Читать онлайн книгу «Scherzi Dei Vicini» автора Marco Fogliani

Scherzi Dei Vicini
Marco Fogliani
Alle volte si è tentati di pensare che le emozioni, i sentimenti e la poesia, per sbocciare, abbiano bisogno di un ambiente opportuno, di un terreno fertile, fatto di natura e bei paesaggi. Ed invece essi, come i fiori più belli tra le rocce più impervie, possono sbocciare inaspettatamente anche tra i condomini ed i palazzoni delle nostre grandi e brutte città.   Di seguito l'elenco dei racconti inclusi nella raccolta: ASPETTANDO PAPA' IL CORAGGIO DELL'AMORE IL GRANDE PARRUCCHIERE IL PICCOLO SUPEREROE IL TAPPETINO CHE SAPEVA VOLARE LA CASCINA IN MONTAGNA LUCIANO E IL BLACK-OUT MILLE ED ALTRI CENTO TEMPI CHE CAMBIANO UNA DONNA FORTUNATA UNA NOTTE DA INSONNI Si avverte che, dato il carattere tematico della raccolta, alcuni di questi racconti potrebbero essere presenti anche in altre raccolte tematiche dello stesso autore.


Marco Fogliani
Aggiornamento al: 03/01/2021
Copyright © 2021 - Marco Fogliani

MILLE ED ALTRI CENTO
Ero in vacanza quando il mio padrone di casa mi telefonò per avvertirmi che aveva affittato l’appartamentino al pian terreno sotto al mio, e che la nuova inquilina vi era già venuta ad abitarci.
“Ci tenevo ad avvisarla perché non si debba spaventare o preoccupare, quando si accorgerà che c’è dentro qualcuno. Ma del resto vedrà che non le darà nessun fastidio. Le garantisco che è una persona assolutamente tranquilla, la conosco personalmente … come del resto ho garantito alla signora che lei sarà un ottimo vicino. Conoscendola, sono sicuro che non si tirerà indietro se per caso la nuova arrivata avrà bisogno di una mano per qualunque motivo.”
Lo ringraziai sia per la fiducia accordatami, che per avermi avvisato. In effetti ero in ottimi rapporti col mio padrone di casa, che evidentemente aveva ormai imparato a conoscermi e ad apprezzarmi non solo per la puntualità nei pagamenti e per la cura con cui tenevo l’appartamento.
Quando il sabato tornai a casa, pensai di passare a presentarmi alla nuova vicina. Era un caldo pomeriggio di fine luglio, le sette passate, il sole ancora lontano dal tramonto. Poggiato su da me il mio bagaglio, ridiscesi e suonai il campanello al pian terreno, il cui suono inconsueto non avevo ancora mai avuto modo di conoscere.
Attesi un poco prima che la porta si aprisse. Mi apparve, con in braccio un simpatico cagnolino bianco e nero, una signora credo appena poco più giovane di me - direi più sui cinquant’anni che sui quaranta.
“Salve. Cercava me?”, mi chiese sorridendo. “Con chi ho il piacere di avere a che fare?”, continuò sempre con molta pacatezza.
“Volevo presentarmi: sono il suo vicino, quello che abita sopra di lei”.
La signora, muovendosi con una certa lentezza, rimise giù il cane, che appena poté liberarsi si precipitò dentro casa. “L’ho presa in braccio perché si spaventa sempre, se c’è una persona che non conosce. Strano cane. Invece di abbaiare agli sconosciuti, come fanno tutti, scappa e se la fa sotto, poverina.”
Poi mi guardò di nuovo e fece una lunga pausa, come se stesse pensando a qualcos’altro. Ne approfittai per ammirarla di nuovo. Era davvero bella, con due occhioni grandi e buoni ed un’espressione sempre sorridente, anche se in quel suo sorriso sembrava confondersi un briciolo di tristezza.
“Stavo pensando”, mi disse, “ma perché non entra e mi fa un po’ di compagnia? Magari potrei offrirle … vediamo, forse un po’ di thè?”
“Beh, … volentieri! Più per la compagnia che per il thè, naturalmente.”
“Allora si accomodi qui in soggiorno. Faccio subito.”
Lei, sempre con molta calma, si diresse in cucina da dove si sentiva anche la presenza del suo cane. Si distrasse subito a parlare affettuosamente con lui (o forse dovrei dire lei, da quel che avevo capito), fatto sta che di certo subito non fece. Attesi a lungo, cercando di interpretare di volta in volta i diversi suoni che provenivano dall’altra stanza: tazzine, teiera, cucchiaini, fornello … Sentendo il rumore del fornello la raggiunsi, un po’ preoccupato. Era evidente che aveva grosse difficoltà nell’accensione.
“Lasci, lasci stare. Credo che con questo caldo non sia il caso di mettere qualcosa sul fuoco. Io ho un’idea migliore: se mi aspetta un minuto vado su e prendo dal frigo delle bibite fresche. Dovrei avere anche del thè freddo, mi pare. Che ne dice?”
“D’accordo. Però … che ne dice se ci dessimo del tu?”
“Va bene. E poi magari ti faccio anche vedere come si apre il gas e come si accendono i fornelli, che mi sembrano uguali ai miei.”
Feci un salto di sopra, e pochi istanti dopo ne tornai con una discreta varietà di bevande. Lei, con molta calma, stava portando un vassoio con due bicchieri ed un pacco di biscotti.
“Sei stato velocissimo, A.? … Ho letto l’iniziale sul citofono al cancello. Andrea? Aurelio? Aristide?”
“Amilcare”, la interruppi io.
“Ah, non l’avrei mai indovinato. Io invece sono Chiara. Ma puoi chiamarmi come vuoi, anche in un altro modo, se preferisci.”

