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L'Eredità Perduta
Robert Blake
Un vibrante thriller di avventura, suspense e mistero ambientato nell'ultimo quarto del XIX secolo e nella prima guerra mondiale. Un importante archeologo scompare in strane circostanze durante la prima guerra mondiale mentre gli eserciti combattono un fronte infinito impantanato in sanguinose battaglie e enormi difficoltà che provocano il caos su entrambi i lati. Alla fine della guerra, un giornalista accorto incuriosito dalla sorprendente scomparsa dell'archeologo subirà un'indagine complessa, che lo porterà a viaggiare per diversi continenti in una ricerca frenetica fino a quando non potrà svelare un episodio insolito nella storia dell'Impero britannico. Immergiti in un thriller frenetico dove puoi scoprire alcuni dei reperti più famosi dell'età d'oro dell'archeologia.

Robert Blake
L'Eredità Perduta

L'Eredità
Perduta

Robert Blake

Traduzione italiana Valeria Bragante

Titolo originale: El Legado Perdido
© 2017 Robert Blake
© Immagine di copertina: tratta da Flickr.
(Nessuna restrizione sul copyright)
Tutti i diritti riservati.

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Prologo

Salonicco, 1912
«Più di mezz'ora in attesa con questo caldo soffocante» ringhiò il direttore del museo mentre metteva l'orologio da tasca dentro la giacca. «Quando apparirà il barcaiolo?»
Continuava a camminare avanti e indietro mentre la nebbia dell'alba non gli permetteva di vedere a due metri di distanza; solo il leggero cinguettio di un uccello alterava il profondo silenzio.
«Non credo tarderà ancora molto» gli risposi sfogliando di nuovo la vecchia pergamena.
«Pensi che troveremo il posto esatto con questa nebbia?» aggiunse il vecchio.
Kalisteras sembrò mordersi il labbro; stava iniziando a stancarsi delle lamentele dell’anziano.
«Non appena spunteranno i primi raggi del sole, la nebbia inizierà a diradarsi e il lago sarà visibile.»
«Sei sicuro?»
«Ho fatto questo percorso molte volte» rispose con tono di sufficienza.
Il direttore lo guardò dall'alto in basso, non sopportava i presuntuosi.
«Spero che tu abbia ragione» commentai guardandolo negli occhi. «Deve essere un giorno limpido e sereno per interpretare questa mappa.»
«Sempre che non sia una copia rozza fatta da alcuni amanuensi nei secoli successivi» aggiunse il direttore con un mezzo sorriso.
«Quindi il nostro viaggio a Salonicco sarà stato vano.» risposi ironicamente. «Non intraprendo mai una ricerca senza avere prove sufficienti. Questa pergamena è del quarto secolo.»
«Lo so, amico. Ecco perché ho deciso di lasciare la mia biblioteca. Permettimi ancora di nutrire dei dubbi» sospirò piano.
In quel momento la figura del barcaiolo apparve nella nebbia senza che noi notassimo la sua presenza. Salutò Kalisteas e ci fece cenno di salire sulla barca.
«Pensavano che non saresti venuto» lo rimproverò Kalisteas. «I miei amici stavano iniziando ad innervosirsi.»
Il barcaiolo lo fissò; sembrava non gradire gli ordini.
«Con questa nebbia anche per me è difficile navigare» gli rispose.
Kalisteas lo guardò sorpreso.
«Andiamo» aggiunse senza mezzi termini. «Ci vorrà il doppio del tempo per raggiungere la nostra destinazione in queste condizioni.»
Il barcaiolo, con un ginocchio piantato nel legno scheggiato, iniziò a muovere la sua lunga pagaia dall’alto in basso, mentre gli altri rimasero seduti davanti a lui, cercando di individuare qualcosa in quella calda mattina in cui l'acqua sembrava una zattera di petrolio e solo il suono degli uccelli spezzava il silenzio impenetrabile dell'alba.
I primi raggi del sole finalmente iniziarono ad apparire entrando nelle nuvole e attenuando quella nebbia che iniziò a farci vedere una splendida mattina in quella vasta zona umida.
Anche la grotta dove ci stavamo dirigendo, che sembrava una semplice cavità da lontano, cominciò ad essere più visibile mentre ci avvicinavamo.
«Il livello dell'acqua non è sceso abbastanza!» urlò Kalisteas indicando con la mano. «Metà della caverna è ancora allagata!»
Solo la parte superiore era asciutta. L'acqua raggiungeva i tre quarti della grotta.
«La pergamena assicura che questo è l'unico mese dell'anno in cui il livello dell'acqua rende visibile la cavità.» gli risposi.
«Il mese scorso ha piovuto molto. Ecco perché il livello dell'acqua è più alto del solito.»
«E adesso cosa facciamo?» ringhiò di nuovo il direttore.
«Tocca nuotare, amico» annunciò Kalisteas con un sorriso beffardo. La situazione sembrava divertirlo.
Il barcaiolo ci lasciò all'ingresso della grotta, quindi dovevamo solo saltare in acqua e nuotare per un breve tratto attraverso l'interno della caverna fino a raggiungere una sporgenza rocciosa sul fondo di essa.
«Avete pagato il barcaiolo?» chiese il greco quando arrivammo a riva.
«Non abbiamo avuto tempo» Saltammo rapidamente in acqua.
Kalisteas scosse la testa ancora e ancora.
«Pagheremo al ritorno» risposi.
«Si aspettava il pagamento ora. Chi ti assicura che torneremo?» aggiunse con rabbia e cominciò a camminare verso un piccolo tunnel alla sua sinistra.
«Perché si arrabbia?» Il professore mi sussurrò all'orecchio pochi metri dopo, quando il greco si era allontanato un po'.
«Porta sfortuna non pagare il pedaggio» risposi girando la testa. «I Greci sono molto superstiziosi.»
Kalisteas ci condusse lungo uno stretto corridoio che serpeggiava da sinistra a destra, mentre cominciammo a scendere e il caldo divenne ancora più soffocante. Arrivammo ad un incrocio in cui due tunnel tagliavano il percorso e una piccola cavità continuava a scendere.
«Vi ho guidato fino a dove conosco» disse Kalisteas a bassa voce. «Ora tocca a voi.»
Analizzammo attentamente quell'incrocio, fino a quando il professore riconobbe una delle iscrizioni dei tunnel incise sul fondo della roccia e si rivolse a noi con un sorriso trionfante sul viso.
«Questo è il segno che stiamo cercando» annunciò. «Non ho alcun dubbio.»
Continuammo lungo uno stretto passaggio, accendendo le lampade a cherosene mentre ascoltavamo il battito dei pipistrelli dietro di noi, fino a quando il percorso si fermò improvvisamente.
Dopo aver illuminato il luogo a trecentosessanta gradi, potemmo vedere come alla nostra sinistra ci fosse una stretta apertura attraverso la quale una persona poteva a malapena passare.
«L'ingresso segreto» annunciò il professore.
Kalisteas si accovacciò ed entrò nel passaggio, mentre lo seguivamo.
Il tunnel avanzava in linea retta mentre strisciavamo verso il basso in modo che le teste non toccassero il soffitto. Le nostre gambe iniziarono ad intorpidirsi fino a quando non raggiungemmo finalmente la base di una rozza scala a chiocciola in pietra che scendemmo con grande attenzione.
Quando raggiunse il fondo, il professore ansimava.
«Si sente bene?»
«Certo. Non preoccuparti per me. Sono un vecchio topo di biblioteca e non sono abituato a fare sforzi, ma non mi arrenderò.»
Alla fine, Kalisteas sorrise, sembrò vedere un po' di spirito avventuroso nel professore ingobbito.
«Penso che abbiamo raggiunto la fine del nostro percorso» annunciò il greco indicando in avanti.
Davanti ai nostri occhi c'era un'oscura laguna sotterranea che ci impediva di passare. Mentre ci avvicinavamo alla riva, un piccolo altare appena visibile dalla nostra posizione sembrava scorgersi sul fondo della grotta.
«Ci sono solo due opzioni» esclamai, rivolgendomi ai miei compagni. «Attraversare la laguna o tornare indietro e provare un altro tunnel.»
«Qualcosa non mi piace in questa grotta» rispose il professore. «C'è troppo silenzio.»
Cominciammo ad ispezionare la riva, era solo un minuscolo pezzo di terra, fiancheggiato da un'enorme parete rocciosa alta circa dieci metri che attraversava la laguna da sinistra a destra.
