
“Perdonato”, aveva scherzato anche lui, “dopotutto la reale figura dell’ostiario non esiste più da un pezzo, sostituita da quella del sacrestano. Si trattava d’un chierico, di minor livello dei preti, che aveva ricevuto il cosiddetto ostiariato comportante diversi incarichi entro un edificio ecclesiastico: come suggerisce il nome stesso, procurare e serbare le ostie da consacrare sull’altare, ma inoltre custodire l’edificio, aprire e chiuderne a orario l’ingresso e vietarne l’accesso alle brutte persone; oltre a ciò, suonare le campane a orario e, aiutato o no da serventi, provvedere alle pulizie della chiesa. Definisco il nostro portinaio ostiario, beffardamente, perché è un baciapile che fa sapere a tutti che lui va in chiesa ogni sera dopo l’orario e che recita sempre il Rosario con la moglie prima di coricarsi pregando per tutto il condominio. Peccato che poi spettegoli a mitraglia dietro alle spalle dei proprietari: forse anche su di me, perché no?
Però è un po’ maligno pure chi l’ascolta, come te, m’era piombato in mente, e me n’ero pentito subito perché ben conoscevo il buon cuore dell’amico; dopo un momento m’ero detto: Beh, dopotutto la curiosità è normale per un poliziotto, no?
Intanto, ignaro del mio rimuginare, Vittorio aveva continuato: “Quello tra loro che conosco meglio è l’anziano, perché era come me un partigiano ed è come me iscritto all’ANPI
: ci ritroviamo qualche volta in sede o a celebrazioni di piazza. Anche la moglie è iscritta, operavano in coppia contro i fascisti e gli occupanti tedeschi, tutti e due sono medaglia d’argento al valor militare della Resistenza; lei però non frequenta l’Associazione.”
“Per salire in montagna a combattere avevano chiuso il negozio, m’immagino.”
“No, avevano operato qui a Torino, in altri modi tutti necessari, come procurare armi ai resistenti trasportandole di persona sul furgone della ditta, celate fra le loro merci, o ricevere e passare ordini del CLNAI
tramite un ufficiale dell’Esercito che militava fra i partigiani azzurri, quelli di tendenze liberal monarchiche, il maggiore Amedeo Ronzi di Valfenera, adesso generale dei Carabinieri
, lo conosco pur io perché è torinese ed è iscritto alla nostra sezione ANPI: è un grande amico del vecchio Trastulli. Inoltre, in più occasioni, i coniugi avevano riparato nella soffitta del loro negozio antifascisti ricercati e, a un certo punto, vi avevano nascosto, con alto rischio, sin a fine guerra, una coppia d’ebrei, salvandola da un rastrellamento meticoloso dei nazisti e dalla conseguente deportazione in un lager.”
“Scusa, Vittorio, il primogenito di questi Trastulli doveva essere già oltre la ventina: era partigiano con loro?”
“No, allo scoppio del conflitto Arturo era di leva ed era stato spedito subito al fronte, rimanendo in armi fin al luglio ‘43, prima in Francia e poi in Sicilia dov’era stato fatto prigioniero e quindi deportato in Gran Bretagna: pare l’avessero trattato abbastanza bene, impiegandolo prima come contadino in una fattoria poi come giardiniere e ortolano sul terreno attorno alla villotta del colonnello che comandava il campo di prigionia. Era tornato in Italia solo nel 1946. Vuoi sapere anche del figlioletto piccolo?”
“Eh!”
“Clemente frequentava ancora le scuole elementari nel 1940, quando il 10 giugno Mussolini dichiarò guerra a Francia e Gran Bretagna. I suoi l’avevano allontanato subito da Torino, e bene avevano fatto, ché il primo bombardamento sulla città, da parte degl’inglesi, era stato immediato…”
“…e proprio a me lo dici? Me lo ricordo eccome!”
“Già, tu sei torinese.”
“Sì: era la notte fra l’11 e il 12 giugno, non ce l’aspettavamo così presto i miei genitori e io.”
“Tuo padre era stato poi richiamato sotto le armi?”
“No, era operaio FIAT e quelli come lui erano utili là dov’erano.”
“Già, per produrre per l’Esercito e l’Aereonautica.”
“Sì. Tornando al bombardamento, dopo un momento di paura eravamo corsi tutti e tre giù in cantina, ma casa nostra non era stata toccata per fortuna, sebbene avessero sganciato sul centro della città: 17 morti! Si sarebbe poi saputo che l’obbiettivo avrebbe dovuto essere la FIAT, che invece nemmeno era stata sfiorata. Per questo s’era diffusa la voce, bisbigliata, che Churchill avesse azioni della società, ma sicuramente s’era trattato d’una fanfaluca.”