“Ti dico subito che non verrò mai e poi mai a disturbarti a casa tua”, mi disse. La sua voce, mi era ormai chiaro, risuonava sempre dolce e gioiosa come quella di un uccellino all’arrivo della primavera. “Perché ho dei seri problemi a fare le scale. In pratica non le posso più fare. Alle volte la vita è davvero beffarda: pensa che invece per i primi trent’anni della mia vita dormivo al piano di sopra, e tutti i giorni chissà quante volte su e giù per le scale.”
“E’ un vero peccato che tu non possa ricambiare la mia visita e disturbarmi ogni tanto a casa mia: per me sarebbe stato un vero piacere. Ma questo non è un problema. Troveremo il modo per comunicare. Intanto ci lasciamo il numero di telefono, ma quando vuoi che io scenda basta che mi chiami, ed io sarò subito giù. Anche dal citofono del cancello, se ti è più comodo.”
Pronunciai queste parole con la massima sincerità, perché mi stavo rendendo conto che la sua presenza esercitava su di me un influsso benefico. I suoi occhi, il suo sorriso, la sua voce, il suo modo di fare tranquillo e sereno mi attiravano a lei come una calamita, ed io mi lasciavo trasportare da questa forza senza opporre la minima resistenza, come un fuscello nel fiume trasportato dalla corrente.
“Quando venni a stare qui”, dissi io giusto per dire qualcosa, “potevo scegliere tra l’appartamentino di sotto e quello di sopra. Erano liberi tutti e due. Scelsi quello di sopra non solo perché costava un po’ meno, ma perché veramente le scale non mi pesano affatto. Anzi, le faccio volentieri, mi aiutano a tenermi in forma. E per fortuna che ho scelto così, altrimenti, forse, non ti avrei mai conosciuta.”
“Già”, fece lei. “E per fortuna, anche, che il padrone di casa mi ha concesso di portare con me Ketty, benché all’inizio avesse detto che non accettava animali.”
“Sei qui da sola con Ketty? … che sarebbe il tuo cane, immagino”, chiesi così, giusto per alimentare la conversazione.
“Sì, io e Ketty, femmina anche lei. Anche se in effetti a molti sembra un nome da … gatto inglese. Ma aspetta che te la presento. Voi due dovete fare amicizia: non può continuare a trattarti come uno sconosciuto.”
Si alzò e, con la sua solita flemma, andò in cucina, la prese in braccio e la portò di fronte a me. La bestiola sembrava ancora impaurita. Io azzardai ad accarezzarla, ed alla fine parve calmarsi. Quando poi la sua padrona la lasciò andare, lei scappò sì, ma non in cucina; rimase in un angolo della stanza, da cui continuò per tutto il tempo a guardarmi ed a studiarmi con curiosità.
“Quando ho scelto il primo piano”, ripresi io, “ho chiesto al padrone di casa se potevo comunque usufruire del giardinetto all’ingresso. Mi ha detto di sì, almeno finché il pian terreno fosse disabitato, purché non lo danneggiassi. Ma io gli ho detto che non solo non lo avrei danneggiato, ma che me ne sarei preso cura. Occuparmi del giardino mi piace e mi rilassa, l’ho sempre fatto sin da bambino. Ci ha guadagnato anche lui, risparmiando sul giardiniere. Ecco … volevo dirti che, se non ti dispiace, vorrei continuare ad occuparmene, e quindi se starai in giardino potresti avermi tra i piedi di tanto in tanto, con forbici e zappetta.”
“Oh, sì. Mi piace tanto il giardino, i fiori, le piante. Di certo ci starò spesso. Anche perché non si può stare tutto il giorno davanti al televisore. E mi farà grande piacere vedere che te ne prendi cura. Se posso cercherò di darti una mano. Però ti devo avvisare che, oltre a me e a Ketty, ti troverai tra i piedi spesso anche qualche altra persona. Mia sorella Ginevra, col marito e i ragazzi, che verranno spesso a trovarmi; e un’altra signora che ho conosciuto da poco - mi pare che si chiami Giordana - che viene a darmi una mano quasi tutti i giorni. Perché … ma forse certe cose non te le dovrei dire, altrimenti poi scappi e non vieni più a trovarmi.”
“Ma che dici!”, le risposi. “Io ti trovo adorabile, e bellissima. Ho tutt’altre intenzioni che scappare. Anzi. Mi piacerebbe che tra noi nascesse un’amicizia speciale, molto di più che semplici rapporti di buon vicinato; e che tra noi non ci fossero segreti. Certo, non ti posso obbligare, se non te la senti. Però …”
“Va bene. Ti dirò tutto. Massima sincerità. Anche perché io proprio le bugie non le so dire. Le mie bugie si riconoscono a chilometri di distanza. Però non voglio dirti tutto adesso. Magari proseguiamo domani a parlare di me, che ne dici?”
“Va bene. Ma non vuoi nemmeno dirmi come mai ti sei trasferita qui, se non è troppo indiscreto chiedertelo da parte mia?”, azzardai ancora a chiederle.
“E’ perché purtroppo la mia mamma da qualche giorno è venuta a mancare.”
“Oh, mi dispiace davvero”, le dissi.
“Prima vivevo con lei, e lei si occupava di me. Dicevano che non potevo stare da sola, che avevo bisogno di un aiuto continuo. Adesso qui sto a due passi da mia sorella; ma lei dice che comunque dovrei e potrei essere più autonoma. Perché, non so se te ne sei accorto … ma adesso basta, non avevo detto che te ne avrei parlato domani?”
“Va bene, hai ragione”, le risposi.