«L'altra sponda non sembra così lontana» affermò Kalisteas. «Sono un bravo nuotatore. Penso che potrei attraversarla senza problemi.»
«Non c'è traccia della presenza umana in questa grotta. È come se nessuno fosse stato qui da centinaia di anni» aggiunse il professore.
Lo fissammo entrambi come se avesse letto i nostri pensieri. Il greco iniziò a togliersi i vestiti e si preparò ad entrare in acqua.
«Sei sicuro di nuotare fino a lì?» gli chiesi.
Lui sorrise annuendo.
Entrò in acqua e iniziò a fare alcune bracciate mentre rabbrividiva e il vapore gli usciva dalla bocca. Stava nuotando da poco quando sentimmo un tuffo nell'acqua e una piccola onda si formò a pochi metri da dov’era.
«Guarda» disse il professore.
«Nuota verso la riva più veloce che puoi!» urlai all'istante, «C'è qualcosa nell'acqua!»
Kalisteas guardò alla sua sinistra e vide qualcosa che si avvicinava ad alta velocità.
«Illumini là, professore!» dissi mentre estraevo il revolver dallo zaino e iniziavo a sparare in quella direzione.
Il suono degli spari sembrò spaventare la creatura del lago e Kalisteas riuscì a raggiungere la riva sano e salvo.
«Ora sappiamo perché nessuno ha attraversato questa laguna per anni» disse il greco mentre cercava di asciugarsi e si rivestiva.
«E adesso?» osservò il professore.
«Non ne ho idea» risposi, guardando di nuovo quella sinistra caverna.
Passammo un po' di tempo a scrutare ogni angolo cercando di trovare una soluzione. All'inizio pensammo che l'idea migliore fosse quella di voltarci indietro e tornare un altro giorno con l'attrezzatura giusta, ma eravamo lontani dalla città più vicina e l'ingresso alla grotta sarebbe stato sommerso in un paio di giorni, quindi avremmo dovuto attendere un anno intero per riprovare.
Esausti, ci sedemmo su un gruppo di rocce sul bordo dell'acqua. Nonostante l'oscurità, le torce che avevamo posizionato sulla riva si riflettevano nell'acqua della laguna disegnando un cielo stellato sopra la volta della grotta.
Quella visione fu ciò che mi fece ricordare quando anni fa mi ero svegliato prima dell'alba per intraprendere la dura salita delle vette alpine durante le mie vacanze in Svizzera.
«Quanta corda hai portato?» chiesi a Kalisteas, alzandomi dal mio posto come se fossi una molla.
«Tutta quella che hai chiesto. Ce ne sono diversi metri.»
«Vedi il muro che attraversa la grotta da sinistra a destra?» dissi indicandolo «inizia su questa riva e arriva proprio al piccolo altare. Se riuscissi ad attraversarlo non dovrei bagnarmi nemmeno un dito.»
«Sei impazzito?» Il professore mi rimproverò come se stesse insegnando nella sua classe a Oxford.
«Posso attraversare quel muro da un'estremità all'altra. Guardate» dissi indicandola «l'umidità ha formato un'infinità di cavità nella roccia. Ci si può arrampicare su di essa senza troppi problemi. Spero solo di avere abbastanza metri di corda.»
«È troppo rischioso» aggiunse Kalisteas. Era la prima volta che notavo la paura nei suoi occhi.
«Non sono venuto qui per tornare indietro quando stiamo per realizzare la più grande scoperta della storia» risposi con rabbia.
Entrambi abbassarono lo sguardo e non aprirono bocca.
Preparammo tutta l'attrezzatura necessaria e, dopo averci pensato per l'ultima volta, iniziai l'ascensione. Il primo tratto fu facile, l'altezza non era eccessiva, circa sei metri sopra il livello della laguna, un'altezza sufficiente in modo che nulla potesse attaccarmi dall'acqua.
Avanzavo conficcando le unghie nella roccia mentre legavo la corda e la passavo intorno alla vita per evitare cadute. In quel modo avanzai lungo il muro verso l'altra sponda, facendo un passo dopo l'altro con grande cautela sfruttando i buchi naturali che l'umidità aveva formato nel corso degli anni.
Dopo aver raggiunto la metà, iniziavo ad essere esausto. Guardai in basso una volta e mi sembrò di vedere l'acqua che si muoveva dolcemente al centro della laguna.
Dopo quasi mezz'ora ero esausto, anche se la vicinanza dell'altare mi dava abbastanza forza per continuare. Il maggiore inconveniente arrivò un attimo dopo, perché la corda finì quando mancavano pochi metri per raggiungere l'altra sponda e già vedevo chiaramente quella reliquia.
«Che succede, amico?» urlò Kalisteas quando mi vide fermarmi.
«La corda è finita!» esclamai, girandomi verso di lui.
«Dovevi pagare il barcaiolo» ringhiò rabbioso. «Il prossimo anno proverai di nuovo.»
Finsi di non sentirlo e rilasciai il resto della corda che ancora mi rimaneva verso il bordo dell'acqua. Scivolai dolcemente attraverso di essa fino a quando immersi il mio corpo in silenzio e il liquido freddo raggiunse il mio collo. Non si poteva più tornare indietro, iniziai a nuotare verso la riva con tutte le mie forze.
La distanza era breve ma ero sfinito dallo sforzo di arrampicarmi. Appena fatto un passo sulla riva mi voltai, udendo uno scricchiolio dietro la schiena e, senza pensarci due volte, estrassi la pistola e svuotai il caricatore senza vedere di cosa si trattasse. Potei vedere solo alcune onde nell'acqua che si allontanavano nella direzione opposta.
Riacquistai la calma e finalmente riuscii a raggiungere il piccolo altare che si trovava su una roccia composta da una lapide nel mezzo di un cubicolo e sulla cui pietra era scolpita una processione di argentieri.
Sotto di essi c'era una tomba dove c'erano delle lettere che si potevano leggere a malapena, logorate dall'umidità e dal passare degli anni. Passai la mano su di esse e provai una sensazione che ancora oggi non riesco a descrivere a parole.
Mi bloccai fissandole per un momento, finché un suono forte cominciò a risuonarmi nelle orecchie senza sapere da dove provenisse. Guardai verso la laguna e non vidi nulla di insolito.
«Devi tornare, presto!» Kalisteas cominciò a gridare con tutte le sue forze.
«Non ora, amico! Finalmente l'ho trovato!» gli risposi.
«Dimenticalo se non vuoi che sia l'ultima cosa che fai nella tua vita! Una tempesta incombe sulla laguna e in pochi minuti la grotta si inonderà completamente d’acqua!»
Quelle parole si piantarono come una pugnalata nel mio cuore.
«Va bene!» risposi con rassegnazione. «C'è solo un'opzione per tornare con voi!»
«Ti ascolto!»
«Lancia delle pietre sull'acqua per attirare l'attenzione del nostro amico! Non appena lo vedi avvicinarsi, fammi un segnale con la torcia!»
«Ho capito!»
Kalisteas agitò la torcia avanti e indietro pochi istanti dopo. In quel momento entrai in acqua e iniziai a nuotare fino alla corda, la afferrai con entrambe le mani per risalire il più velocemente possibile. Quando raggiunsi il primo chiodo, mi passai la corda intorno alla vita e feci l'intero tragitto verso l'altra riva come un cavallo che cavalca il vento.
All’esterno la tempesta non smetteva di tuonare sempre più forte, quando arrivai all'altra riva, le mie mani erano insanguinate dal grande sforzo che avevo compiuto.
Il greco ci condusse in fretta attraverso i tunnel finché non raggiungemmo la cavità d'ingresso dove l'acqua era salita quasi al soffitto. Nuotammo rapidamente verso il lago mentre le nostre teste sporgevano appena dall'acqua.
Avevamo già visto l'uscita quando la grotta finì per essere inondata completamente, prendemmo un respiro e fummo costretti ad immergerci nel tratto finale fino a quando non riuscimmo finalmente a riemergere nel lago alla stessa altezza dove il barcaiolo ci stava aspettando.
Il viaggio di ritorno aveva un sapore agrodolce. Avevamo fatto la più grande scoperta della storia, ma senza prove per confermarla. E, peggio ancora, avremmo dovuto aspettare un anno intero per riprovare.