“Di sicuro; ma riandando al piccolo Trastulli, i suoi l’avevano riparato dalla sorella nubile del padre, una certa zia Erminia, che abitava nel piccolo comune originario della famiglia, Cavaglià, a una cinquantina di chilometri. La zia era ed è benestante, avendo ereditato l’altra metà dei beni paterni. S’era preso e tenuto il nipotino ben volentieri per tutti gli anni della guerra, affezionandosi a lui come a un figlio, e il bimbo a lei: me l’aveva confidato il papà Trastulli, aggiungendo che Clemente voleva e vuole bene più alla parente che alla madre.”
“Si lascia andare a confidenze quel geometra.”
“Non con tutti: nell’ANPI discorre volentieri solo con me e con quel generale di cui è amico. Mi parla non solo dei fatti di guerra ma pure dei suoi privati: è una persona spontanea e un gran brav’uomo. La signora Iride invece non mi piace molto… va beh, è un’eroina di guerra anche lei ma… è pure ‘na fareniella
, una donna piena di boria che si crede la regina di Saba. Ho potuto verificarlo in più casi.”
“Ho capito; ma dimmi qualcosa della moglie del primogenito”: dopotutto anch’io, quanto a curiosità, non mi stavo mostrando da meno dell’amico; oh, beh, eravamo poliziotti entrambi, no?
“Ah, sì, completiamo il quadro: Si chiama Clodette, è una francese bionda, più alta del marito, bella donna, ma tu l’hai vista. Arturo la conobbe in vacanza in Liguria. Lei s’occupa solo delle figlie, niente di più, in casa hanno una domestica dalle 9 alle 19 e 30 che fa tutto e si chiama Genoveffa. Clodette e Arturo litigano perché lui la gradirebbe in ditta, anzi la suocera la vorrebbe là, a tutti i costi, e a lui piacerebbe dare soddisfazione alla madre, è un po’ un cocco di mamma, anzi un mammone secondo le parole del nostro linguacciuto custode, mentre il fratello no; immagino che la madre avesse molto viziato il primo da piccolo, mentre non aveva potuto farlo con l’altro perché era dalla zia. La nuora non vuole proprio finire alle dipendenze della suocera, il marito insiste e i due battibeccano; e anche la vecchia ne dice tante alla nuora, non belle, e allora Clodette, anche se conosce ormai bene la nostra lingua, le lancia impulsivamente merde.”
“La celebre parola del generale Cambronne a Waterloo”, avevo detto ridacchiando, “ma avevo letto che i francesi la userebbero più come interiezione di disappunto che come insulto contro qualcuno.”
“Già, ma lei invece gliela scaglia con un tono che non lascia dubbi sull’intenzione di definirla proprio una merde. Ah, a volte usa l’epiteto emmerdeuse.”
“So solo l’inglese: vuol dire merdosa?”
“No: rompipalle. Fatto è che, per la vecchia, l’azienda è una figlia, anzi persino qualcosa di più, e i figli carnali e assieme a loro la nuora, li vuole tutti al servizio degli affari: ha viziato il primogenito e continua a farlo, ma vuole il contraccambio da lui, l’ho capito bene da parole che gl’indirizza certe volte, frasi sul tipo: È la ditta che ti mantiene e io ti ho dato sempre tutto quello che volevi e tu mi devi dare sempre retta.”
“Brr… meglio un impiego sottopagato che star sotto una madre così.”
“Eh, sicuramente. Insomma, per un motivo o per l’altro, questionano tutti, a parte il geometra che però, del tutto eccezionalmente, quando evidentemente non ne può più, urla a squarciagola: Smettetela balenghi! Allora tacciono tutti meno la moglie che, imperterrita, continua; e lui s’arrabbia ancora di più e aggiunge in piemontese: Piàntla-lì, ciula brüsca
! Ho pronunciato bene, Ran?”
“Benissimo, anche la ü di brüsca.”
“Già, già”, aveva sorriso faceto, socchiudendo gli occhi per fingere di compiacersene. Poi, di nuovo serio: “Le uniche che se ne stanno zitte, anche se sono piccole e, loro sì, avrebbero diritto di far strilli ogni tanto, sono Ida e Aurelia, le figliolette: chi sa cosa provano dentro in mezzo a quei litigiosi.”
“Che pure tu sopporti, Vittorio.”
“Eh sì, non ho mai battuto con un martello contro il muro divisorio, anche se l’avrei fatto chi sa quante volte, se non fosse che ci si vede col geometra all’ANPI e siamo… beh, no, stavo per dire amici, ma non è vero, l’amicizia è cosa preziosa e rara, no diciamo che siamo sodali di lotta e io non voglio litigarci.”
…e sei una pasta d’uomo, m’era venuto in animo.
Capitolo III (#ulink_d562f0c8-3dda-50de-a7fc-5b3265177634)

È bene che, a questo punto, prima ch’io prosegua con la narrazione, disegni, sia pur a rapidi tratti, il periodo storico italiano in cui la nostra vicenda si svolge, non solo per presentarne l’ambientazione, ma soprattutto in quanto certi eventi e luoghi di quegli anni furono causa prima di vicissitudini e drammi dei nostri personaggi.