Per me non era un problema. Continuavo a contemplare il suo volto sereno, che forse adesso lo era un po’ meno di prima – ma sempre bellissimo, con quei due occhi che sembravano gioielli purissimi. La sua bellezza, la sua sola presenza mi saziavano, mi riempivano l’anima, e non pensavo più a niente.
“E allora di che parliamo?”, mi chiese lei con naturalezza.
“Non so. Per me anche di niente, se vuoi. O di me, se preferisci. O … di quello che ti pare. Giardinaggio, cani, altre passioni … Io sto benissimo qui con te, e in questo momento non ho proprio niente altro da dover fare, o nessuno che mi aspetti.”
“E va bene. Allora parlami un po’ di te. Chissà quante ne hai passate nella tua vita, e quante cose hai da raccontarmi.”
Io cominciai ad aprirle il mio cuore, i miei ricordi, a spalancare di fronte a lei la mia vita ed il mio passato, con la massima sincerità. Nulla di notevole, vi posso assicurare: lo dico per voi lettori, che magari vi starete chiedendo che razza di vita emozionante ed avventurosa possa aver mai vissuto un maresciallo dell’aviazione che trascorre la maggior parte del suo tempo in un ufficio. No, davvero niente di speciale, se non che diventava speciale nel momento in cui lo raccontavo a Chiara, e proprio perché cominciavo a condividerla con lei.
A un tratto, così per caso, mi cadde l’occhio sull’orologio.
“Oh, ma che stupido”, dissi. “Non mi ero accorto che è ora di cena. Tu avrai fame e vorrai mangiare, suppongo.”
“Ah, se è per questo io ho già mangiato. Prima che arrivassi tu. Sì, lo so: un po’ presto, come le galline. Ho mangiato quello che mi ha preparato mia sorella, che è molto brava a cucinare. Me lo ha portato nel pomeriggio, e non sono riuscita ad aspettare. Era tutto buonissimo, tranne le patate coi broccoli, perché a me i broccoli non piacciono. Forse se l’era dimenticato. Ma sicuramente sono buonissimi anche loro. Io non li ho toccati: vuoi mangiarli tu, senza che ti debba mettere a preparare la cena? Sarei contento se li mangiassi, così lei non ci rimarrebbe male che li ho avanzati.”
“Volentieri”, le dissi. In realtà mi ero molto pentito di aver rischiato di provocare la fine della mia visita; e avrei accettato di buon grado qualunque pretesto fosse servito a prolungare la mia permanenza insieme a lei.
Mi portò la sua cena avanzata e un po’ di frutta, e rimase lì a tenermi compagnia, guardandomi ed ogni tanto parlandomi della sua mamma, o della sorella o di qualcun altro che conosceva.
Alla fine della cena persino Ketty abbandonò il suo angolino per venirmi ad annusare con una certa curiosità.
“Grazie”, le dissi dopo aver finito di mangiare. Istintivamente le presi la mano, in segno di gratitudine non tanto per la cena, quanto per essere venuta a stare vicino a me, per essere entrata nella mia vita. Lei accettò la mia mano, e mi strinse anche l’altra. “Sono io che devo ringraziare te”. Adesso mi fissava sempre con dolcezza, ma stavolta mi pareva che anche i suoi occhi fossero attratti dai miei quanto i miei dai suoi. Ci fissavamo negli occhi, attratti da una forza meravigliosa ed invincibile, e poco alla volta ci avvicinammo sempre più l’uno all’altra, fino quasi a sfiorarci. Provavo il desiderio irresistibile ma del tutto naturale di baciarla, e forse anche lei provava lo stesso; e tuttavia non potei evitare di rovinare quella splendida atmosfera, domandandole:
“Ti posso baciare?”
“Naturalmente! Anzi, mi devi baciare. Cos’altro vorresti fare a questo punto, bel giovanotto?”
“Grazie per il giovanotto. Ma … non credi che forse stiamo andando un po’ troppo in fretta? Ci siamo appena conosciuti”, proseguii io nella mia testarda stupidità.
“Ma no! E’ tutta la vita che ti stavo aspettando. E adesso piantala di parlare”. E mi chiuse la bocca con la sua.
Fu un bacio lungo e bellissimo, caldo e appassionato, a cui ne seguirono, come diceva un poeta latino, altri mille ed altri cento altrettanto belli. Ricordo solo, oltre ai guaiti di Ketty in sottofondo, di averle detto, in un breve momento di pausa:
“Sai, in realtà anch’io era da una vita che stavo aspettando te.”
Le prime luci del giorno ci sorpresero abbracciati nel suo letto. Quella notte tra di noi non ci furono solo baci, coccole e carezze, ma anche tante parole affettuose.
“Stavo pensando che i tuoi occhi ed il tuo sorriso sono talmente belli”, le dissi tra l’altro, “che è un vero peccato che in questo momento li possa vedere solo io. Certo mi sento un privilegiato, ma mi pare un crimine contro l’umanità tenere la tua bellezza nascosta, segregata in una casa.”
“Se pensi di essere il primo a farmi un complimento del genere, ti sbagli”, fu la sua risposta soddisfatta.
“La cosa non mi stupisce affatto”, le risposi.
“Quando ero ragazza, uno che lavorava nel teatro mi disse che avevo un volto interessante, e che secondo lui avrei dovuto fare cinema o televisione. Anche se i miei familiari erano convinti che il suo principale e unico obiettivo fosse quello di portarmi a letto.”
“Insomma, il suo era un parere interessato”, le obiettai. “Ma quello che ti sto dando io no, è un parere del tutto disinteressato, perché a letto con me ci sei già stata.”
