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Dedicato A Sara
Marco Fogliani
”Oltre vent'anni fa una ragazza che amavo come me stesso mi chiese, a motivo delle sue non buone condizioni di salute, di lasciarla per sempre e di non cercarla più. Io acconsentii, con la morte nel cuore, e solo intendendolo come un atto di amore suo nei miei confronti, per consentirmi di costruirmi una famiglia normale e felice allietata da figli. Nel 2013 Sara ha lasciato questa vita. E in quell'occasione, insieme alla certezza che ormai quello che era avvenuto non poteva essere cambiato, e nonostante mi ritrovassi con due figlie meravigliose, mi è tornato il dubbio di aver fatto, allora, la scelta giusta.”
Una storia d'amore travagliata e romanzata, tratteggiata attraverso diversi racconti che, pur indipendenti tra loro, seguono i diversi passi logici e cronologici della vicenda.
Un omaggio al mio primo amore, assaporato e poi perduto, ad un anno dalla sua scomparsa: la raccolta delle storie a lei e da lei ispirate.
Dedicato con affetto a tutti coloro (e sono tanti) che hanno ri
La raccolta include i seguenti racconti:
CON TANTI CARI AUGURI DI BUON ANNO
IL CONCERTO DELLA BANDA DI LORENZO
IO E ANNA
L’INCONTRO A DIGNANO
LA FIDANZATA IMMAGINARIA
LA PRINCIPESSA CICLAMINO ED IL CAVALIER MIRTILLO
LA TERZA PRIMAVERA
LE CARTOLINE DI CLARA
MILLE ED ALTRI CENTO
NON SENZA SALUTARE
NULLA SFUGGE ALLA MAMMA
SCELTA D’AMORE
SOGNO DI UNA NOTTE DI PIENA ESTATE
UN NATALE DIVERSO
UNA DONNA FORTUNATA

Si avverte che, dato il carattere tematico della raccolta, alcuni di questi racconti potrebbero essere presenti anche in altre raccolte tematiche dello stesso autore,


MARCO FOGLIANI
Aggiornamento: 25/11/2020


IL CONCERTO DELLA BANDA DI LORENZO
Ritornando dalle lezioni, un pomeriggio, mi imbattei per caso in una serie di manifesti in cui si pubblicizzava, di lì a quasi un mese, il concerto de “La Banda di Lorenzo”.
Vedendo i manifesti pensai subito a Clara - anche se probabilmente il mio pensiero era quasi fisso su di lei ormai da qualche mese - perché era il suo gruppo preferito. Una buona scusa, se mai avessi avuto bisogno di averne una, per chiamarla quella sera e fare altre due piacevoli chiacchiere con lei. E poi chissà, magari ci si poteva organizzare per andarci insieme.
“Hai visto che la banda di Lorenzo farà un concerto il mese prossimo al Palaconcerti?”
“Sì, lo so. Ma già l'altro giorno sono andata a Tivoli a informarmi dal tabaccaio in piazza, che è l'unico qui nella zona che di solito vende i biglietti per i teatri e i concerti, e li aveva già finiti.”
Rimasi un po' deluso che non me lo avesse detto prima - che data la sua loquacità era quasi equivalente ad avermelo tenuto nascosto - e che non avesse pensato subito di andarci con me. Ma come sempre apprezzai molto la sua spontaneità e sincerità, e fui molto contento perché avevo modo di rendermi utile per lei e guadagnarmi un po' di punti e di riconoscenza.
Le proposi: “Se ti va mi informo se riesco a trovarli io qui a Roma. E se li trovo ci andiamo insieme, d'accordo?”
“Oh si, magari! E se li trovi dovresti prenderne uno anche per la mia sorellona, che verrebbe anche lei volentieri.”
Avrei preferito una uscita in due, ma sua sorella ci poteva stare. Era simpatica e stava dalla parte mia. E poi come sempre per Clara sarei stato disposto a qualunque cosa, anche a prendere i biglietti per tutti i suoi amici di Tivoli, e magari andarli a comprare a Napoli.
E così mi recai in centro ad informarmi nella rivendita specializzata. Feci anche una certa fila, e alla fine non riuscii a trovare niente di meglio che tre posti non numerati nel settore H, da cui, mi spiegò la signorina, si vedeva poco ma in compenso si sentiva molto bene e costava poco.
Un mio amico che andava spesso al Palaconcerti mi spiegò che in effetti dal settore H si vedeva abbastanza bene sul megaschermo, ma i veri artisti sembravano dei puntolini lontani; ma sul fatto che si sentisse molto bene non era d'accordo. Forte, molto forte quello sì, perché lì vicino c'erano delle potenti casse acustiche; ma questo non voleva affatto dire che si sentisse bene, anzi.