La popolazione di Torino e dintorni s’era ingrandita dall’inizio degli anni ‘50, causa l’immigrazione da altre regioni, soprattutto meridionali, di famiglie in cerca di lavoro. L’accrescimento s’era velocizzato durante il cosiddetto boom economico, fin a oltre seicentomila nuovi residenti: Torino era divenuta metropoli, un milione d’abitanti e, con le località della prima cintura, quasi due milioni. Gl’immigrati miravano a essere assunti, di gran preferenza, alle catene di montaggio FIAT, poderosa società ch’era ancora quasi interamente torinese, potente in città più di sindaco, assessori e consiglieri comunali. Alla FIAT e a molte altre imprese, numerose delle quali satelliti della prima, quei lavoratori servivano, eccome; non erano state però preparate abitazioni per i loro nuclei familiari, né dalla FIAT, né da aziende sue satelliti, né dal Comune, solo dalla fine degli anni ‘60 si sarebbe provveduto a costruire quartieri periferici popolari. Era così sorta, alzata da quelle stesse misere persone trapiantatesi a Torino, una miriade d’improvvisate baraccopoli, sia nei sobborghi della città, sia in diverse sue zone, mentre solo i meno sfortunati avevano trovato riparo in dimore del centro, soprattutto nella zona di Porta Palazzo entro piccoli alloggi e in soffitte di palazzi di ringhiera settecenteschi, alcuni fatiscenti. Questa massa umana, assunta al lavoro accontentandosi di salari molto bassi, aveva fatto da carburante potente al cosiddetto miracolo economico italiano, o boom che dir si voglia. Tale boom, nondimeno, non era proseguito ininterrottamente: nel 1963 aveva avuto pausa l’euforico quinquennio, come l’avrebbe definito l’anno seguente l’ipercritico deputato repubblicano Ugo La Malfa, uomo della sinistra non marxista stimatissimo da mio padre, repubblicano storico
, così come, sul suo modello, lo scrivente Ranieri Velli.
L’espressione miracolo economico s’era spenta, l’entusiasmo degl’industriali e dei commercianti era calato di molto e quindi era caduto, mentre gli occupati nell’industria e nei servizi avevano preso a preoccuparsi, sotto minaccia di licenziamento o di già licenziati, avendo ormai iniziato a gustare un certo benessere, integrando i loro consumi primari con beni durevoli, pagati a rate con cambiali, quali il frigorifero, la lavatrice, il televisore, con formidabili affari per le industrie produttrici e i negozi di quei prodotti, come ad esempio l’esercizio commerciale della famiglia Trastulli che noi conosciamo; e non pochissimi lavoratori avevano osato permettersi l’acquisto a rate di un’auto, di norma una piccola FIAT 600 o una FIAT 500 piccina, piccina. Molti lavoratori avevano iniziato anche a godere d’almeno un paio di settimane di vacanza agostana in una pensioncina, di solito della vicina Liguria, mentre quasi tutti coloro che, sopra una gora di cambiali, erano proprietari di un’utilitaria o, addirittura, d’una FIAT 1100, avevano affrontato ogni agosto, coraggiosamente, famiglia al completo nella maggior parte dei casi stipatissima in un’utilitaria, il lungo viaggio, alla media di 70 chilometri all’ora, fin al proprio lontano borgo natio, esultanti di potersi mostrare all’arrivo sopra l’auto guadagnata col proprio apprezzato lavoro alla catena: di montaggio, ovviamente, non si fraintenda.
Negli anni precedenti il 1963 molti imprenditori, basandosi sull’indebitamento piuttosto facile e sulle paghe molto basse, avevano ingrandito la loro attività, a volte enormemente rispetto all’originaria dimensione, tanto che diverse imprese artigiane s’erano ampliate al livello industriale con numerosi dipendenti, anche centinaia; nondimeno, senza che i titolari avessero la preparazione economica adeguata per operare non a braccio, come nella loro precedente piccola o minima dimensione, ma con accortezza prevedendo, caso per caso, le possibili conseguenze delle loro iniziative e considerando la possibilità d’inattesi fattori estranei contrastanti
. Non avevano capito, fra altre cose, che i salari bassi avevano di molto favorito la loro ascesa. Quando i lavoratori, dopo anni di lotte sindacali, avevano finalmente ottenuto significativi aumenti, erano iniziate difficoltà per tutte le aziende, osticità assai gravi, in primo luogo, per le attività improvvisate, pur non restandone esenti le antiche, collaudate e ben dirette aziende, in quanto i rapporti fra ditte produttrici di beni e ditte fornitrici di servizi sono catene collegate, a loro volta, a quelle dei settori creditizio, assicurativo, consultivo; in altri termini, si tratta d’una rete d’affari tra fornitori di materie prime e fonti d’energia, produttori di servizi e beni, distributori degli stessi, e tale rete è connessa a propria volta agli studi di consulenza, alle banche, alle assicurazioni.