Lei sorrise con me a questa battuta. Ma in effetti era stranamente vero. Ci eravamo conosciuti da poche ore, e già eravamo andati a letto insieme. Se me lo avessero detto il giorno prima, non ci avrei creduto: perché non era davvero una cosa da me, non ero il tipo che avrebbe potuto mai comportarsi in questo modo, le dissi.
“Anch’io non ti avrei pensato così farfallone e poco serio. Ma come vedi è successo, e quindi vuol dire che farfallone lo sei”, disse ridendo scherzosamente. “Ma se ti può consolare, sappi che tu per me sei stato il primo uomo della mia vita, in assoluto - almeno in quel senso, intendo.”
“Davvero? Beh, in qualche modo lo avevo sospettato, ma non ho voluto dirtelo per paura che ti offendessi. E comunque è stato bellissimo. Eri così spontanea e naturale, anche nel tuo essere un po’ impacciata. Mi è sembrato che fossimo due ragazzini.”
“Non c’è niente di cui mi possa offendere o mi debba vergognare”, obiettò Chiara. “E’ semplicemente la verità. Certe cose vanno fatte solo con l’uomo giusto, mi diceva la mia mamma, ed io ho sentito che quello giusto eri tu.”
“E da cosa lo hai capito? Non è che lo hai fatto solo perché adesso non c’è più la tua mamma a controllarti?
“Ma no, dai! Povera mamma. E’ che … Ma non avevamo detto che te ne parlavo domani?”
“Sì, mia cara. Ma adesso è domani, se non te ne fossi accorta. Non vedi che il sole è già sorto?”
Lei fece una pausa, mostrandomi uno dei suoi dolcissimi sorrisi.
“Hai ragione. Vedi, il fatto è che - non so se te ne sei accorto - io non sto bene di salute. E’ da tanti anni che ho questa malattia … “
“Non mi starai dicendo che hai l’ AIDS, spero?”
“Ma no, dai, figurati. Con te che sei il primo uomo con cui abbia avuto veramente a che fare, medici e infermieri a parte.”
Tirai un sospiro di sollievo. Ma obiettai:
“Beh, se ci pensi bene medici ed infermieri sono un bel numero, se è per questo. Comunque, se devo dirti la verità, ho la netta sensazione che tu abbia voluto incastrarmi, e che ci sia riuscita perfettamente.”
“Ed io ho la netta sensazione che non ti sia dispiaciuto affatto di essere stato incastrato da me; anzi, che ti sia piaciuto molto. Mi sbaglio?”, cinguettò.
Feci cenno di sì col capo.
“Su questo hai perfettamente ragione. Però”, aggiunsi dopo una pausa, “non mi hai ancora spiegato perché hai scelto di incastrare proprio me.”
“Te lo stavo dicendo. Ti stavo dicendo della mia malattia, che non è l’AIDS e che non è contagiosa. Ti stavo per dire che per via di questa malattia non dovrei rischiare neanche per sbaglio di avere figli.”
“Mi stai dicendo che siccome non rischi di concepire un figlio ti puoi dare da fare come e quando ti pare con chiunque? Beh, visto che mi hai definito un farfallone, permettimi di farti di osservare che il tuo è un atteggiamento diciamo, a dir poco … libertino!”
“No, no. Non ci siamo capiti. Sto cercando di dirti tutto il contrario. Mi hanno detto che, nel caso in cui rimanessi incinta, la mia salute e la mia vita sarebbero in gravissimo pericolo. Per questo motivo non dovrei rischiare in nessun modo di avere una gravidanza.”
“Stai scherzando, spero! E me lo dici così, dopo quello che abbiamo fatto insieme stanotte? Mi fai sentire come se fossi un potenziale assassino, che per di più sta chiacchierando tranquillamente con la sua vittima.”
“E’ per questo che non te l’ho detto ieri: perché altrimenti non l’avresti fatto.”
“Sicuro che no. Ma a questo punto mi chiedo perché tu abbia voluto farlo.”
“Non saprei esattamente. L’ho sempre evitato, pensando che la mia vita e la mia salute fossero il bene più importante da difendere e da salvaguardare. Ma da quando è morta la mamma mi sono chiesta: non avrò sempre sbagliato tutto? Noi, le sue figlie, eravamo tutto per lei, il bene più importante in assoluto. Mi è stata vicina per tutta la vita, si può dire dalla mia nascita alla sua morte. E così dovrebbe essere sempre. Che cos’è la vita di una donna se non ha dei figli? Non deve essa vivere per loro ed in funzione loro, e magari dare la propria vita per loro? E non valgono essi più della sua stessa vita? Di che vita, poi. Una vita come la mia, che non serve a nulla e a nessuno, e che non riesce a tirare avanti da sola. Almeno se mettessi al mondo un bimbo la mia vita avrebbe un senso, un significato. Sarebbe valsa a qualcosa.”
Dicendo queste parole scoppiò in lacrime. Io l’abbracciai, stringendola forte a me, tentando di consolarla.
“No, dai. Non devi pensare queste cose. Pensa che adesso ci sono anch’io, e che la tua vita per me è importantissima, così come vorrei che lo fosse la mia per te. Devi vivere per me, se pure non vuoi farlo per nessun altro, perché adesso che ti ho conosciuto io ho bisogno di te, e sento che di te non potrei più fare senza.”
Non so dirvi quanto continuò a piangere la mia povera Chiara. Credo almeno un quarto d’ora. Smise solo quando udimmo suonare il citofono, accompagnato dagli schiamazzi e dal vociare di alcuni bambini.
“E’ mia sorella. Non ti avevo detto che sarebbe venuta stamattina e saremmo andati insieme in chiesa?”