Riferii a Clara i commenti del mio amico, e anche il suo consiglio di portarsi delle cuffie o dei tappi a protezione delle orecchie anche se, mi aveva spiegato, poi i bassi te li senti vibrare nella pancia, e lì non ci sono tappi che tengano. Però se arrivi molto presto puoi scegliere i posti migliori, e magari riesci anche a cambiare settore; e al limite puoi uscire fuori sul piazzale proprio davanti ai cancelli, tanto si sente anche da lì.
Quando riferii questi commenti a Clara lei sembrò rassegnata: “Allora mi porterò delle cuffie, e cerchiamo di arrivare il più presto possibile, e poi vedremo”, commentò.
Dopo circa una decina di giorni la prospettiva del nostro concerto sembrò migliorare notevolmente. Accadde che per caso incontrai sull'autobus Franco, un mio vecchio amico alto ma con la voce da basso profondissimo, il quale mi chiese se potevano servirmi due biglietti per il concerto della banda di Lorenzo.
“Li ho già comprati, anche se ne ho trovati solo per il settore H dove mi hanno detto che si sente da schifo”, gli risposi.
“Io ne ho due per il settore C, poltroncine da 25.000 lire l'una. Se vuoi te li cedo a metà prezzo. Purtroppo non posso andarci perché quella settimana sono stato comandato in missione a Torino. Non riesco a trovare nessuno a cui rivenderli, a parte il mio capo a cui non li voglio dare. I miei amici si sono già tutti attrezzati. Che ne dici?”
“Dico che avrei anche un altro problema: che di biglietti me ne servirebbero tre.” Mi immaginavo già come sarebbe finita: io da solo nell'inferno del settore H, e Clara con la sorella sedute comodamente su due poltroncine ed insidiate, come due fiori dalle vespe, da giovanotti aitanti in giacca e cravatta.
“Dai, pensaci: facciamo 20.000. Magari coi biglietti tutti insieme non se ne accorgono se uno è diverso.”
“Va bene, qualcosa mi inventerò”, risposi riluttante. In realtà avevo sempre la speranza che la sorella di Clara potesse cambiare idea, magari all'ultimo momento, e non venire.
“Senti, facciamo così: ci risentiamo prima che io parta. Può essere che nel frattempo riesca a rimediare un altro biglietto. E tanto adesso non li ho dietro con me.”
Rimanemmo così, ed infatti poi lui si rifece sentire.
“Ne avrei rimediati anche altri due di biglietti per le poltroncine. Quel bastardo del capitano ha mandato in missione anche il mio collega. Secondo noi lo ha fatto apposta: non è riuscito a trovare i biglietti e ci ha comandato fuori città. E poi guarda caso ci ha chiesto se per caso qualcuno poteva vendergli dei biglietti. Ma noi neanche morti, piuttosto che darli a lui li stracceremmo. Oppure glieli potremmo dare dal milione in su … Ma no, dai, se vuoi sono tuoi, facciamo 20.000 tutti, va bene?”
“Beh, allora grazie, anche al tuo collega. Io comunque posso darvi in cambio tre biglietti per il settore H, da dove si sente male e non si vede niente. A questo punto non mi servono più. Se vi possono servire per farci dispetti o speculazioni ai danni del vostro capitano ...”
Insomma alla fine - mancava solo una settimana al concerto - concludemmo coi biglietti. Ma quando ebbi i biglietti in mano avevo già anche la sensazione che non mi sarebbero serviti. Clara era raffreddata già da un paio di giorni, e già sapevo come sarebbe andata a finire: prima la sciarpa, poi il naso arrossato, e figurati se sarebbe uscita alla sera in quelle condizioni! Il giovedì si assentò addirittura dalle lezioni. Alla sera la chiamai a casa e mi confermò le sue non buone condizioni di salute.
“Mi dispiace, ho idea che non potrò venire sabato al concerto”, mi disse.
“Certo che lo spettacolo ci perderà molto senza di te”, ribattei scherzando, ma sinceramente dispiaciuto. “E tua sorella?”
In effetti sarei andato malvolentieri al concerto senza Clara, e andarci con la sorella, da soli o con qualcun altro che non conoscevo, avrebbe potuto diventare imbarazzante: ma se lei o Clara avessero insistito, mi sarebbe stato moralmente difficile non accompagnarla. Sarebbe stato come tirarmi indietro da un impegno preso.
“No, lei resta a casa a tenermi compagnia”.
Fui sollevato da questa notizia.
“Abbiamo scoperto che il concerto lo daranno in diretta anche alla TV, ce lo guarderemo insieme.”
“Peccato che non stai bene, altrimenti avrei potuto venire anch'io a vederlo con voi”, le dissi. Io ci sarei andato di sicuro qualunque malattia avesse avuto, ma sapevo che lei non me lo avrebbe permesso per nessun motivo.
Ma alla fine fu davvero un po' come se ci fossimo andati insieme.