Erano iniziati i fallimenti ed erano divenuti sempre più numerosi di mese in mese. Si sarebbero succeduti, ancor più gravi, ben oltre il 1964, anno peraltro dell’acme della crisi nel quale gli utili d’impresa e professionali e i redditi familiari sarebbero stati colpiti ancor più gravemente dall’incauto aumento dell’imposizione fiscale sulla benzina e da una novella tassazione sull’acquisto di automezzi, balzelli voluti da politici ben poco esperti di scienza delle finanze: quelle imposte sconsiderate avevano ovviamente aumentato i costi dei trasporti commerciali e, dunque, avevano ancor più gravato sull’intera economia. Il male maggiore era però venuto dai collegamenti di credito-debito fra le aziende e dalle azioni legali delle banche che, avendo prima concesso fidi con larghezza agl’imprenditori, avevano iniziato non solo a ridurre drasticamente le nuove aperture di credito e l’ammontare dei prestiti già accordati, ma ad aumentarne il costo percentuale e, peggio, a chiedere di rientrare ai clienti morosi, tante volte senza successo: come avrebbe potuto infatti una ditta rimborsare un prestito se troppi dei suoi clienti non le pagavano le forniture? Pericolosamente avversa era diventata nel 1964 la congiuntura, parola questa che, nel linguaggio popolare, era divenuta semplicemente e famigeratamente La Congiuntura intesa come sinonimo di crisi mentre, in realtà, quel vocabolo non significa stagnazione o recessione ma andamento degli affari, che può essere negativo, positivo o stagnante. All’inizio del triennio era stata stagnazione, innescata da una riduzione degl’investimenti dovuta al noto aumento dei salari e degli stipendi e al pesante innalzamento dei tassi d’interesse sui prestiti bancari, incrementi che avevano ristretto il capitale disponibile per gl’investimenti in acquisti di materie prime, fonti d’energia, merci, macchinari e via seguitando; peggio, il fenomeno era stato anche più grave perché, già nel 1963 ma soprattutto nel ’64 e nel ’65, non pochi grossi imprenditori avevano indirizzato abbondante parte dei loro capitali liquidi, quando non l’intero, verso certi Paesi stranieri, paradisi bancari, per ripararvi da guai la loro posizione economica e la loro stessa persona in caso di bancarotta. Dalla stagnazione s’era scivolati alla recessione: meno investimenti, meno produzione, meno scambi commerciali, meno trasporti, meno lavoro e dunque licenziamenti, perciò meno salari e stipendi e meno consumi con minori ritorni di denaro alle imprese; per molte di queste, investimenti nulli, ulteriore minore produzione, altri licenziamenti: un circolo vizioso in cui erano intervenuti fallimenti tra loro collegati, il più delle volte non innescati dai fornitori-creditori, desiderosi della salvezza dei clienti-debitori cui, anzi, andavano normalmente rinnovando cambiali su cambiali che avrebbero provato a scontare ancora una volta in banca per finanziarsi, ma attizzati proprio dalle banche che, implacabili, essendo i loro crediti privilegiati per legge, avevano preso a tempestare il mondo imprenditoriale di istanze di fallimento.
Relativamente ai negozi e agli esercenti ambulanti dei generi di prima necessità e a molte delle famiglie di lavoratori loro clienti, in precedenza queste ultime avevano pagato gli acquisti quotidiani in unica soluzione, a fine settimana una volta incassato il salario operaio, a fine mese dopo aver intascato lo stipendio impiegatizio. Subentrata la recessione, in diversi nuclei familiari uno o più membri s’erano trovati disoccupati, per cui quelle famiglie avevano preso a rimandare i pagamenti, almeno in parte, al mese seguente e, nel contempo, avevano ridotto gli acquisti all’essenziale; poi, accumulato debito su debito, non avevano più saldato.
D’altra parte, i gruppi familiari che avevano comprato beni durevoli, a rate con patto di riservato dominio firmando le solite cambiali, televisori, lavatrici e altri elettrodomestici, o addirittura un automezzo, al momento della crisi avevano lasciato cadere in protesto quelle farfalle cambiarie e sofferto il sequestro del bene. A loro volta, le imprese fornitrici degli esercizi commerciali s’erano ritrovate impagate da molti loro clienti, dato che gli stessi non avevano più avuto il denaro per saldare gli acquisti alle scadenze previste. Se i primi non saldati erano stati i fornitori dei commercianti, per secondi erano venuti i commessi di questi, tutti o in parte licenziati; infine, non pochi esercizi avevano abbassato le serrande, o per ritiro dagli affari, quand’erano riusciti prima, avendo risparmi domestici, a saldare tutti i debiti, o, più sovente, per fallimento.
Come Vittorio e io avremmo saputo, s’era ritrovata nel fortunale recessivo, con cambiali di clienti in protesto e difficoltà a saldare i fornitori, anche la vecchia e famosa ditta di via Garibaldi Trastulli Televisori Elettrodomestici Apparecchiature Musica, dei cui titolari, dopo quel Natale del ’61, io m’ero dimenticato del tutto, ma che presto sarebbe tornata sul proscenio della mia vita: per motivi di sangue.