No, non me lo aveva detto.
Mentre ci ricomponevamo e ci asciugavamo le lacrime, l’avanguardia di tre maschietti di diverse dimensioni fece irruzione correndo per la casa, attratta irresistibilmente da una Ketty scatenata ma meno impaurita di quanto sarei stato io al suo posto.
Pensai che fosse una fortuna che io e Chiara ci fossimo già rivestiti, altrimenti chissà cosa avrebbe pensato sua sorella. Ma lei aveva capito tutto ugualmente.
“Chiara! Non ti si può lasciare sola una notte, che tu inizi ad amoreggiare col tuo nuovo vicino di casa. Avete passato la notte insieme, vero?”
Chiara non tentò neanche di dire una bugia: “Sì”.
“Ma non gli hai detto dei pericoli che correresti se rimanessi incinta?”
“Sì, me lo ha detto … ma dopo”, dissi io adottando la stessa condotta super-sincera della mia amata. Nel frattempo presi Chiara per mano, per farle sentire la mia vicinanza, e per farle capire che io sarei rimasto comunque e sempre dalla sua parte.
“Beh, spero che la cosa non si ripeterà più. Me lo promette, signor?”
“Amilcare. Sì, glielo prometto. Non accadrà più.”
Ma stavolta mentii spudoratamente: sapevo infatti, come poi accadde, che sarebbe successo ancora tante e tante altre volte, quasi tutte le notti possibili, anche se con tutte le dovute precauzioni.
“Però devo dire che sembrate una bella coppietta, insieme”, concluse poi la sorella di Chiara. “E adesso sbrighiamoci, che tra venti minuti inizia la messa. Tu Chiara sei pronta?”
“Sì”, rispose lei.
“Ti posso accompagnare?”, le chiesi io, sempre tenendole la mano.
“Naturalmente. Non puoi , ma devi . E guai a te se non lo fai”, mi intimò la mia ragazza, sempre nel suo simpatico tono scherzoso.
Purtroppo nella vita spesso le cose belle sono destinate a durare poco. E così anche la nostra bellissima storia d’amore si interruppe presto, dopo neanche sei mesi.
Per lavoro andavo spesso in trasferta, tornando solo nel fine settimana; ma quando ero a casa io e lei stavamo sempre insieme, fossimo da soli col cane, o ci fosse anche la Giordana, o sua sorella Ginevra con la sua famiglia, o chiunque altro. Volevamo goderci il più possibile la nostra reciproca compagnia, forse timorosi che per qualche motivo quel sogno - la nostra bella fiaba - potesse svanire da un momento all’altro.
Ed infatti dopo due mesi fui comandato in trasferta all’estero, in missione vicino ad una nazione un po’ troppo bellicosa. Purtroppo non riuscii ad evitarlo. Sarebbe durata sei mesi; ma sarebbe stata anche la mia ultima trasferta lunga; dopo di che, avevamo già deciso, ci saremmo sposati, anche per fare in modo che io potessi restarle più vicino e a pieno titolo, come viene abitualmente concesso ad un marito per la moglie.
Ed invece lei non riuscì ad aspettare il mio ritorno. Se ne andò quasi all’improvviso, mi dissero, ed io non ebbi modo neanche di accompagnarla al cimitero.
Quando rividi sua sorella, con cui ormai ero entrato in buoni rapporti, dopo esserci abbracciati e scambiati le condoglianze mi disse, con lo stesso tono scherzoso che usava spesso Chiara e che era evidentemente una caratteristica di famiglia:
“Ti è andata bene: dalle ultime analisi che aveva fatto sembra che non fosse incinta. Altrimenti avresti fatto meglio a salire sul tuo aereo e a non farti più vedere da queste parti. Però secondo me” aggiunse, “lei è morta comunque per causa tua: per il troppo amore. Troppo amore, tutto insieme, tra voi due. E non ce l’ha fatta.”
Sembrava che scherzasse, ma forse diceva sul serio. E mi abbracciò di nuovo con affetto.

IL TAPPETINO CHE SAPEVA VOLARE
Eh, non son più i bei tempi di una volta! Nessuno purtroppo crede più alle favole, salvo forse i bambini più piccini. Né, vorrei aggiungere, la gente sa dare il giusto valore alle cose o sa riconoscere ciò che davvero merita rispetto.
Non dico di quando ero giovane io: a quei tempi vedevo, più volte al giorno, qualcuno inginocchiarsi con devozione ed animo pio; ed ogni volta mi sentivo sfiorare con le guance quasi per un bacio affettuoso e di rispetto. Allora sì, si sapevano distinguere la seta dalla lana e dal cotone, ed io nella mia casa ero doppiamente considerato il bene più prezioso, sia per la mia raffinatezza che per il mio sacro incarico. E naturalmente nessuno osava portare scarpe in mia presenza.
Ma senza andare così indietro, mi basta ripensare a nonna Ida per provare nostalgia e malinconia per i tempi andati. Ricordo con quale delicatezza mi strofinava e mi lavava tutte le settimane, sebbene non fosse poi così necessario visto che non riceveva mai nessuno. Una delicatezza dovuta non solo alle sue poche energie, ma al timore di rovinarmi. E comunque per lei era un rito altrettanto sacro, e forse anche più impegnativo, della preghiera di un maomettano. Ricordo con quanta cura mi rimettesse al posto che mi aveva prefissato ogni volta che, dopo una scappatella, non riprendevo l’esatta posizione.