Capitolo I

Londra, 1922

Stavo andando al British Museum su un taxi che avevo preso all'angolo di White Hart Lane ed ero già in ritardo per la mostra che si stava svolgendo quella sera nella sala principale. Tutti i redattori dei giornali più importanti della città erano presenti per coprire la notizia dell'anno. Per la prima volta la scoperta archeologica più acclamata degli ultimi anni poteva essere ammirata a Londra. Nessun redattore che si rispetti poteva perdersi quell'evento.
Quando arrivammo all'altezza di Piccadilly Circus ci imbattemmo in un ingorgo monumentale che ci sbarrava la strada e in dieci minuti riuscimmo a malapena ad avanzare di venti metri.
Se fossi arrivato in ritardo, avrei potuto considerarmi licenziato.
«Quanto le devo?» chiesi all'autista.
«Una sterlina e dieci» rispose, voltandosi verso di me.
Pagai il conto e scesi dal veicolo.
Attraversai Trafalgar Square camminando sotto una pioggia sottile e salii affrettando il passo attraverso diverse strade adiacenti fino a raggiungere Great Russell Street.
L'aspettativa era persino maggiore di quanto avessi immaginato. Un centinaio di fotografi, poliziotti e una moltitudine di curiosi si erano radunati all'ingresso del British Museum. Nonostante le sue enormi dimensioni, sembrava essere rimasto piccolo per l'occasione.
Le Rolls-Royce e le Duesenberg continuavano ad arrivare alla sua porta. Non ricordavo così tanto scalpore da quando Valentino era apparso nella Albert Hall un paio d'anni prima.
Due grandi punti luce facevano brillare le imponenti colonne doriche della facciata e la dea Atena sembrava prendere vita all'interno del frontone.
L'edificio scintillava quella notte come se fosse il gioiello più bello del Neoclassico.
Andai al controllo degli accessi, presentai il mio accredito stampa e, dopo un'esaustiva registrazione, mi lasciarono passare. Durante tutto il giorno avevano cercato di intrufolarsi con qualche falso accredito. Salii le scale e mi fermai nel luogo designato per il mio giornale.
«Ehi, Paul! Sei bagnato fradicio!» esclamò Tom, il corrispondente del Northern Star.
«Era impossibile arrivare in taxi e ho dimenticato l'ombrello a casa» risposi con rassegnazione. «È arrivato qualche pesce grosso?»
«Solo il sindaco. Ma questa non è più una novità» osservò sorridendo.
Sullo sfondo si udì un forte mormorio e la gente cominciò ad affollarsi all'ingresso principale.
«Penso che il nostro uomo arriverà lì» annunciò Tom mentre ricaricava la sua macchina fotografica.
Non dovemmo aspettare troppo a lungo, pochi istanti dopo la Aston Martin decapottabile, che trasportava il protagonista della giornata, si fermò accanto alla scalinata.
Una pioggia di flash immortalò il momento, mentre le persone gridavano il suo nome, e scendeva dall'auto l'uomo più ricercato del pianeta. Howard Carter, accompagnato dalla sua bellissima ed elegante partner, attraversò il tappeto blu che era stato installato per l'occasione, salutando da sinistra a destra come due star del cinema muto.
«Mr. Carter! Mr. Carter!» gridammo tutti noi corrispondenti all'unisono.
«Qualche parola per il Daily Telegraph!» esclamai mentre si avvicinava alla mia posizione.
Howard Carter si fermò proprio alla mia altezza, mollai la fotocamera e tirai fuori il taccuino dal mio cappotto.
«Ci dica Mr. Carter, qual è stata la parte più difficile della scoperta?»
«La cosa più complicata è stata trovare la tomba» scherzò. Tutti i presenti scoppiarono in una risata.
«Sì. Davvero.» aggiunse. «La cosa più difficile è stata mantenere una costanza sufficiente durante anni di intensa ricerca.»
«Grazie, Mr. Carter.»
Carter e la sua compagna salirono le scale dove il direttore del British Museum li stava aspettando con il primo ministro e altre autorità per stringergli la mano.
Durante la visita spiegò a tutti i presenti come era stata la scoperta della stanza che ospitava la tomba di Tutankhamon. Ebbero la possibilità ammirare fotografie e repliche della scoperta, poiché i pezzi originali si trovavano ancora in Egitto.
Successivamente, le autorità e lo stesso Carter se ne andarono ad un cocktail party che avevano preparato in suo onore in uno dei ristoranti alla moda della città. Nel frattempo, noi controllammo in modo più dettagliato l'incredibile scoperta che aveva fatto. Tutti gli oggetti nella camera sepolcrale erano in perfette condizioni. Era stato un vero miracolo che i ladri di tombe non avessero profanato un tesoro così incredibile per secoli.
Quella notte tornai in redazione per preparare l'articolo che sarebbe stato in prima pagina su tutti i giornali della città. Provai a dargli un tocco personale per differenziarlo dalle cronache dei miei colleghi.

La mattina seguente tornai presto alla sede del giornale, che era un edificio a cinque piani in stile modernista costruito all'inizio del secolo. Salii l'ampia scala fino al secondo piano e trovai la stessa routine che si respirava quotidianamente. Un incessante passaggio di persone che entravano ed uscivano dagli uffici con qualche notizia da raccontare.
Attraversai il corridoio tra il rumore assordante delle macchine da scrivere, il suono dei telefoni che squillavano senza sosta, le continue urla dei corrispondenti e un forte odore di tabacco che rendeva l'atmosfera irrespirabile.
Aprii la porta ed entrai nell'ufficio del direttore, un sessantenne scozzese con un naso aquilino, folte basette e una faccia magra. Quella mattina aveva riunito diversi redattori di cui si fidava.
«Entra e chiudi la porta» disse imbronciato. «Da quando mi è stato vietato fumare, non sopporto questo odore.»
«Subito signore» rispose Sarah, caporedattore.
Quel giorno aveva abusato del suo profumo francese e non lasciava nessuno indifferente.
«Abbiamo molto lavoro da fare stamattina. Il numero della domenica ha fatto diminuire le vendite in modo allarmante negli ultimi due mesi» affermò, battendo forte il pugno sul tavolo. «Se continuiamo così, il giornale colerà a picco. Abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo che metta il Daily Telegraph in prima linea in questa città.»
«Potremmo aggiungere qualche racconto poliziesco» commentò un redattore appena arrivato dalla concorrenza.
«Troppo banale» disse mentre si metteva le mani sui fianchi. «L'hanno già provato in altri giornali ed è stato un fallimento. Tutti gli scrittori di questa generazione si considerano Conan Doyle.»
Un giovane corrispondente che aveva iniziato a lavorare la settimana precedente tirò fuori la sua pipa, la caricò di tabacco e accese un fiammifero. Lo scozzese si avvicinò e gli tolse la pipa dalla bocca.
«Non mi hai sentito prima?»
Il ragazzo impallidì e tutti trattenemmo una risata. Non sapeva con chi se la stava giocando.
«Altre idee?» ringhiò.
«Forse un manuale di giardinaggio o bricolage» aggiunse Sarah.
«In questo Paese, tutti si intendono di giardinaggio» rispose con un gesto sprezzante. «Se pensate di dire solo cose stupide meglio che stiate zitti» aggiunse con uno sguardo minaccioso. «Abbiamo bisogno di qualcosa di innovativo.»
Tutti i presenti rimasero in silenzio per alcuni minuti senza sapere cosa dire. Andai alla macchinetta del caffè e mi versai una tazza ben colma. Mi girava in testa un'idea dalla scorsa notte, ma non sapevo se dovessi dirla.
«Penso di avere qualcosa di interessante» dissi mentre appoggiavo il caffè sulla scrivania.
«Ti ascolto.»
«La scoperta di Carter in Egitto potrebbe rivelarsi una miniera d'oro. Ha fatto dimenticare alle persone i disastri della guerra.»
«Dove vuoi andare a parare?»
«La gente continua ad avere un insaziabile desiderio di conoscere delle storie dai nostri grandi esploratori.»
«Queste spedizioni possono si possono trovare in qualsiasi biblioteca pubblica.»
«È vero. Ma potremmo sorprenderli con qualche storia poco conosciuta. Ci sono migliaia di storie interessanti in attesa di essere pubblicate.»
«Non so se funzionerà» rispose incerto. «E dove pensi di trovarle?»
«Potremmo iniziare con la biblioteca del British Museum.»
Rimase qualche istante in silenzio, a testa bassa, e aggiunse:
«Se nessuno ha un'idea migliore, ci proveremo per qualche giorno.»
La riunione era terminata. Lasciammo l'ufficio e continuammo con il nostro lavoro quotidiano.