Quella sera, appena iniziato il concerto, le telefonai e passammo forse più di un'ora al telefono. Capitava spesso che passassimo intere serate al telefono, ma in genere era per parlare, di tutto e di niente, e magari inconsciamente solo per sentire il suono delle nostre voci. Quella volta invece non ci fu nessuna conversazione, se non qualche breve commento tra una canzone e l'altra, qualche spiegazione da parte sua su quello che le era piaciuto di questa canzone, o quello che le ricordava quest'altra. Per il resto sentivo il televisore acceso in sottofondo, e lei che ci cantava sopra come poteva, come glielo consentivano il suo stato di salute e la sua voce, un po' più rauca del solito ma mai ad alto volume e sempre per me molto bella.
“Non so se dovresti cantare nelle tue condizioni”, le feci notare timidamente. Per una volta facevo io la parte della mamma/infermiera apprensiva, che in genere era lei ad interpretare nei miei riguardi. Lei non provò nemmeno a giustificarsi dietro una scusa, ma io lasciai cadere la cosa: sentivo che con la sua voce veniva fuori anche la sua anima, felice e spensierata, ed era uno spettacolo bellissimo da ascoltare.
Lei stava sdraiata o seduta nel suo letto, con la televisione che, appositamente per l'occasione e con lunghi fili stesi per la casa, era stata portata di fianco a lei, nella sua stanza. Io, che invece non avevo conquistato l'esclusiva del televisore di casa mia, ero sprofondato in poltrona e ascoltavo rilassatissimo, canticchiando di tanto in tanto con lei le poche parole che conoscevo.
“ E' per te soltanto che io cantavo,
è per te soltanto che io studiavo,
è per te soltanto che io morivo,
solo per teeeeeee ...”
A me personalmente la banda di Lorenzo era sempre stata piuttosto indifferente, un gruppo come tanti anche se dovevo riconoscere che qualche loro canzone era carina; ma da quando avevo conosciuto Clara, prima solo per solidarietà con lei ma un po' alla volta anche per mia vera convinzione, avevo cominciato ad apprezzarli anch'io.
“ E' per te soltanto che io ballavo,
è per te soltanto che io lottavo,
è per te soltanto che io fumavo,
solo per teeeeeee ...”

Nei pezzi più famosi si univa al coro anche la sorella, che ogni tanto usciva dalla stanza di Clara lasciandoci soli e dopo un po' rientrava; a volte anche lei lasciava i suoi commenti, in sottofondo, ma in modo che potessi sentirli anche io. Questo e quanto altro accadeva a casa di Clara provocava di tanto in tanto delle piccole interruzioni, dei piccoli disturbi a quella performance canora, ma io continuavo comunque a rimanere in ascolto. Tanto che il mio orecchio destro, dal lungo contatto con la cornetta del telefono, si era surriscaldato, ed io dovetti passare all'altra orecchia.
A un certo punto però:
“Scusami Aristide, ma mio padre ha necessità di fare una telefonata. Ti devo lasciare.”
“Va bene Clara, ma mi prometti che appena finisce mi richiami e torniamo insieme al concerto?”
“Si, va bene”.
Aspettai a lungo seduto in poltrona accanto al telefono, in attesa che squillasse. Solo poche volte cedetti alla tentazione di provare a richiamarla io, dovesse essersi dimenticata della sua promessa.
L'ultima di queste volte fui anticipato di un soffio dal trillo del telefono, forse la prima volta in assoluto che lei mi chiamava.
“Scusa se ci ho messo un po', non riuscivo a trovare il tuo numero”, si giustificò lei. E poi riprese a cantare dietro la TV.
Ci lasciammo alla fine della trasmissione.
“Mi dispiace davvero che per la mia salute tu non sia potuto andare al concerto, e hai anche speso i soldi dei biglietti. Appena ci vediamo ti darò la mia parte.”
“Ma figurati. Non ti ci provare nemmeno. E poi è stato comunque un gran bel concerto, proprio una bella serata”, le dissi con convinzione.

NULLA SFUGGE ALLA MAMMA
(Marco e Sara dentro a un cuore)
Marco e Sara erano ormai diversi anni che si frequentavano, da quando avevano iniziato l'Università.

Per lui la scintilla era scoccata fin dalla prima volta che l'aveva incontrata, al termine della prima lezione nella grande aula piena di ragazzi ancora sconosciuti. Lei parlava, anzi cinguettava, come un ruscello in piena, con attorno a sé un piccolo capannello a cui lui si era aggiunto subito volentieri e quasi per necessità, attratto da una forza misteriosa. Forse era la bellezza dei suoi occhi - uno dei quali molto particolare, con l'iride bicolore - e del suo sorriso sincero; o forse il dolce timbro della sua voce, da bambina, così come a una scolaretta al suo primo giorno di scuola faceva pensare tutto quello che diceva.