Capitolo I (#ulink_d562f0c8-3dda-50de-a7fc-5b3265177634)V (#ulink_d562f0c8-3dda-50de-a7fc-5b3265177634)

L’annus orribilis del triennio ’63-65 era stato il 1964, non solo per l’aumento della pressione fiscale, per le fughe enormi di capitali verso l’estero, per i numerosissimi fallimenti di aziende e per la disoccupazione vieppiù crescente, ma perché, nei mesi da marzo alla metà di luglio, era stata appesa con un filo sul capo dei cittadini l’affilata, pubblica minaccia d’un colpo di Stato.
Non solo la crisi ma anche quel piano eversivo, sia pur questo di riflesso, avrebbe contribuito alle disgrazie della famiglia Trastulli.
Come, solo tre anni dopo, fonti pubbliche avrebbero comunicato al pubblico, fra gli obiettivi del disegno sovversivo non ci sarebbe stata la cancellazione della Carta costituzionale; tuttavia, se pur così era stato, non di certo esiguo s’era rivelato il proposito dei cospiratori, in quanto avevano mirato all’eliminazione dalla scena politica di parlamentari comunisti e socialisti e al blocco violento di numerose, articolate riforme sociali che stavano per essere espresse dal Governo in carica, di centrosinistra a differenza di quelli degli anni ‘50 e dei primissimi ‘60 composti da elementi di centro o di centrodestra
: il Partito Socialista Italiano, marxista, era stato ammesso a pigiare bottoni di comando accanto all’abituale forza di maggioranza, la Democrazia Cristiana, o meglio alle sue correnti di sinistra divenute predominanti.
Responsabile del piano sovversivo era stato l’allora Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, ex partigiano azzurro monarchico, insignito dalla Repubblica, per meriti resistenziali, d’una medaglia d’argento, di tre croci di guerra al merito e di molti encomi solenni e, nel 1955, elevato al delicatissimo ufficio di capo dei servizi segreti, che aveva mantenuto per circa sette anni prima del nuovo incarico.
Il 25 marzo 1964 egli aveva riunito nella capitale i dipendenti generali comandanti delle tre divisioni dell’Arma e i generali di brigata loro aiutanti di campo, e impartito ordini dettagliati sul piano, con l’ingiunzione di tenersi pronti a muovere le loro truppe armate in qualunque momento, non appena ricevutone il suo comando. Era stata prevista l’occupazione delle prefetture, delle principali questure della nostra Pubblica Sicurezza, delle sedi RAI-TV, dei partiti politici marxisti, dei giornali che li appoggiavano e, addirittura, erano stati predisposti, per oltre settecento figure pubbliche fra politici del Partito Comunista e del Partito Socialista, sindacalisti socialcomunisti della CGIL e intellettuali sostenitori o simpatizzanti della sinistra, l’arresto e il trasferimento in campi di concentramento in Sardegna allestiti su aree militari vietate al pubblico.
Il 26 giugno 1964, un venerdì, era intervenuto un fatto nuovo: la crisi di Governo, caduto per un contrasto, forse pretestuoso, sulle sovvenzioni alla scuole private, che i democristiani volevano e i socialisti osteggiavano. La maggior parte dei giornali non di partito, la cosiddetta stampa indipendente che a quei tempi, di norma, non simpatizzava per la sinistra
, aveva definito assai negativamente il Presidente del Consiglio dimissionario Aldo Moro, capo della corrente della sinistra democristiana, e aveva indicato come uno sfacelo le azioni governative dei ministri socialisti. Era stato il momento in cui il piano sovversivo avrebbe potuto prendere le mosse. Il leader storico del Partito Socialista Italiano, Pietro Nenni, ne era stato messo in guardia, non improbabilmente dagli statunitensi, aveva riunito all’istante i notabili di partito e li aveva informati d’aver udito nel sottofondo della crisi un tintinnio di sciabole; e a questo punto i socialisti erano scesi a patti. Il progetto sovversivo era caduto, le tre divisioni dei Carabinieri e le rispettive brigate erano rimaste inerti e il 17 luglio 1964 era stato varato un diverso Governo Moro, sempre col Partito Socialista che, però, aveva accettato d’eliminare tutti i punti drastici del suo programma innovativo, precedentemente dichiarati assolutamente essenziali; ancora una volta, la politica s’era rivelata l’arte del possibile
. Il piano di colpo di Stato era stato accantonato giusto alla metà di luglio, un attimo prima della sua attuazione, essendosi considerato il costituendo nuovo centrosinistra assai meno innovatore del precedente e sicuramente, come si sarebbe saputo, essendo del tutto mancata l’approvazione degl’influentissimi Stati Uniti d’America i quali, diversamente dagli eversori, consideravano positivamente il centrosinistra, quale strumento per isolare i comunisti: il Partito Comunista Italiano, in effetti, era stato e rimaneva assai contrario alla partecipazione dei socialisti al Governo, avendo mirato per il futuro, ben diversamente, a un Governo di pura sinistra socialcomunista. Sarebbe poi corsa un’ulteriore, insistente voce, che lo Stato della Città del Vaticano, informato dall’ambasciatore statunitense del piano sovversivo, si fosse mosso per bloccarlo, forse con segrete minacce di scomuniche a certi potenti cattolici di destra della Democrazia Cristiana: la Santa Sede e il relativo Stato erano in quegli anni assai considerati e sovente ascoltati negli ambienti politici e militari italiani e la notizia era tutt’altro che inverosimile, anche perché la Chiesa, sotto l’allora regnante Papa Paolo VI, uomo della sinistra cattolica, era stata ben favorevole all’ammissione dei socialisti al potere esecutivo.