Al mio risveglio, la finestra era coperta da un manto bianco. Dopo un anno intero senza neve, aveva nevicato e le strade erano piene di bambini che continuavano a lanciare palle di neve. Sulla strada per il British Museum vidi un paio di passanti che scivolarono senza essere in grado di evitarlo; il ghiaccio aveva reso impraticabili diverse strade e alcuni operatori iniziarono a spargere il sale per evitare mali maggiori.
Nonostante questo, la biblioteca del Museo era affollata come al solito, attraverso le sue porte entrava e usciva un'ondata incessante di persone: studenti, lettori, turisti e ricercatori che trascorrevano ore tra quelle mura.
Salii le scale facendo attenzione a non scivolare, attraversai l'ingresso e raggiunsi l'atrio: una grande sala di lettura circolare con spazio per più di mille persone. Lì si trovavano i volumi più antichi di Inghilterra.
Dovetti fare la fila al banco della reception fino a quando una bella bibliotecaria con i capelli biondi di lunghezza media e un abito blu scuro mi indicò da dove potevo iniziare la ricerca.
«Possediamo tre tipi di inventari» spiegò, sollevando i suoi begli occhi oltre i minuscoli occhiali rotondi «topografico, cronologico e tematico.»
«Sto cercando i resoconti delle esplorazioni degli ultimi cinquant'anni.»
La funzionaria sospirò.
«Inizi la ricerca per “Argomenti”. Quindi può fare uno studio cartografico e, infine, espanderlo in ordine cronologico.»
«Ciò significa che posso trovare informazioni in tutti e tre gli inventari?»
Lei annuì con un mezzo sorriso.
Udendo le sue parole, mi coprii il viso con le mani.
Andai al secondo piano e, dopo aver attraversato diverse corsie piene di scaffali, trovai una sezione con vari manoscritti.
Chiesi al responsabile della documentazione e lui depositò sul tavolo una montagna di fascicoli che superava la mia altezza.
«È tutto per oggi?» chiese.
«Lo spero» risposi rassegnato.
«Se non finisce, abbiamo degli scaffali alla reception dove i ricercatori conservano le loro informazioni per il giorno successivo.»
«Molte grazie. Molto gentile.»
Accesi la piccola lampada verde disponibile per ogni tavolo e aprii il primo dossier, proprio come avrei fatto nei giorni seguenti.
Dopo un paio di giorni di ricerche iniziai a pentirmi della mia proposta, quella questione non sarebbe stata facile. Le informazioni erano infinite, ci sarebbero voluti anni per studiarle a fondo. Trovai dagli esploratori che avevano scoperto i luoghi più remoti in Africa e in Asia, agli archeologi che avevano scoperto l'eredità storica dell'Oriente.
A metà mattina, mentre giravo alcune pagine, vidi un ragazzo che continuava ad osservarmi alcuni tavoli più avanti. Non sapevo se lo conoscevo o se mi stesse cercando per qualche motivo. Provai a ricordare e non avevo debiti con nessuno. Un attimo dopo guardai di nuovo e non era più lì.
Dopo pranzo stavo percorrendo gli scaffali della Biblioteca. Mi sembrava un vero privilegio passare le punte delle dita su quei volumi con così tanti secoli di storia: il diario personale di Stanley nella sua odissea per l'Africa fino a trovare le fonti del Nilo e il suo successivo incontro con Livingstone. Le difficoltà che gli esploratori dell'Artico guidati da Shackelton affrontarono quando la loro nave rimase intrappolata nel ghiaccio per mesi e quasi persero la vita; la corsa per la conquista del Polo Sud tra Amundsen e Scott in cui tragicamente quest'ultimo finì per perdere la vita e le diverse scoperte archeologiche dei nostri più acclamati esploratori.
Quell'indagine non mi portava da nessuna parte e avevo bisogno di cambiare.
«Mi scusi, signorina, mi ha detto che oltre alla documentazione scritta potevo anche consultare le mappe.»
«Non abbiamo solo mappe, abbiamo anche giornali e fotografie.»
La mia faccia impallidì come il primo giorno; quella ragazza era una fonte infinita di buone notizie.
Questa volta dovetti scendere nel seminterrato. Lì rimasi a studiare diverse mappe e giornali del XIX secolo. Sebbene queste letture fossero interessanti, la maggior parte delle informazioni era già nota al grande pubblico. Il mio compito era quello di scoprire qualcosa di nuovo e in quattro giorni avevo trovato solo un paio di storie che vale la pena rivedere.
Ero assorto tra i giornali che emanavano ancora un forte odore di inchiostro quando qualcuno mi coprì gli occhi e l'inchiostro lasciò il posto a un profumo gradevole.
«Adriana!» esclamai senza essere convinto.
«Sei un indovino o cosa?» chiese sorridendo.
Adriana era una siciliana con intensi occhi verdi, un sorriso facile e la migliore ballerina che avesse mai conosciuto. Era emigrata con i suoi genitori da bambina.
«Cosa ti porta da queste parti?» mi chiese, sedendosi di fronte a me.
«Lo vedi. Al giornale un giorno sei in Parlamento e quello successivo alla ricerca di informazioni in una biblioteca.»
«Che invidia. Io passo tutto il giorno dal parrucchiere.»
Annuii con un sorriso.
«Andrai alla sala da ballo questo sabato?»
«Certo. Sono affascinato dalla mia insegnante.»
«La conosco?»
«Ora che ci penso, assomiglia molto a te.»
Lei scoppiò a ridere e dal tavolo accanto iniziarono a guardarci.
«Ti lascio continuare a lavorare. Stasera vado a vedere l'ultimo film di Gloria Swanson, vieni?»
«Impossibile. Ho molto lavoro. Ci vediamo sabato.»
Mi diede un bacio sulla guancia e se andò sorridente.
Dopo un po' scoprii tra gli scaffali il ragazzo che mi stava osservando tre giorni prima. Senza pensarci due volte mi alzai e andai a chiedergli spiegazioni, ma quando arrivai non c'era più nessuno. Percorsi un paio di sale e non lo trovai, sembrava che la terra lo avesse ingoiato; questa faccenda iniziava a puzzarmi.
Venerdì mi arrivarono voci che il mio capo non era soddisfatto del mio lavoro. Gli avevo ripetutamente detto che avevo bisogno di più assistenti per la ricerca, ma non prese sul serio le mie richieste.
Tutto il lavoro ricadeva sulle mie spalle. La cosa più frustrante era che se la pubblicazione si fosse rivelata un successo, tutto il merito sarebbe ricaduto sul giornale e sul suo direttore. Per me ci sarebbe stata solo una piccola recensione alla fine di ogni articolo con il nome stampato, mentre se fosse stato un fallimento l'unico colpevole ero io.

Dopo una settimana di ricerche, Mr. Dillan mi mandò a chiamare. Arrivato alla sua porta notai che le lune di vetro del suo ufficio erano cambiate e il suo nome poteva essere letto su un enorme cartello.
«Cosa mi porti oggi?» chiese scettico. Sapevo dai miei colleghi che non avevo scoperto nulla di nuovo «Hai trovato qualcosa che può essere pubblicato?»
Mi tolsi l'impermeabile e il cappello, li appesi all'attaccapanni accanto al portaombrelli. Poi mi sedetti su una sedia di rovere consunta.
«Ho un paio di storie di esploratori africani che hanno scoperto piccoli fiumi sulla costa occidentale.»
Lo scozzese scosse la testa ancora e ancora.
Si avvicinò alla radio e spense un discorso noioso del Primo Ministro.
«Aggiungendo una piccola avventura e decorando un po' l'articolo, potremmo pubblicarlo.»
«E me lo porti solo dopo una settimana?» rispose, fissandomi. «Non sarai stato al pub con quella bruna?»
Scossi la testa.
«Passo tutto il giorno a lavorare nel museo» risposi. «L'italiana è una buona amica che mi insegna a ballare il charleston.»
«Quella porcheria di ballo americano?»
«È divertente» affermai sorridendo. «Dovrebbe provarlo.»
Mr. Dillan mi fissò con i suoi occhi poco amichevoli ed io abbassai lo sguardo.
«Ho ricevuto un permesso dalla Royal Geographical Society per fare ricerche nelle sue strutture» annunciò, consegnandomi il documento. «A partire da domani lavorerai lì.»
«É una notizia fantastica, signore.»
«Spero che porterai notizie migliori la prossima volta. Ora levati dai piedi. Ho molto lavoro.»