Il mio maggior cruccio è che da tanto tempo ormai, in presenza di adulti, mi sento costretto a restare immobile come un volgare scendiletto. L’ultimo svolazzamento di un certo rilievo lo feci quando la signora Maria, la nipote di nonna Ida, mi scaricò vicino al bidone della spazzatura. Che affronto! Un vero tappetino persiano antico di seta! Solo perché si erano appena insediati come sposini in quella casa si arrogavano il diritto di decidere della mia sorte, senza rispettare le vecchie sane abitudini della nonna. Gli ho evitato una grossolana sciocchezza. Attraverso una finestra sono tornato di nascosto al mio posto, nel bagnetto di servizio: lei ha pensato che fosse la volontà del marito e mi ha lasciato lì. Ma da allora non mi ha più lavato. Non solo, ma mi ha trattato peggio del peggiore straccio della casa: ho conosciuto ombrelli bagnati, scarpe infangate, e altre simili sconcezze. Forse era meglio la spazzatura.
Certo ho avuto tanto tempo per scorrazzare liberamente per casa in loro assenza. Ma ho sempre evitato di farmi vedere, e appena sentivo la chiave nella toppa mi precipitavo al mio posto e vi rimanevo immobile come se nulla fosse successo. Quella proprio non era vita.
Un giorno ho voluto provare la loro reazione nel vedermi muovere. Mi venne l’idea quando trovai da qualche parte della casa il cadavere di uno scarafaggio. Me lo nascosi sotto e alla sera, mentre stavano mangiando, mi trascinai lentamente verso la cucina. Che scena! Ricordo le urla spaventate di lei, ma ricordo anche i colpi di bastone e di piedi che ricevetti dal marito, il quale alla fine si dette anche delle arie per quel cadavere di cui non aveva alcun merito. Io ci presi delle gran botte, ma per fortuna sono di ottima fattura e non ne ebbi alcun danno.
In seguito acquistai di dignità e prestigio grazie a ciò che loro avevano di più caro e più bello: parlo del loro figlioletto Giorgio. Non quando era molto piccolo, perché lo tenevano nei suoi spazi ristretti sotto continua sorveglianza. Ma quando cominciò a camminare e ad avere più libertà, elaborai il mio piano di rivalsa.
Appena non c’erano adulti in vista, mi trascinavo fino a lui. Era un gran simpaticone, mi guardava scodinzolare senza avere reazioni isteriche ed anzi con interesse, ogni volta toccandomi e prendendomi tra le dita come se non mi avesse mai visto prima. Potrei dire che giocavamo insieme. Quando tornava un adulto, lo rimproveravano di giocare con una cosa così sporca. Ma io insistevo. Tornavo da lui appena potevo, ed a volte era lui stesso a venire da me. Sapevo il rischio che correvo, di essere eliminato per motivi igienici; ma sapevo anche che si trattava di una famiglia che, seppur arida di fantasia e di buon gusto, non difettava di buon senso. Ed infatti alla fine decisero che avevo bisogno di una bella lavata.
Inizialmente ne fui molto contento, anche perché ciò significava essere accettato ufficialmente come compagno di giochi di Giorgio. Lo fui un po’ meno dopo aver provato un lavaggio con centrifuga in una di queste infernali macchine lavatrici moderne, con un detersivo tale che temetti per i miei colori. Non lo auguro a nessuno. Alla fine mi sentivo come se il mondo si fosse sdraiato sopra di me, e per giunta ero zuppo come una spugna ubriaca. Però devo dire che i miei colori erano tornati come non li ricordavo da tempo, forse addirittura come non erano mai stati. Chiunque mi avrebbe trovato bello.
Insieme ad un’altra montagna di biancheria e panni umidi fui ammassato in una cesta. Mi sentivo soffocare. Volevo scappare, a costo di buttare tutto sul pavimento, ma resistetti: sapevo infatti che di lì a poco si sarebbe svolto il rito settimanale della stenditura. Stavolta però, e questa era la novità, l’avrei vissuto in prima persona.
Poco dopo, infatti, la signora Maria salì in terrazza con la cesta. Dapprima mi sentii alleggerire di quel peso soffocante che mi sovrastava; poi venne il mio turno, mi distese per la mia lunghezza e mi sdraiò su un filo. Come se non bastasse questo fastidio, mi strinse una molletta a ciascuna estremità. Un martirio.
Un pallido sole ed un vento sostenuto guarnivano quel pomeriggio autunnale. Un’altra signora stava infliggendo lo stesso supplizio ad altri capi colorati. Le due donne dovevano conoscersi bene, a giudicare dal tono della conversazione.
“Appena se ne vanno”, pensai, “me la svigno anch’io.”
Nel frattempo il filo si abbassava sotto il peso di nuovi panni. Di uno molto pesante in particolare.
“Oh, ma questa è davvero bellissima! Da dove viene?”
“È di mia nonna”, rispose la signora Maria. “Guarda che bei ricami, fatti a mano. Oggigiorno non ne fanno più di coperte così belle. Me l’ha regalata per il nostro fidanzamento.”
“Tienila bene da conto, che chissà quanto vale.”
Più sentivo queste parole, più mi ingelosivo e mi agitavo. Neanche fosse stato il tesoro di Alì Babà. Continuavano a tessere le lodi di quella coperta che, per quanto fosse bella, non aveva neppure la metà dei miei anni e del mio valore.
“Lasciamela toccare. Oh, come è delicata e fine anche al tatto.”