“E' lei”, pensò subito Marco; ma forse invece di pensarlo lo sentì da una vocina che era dentro di sé , o forse fuori. La voce dell'universo che solo in vista di quell'istante aveva predisposto tutte le sue meraviglie e atteso interminabili secoli di storia: affinché loro due si incontrassero e nascesse l'Amore.
A poco a poco il capannello si sciolse, e lui rimase da solo ad ascoltarla; e da allora le loro anime non si sono mai più lasciate
(#ulink_68a306b8-fa25-5c7e-840e-76b54549679a).
Erano passati ormai alcuni anni da quel primo incontro. Si erano prima frequentati assiduamente all'Università, condividendo lezioni, ripassi, pause pranzo e amicizie. Lui cercava e trovava ogni occasione per avere la sua compagnia, sempre ben accetta; l'aiutava e l'accompagnava nello studio e in qualunque altra cosa potesse servirle. La voce di lei si udiva spesso risuonare allegra nei corridoi (e, a volte in modo imbarazzante, anche nelle sale di lettura e nelle biblioteche); e quando la sentivi potevi stare sicuro che, insieme a lei e magari ad altri amici o amiche, avresti trovato anche lui.
Erano insomma una bella coppia, come altre - poche altre - nella loro facoltà. Non dichiarata ma solida e di fatto. E anche se per entrambi, e soprattutto per lei, non mancavano altri corteggiatori, era evidente che il loro casto, fraterno legame era qualcosa di difficile da incontrare, da raggiungere o da ostacolare, con cui era impossibile competere o interferire. Un piccolo miracolo, un capolavoro; il riflesso abbagliante dell'armonia dell'universo nell'uomo e nella donna; l'Amore.
Poi lui cominciò a riaccompagnarla a casa - una villetta sperduta sulle colline dove nessuno avrebbe potuto capitare per caso - e fece conoscenza con la famiglia di lei, che lo accolse come se fosse il loro quarto figlio. Le sue intenzioni e le loro prospettive erano talmente evidenti che non ci fu mai bisogno di dichiararle.
Sara era un libro aperto per tutti, figuriamoci per la sua famiglia. Lo era anche per Marco, che sin dal primo momento aveva saputo, grazie alla sincerità di lei, leggerle negli sguardi, nei gesti e nelle intonazioni; e attraverso questi riuscire a comprendere i suoi pensieri e i suoi sentimenti, che trovava bellissimi. La sua anima pura e innocente di fanciulla sembrava uscita da una fiaba di Walt Disney.
Col tempo allo studio si aggiunse e subentrò il tempo libero, ed ogni sabato pomeriggio Marco, a bordo della sua piccola carrozza meccanizzata, saliva a prendere la sua principessa
(#ulink_3c0b359b-546a-51f1-8df9-10c022e59bbf) per portarsela in città o in giro per il Lazio, il loro piccolo regno. Musei, teatri, giardini o semplici passeggiate. A cui poi si aggiunse la cenetta al ristorante, sempre in un posto diverso, sempre romantica.
Tutto andava bene e tutto era bello, perché in qualsiasi posto era come se fossero sempre e comunque al posto giusto. Semplicemente perché insieme erano felici.
Non saprei dire quando o perché - così come non saprei dire quando la prima volta senza pensarci si erano presi per mano - arrivò il primo bacio.
Lui l'aveva riaccompagnata a casa al termine di una di quelle innumerevoli serate. Come sempre lasciarsi era difficile, avevano ancora tante cose da dirsi e indugiavano, là sotto agli olivi davanti al cancello di casa sua, dentro quella macchinina che era proprio giusta per loro, come un nido.
La serata era fredda e umida, e i vetri si erano subito appannati.
“Posso darti un bacio?”, chiese lui a un tratto cambiando argomento.
Il candido viso di lei, in gran parte coperto dalla sua lunghissima sciarpa multicolore, arrossì leggermente. Rispose affermativamente più col sorriso e con gli occhi, che con un cenno del capo e con le parole.
Fu un bacio tutto sommato casto, che lasciò loro in bocca un sapore inatteso e insolito come una pietanza mai assaggiata. Un bacio come milioni di altri che vengono scambiati ogni giorno su questa terra, si potrebbe dire; una normale tappa della crescita, come la nascita del primo dentino. Ma per loro fu qualcosa di molto di più: fu il primo bacio della loro vita. E, ciascuno lo sapeva, era il primo sia per l'uno che per l'altra.
“Ce ne hai messo di tempo. Mi chiedevo quanto ancora o cosa avevi intenzione di aspettare, prima di baciarmi.”