Mi rigirai un paio di volte sul cuscino, balzai in piedi e preparai un caffè forte. Quella mattina mi sentivo con l'animo rinnovato. Era il mio primo giorno nella biblioteca della Royal British Geographical Society, il più alto esempio in materia. Lì lasciavano fare ricerche solo a personaggi molto influenti nel campo delle università di Oxford e Cambridge. Fortunatamente, Mr. Dillan era il nipote di uno dei mecenati più influenti di quell'istituzione e ottenemmo un permesso per fare ricerche per due settimane.
La biblioteca della Società era più piccola di quella del British Museum, ma conservava veri tesori. Nei primi giorni le ricerche proseguirono sugli stessi percorsi della settimana precedente. Erano tutti nomi noti di famosi esploratori che avevano scritto pagine gloriose nella storia dell'Impero Britannico.
La mia sorpresa arrivò quando meno me lo aspettavo: stavo rivedendo le spedizioni in Medio Oriente quando scoprii un nome che si ripeteva sia nelle scoperte dell'area mesopotamica che in quella egiziana: il suo cognome era Henson.
Ciò che mi colpiva di questo caso era che compariva solo nei documenti allegati all'originale, mai nel giornale ufficiale della spedizione, il che attirò in particolare la mia attenzione. Continuai le ricerche per due giorni senza trovare il suo nome in ulteriori esplorazioni; non sapevo se la ragione fosse la sua morte o la scomparsa in qualcuna di esse.
Il mio interesse continuò a crescere per un caso così insolito e decisi di concentrarmi su di lui.
Realizzai una ricerca dettagliata, prima in ordine alfabetico in base all'indice degli esploratori e, successivamente, in ordine cronologico per data, ma non c'era ancora nulla.
Decisi di provare una nuova strada e chiesi al responsabile dell'archivio se conoscesse un tale Henson. Sfortunatamente, svolgeva quel lavoro solo da un paio d'anni e non aveva mai sentito parlare di lui in tutta la sua vita.
Dopo aver pranzato con un polpettone con verdure tornai in redazione e chiesi ai colleghi che erano al giornale da più tempo se quel nome gli suonava familiare. Nessuno ne aveva mai sentito parlare.
Quel pomeriggio tornai alla biblioteca della Geographical Society e continuai a cercare per ore. Ancora una volta lo feci secondo l'indice degli esploratori, poi passai ai diari personali che esistevano di alcuni esploratori e, infine, feci una ricerca per l'indice topografico.
Fu in quest'ultimo indice che ritrovai il suo nome, ma questa volta associato ad una spedizione in Sud America. Ciò era ancora più improbabile, poiché pochi esploratori britannici si erano addentrati in quelle terre remote.
La cosa insolita è che lo trovai di nuovo in un documento allegato; non compariva nel diario della spedizione.
Adesso avevo tre riferimenti: due in Medio Oriente e uno nelle Americhe, ma le informazioni continuavano ad essere insufficienti.
Trascorsi l'intera giornata cercando di trovare qualcosa di nuovo, ma Henson era stato inghiottito dalla terra.

Cominciavo a demoralizzarmi con quella faccenda: i lettori del nostro giornale avrebbero dovuto accontentarsi di qualche piccola scoperta nel continente africano che sarebbe risultata minimamente interessante dopo essere stata adornata da un buon editore.
Quel pomeriggio uscii attraverso la porta dell'edificio a testa bassa. Un forte acquazzone imperversava all'esterno e aprii l'ombrello. Si erano formate numerose pozzanghere e il lampione di fronte all'edificio continuava a lampeggiare.
Il custode con cui avevo stretto una certa amicizia mi si avvicinò.
«Come è andata la ricerca?» chiese mentre le gocce di pioggia schizzavano sull'ombrello.
«Male. Non riesco a trovare niente di straordinario su questo Henson.»
«Ieri ho incontrato l'ex custode della Geographical Society. Ricorda che anni fa c'era un certo Henson?»
«Certo!» Come mai non ci avevo pensato prima?! Dovevo chiedere agli ex dipendenti.
Samuel si avvicinò al lampione, lo colpì alla base e risolse il problema. I blackout nei giorni di pioggia erano frequenti.
«Quanto manca alla chiusura?»
«Una mezz'ora. Il venerdì chiudiamo prima.»
«Devo trovare qualcosa per continuare la ricerca.»
Salii rapido le scale e cercai tra i volumi anteriori alla data su cui avevo indagato. L'attività più fruttuosa della Società Geografica iniziò a partire dal 1850, data dalla quale io avevo iniziato le mie ricerche. Ma fu fondata nel 1830, il che significava che c'erano venti anni nei quali non avevo guardato.
Verificai che i volumi appartenenti a quel periodo non avevano nulla a che fare con quelli che avevo studiato in precedenza: nei primi anni l'attività di esplorazione era stata minore.
Decisi di iniziare con la fondazione della Geographical Society e tutto fu più veloce di quanto mi aspettassi. Nelle prime pagine trovai il suo nome: si chiamava Philip Henson ed era stato uno dei co-fondatori della Geographical Society; veniva dal nord dell'Inghilterra, più precisamente dalla città di Newcastle.
Dopo un po', Samuel venne ad avvisarmi dell'orario di chiusura. Lo ringraziai molto per le sue informazioni, perché senza di lui non sarebbe stato possibile continuare. Ora avevo qualcosa di solido a cui aggrapparmi e potevo ottenere il tempo necessario per continuare le ricerche.
Trascorsi i giorni seguenti nella biblioteca a studiare la storia di Mr. Henson, che era un ricco industriale del carbone di una famiglia proveniente dalla parte settentrionale dell'Inghilterra.
Aveva prestato servizio in India nel distaccamento di Janipur, dove aveva incontrato sua moglie Maureen, la cui famiglia era di stanza lì. Dopo essere tornato in Inghilterra, continuò l'attività di famiglia nel settore minerario e dedicò il suo tempo libero limitato alla sua grande passione: la Geografia. Manteneva i contatti con i suoi colleghi dell'Università, che lo convinsero a far parte della nuova Società Geografica appena creata.
Ma divenne un socio simbolico a causa della sua dedizione alla sua attività e andò alle riunioni del Consiglio solo quando il tempo glielo permetteva. Aveva voce e voto in esse, ma non partecipò a nessuna spedizione organizzata nel territorio britannico. Solo quando si trasferì nel nord della Spagna fondò una Società Geografica nella Penisola Iberica e prese parte ad una spedizione.
Questo non aveva senso, poiché aveva trovato il suo nome in tre spedizioni, ma la sua biografia parlava solo di partecipazione alle riunioni del Consiglio.
Lasciai la biblioteca e andai a cercare Samuel, che stava controllando il registro dei visitatori.
«Ho bisogno dell'indirizzo del vecchio custode. Vorrei fargli visita questo pomeriggio.»
«Non sarà necessario. Mr. Mason trascorre tutto il giorno al Two Swans. Un pub alla fine di Kensington Road.»
Non ci pensai due volte e decisi di andare al pub a chiacchierare con Mason. Ne avrei approfittato per mangiare un buon piatto di stufato.
Era un locale situato in un seminterrato con una facciata nera vecchio stile.
Entrando scoprii che era piuttosto animato nonostante l’orario diurno. Lì distillavano un gin che avrebbe steso un cavallo. Mentre mi avvicinavo al bancone, l'odore era più intenso.
«Conosci Mr. Mason?» chiesi al cameriere.
«Ehi, amico! Lei chiede di Mason?» gridò un tipo alto e magro con le sopracciglia pronunciate seduto ad un tavolo vicino al bancone.
«É lei?» chiesi.
«Dipende per chi. Tutti quelli che mi offrono un boccale di birra sono i benvenuti.»
Girai la testa e chiesi al cameriere di servirci due pinte.
Il cameriere annuì abbozzando un sorriso. Dalla cucina mi arrivò l'aroma di uno stufato appena fatto. Ero affamato. Presi le birre e mi diressi al tavolo per sedermi.
«Mi chiamo Paul e sono un corrispondente del Daily Tel …»
«So chi è lei» mi interruppe.
Bevve un lungo sorso di birra e la posò sul tavolo.
«Ricordo solo un Henson. Lo vedevo una volta all'anno.»
«Perché non andava alle riunioni?» chiesi. «Ho capito che era uno dei cofondatori.»
«È molto semplice. La compagnia mineraria per cui lavorava lo trasferì nel nord della Spagna. Andava alla Geographical Society solo quando era in vacanza.»
Ad un tavolo vicino c'era un grande clamore per una partita di bridge. Poco più avanti si udiva il suono incessante di freccette che si piantavano nel bersaglio.
«Sai qualcos'altro?»
Mason scosse la testa.
«Molte grazie. Ho un lavoro in sospeso» gli strinsi la mano e tornai in biblioteca.