“Le ho fatto fare un lavaggio a parte, con l’acqua tiepida e l’ammorbidente. Non volevo che si rovinasse. … ”
Non ne potevo più di sentire tutte quelle sciocchezze. Cominciai a dibattermi per liberarmi da quelle odiose mollette. Lo stendino con tutto quanto vi era appeso venne preso dalla mia stessa agitazione. Alcuni calzini volarono per terra. Il vento, che entra in tutte le cose e ne penetra e comprende gli umori, cominciò ad assecondare i miei fremiti con una serie di raffiche inaspettate. Mentre le due signore si davano un gran da fare per raccogliere ciò che cadeva e limitare o prevenire altri danni, io mi liberai della prima molletta e comincia a percuotere ripetutamente, con la mia coda libera, la vicina coperta della nonna. Con due o tre colpi ben assestati le feci spostare il baricentro finché non cominciò a scivolare, lentamente ma inesorabilmente, nonostante gli sforzi della signora Maria. Strettamente avvinghiate, e con mia grande soddisfazione, si accasciarono entrambe sul pavimento della terrazza, l’una non più immacolata, l’altra dolorante e consapevole di dover rifare qualche bucato.
Infine mi liberai dell’altra molletta, spiccai il volo e mi sollevai ad un’altezza da cui potevo avere una buona visione d’insieme dell’accaduto. Un bello spettacolo.
Dal basso gli sguardi delle due donne osservavano i miei movimenti con preoccupazione, più per la mia traiettoria che per la mia sorte. Mi scelsi la via di fuga più defilata, e planai lentamente nella direzione scelta. Ero tentato di fuggire altrove per sempre.


Qualcuno suonò al campanello dell’abitazione della signora Maria.
“Chi è?”
“Sono la signora del piano di sotto. Ho trovato un tappetino sul mio terrazzo. Pensavo che potesse essere suo.”
La signora Maria vinse la sua iniziale diffidenza ed aprì la porta.
“Si era impigliato tra le mie piante. Ho pensato che fosse caduto dal suo terrazzo. Sa, lo so come sono i bambini piccoli. Appena ti distrai un attimo … ”
La signora Maria era incredula. “Sì, è proprio il mio. Ma come ha fatto a finire da lei? Pensi che mi è caduto dalla terrazza condominiale!”
“Comunque complimenti. E’ davvero un bel tappetino. Sembra antico, probabilmente un persiano, ed ha un disegno bellissimo.”
“Ha ragione, sa. Fino all’altro giorno era talmente sporco che a malapena si distingueva qualcosa. Pensi che mia nonna lo teneva nel bagnetto di servizio.”
“Davvero?!”
“In effetti starebbe molto meglio in salone o nell’ingresso. Ma a proposito, perché non entra un attimo? Magari posso offrirle qualcosa?”
Le due donne passarono una buona mezz’ora a chiacchierare; non poco, se si pensa che si conoscevano a malapena di vista. E buona parte di questo tempo la trascorsero a studiare quale fosse la sistemazione migliore per un tappetino così prezioso. Sicuramente non il bagnetto, ma neanche la stanza del bambino - non si sa mai che cosa ci potrebbe fare. E poi è importante la luce, da che parte arriva, in modo che si possano apprezzare meglio le sue sfumature cangianti. E che non sia troppo vicino alla porta d’ingresso, che qualcuno non lo scambi per uno zerbino; anzi possibilmente non deve essere calpestato affatto, perché a lavarlo troppo spesso potrebbe rovinarsi.
La signora di sopra sembrava intendersene dell’argomento, e diede anche qualche consiglio sul modo migliore per lavarlo e pulirlo. Forse in cuor suo ella sperava che il tappetino non fosse caduto da uno dei terrazzi soprastanti, ma che fosse piovuto dal cielo, in modo da poterselo tenere. Invece si accontentò di una buona tazza di tè e di dimostrare a una sconosciuta la sua competenza sull’argomento e la sua onestà.
Avevo fatto una marachella e mi meritavo di essere punito. E poi mi ero preso un po’ di polvere: quindi era doppiamente giusto che fossi sculacciato ben bene col battipanni. Non era proprio il caso di rilavarmi dopo quello che aveva detto quella signora. (Una vera intenditrice: forse con lei mi sarei trovato meglio.)
Però avevo ricevuto un sacco di complimenti, e continuo tuttora a riceverne ogni volta che arriva un nuovo ospite.
L’unico dispiacere è che ho meno possibilità di giocare con Giorgio, per diversi motivi. Intanto perché raramente lo lasciano venire in salone; e poi perché spesso mi trovo addosso le zampe di un tavolino. Già, hanno preso questa provvedimento dopo che per un paio di volte mi hanno trovato nella sua stanza a giocare con lui. Ma per il resto, il nostro affiatamento e la voglia di giocare insieme non sono cambiati.
In quanto a quella coperta della nonna che dicevano fosse così bella, non ne ho più sentito parlare né ho avuto più modo di vederla o incontrarla; per quanto, ora che anche i miei meriti vengono riconosciuti, non avrei più alcun motivo di esserne geloso.

LUCIANO E IL BLACK-OUT
Era una di quelle calde sere d'estate in cui le città sono quasi deserte, e i pochi sfortunati rimasti non hanno niente di più impegnativo da fare se non oziare senza fretta o cercare un po' di fresco, compagnia e divertimento, possibilmente tutto insieme. E io li invidiavo molto.
Con la camicia zuppa di sudore avevo trascorso il pomeriggio a riempire pacchi e a caricarli su un furgoncino, gentilmente prestatomi da un amico che però non aveva potuto o voluto concedermi anche la sua compagnia. Poi avevo guidato quel catorcio, senza aria condizionata e arroventatosi al sole, fino a via dei Ginepri. Soffrendo il caldo e l'afa sopportai anche le farneticazioni dei miei pensieri, che ragionavano sul fatto che un trasloco andrebbe organizzato diversamente e che la mia vita era sempre stata una sequela di errori e stupidaggini di cui quella non sarebbe certo stata l'ultima. Per cercare di consolarmi pensai alle tante cose che quel giorno avrebbero potuto andare peggio (avrei potuto rompere qualcosa durante l'imballaggio; e il furgoncino, nonostante l'apparenza sgangherata, non mi aveva lasciato per strada), ma arrivato sotto la mia nuova casa mi resi conto che qualche brutta sorpresa mi aspettava ancora.