Negli stessi giorni, quattro uomini politici di centro destra erano deceduti per infarto, quasi l’uno di seguito all’altro, coincidenza ben insolita anche se non del tutto impossibile
Di questi fatti e d’attinenti fatterelli i cittadini sarebbero stati tenuti all’oscuro dalle autorità per molto: forse per evitare al popolo ormai superflue spinte all’angustia? Sicuramente con autoritario disprezzo del diritto all’informazione.
Nemmeno Vittorio e, come lui, nessuno nel nostro Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza aveva avuto sentore del progetto eversivo; e lo stesso doveva esser stato negli altri reparti di Polizia
: il piano era stato magistralmente mantenuto segretissimo.
Solo nel 1967 la notizia sarebbe sfuggita e, raccolta dal settimanale L’Espresso, sarebbe stata da questo divulgata il 14 e il 21 maggio di quello stesso anno con un’inchiesta giornalistica, divenendo di pubblico dominio. Si sarebbe saputo, fra l’altro, che solo nel dicembre 1965 e non prima, al termine cioè d’un duraturo periodo d’indecisione dei vertici politici, il Comandante Generale dei Carabinieri ed ex comandante dei servizi segreti era stato rimosso dal suo incarico; e sarebbe corsa voce, verosimilmente per informazioni dell’onnipresente agenzia di spionaggio statunitense CIA, che se quel generale di corpo d’armata era apparso l’ideatore del piano eversivo, questo poteva esser stato voluto da certi importanti uomini politici della destra democristiana
.
Sempre dopo il maggio 1967 e in grazia degli articoli de L’Espresso, sarebbe stata finalmente costituita sulla vicenda una commissione parlamentare d’inchiesta. Le sue conclusioni? Avrebbe sancito essersi trattato d’un piano d’emergenza speciale a tutela dell’ordine pubblico, “una deviazione deprecabile” ma non un tentativo di colpo di Stato.
FOTOGRAFIA FUORI TESTO

La prima pagina del numero 21 del 21 maggio 1967 della rivista L’Espresso



Capitolo (#ulink_d562f0c8-3dda-50de-a7fc-5b3265177634)V (#ulink_d562f0c8-3dda-50de-a7fc-5b3265177634)

Aristide Trastulli, uscito dal suo negozio alle 19 di sabato 18 luglio 1964 per una breve, solitaria passeggiata prima di cena, era sparito.
I primi telefoni da tasca erano ancora di là da venire, i suoi famigliari non avevano potuto provare a rintracciarlo chiamandolo. Già verso le 22 la moglie e i due figli avevano denunciato la sparizione in Questura: la legge italiana del tempo, contrariamente a quelle di altri Stati, non riteneva necessario che, prima di poter procedere alla segnalazione della sparizione d’un famigliare o parente a un corpo di Polizia, fosse trascorso un certo numero di ore o addirittura di giorni, infatti considerava che maggiore sarebbe stata la possibilità di trovare la persona se ci si fosse mossi il prima possibile.
Il funzionario di turno preposto a raccogliere la denuncia, un certo brigadiere Pitrini, dopo aver fatto accomodare il trio davanti alla propria scrivania, aveva chiesto: “A casa c’è qualcuno?”
Aveva risposto Arturo: “Sì, mia moglie con le nostre bambine.”
“Suo padre potrebbe esser tornato mentre loro venivano qui. Per prima cosa è bene controllare. Numero di telefono?”
Avutolo, l’aveva composto sul disco combinatore dell’apparecchio che aveva sullo scrittoio, passando subito la cornetta alla signora madre.
Aveva risposto Clodette, deludendola: “No, purtroppo non c’è. Nemmeno ha telefonato.”
La suocera aveva sospirato e, senza congedarsi dalla nuora, aveva reso il ricevitore al brigadiere.
Il funzionario aveva riagganciato, di seguito aveva ordinato a un agente del suo ufficio, un certo Bianchini, di telefonare a tutti i pronto soccorso torinesi chiedendo se un Aristide Trastulli vi fosse stato ricoverato.
L’agente aveva eseguito. Tempo dopo, avrebbe comunicato al brigadiere che non risultava nessuno con quelle generalità.
Nel frattempo il brigadiere aveva chiesto ai denunzianti se avessero portato foto dell’uomo.