Ero in un vicolo cieco. La vita di Philip Henson non era interessante. Dopo una settimana di ricerche non avevo nulla di decente da pubblicare.
Chiesi al mio capo se fosse possibile un colloquio con suo zio, poiché era l'unica persona che lo aveva incontrato. Mi comunicò che era impossibile dato che aveva circa novant'anni, era in cattive condizioni di salute e aveva perso la memoria; avevano vietato totalmente le visite.
C'era ancora una settimana di ricerche ma non sapevo dove continuare a cercare. L'unico indizio che avevo era che la sua famiglia proveniva da Newcastle e che faceva parte della compagnia mineraria North ScaleFoundation.
Dopo aver preso il tè, mi diressi al quartier generale della fondazione mineraria di Londra. Era un edificio sulle rive del Tamigi da cui si contemplavano eccellenti vedute del Big Ben.
Lì, Mr. Harris, un commercialista con profonde occhiaie, mi incontrò in un elegante ufficio vittoriano. La stanza era piena di fotografie delle industrie minerarie e di un paio di vasi di porcellana.
«Entri e si sieda» disse educatamente, «come posso aiutarla?»
Mi tolsi il cappello e la sciarpa e mi sedetti. C'era un forte vento quel giorno.
«Sto cercando informazioni su una posizione elevata nella sua azienda, Mr. Philip Henson.»
«Temo di non aver avuto il piacere di conoscerlo. Mr. Henson è morto diversi anni fa.»
Sul tavolo c'era un luccicante elmetto da miniera e un enorme pezzo di carbone all'interno di un'urna. Accennai a toccarla, ma rinunciai quando vidi che il tipo mi guardava accigliato.
«Potrebbe dirmi qualcosa su di lui?»
«So solo che la sua famiglia proveniva dalla contea di Melvintone, nei dintorni di Newcastle.»
Aprirono la porta e la sua segretaria gli disse che lo stavano aspettando.
«Sua moglie vive lì?»
«Non so nulla di più.»
«Grazie mille, Mr. Harris. Molto gentile.»
Mi congedai con una stretta di mano e uscii dall'ufficio.
Quando lasciai gli uffici, vidi in fondo alla strada la fermata del tram che mi avrebbe riportato a casa. Mentre i passeggeri salivano, mi sembrò di distinguere lo stesso ragazzo che mi stava osservando al Museo.
Senza pensarci due volte, corsi fino alla fermata; un paio di passanti mi insultarono quando li spinsi via. La distanza sembrava breve, ma mentre avanzavo mi sentivo soffocare; stavo invecchiando senza accorgermene.
Riuscii ad attaccarmi al binario posteriore del mezzo proprio mentre il tram si metteva in marcia. Arrivai dentro sfinito, mi chinai e iniziai a tossire, quasi vomitando nel mezzo del tram.
Un piccolo tumulto montò intorno a me, alzai la testa e guardai il ragazzo uscire dall'altra porta quando notò la mia presenza. Non mi restava più la forza per seguirlo di nuovo.

Prima del sorgere del sole andai a Victoria Station e comprai un biglietto del treno per Newcastle. Era la mia ultima possibilità e non me la sarei persa.
Il tragitto mi sembrò breve. Erano solo quattro ore di viaggio in cui si poteva contemplare la grande varietà di colori che i paesaggi della campagna inglese offrivano durante la primavera.
Newcastle è una città grigia, con case basse, dove le persone sono un po' scontrose e non accolgono troppo bene gli stranieri. Fortunatamente non ero lì in vacanza e avrei trascorso un giorno o due al massimo.
Quella mattina noleggiai un'auto e mi diressi in periferia. I paesaggi erano proprio come Emily Brontë li descriveva nei suoi romanzi: brughiere nebbiose con vegetazione sparsa, abbondanti paludi puzzolenti e piccole colline erose dal forte vento e dal freddo durante tutto l'anno. Il tutto accompagnato da una pioggia incessante ancora più intensa rispetto al resto del Paese.
Passai la notte nella pensione della città più vicina alla villa degli Henson. La cena fu squisita e il proprietario mi indicò il percorso che dovevo prendere per raggiungere le loro terre.
Gli Henson vivevano in una fattoria di diverse miglia di estensione a breve distanza dal luogo in cui avevo trascorso la notte: una formidabile dimora a due piani costruita nel XVIII secolo in granito scuro dove spiccavano grandi rampicanti che salivano alle grandi finestre. Sul lato destro si distingueva una piccola palude circondata da betulle dove diverse coppie di cigni bianchi nuotavano maestose.
Il maggiordomo mi fece aspettare alla porta per un po', poi mi disse di seguirlo sul retro della villa; lì c'era un'anziana che si prendeva cura di splendidi cespugli di rose.
Era sua sorella, Emma Henson, una vecchia signora con i capelli argentati e un ampio sorriso, che indossava un elegante abito bianco.
«Piacere di conoscerla.» Si tolse il guanto da giardinaggio e mi strinse la mano.
«Piacere mio.»
«Mi è stato detto che lei viene da Londra per vedere mio fratello.»
«Esattamente. Sono un corrispondente del Daily Telegraph. Stiamo realizzando una serie di reportage sulla Geographical Society.»
La signora Henson fece un cenno al maggiordomo e in pochi minuti ci servirono il tè con una fetta di torta di lamponi.
«Sappiamo che suo fratello era uno dei co-fondatori della Geographical Society e che in seguito partì per la Spagna.»
«Lì ha fondato una filiale della Geographical Society di Londra. Era comune in quegli anni che molti geografi destinati in altri Paesi fondassero nuove associazioni simili all'originale.»
Dall'altra parte del giardino si sentiva il suono delle cesoie del giardiniere che potavano una bella siepe.
«Potrebbe dirmi quali spedizioni sono state effettuate dalla società spagnola?»
Lei scosse la testa.
«E le spedizioni in Sud America e Medio Oriente?»
«Non conosco tali spedizioni. È la prima volta che ne sento parlare.»
Gli insetti cominciarono a svolazzare sul nostro tavolo attratti dal profumo delle torte e la signora Henson li spaventò rapidamente.
«Potrei parlare con sua cognata? Forse lei ha più informazioni.»
«La moglie di Philip è morta molto tempo fa. É stata malata per quasi tutta la sua vita, riuscendo a malapena a passare del tempo con suo marito.»
Mi portai alla bocca un pezzo di torta e sentii il profumo del tè al gelsomino. Decisi di godermi la merenda, perché quella conversazione non mi portava da nessuna parte ed era sempre più complicato ottenere qualcosa di chiaro su quell'argomento.
In quel momento vidi come Emma sorrideva.
«Pensa che ci sia un errore nei dati della Geographical Society?»
«Più che nei dati potrebbe essere nella persona» rispose «è sicuro di cercare il giusto Henson?»
«Non capisco.»
«Forse lei cerca James.»
«Chi è James?»
«James è il figlio di Philip. Fin da piccolo ha provato passione per la Storia e la Geografia. Ha vissuto un periodo in Spagna da adolescente e in seguito è tornato per studiare archeologia all'Università di Oxford. Aveva un grande spirito avventuroso.»
Un grande sorriso si disegnò sul mio viso. Ora capivo tutto. I dati che avevo trovato provenivano da spedizioni del primo decennio del ventesimo secolo.
«Le date che ho trovato coincidono con l'età del figlio a cui lei si riferisce. Non trovavo alcun rapporto tra Philip e le informazioni delle ultime settimane.»
Sorrise soddisfatta.
«E mi dica: dove posso trovarlo?
«Non ho notizie dal ragazzo da quando è andato all'Università. Lo abbiamo perso di vista per anni. L'ultima notizia che abbiamo avuto è che è stato ferito nella Grande Guerra.»
«Mi potrebbe descrivere com'era?»
«Un ragazzo con i capelli scuri e con gli occhi azzurri intensi come quelli di suo padre. Alto e di bell'aspetto, dai tratti squadrati» si fermò per un momento; si emozionava ricordando il nipote. è sempre stato un ragazzo sveglio e intelligente.»
«Grazie mille, Lady Emma. Mi è stata di grande aiuto. Devo prendere il primo treno per tornare a Londra.»
Durante il viaggio di ritorno non smisi di pensarci. Tutto finalmente cominciava a prendere forma, sicuramente il mio capo ora avrebbe accettato di finanziare la ricerca.