Lei sorrideva. Appena rientrata avrebbe raccontato tutto alla sorella, e magari alla mamma. Aveva atteso quel bacio più che altro con tanta curiosità, per tanti che ne aveva visti in televisione, per sapere quello che avrebbe provato. Una curiosità pericolosa, pensò lui quando lo venne a sapere: perché in seguito lo venne a sapere, tra di loro non c'erano segreti. La stessa curiosità infantile che aveva su tante altre cose viste in televisione, riguado all'amore tra l'uomo e la donna e … la nascita dei bimbi.
Rimasero ancora un po' insieme in macchina, in silenzio, mano nella mano. Pensosi, sorridenti, guardandosi negli occhi sognanti. Poi lei, col dito del suo guanto, disegnò sul vetro appannato davanti a sé un grande cuore, e dentro le loro iniziali, S ed M.
Marco pensava a tutt'altro qualche sera dopo, accompagnando sua madre da qualche parte, non ricordo bene dove. La macchina era la stessa, quella pensata e comprata per Sara; per la sua principessa si trasformava in carrozza, ma normalmente era una normale utilitaria.
Il tempo e le faccende della settimana avevano momentaneamente relegato il ricordo di qualche sera prima nella cassaforte dei fatti indimenticabili e più preziosi della sua vita.
“E questo cos'è?”, se ne uscì a un tratto la mamma che fino a un attimo prima aveva parlato di tutt'altro, di vestiti eleganti e di occasioni importanti.
“Cosa?”, chiese Marco che, guardando da quella parte verso la strada, non aveva notato nulla di particolare.
“Questo. S ed M, dentro a un cuore”.
Era più che evidente a tutti e due che cosa fosse.
Lui rimase sbalordito. Sul vetro non vedeva e non aveva visto niente da quella sera, ma sua mamma non era un'indovina. Aveva scassinato la cassaforte segreta dei suoi ricordi più belli, anzi lui si era dimenticato di chiuderla, e ora si sentiva come se fosse stato derubato. Perché, a differenza di Sara, era troppo geloso di quel ricordo, e non avrebbe voluto dividerlo con nessuno, neanche con la mamma.
“S sta per Sara”, spiegò ciò che era più che ovvio.
Fermandosi al primo semaforo rosso, si spostò verso il punto di vista di sua madre. In effetti, da una certa angolazione e con una certa luce, il cuore e le iniziali si vedevano ancora.
“ Adesso lo cancello”, pensò. “ O forse no. E' bellissimo, è meraviglioso, e forse sarebbe giusto che tutti lo vedano”.
La macchina sarebbe stata lavata, poi venduta e rottamata. Le vicende della vita, alcune molto tristi, avrebbero separato per sempre i destini di quei due innamorati. Altri amori; magari anche figli. Ma quel cuore con le loro iniziali, indelebile (così come il loro primo bacio, e tutto ciò che la memoria avrebbe salvato di una interminabile serie di bei ricordi vissuti insieme), non sarebbe stato mai più cancellato, per tutta la loro vita.
[1] (#ulink_d078a3ab-7615-5d66-81dc-520042191a95) Chiedo scusa a Grazia Deledda, di cui il finale di “Anime Oneste” ho involontariamente riprodotto (non copiato, avendolo scoperto dopo): “E fu così che le loro anime oneste si unirono per sempre.“
[2] (#ulink_379f1feb-b299-5903-b369-56d1c4546a13) Sara vuol dire "Principessa"

LE CARTOLINE DI CLARA
Ritenevo il mio amico una persona a posto, diciamo quasi normale. Uno comunque con cui poter trascorrere piacevolmente una piccola vacanza di relax e spensieratezza. Anche lui “single”, passione per il tennis ed il mangiar bene e altri interessi simili ai miei: devo dire che la vacanza era riuscita bene.
Curiosando tra le cartoline che stava per spedire - poche, così come le mie - ho scoperto inaspettatamente che oltre a quella per la sua mamma, che mi aveva fatto firmare, ce n’era un’altra strana di cui non mi aveva detto niente. La mandava a casa sua ma ad una ragazza, ed in essa si era firmato con un altro nome. Da lui, neo-ingegnere, mi sarei aspettato qualche stranezza magari di tipo tecnologico: non avevo considerato che anche questa categoria di persone, come noi mortali, ha un cuore e può andare in tilt per piccoli problemi sentimentali.
Lì per lì non gli ho detto nulla per non fargli scoprire quanto mi fossi impicciato degli affari suoi: ma durante il viaggio di ritorno, rilassati e di buon umore, non sono riuscito a frenare la mia curiosità e ho cercato una conferma alle mie ipotesi.
“Dimmi un poco, ma tu sei fidanzato, o convivi?”
“Nessuna delle due”, mi ha risposto.
“Allora abiti con una sorella?”
“Ma che ti salta in mente?”