“Sì, ci abbiamo pensato: due fotografie”, gli era venuto dalla signora Iride. Aveva cavato dalla propria borsa un’istantanea a colori del marito, a figura intera, e una sua fototessera in bianco e nero, sorella di quella applicata alla sua carta d’identità. Le aveva allungate al brigadiere.
Il Pitrini le aveva posate sul proprio scrittoio e aveva ordinato all’agente dattilografo che gli sedeva poco distante, pronto a battere i tasti della propria macchina: “Queste te le prendi dopo e le alleghi alla pratica. Cominciamo a scrivere.” Aveva chiesto ai denuncianti: “Quando hanno visto per l’ultima volta lo scomparso?”
La madre: “Poco dopo le 19, subito dopo la chiusura del nostro negozio…”
“…situato?”
“La ditta Trastulli è in via Garibaldi, quasi in piazza Statuto, una trentina di metri prima.”
“Ah, sì, un negozio con molte vetrine, l’ho presente.”
“Sì. Dicevo che mio marito è uscito subito dopo la chiusura, passando dal retro assieme ai commessi, mentre noi, come ogni sera, ci siamo soffermati per chiudere il conto cassa e per controllare che tutto fosse a posto, prima d’andarcene. La maggior parte delle volte andavamo via con lui in auto, a conti fatti, ma stasera ci ha detto che, per farsi venir appetito, voleva far quattro passi lungo il suo solito breve percorso.”
“Me lo delinei, dovremo cominciare a cercarlo in quelle vie.”
“Uscendo da noi in via Garibaldi, svolta a sinistra in corso Valdocco, poi svolta a destra in via del Carmine, va avanti fin a piazza Savoia, svolta a destra in via della Consolata, quindi, sempre dritto, imbocca corso Siccardi, infine gira a destra in via Cernaia e arriva a casa nostra, che è quasi all’altezza di corso Palestro.”
“Mi ha detto che la passeggiata non è un fatto del tutto eccezionale.”
“Esattamente, brigadiere, una e talvolta due volte alla settimana capita. Ci ha detto uscendo che ci saremmo visti a casa per cena, lo diceva tutte le volte, per abitudine. Abitiamo tutti assieme in due appartamenti comunicanti, noi, i figli, la nuora e le nipotine. Quando siamo rientrati, lui non era arrivato.”
“A che ora?”
“Erano le 20 e qualcosa, diciamo le 20 e 10. Era inusuale che non ci fosse ancora, ma non stranissimo, era già successo due volte in passato, in entrambe aveva incontrato un caro amico che abita in via del Carmine, il generale dei Carabinieri Amedeo Ronzi di Valfenera, ed erano andati a sedersi a un tavolino d’un caffè, non so quale, per prendersi un aperitivo assieme e fare due chiacchiere: nessuna delle due volte aveva pensato di telefonarci dal caffè, lui è fatto così, brigadiere. Abbiamo lasciato passare un’oretta. Ormai, eravamo molto preoccupati, è ovvio. Così abbiamo pensato di comunicarvi senz’altro la sparizione, ma prima abbiamo ancor voluto telefonare ai nostro commessi per sapere se avessero notato, uscendo con lui, in che direzione Aristide avesse preso a camminare, nel caso stavolta avesse cambiato percorso: poteva esser utile alle vostre ricerche.”
“Avete fatto bene, Dunque?”
“Due di loro non erano in casa….”
“…quanti sono i commessi?”
“Quattro.”
“Continui, signora.”
“Il telefono del primo ha squillato…”
“…nome e indirizzo?”
“Mario, Mario Rollini, abita in corso Francia, vive solo, almeno secondo il foglio di famiglia che i dipendenti ci rilasciano per gli eventuali assegni familiari. Non so a che numero abiti, in ditta l’abbiamo, ma a memoria non ricordo, so che è quasi in piazza Bernini.”
“Va bene, non importa, lo troviamo noi. Quindi?”
“Dicevo che il suo telefono ha squillato a vuoto.”
“Gli altri?”
“Ho chiamato per secondo Cesare, Cesare Chiodi di preciso. Abita in via Don Bosco con la moglie. C’era, ma mi ha detto di non aver fatto caso a quale direzione avesse preso mio marito. Il terzo commesso, Amilcare Nobis, invece lo sapeva, l’aveva visto dirigersi proprio verso corso Valdocco e io avevo capito che aveva preso la solita strada. Nemmeno Umberto c’era, intendo Umberto Ronzi di Valfenera che è figlio del generale amico di mio marito: Marta, la sua mamma, era a casa da sola e m’ha riferito che il marito sarebbe rientrato tardi, perché aveva dovuto trattenersi al suo comando di brigata e, quanto al figlio, l’aveva chiamata da un bar informandola che non sarebbe rincasato subito.”
“Motivo?”