Passai per l'ufficio del signor Dillan e gli raccontai l'intera storia. Trovò sorprendente il corso degli eventi e mi disse di prendermi tutto il tempo necessario per risolvere quel mistero.
Senza tempo da perdere, partii per Oxford, a pochi passi da Londra.
A differenza di Newcastle, un intenso colore verde predominava in questa zona della campagna inglese. Si estendeva per miglia e miglia interminabili solcate da una moltitudine di canali fluviali costruiti durante la rivoluzione industriale in diverse parti del Paese.
Le abitazioni con diversi secoli di antichità erano veri gioielli architettonici. Era un piacere perdersi nelle sue strade e respirare quell'ambiente universitario in cui transitavano studenti provenienti da tutto il mondo.
Arrivai all'ora di pranzo e mangiai dei panini con un boccale di birra in un affollato pub del centro.
L'Università era composta da una serie di edifici in stile gotico con grandi finestre che inondavano il suo interno di luce. Quando attraversai il giardino del campus trovai alla mia destra diversi gruppi di studenti che chiacchieravano all'ombra di un albero, alla mia sinistra c'era una squadra che giocava a rugby in un ampio prato e, in fondo al sentiero, alcuni atleti trasportavano a spalle un paio di canoe.
Conoscevo già il concierge da precedenti indagini. Era un irlandese paffuto di mezza età con maniere squisite che mi riceveva sempre cordialmente.
«Buon pomeriggio, Richard. Come va la vita?»
«Molto bene. Cosa la porta qui stavolta?»
«Sto cercando la biografia di uno studente che ha frequentato nell'ultimo decennio del secolo scorso.»
«Lo troverà facilmente. Sa il suo nome e cognome?»
«Sì, James Henson.»
«Vada in segreteria e compili il modulo.»
Entrando nell'edificio passai accanto ad una classe dove si udiva un insegnante che faceva una lezione di Filosofia.
Dopo pochi minuti ottenni il fascicolo di James. Aveva studiato Archeologia tra gli anni novanta e novanta cinque. Era un esperto orientalista specializzato nella scrittura cuneiforme. Ciò spiegava le sue spedizioni in Medio Oriente, sebbene continuassi a non capire ancora cosa avesse fatto in Sud America.
Chiesi di nuovo a Richard se qualcuno potesse aiutarmi in quella questione.
«Il Dipartimento di Orientalisti è il più grande del campus. Tutti gli studenti vogliono scoprire i misteri della civiltà egizia.»
Io annuii.
«Il più appropriato sarebbe il professor McKingley. È dello stesso corso. Forse lo conosce. Ma questa settimana partecipa al congresso di archeologia del Medio Oriente che si tiene a Berlino. Dovrà aspettarlo.»
In quel momento suonò la campanella che segnava la fine delle lezioni e la maggior parte degli studenti iniziò ad uscire con grande entusiasmo.
«Chi potrebbe informarmi sulla spedizione in America Latina?» chiesi alzando la voce. Non si riuscì a udire nulla per alcuni istanti.
«Con quella parte avrà più fortuna. Non ci sono molte persone specializzate in questa materia nella nostra Facoltà. La più grande esperta in quel campo è Lady Margaret. Il suo ufficio è al secondo piano dell'ala ovest.»
Mi diressi verso l'edificio e, dopo aver attraversato l'imponente atrio, salii in ufficio e bussai alla porta. Mi ricevette educatamente ed entrai nel suo ufficio.
Lady Margaret indossava un abito verde che metteva in risalto ulteriormente i suoi occhi penetranti; i capelli biondi erano raccolti in un elegante chignon che abbelliva il suo viso sottolineando gli zigomi prominenti.
«James? Sì, certo che lo conosco. Abbiamo fatto una spedizione in Sud America insieme. Cercavamo le vestigia delle civiltà precolombiane.»
«In che epoca è successo?» chiesi con un sorriso.
«All'inizio del secolo.»
«Stavo facendo delle ricerche su quella spedizione alla Geographical Society e non ho trovato quasi nessuna informazione. Solo sul retro di un documento c'era il suo cognome.»
«Forse non ha fatto la ricerca giusta» rispose lei molto sorpresa. «Ora che me ne parla, l'ultima volta che ho controllato il registro sono apparsi solo i miei dati. Anche a me è sembrato molto strano.»
Sentii le sue parole sconcertate; non mi aspettavo quella risposta.
«Dovrà scusarmi, ma tra qualche istante ho una lezione» disse, alzandosi dalla sedia e raccogliendo un paio di libri. «Se vuole sapere qualcos'altro, può passare a casa mia questo pomeriggio.»
«Sarebbe formidabile, Lady Margaret.»
«L'indirizzo è Corton Road numero cinque. Si trova a sud, proprio all'uscita della città. Alle quattro va bene?»
«Ci sarò.»
«È l'ultima casa dell'isolato. Quella con i tulipani all'ingresso» aggiunse quando uscimmo nel corridoio. «Non può sbagliare.»