“Sai, ho visto la cartolina che ti sei mandato al tuo indirizzo.” Pensavo che l’avesse mandata per gelosia, o per scoprire qualche tresca, di cui gli mancava una prova certa, da parte della sua ragazza o forse di sua sorella. Da come si era messo a ridere ho capito di essere molto fuori strada. Allora con molta tranquillità ha iniziato a raccontarmi la storia delle cartoline di Clara.
Sai, quando ho comprato la casa vicino a Tivoli ne ero molto soddisfatto. Una villa, per meglio dire. Un po’ fuori mano, anche se qualche volta al giorno, a orari fissi, servita da un piccolo vecchio autobus di linea. Non poteva essere che piccolo, per potersi disimpegnare in quella tortuosa stradina di campagna, e visto che i passeggeri erano sempre così pochi.
Tra tante belle ville immerse nella natura, soprattutto tra gli olivi, la mia si distingueva per un qualcosa di indefinibile che la rendeva di gran lunga la più desiderabile. Forse la sua posizione dominante, da cui si spaziava con lo sguardo per tutta la piccola valle; o forse la maestosità e floridezza del vialetto d’ingresso. A maggio era più bello che mai, pieno di fiori colorati che in altri mesi non sospetti nemmeno. Vedendo quella fioritura mi ero ripromesso di curarli e starci dietro: e l’ho fatto con piacere, distogliendo dal tennis un po’ del mio tempo libero.

Il postino passava una volta a settimana, in genere il sabato mattina. Una qualche volta avrei voluto chiedergli un’informazione, ma evidentemente era sempre troppo presto per me. Certo che il mio non era un proposito molto fermo, sia perché si trattava comunque di una faccenda di secondaria importanza, sia perché nei fine settimana avevo sempre avuto l’abitudine di poltrire liberamente. E questa mia inclinazione, favorita dall’aria fine e dall’allegro cinguettare degli uccelli, si era ulteriormente accentuata da quando abitavo in quella villa.
Volevo chiedergli di una cartolina che mi era arrivata, destinata ad una persona che chiaramente non ero né io né, per quanto mi pareva di ricordare, nessuno della famiglia che prima abitava lì. Ma d’altronde cosa poteva saperne il postino? (Se anche si impicciasse della posta che consegna non lo verrebbe certo a dire a me). Avrei dovuto chiederlo all’ex proprietario. Ma già una volta, incontrandolo, mi l'ero lasciata sfuggire l'opportunità di parlagliene. Quando però di cartolina ne arrivò un’altra, sempre al mio indirizzo e per la stessa persona, ho pensato che valesse la pena fargli una telefonata.

“ Mi scusi se la disturbo, dottor Beltrami: ma il nome di Clara Bagnucci, a lei, dice qualcosa?”
“ Clara Bagnucci? Ah, si, ha ragione: avrei dovuto avvertirla. Immagino che abbia ricevuto qualche cartolina per lei da parte di Aristide.”
“ Infatti. Lei sa di chi si tratta?”
“ Si, certamente. I Bagnucci abitavano in quella casa prima di me: anzi, penso che siano stati loro a farla costruire. Gran brave persone, in verità, anche se un po’ sfortunate. Ma dopo che i due figli maggiori si sono sposati la casa è diventata troppo grande per loro, e poi troppo fuori mano visto che ormai non guidavano più. Così si sono trasferiti in paese. Se vuole posso darle l’indirizzo, non le sarà difficile trovarli: li conoscono tutti. Forse ho anche il numero di telefono.”
L’idea di fare da postino supplementare per questa Clara non mi attirava affatto. Avrei potuto farlo fare a qualche ragazzetto dietro compenso, ma non certo a mie spese. E poi mi irritava il fatto che in tanti anni - perché di anni si trattava - nessuno si era preso la briga di comunicare a quel tal Aristide la variazione di indirizzo. Doveva trattarsi di un caso di palese imbecillità da parte di qualcuno, se non di tutti. Eppure mi pareva strano che neppure il dottor Beltrami, apparentemente una persona molto in gamba, fosse riuscito a cambiare questo stato di cose. Forse c’era dietro una storia ben più complessa e interessante, ma non riuscii a farmi spiegare molto di più dal mio interlocutore.
“ Non ho idea di dove abiti questo Aristide. Mi pare che le sue cartoline provenissero sempre dai luoghi più disparati, da tutto il mondo. Potrebbe essere stato un ex fidanzato, ma forse invece un cugino o anche solo un amico di penna. Sempre saluti affettuosi, niente di più: sa, me le leggevano quando gliele portavo. Veramente non saprei proprio dirle altro.”

Così telefonai ai Bagnucci.
“ Pronto?”
“ Buongiorno, cercavo la signora Bagnucci.”
“ Si, sono io: chi parla?”, mi rispose una voce con uno spiccato accento veneto.
“ Cercavo Clara, Clara Bagnucci: ho fatto il numero giusto?”
“ Sì, Clara è mia figlia. Dica pure a me.”