“Perché avrebbe mangiato in pizzeria con un compagno dell’ultimo anno delle superiori incontrato per strada, uno ch’era stato suo amico e s’era trasferito a Milano dopo il diploma: era solo di passaggio a Torino e avevano deciso, sul momento, di fare una breve rimpatriata mangiandosi assieme la pizza.”
“Quel vostro Umberto ha un diploma di maturità, a quanto ho capito.”
“Sì, è ragioniere, l’assumemmo tre anni fa per un favore al padre.”
“Come contabile?”
“No, come commesso. La contabilità la tiene mio figlio” – aveva indicato Clemente –: “Umberto ha il diploma ma preso col minimo dei voti a ventidue anni, dopo diverse bocciature, per cui non solo non aveva poi superato l’esame per l’ammissione all’Accademia Allievi Ufficiali di Modena, come suo padre avrebbe voluto, ma non gli era riuscito nemmeno di trovare un qualsiasi impiego ad altezza diploma. Bisogna però dire che come venditore è bravo, ha una buona parlantina.”
“Chi sa che delusione, per il padre, non vederlo indossare la divisa come lui.”
“Senza dubbio, brigadiere, conosco bene il generale, mio marito e io cooperammo con lui nella lotta di Liberazione.”
“Lei era partigiana, signora?”
“Sì. Il generale aveva chiesto a mio marito se avesse un posto da commesso per il figlio, e allo stupore d’Aristide che lo sapeva ragioniere, gli aveva rivelato come stavano purtroppo le cose: Umberto, fallito il concorso d’ammissione all’Accademia, aveva dato quello interno d’una banca, un istituto di diritto pubblico, per cui per entrare si deve superare un concorso, ed era stato bocciato. Così pure alle Poste. Alla FIAT, poi, non era stata presa nemmeno in considerazione la sua domanda scritta d’assunzione, nemmeno gli avevano risposto. Così…”
“…così il generale aveva pensato a voi. L’indirizzo preciso di quella famiglia?”
“Vivono in via del Carmine, in un bel palazzo quasi di fronte alla chiesa, l’appartamento è di loro proprietà, molto grande, coi soffitti alti quattro metri, al piano nobile, io non ci sono mai stata ma lo so da mio marito ch’è invitato sovente a cena dal generale e dalla moglie. Comunque, in ditta abbiamo il numero della via: il nostro Umberto abita coi genitori.”
“Lo troviamo noi. No, piuttosto, hanno ancora qualche notizia utile al ritrovamento?”
“No”, avevano risposto all’unisono i tre.
“Mi dicano però in che stato d’animo fosse lo scomparso oggi e negli ultimi giorni.”
Aveva parlato la signora Iride: “Diciamo… che non era molto in forma.”
“Più precisamente?”
“Era agitato e si sentiva debole: siamo inquieti.”
“Cause dell’agitazione e dell’astenia potrebbero essere preoccupazioni sul lavoro?”
“Oh, no, il lavoro va benissimo.”
“Pure in casa tutto bene?” aveva ancora chiesto: “Scusi la domanda, è necessaria: litigi?”
“No, no, ci mancherebbe altro” Va tutto bene.”
“Quindi non hanno idea dei motivi dell’inquietudine del loro congiunto?”
Assieme: “No”. “No. “No”.

Anche le sparizioni erano di competenza della nostra Sezione omicidi e reati contro la persona, potendo implicare fatti di sangue, perciò il giorno seguente, prima di smontare, il brigadiere Pitrini aveva portato, secondo la prassi, nell’ufficio del commissario capo D’Aiazzo e mio l’esposto dei Trastulli, insieme a un paio d’altre denunce della notte, perché all’arrivo il superiore li smistasse a commissari suoi dipendenti.
Io ero già in ufficio e il collega, lasciata sulla scrivania di Vittorio la sua pila di cartelle e indicatami con l’indice destro quella in cima, m’aveva detto: “Questi qua stanotte hanno denunciato la scomparsa del marito e padre, però non mi sembravano granché tesi. La moglie ha affermato ch’erano inquieti, e può anche darsi, ma a me non è parso che lo fossero granché. Non so, forse è stata solo una mia impressione falsa, in effetti c’è gente che sa trattenersi esternamente, mentre dentro soffre moltissimo. Però penso sia bene dirlo al capo. Io sto smontando, glielo riferisci tu?”
“Sì.”
Aveva ancor voglia di parlare: “Sarò forse maligno, ma mi sa che quelli sono interessati ai loro affari d’oro più che alla scomparsa del famigliare.”
“Te l’hanno detto loro che fanno affari d’oro?”
“Più o meno, con altre parole.”
Quando il collega era uscito, avevo aperto la pratica distrattamente. M’era saltato agli occhi che la famiglia abitava all’indirizzo del mio amico e che si chiamava Trastulli, e m’era dunque tornato alla mente quel Natale del 1961 in cui l’avevamo incontrata al ristorante.
FOTOGRAFIA FUORI TESTO

Vecchio centralino e sala operativa della Questura anni ‘50-60 del XX secolo, Archivio fotografico della Polizia di Stato



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