Era buio, e non solo perché ormai era sera. Il cielo era coperto di minacciosi nuvoloni neri. Ogni tanto si intravvedevano dei lampi silenziosi e lontani. Ero sicuro: di lì a poco sarebbe venuto giù un acquazzone terribile. Decisi che per prima cosa avrei scaricato il necessario per poter dormire; il resto avrebbe potuto aspettare l'indomani.
Entrando nel palazzo con il materasso in spalla presi coscienza anche del fatto che il buio era dovuto non tanto ai nuvoloni, quanto alla mancanza di luce elettrica. Ergo, tre piani senza ascensore. E benché il palazzo fosse praticamente nuovo, l'unica lampada di emergenza funzionante la incontrai al primo piano.
Dieci minuti, tre viaggi e più di quindici piani dopo, esausto ed ancora più sudato, stavo sistemando il materasso sulla brandina nell'ingresso di casa mia. Non aveva ancora iniziato a piovere, ma di continuare a scaricare non mi andava proprio. Mi sarei messo insieme una specie di cena con alcune scatolette che mi ero portato, e poi subito a nanna.
Certo che con quel buio non era cosa semplice. Almeno ci fosse stata una torcia a pile nel furgoncino, e invece niente. Però, pensai, potrei provare a chiedere a qualche vicino se ha una candela in più, sempre che trovi qualcuno.
Mi feci coraggio e andai a suonare alla porta accanto. Ovviamente il campanello non funzionava e dovetti bussare, ma comunque non rispose nessuno. Chiuso per ferie, pensai. Però mi parve di sentire dei rumori da uno degli appartamenti di fronte, e andai a bussare lì.
“Giovanni, sei tu?”
Mi rispose una voce da uomo, direi di mezza età.
“Mi scusi, non sono Giovanni. Sono il nuovo inquilino di fronte. Mi chiedevo se avesse una torcia elettrica o una candela in più da prestarmi. Con questo buio è tutto così difficile!”
In risposta udii per prima cosa un girare di chiavi nella serratura.
“Giovanni dice di non aprire a nessuno. Ma come si fa, se non c'è un po' di fiducia e solidarietà neanche tra vicini di casa? Anche perché una candela da qualche parte mi pare di averla.”
Nel frattempo continuava ad aprire serrature. Alla fine ne aveva aperte almeno tre. Non potei fare a meno di pensare che, al contrario di quel Giovanni che doveva essere estremamente prudente e diffidente, il mio vicino confidava anche troppo nella buona fede della gente. Non mi aveva mai visto: e se fossi stato un rapinatore?
“Venga, le faccio strada”, mi disse dopo aver aperto la porta.
Entrai e lo seguii. Ricordando le raccomandazioni di Giovanni avevo chiuso la porta dietro di me; ma me n'ero quasi pentito perché, se sul pianerottolo si vedeva poco, là dentro era buio assoluto.
“E' da molto che manca la luce?”, chiesi così per dire qualcosa.
“Direi da ieri pomeriggio. Il peggio è che di giorno, con questa temperatura e coi condizionatori che non vanno, fa un caldo infernale. Attenzione alla sedia, qui.”
Le sue parole mi aiutarono a seguirlo e a mantenere un contatto con lui - che invece nel buio sembrava muoversi molto bene - in attesa che le mie pupille si adeguassero a quella totale oscurità. Quando ciò avvenne mi resi conto di essere in cucina, accanto al ripiano tra il lavandino ed il piano cottura.
“La candela deve essere proprio lì vicino a lei, e qui ci sono i cerini.”
Presi la scatolina che mi stava porgendo, la poggiai e ne estrassi un fiammifero. Poi trovai a tastoni la candela davanti a me, una di quelle sottili da processione.
“La ringrazio molto. E' sicuro che non serva a lei?”
“Non si preoccupi, la prenda pure”, mi rispose sorridendo.
Accenderla non fu molto semplice, ma ci riuscii. Finalmente la stanza si illuminò. Quasi d'istinto cercai di guardare negli occhi il mio interlocutore, ma non ci riuscii perché egli, quasi gli fosse venuto in mente all'improvviso, aveva estratto dal taschino della sua giacca un paio di occhiali e li aveva indossati. Erano lenti scure, da sole: cosa piuttosto strana, pensai, a meno che egli non fosse …
“Mi scusi, Giovanni mi dice sempre che non dovrei mai togliere gli occhiali da sole. Forse è vero. Ma non creda che mio fratello abbia sempre ragione. Per esempio, se fosse stato per lui non avrei neanche dovuto conservare questa candelina, un potenziale pericolo che non avrebbe mai potuto essermi di alcun aiuto.”
Così conobbi Luciano, il mio vicino preferito. Una persona squisita, un carattere solare e, lasciatemelo dire, una mente brillante.

Конец ознакомительного фрагмента.
Текст предоставлен ООО «ЛитРес».
Прочитайте эту книгу целиком, купив полную легальную версию (https://www.litres.ru/pages/biblio_book/?art=63808406) на ЛитРес.
Безопасно оплатить книгу можно банковской картой Visa, MasterCard, Maestro, со счета мобильного телефона, с платежного терминала, в салоне МТС или Связной, через PayPal, WebMoney, Яндекс.Деньги, QIWI Кошелек, бонусными картами или другим удобным Вам способом.