“ E’ per via di alcune cartoline che arrivano ancora a casa mia, o meglio, quella che da qualche mese è diventata casa mia.”
“ Ah, capisco. Il dottor Beltrami mi aveva accennato alla possibilità di trasferirsi. Peccato: una persona tanto cara e premurosa. E’ sempre un piacere quando viene a trovarci. A pensarci bene, in effetti, è già da un po’ che non passa. Comunque per le cartoline, se per lei non è troppo disturbo mettercele da parte, quando poi passa uno dei miei figli facciamo un salto a prenderle. Sa, alla mia Clara fanno così piacere, che lei davvero non si immagina.”
“ Va bene, signora, non si preoccupi. Quando volete. Magari mi date un colpo di telefono prima, per non fare il viaggio a vuoto. Al limite posso anche passare io da lei, qualche volta che già mi trovo ad essere in paese.”
“ Grazie, grazie mille, ma non voglio che si disturbi troppo per noi, per due cartoline, signor … a proposito, come ha detto che si chiama?”
Finii per andare io da loro. Suonai alla porta. A dire il vero non ottenni una risposta molto sollecita: forse avevo disturbato qualche pennichella.
“ Chi è?”
Riconobbi l’accento veneto della signora Bagnucci.
“ Sono venuto per le cartoline. Si ricorda? Le ho telefonato un paio di giorni fa.”
Seguì un lungo armeggiare di chiavi e serrature, poi la signora, in abiti casalinghi, mi aprì e mi invitò ad entrare.
“ Prego, venga, si accomodi pure.”
“ Non c’è bisogno che si disturbi, signora, anche perché non ho molto tempo e ho parcheggiato la macchina …” Non mi stava affatto ascoltando, da come iniziò a chiamare sua figlia.
“ Clara! Clara! Vieni che ci sono delle cartoline per te!”, chiamò a un discreto volume annientando così le mie timide scuse. Tra l’altro non avevo nessun vero impegno per il pomeriggio, e per non lasciarmi trattenere avrei dovuto inventarmene uno.
“ Venga, si accomodi in salotto. Stavo giusto per preparare del tè. O preferisce qualcos’altro?”
Mentre riordinavo le idee per organizzare una fuga rapida e decorosa, sentivo in arrivo dall’altra stanza dei rumori affrettati e indefinibili.
“ Fai piano, Clara, attenta a non farti male.” Poi rivolgendosi a me: “Lei non ha idea di come scendeva le scale, quando abitavamo in villa. Anche per questo l’abbiamo venduta: ci mancava anche di cadere dalle scale, oltre a tutti i guai che già avevamo. Per il resto la villa è un vero paradiso, non trova?”
Quando il trambusto si placò, la ragazza era apparsa all’ingresso affannata. Portava occhiali da sole scuri, ed accarezzava un grosso cane altrettanto scuro che le scodinzolava festoso tra le gambe.
“ Andiamo a sederci in salotto”, disse la signora. Il cane, dopo qualche annusatina esplorativa, sembrava trovarmi interessante.
“ Sente l’odore di Rintintin. A proposito, dottore, come sta il suo cane?” Clara aveva una voce squillante, da bambina, in contrasto con il suo incedere malfermo e quasi barcollante.
“ Se ti fossi tolta gli occhiali ti saresti già accorta che non è il dottor Beltrami.” La ragazza, dopo quella ramanzina in veneto, si tolse gli occhiali malvolentieri e mi fissò.
Anch’io la fissai a lungo, incantato. Non ricordo di aver mai visto degli occhi così belli. Sfumature di verde e marrone che li facevano somigliare a piccole stelle. Due preziose finestrelle colorate da cui si intravedeva un lago di purezza e di ingenuità fanciullesca: la sua anima semplice traboccava bellezza dallo sguardo, dalla voce e dal sorriso.
Mi dispiaceva che quei bellissimi occhi mi fossero rimasti nascosti fino a quel momento. Mi dispiaceva ancor di più vedere che mi fissavano così a lungo e in quel modo, stanchi, quasi non riuscissero a mettermi a fuoco. Come capii presto, erano diventate due finestre opache per la sua anima, e non so se la malattia o la pigrizia avevano tolto loro in parte quella vivacità che ancora era rimasta nella voce.
Mi parvero secondi interminabili. Mi sentivo in imbarazzo in quell’intenso e silenzioso fissare ed essere fissato, ma non riuscivo a fare altro. E comunque, alla fin fine, in tutta la mia visita non ho detto che pochissime parole, data la loquacità delle due donne.
“ Allora lei non sa come sta Rintintin?”
“ Oh, si che lo sa. Mi stava giusto raccontando di come ha conosciuto il dottor Beltrami e di come gli sia piaciuto il suo cane.” Senza farsene accorgere dalla ragazza, la signora mi faceva cenni di stare al gioco. Non era difficile, perché ricordavo bene i miei incontri col signor Beltrami alla villa. Provai una bella sensazione nell’alimentare un sogno che tramite Clara riempiva di vita quella casa e quella famiglia.
“ Già, davvero un bel cane quel pastore tedesco.” Mentre lo dicevo lo pensavo anche. Un pensiero nuovo che non mi aveva mai sfiorato in precedenza, visto che i cani e gli animali in genere mi erano sempre stati indifferenti.
“ Sa, era nostro anche lui, prima. Ma poi non abbiamo potuto portarli qui tutti e quattro, e per fortuna il dottor Beltrami si è tenuto Rintintin. Ma adesso basta parlare di cani, Clara: fai vedere al signore la tua raccolta di cartoline, che è molto più interessante.”
Erano disposte in tre raccoglitori per fotografie, molto curati. Quello più piccolo conteneva quelle che non provenivano da Aristide o che non erano indirizzate a Clara, ma che comunque coinvolgevano la famiglia. Di quelle di Aristide ce n’erano due album, uno per l’Italia ed uno per il resto del mondo.
Alcune erano fuori misura, ed avevano richiesto tagli o adattamenti all’album per poterle contenere. Tutte erano corredate da quella che doveva essere stata una didascalia leggibile, ma che al momento sembrava solo una strisciolina di plastica incolore. Doveva però aver mantenuto il rilievo, perché lei passandoci sopra col dito riusciva a descrivermi con esattezza ognuna di esse anche senza guardarle. O forse le conosceva tutte a memoria.
“ Queste sono le Dolomiti. E questo è il duomo di Milano. Sono tutte belle, ma a me piace soprattutto questa di sughero.”
Era davvero un gioiellino: una sottile foglia di legno disegnata con gli sgargianti colori di un costume tipico sardo.
Quelle cartoline dovevano avere per quella famiglia un valore ben maggiore del semplice interesse che comunque suscitavano in me. “Sa, le ha conservate proprio tutte, dalla prima che ha ricevuto”, mi spiegò la madre.
“ Sì, tranne quella tutta nera con su scritto ‘Roma di notte’. Quella era di pessimo gusto, e quando è arrivata l’ho stracciata in mille pezzettini.” Un velo di tristezza era calato su di lei, chiarendo inequivocabilmente il fatto che, al momento di riceverla, i suoi occhi avevano già iniziato a perdere colpi.

Le cartoline erano interessanti, il tè era buono e la compagnia piacevole, nonostante le storie tristi di sfortune e di malanni che ebbi modo di ascoltare. Arrivò la sera senza che me ne accorgessi, e mi resi conto che avrei interferito coi piani della cena se non avessi tolto il disturbo. Pensavo che sarei tornato presto a portare altre cartoline, ma mi sbagliavo. Probabilmente questo Aristide ha un lavoro che non gli consente più molte vacanze e molti viaggi, e comunque non in tutti i mesi dell’anno. Così ho pensato di scriverle io, o di scrivermi, se preferisci. Una piccola bugia che come vedi non fa male a nessuno.
Vedo, vedo. Vedo però che sei sistemato abbastanza male anche tu, perché forse ti sei innamorato e non te ne sei accorto, o non sai cosa fare. Se no perché voler tornare a casa loro a portare le false cartoline di un altro? Piuttosto che una grande sensibilità o commiserazione, non sarà la timidezza che ti impedisce di scrivere direttamente al loro indirizzo firmandoti col tuo nome?
Sai che ti dico? Quasi quasi ti faccio io un bello scherzetto. Mi procuro il loro indirizzo e gli mando una cartolina a nome tuo. Sceglierò la più bella che trovo, naturalmente: aspetta solo il mio prossimo viaggio.
Vediamo come la prendono. In fondo anche questa sarebbe una piccola bugia che non può far male a nessuno. In fondo sarebbe comunque solo una cartolina in più per la collezione di Clara.

EPITAFFIO
14/10/2015
Ciao Sara
E' passata una vita da quando, più di trent'anni fa all'università, ti ho conosciuta.
E' passata una vita da quando l'amore è entrato per la prima volta dirompente nella mia esistenza, accendendo su di essa una luce, un faro; facendomi conoscere i suoi miracoli e regalandomi gli istanti più belli e indimenticabili. Ti ho voluto bene più che a me stesso.
E' passata una vita da quando, forse vent'anni fa, abbiamo dovuto lasciarci.
E' passata una vita, ma l'amore, come un tesoro di famiglia, è rimasto.
E' passata una vita da quando, forse l'altro ieri, hai smesso di soffrire e te ne sei andata.
E' passata una vita, ma per me nulla cambia e cambierà tra noi.
Ciao Sara
SARA CAGNUCCI
(6/5/1964 - 14/10/2015)

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