Capitolo II
Quel pomeriggio Lady Margaret mi ricevette a casa sua. Mentre serviva il tè in eleganti tazze di porcellana accompagnate da paste danesi al burro e un magnifico cioccolato belga regalo di una studentessa, continuavo ad ammirare il suo superbo salone. Sembrava aver cercato ogni pezzo per anni in modo che tutto si adattasse perfettamente, come se fosse il meccanismo perfetto di un orologio svizzero.
Le pareti erano piene di numerose tele, per lo più scene di caccia con un colore enorme. Al centro, un bellissimo camino bianco presidiava la stanza. Di fronte c'era un magnifico divano in pelle accanto a due poltrone stampate con colori chiari e alla sinistra del camino c'era un grande mappamondo terrestre accanto ad una libreria in noce che conteneva i grandi classici della letteratura russa. All'altra estremità del salone, sotto la finestra principale, un grande pianoforte a coda completava la decorazione.
«Le dirò tutto quello che so» disse dopo essersi accomodata sulla sua poltrona.
Londra, 1902
«Stavo tornando dallo shopping quando ho dovuto sollevare i risvolti del colletto del mio cappotto e allacciarlo stretto. Il cielo si era rannuvolato e le foglie di cipresso iniziavano a cadere sotto i miei piedi mentre attraversavo Hyde Park. Fortunatamente, la mia casa era a soli due isolati di distanza, quindi ho accelerato il passo.
All'arrivo trovai il postino che suonava al campanello della mia porta.
«Signor Hargreaves, ha posta per me?»
«Un telegramma, signorina Spencer» disse, girando la testa. «Deve firmare qui.»
Aprii la porta, entrai in casa e lessi il telegramma con impazienza. Era un messaggio della Geographical Society in cui mi convocavano nell'ufficio del direttore.
La mattina dopo mi svegliai presto; avevo dormito a malapena, perché i miei nervi mi attanagliavano. Il telegramma non spiegava perché la Geographical Society avesse bisogno dei miei servizi. Feci colazione con un paio di fette di pane tostato con un tè e mi diressi in una carrozza verso Kengsington Street, nel centro di Londra.
Durante il tragitto vidi attraverso il finestrino le lampade elettriche che continuavano a restare accese in quelle ore mattutine; non molto tempo fa avevano sostituito le luci a gas. In quel momento mi venne in mente quanto il tempo passa rapidamente.
Avevo finito gli studi universitari due anni prima e mi stavo preparando per fare l'insegnante. La maggior parte dei miei colleghi era specializzata in egittologia, che all'epoca era la cultura più richiesta, mentre io avevo optato per la civiltà precolombiana.
Mio padre, dopo un viaggio d'affari nelle Americhe, ci regalò diversi libri da bambini che raccontavano i loro costumi. Da quel momento è iniziata la mia passione per queste culture e alla fine sono diventata una delle prime laureate nella cattedra che era stata istituita alcuni anni prima all'Università di Oxford.
Sentii il cavallo nitrire quando il vetturino tirò le redini e smise di far risuonare gli zoccoli sull'asfalto. Il cocchiere scese dalla carrozza, aprì la porta e scesi le scale di fronte all'ingresso principale.
La Geographical Society era un edificio a tre piani di mattoni rossastri e tetti neri con grandi finestre. Un po' piccolo secondo me per rappresentare un'istituzione così notevole. Attraversai l'ingresso principale e una magnifica sala fiancheggiata alla sinistra dagli uffici dei membri della Società e a destra da una delle biblioteche più splendide del Regno Unito. Al secondo piano si trovava la grande sala in cui si tenevano le riunioni del Consiglio per discutere dei progetti che arrivavano ogni giorno alla loro sede generale. Di fronte c'era l'ufficio del direttore.
La segretaria mi fece passare in un elegante ufficio decorato con mobili in mogano, dove spiccava una libreria gotica con volumi antichi e una scrivania francese con un mappamondo del XVI secolo accanto ad un busto in miniatura di Charles Darwin.
Sulle sue pareti si potevano vedere vari oggetti portati da innumerevoli spedizioni.
Lì mi ricevette il direttore della Geographical Society: un signore con folti capelli grigi e occhiaie pronunciate vestito con un abito nero e un elegante gilet grigio. Alla sua sinistra c'erano altri due signori nella sala.
«Benvenuta, signorina Margaret. Mi consenta di presentarle il professor Cooper, uno specialista in Storia Americana, e il signor Henson, un abile archeologo che è appena tornato dalla sua ultima spedizione in Egitto.»
«È un piacere conoscerla.»
«Anche per me, signorina Spencer» disse James.
«Si accomodi.»
«Grazie» risposi. E mi accomodai sulla sedia.
Il direttore si sedette di fronte a me in un'elegante poltrona in pelle nera; emanava un forte profumo di acqua di colonia. Aprì una cartella che aveva sul tavolo con il mio nome stampato, diede una rapida occhiata e la richiuse.
«La mia segretaria le ha detto il motivo della sua convocazione?»
Scossi la testa.
«Ho un'altra riunione tra cinque minuti. Glielo spiegherò brevemente. Dopo aver analizzato attentamente il suo curriculum crediamo che lei sia la persona migliore per far parte della nostra prossima spedizione in Sud America.»
Restai senza parole; era quello che avevo sempre sognato di sentire fin da quando ero bambina.
«La spedizione sarà guidata dal signor Henson» spiegò mentre si voltava verso di lui. Oltre alla sua esperienza come archeologo, parla perfettamente lo spagnolo. Il professor Cooper è un grande studioso nella storia del continente americano. Penso che vi conosciate già, era un professore all'università se non sono male informato?»
Affermai con un lieve cenno del capo.
«E allora? Cosa ne pensa di far parte del nostro progetto?»
«Mi lascia senza parole. Pensavo che mi aveste chiamato per aiutarvi in qualche trascrizione come in precedenti occasioni.»
Il direttore sorrise debolmente.
«È un privilegio che mi abbiate notata» aggiunsi prima di continuare a parlare. «Sarei felice di far parte della spedizione.»
«Sono contenta che lei abbia deciso così in fretta. Nella sala riunioni, il signor Henson le spiegherà di cosa tratta il progetto.»
«Grazie mille per questa opportunità» risposi, stringendogli la mano. «Spero di non deludervi.»
«Non ho dubbi, signorina Spencer.»
Ci salutò cordialmente e James ci condusse nella stanza accanto.
Entrando nella sala riunioni, la prima cosa che si distingueva era un gigantesco atlante mondiale in cui spiccavano le grandi scoperte della Geographical Society.
Su entrambi i lati erano appesi i ritratti dei grandi esploratori che avevano dato prestigio alla Geographical Society dal XIX secolo. Quando passai accanto ad essi immaginai come il mio ritratto sarebbe stato vicino a quello di quei grandi personaggi. Due grandi lampadari sul soffitto completavano la decorazione di quell'imponente sala.
Il professore ed io ci sedemmo al tavolo riservato alle riunioni del Consiglio, mentre James iniziò a spiegare il progetto su una grande carta geografica.
La mia prima impressione fu quella di un giovane entusiasta e impegnato per il lavoro che stava realizzando. Di media statura e profondi occhi blu, in lui spiccava una barba folta che, secondo me, non gli donava molto, nonostante il suo bel sorriso. Le maniere squisite denotavano la sua origine da una famiglia aristocratica.
«Dei contadini hanno scoperto una città abbandonata negli altopiani» spiegò.
Si avvicinò alla mappa e indicò l'area a cui si riferiva.
«Si sa qualcosa sulla città?» chiesi con grande interesse.
«Abbiamo a malapena qualche informazione. Per anni alcuni viaggiatori avevano fatto dei riferimenti a questo posto, anche se molto pochi. Si pensava che fosse uno dei miti e delle leggende che circolano in quella zona.»
Annuii mentre prendevo nota su un piccolo taccuino.
«Ho potuto studiare diversi libri spagnoli e in nessuno di essi viene menzionato» continuò con una scrollata di spalle. «Questo mi sembra ancora più intrigante.»
«Quale sarà la nostra missione?» chiese il professore.
«La mia missione sarà la supervisione e l'organizzazione della stessa. La sua, signorina Spencer, la trascrizione di tutta la documentazione che troveremo» aggiunse, posizionandosi di fronte a me. «Lei professore, ci aggiornerà sulla cultura precolombiana prima della conquista spagnola. Altre domande?»
Entrambi facemmo cenno di no con la testa.
«Qui avete la cartografia più recente.»
Aprì una cartella sul tavolo e distribuì diversi documenti.
«Farete uno studio preliminare prima di partire per la nostra destinazione. La nave salpa tra quattro giorni.»
Il professore ed io ci guardammo stupiti. Tentammo un cenno di protesta, ma Henson aveva già lasciato la stanza.

Un giorno prima della nostra partenza, James ci diede appuntamento nell'elegante sala da tè di Abbey Road per terminare alcune ricerche prima di imbarcarci. Arrivai pochi minuti prima del previsto perché fuori imperversava un forte acquazzone e decisi di aspettare all'interno.
Quella sala era diventata uno degli ambienti di moda in città. Era un posto accogliente dove venivano servite le migliori torte del centro di Londra. Le pareti erano decorate con un tenue indaco, con appese delle tele raffiguranti la campagna sudorientale. Il loro colore era in contrasto con il mogano scuro dei tavolini e le sue bellissime sedie erano tappezzate con uno schienale in verde cobalto.
Passai accanto ad un espositore pieno di un vasto assortimento di dolci, il loro colore intenso saziava l'appetito ancor prima di assaggiarli.
Ero ubriaca dell'irresistibile profumo proveniente dal forno della cucina e dei suoi sapori incomparabili: formaggio marmorizzato con lamponi, banana con gocce di cioccolato, limone con cocco, caffè intenso, cioccolato con glassa alla vaniglia, zucca morbida, noci di macadamia e salsa al caramello.
Al centro del locale spiccava una grande vetrina rotante, di diversi piani, con torte a tre e quattro strati con sapori molto simili alle paste.
Mi sedetti di fronte ad una grande finestra dove ascoltavo il rumore prodotto dall'altro lato del vetro dalle sottili gocce di pioggia che punteggiavano la strada.
Guardai l'orologio a cucù che presidiava la sala quando risuonarono le quattro. In quel momento James apparve con un abito grigio perla, un gilet color crema e un elegante fazzoletto azzurro annodato al collo. Lasciò l'ombrello nel portaombrelli e porse il cappello a una snella cameriera dai capelli rossi che gli rivolse un ampio sorriso. Si guardò intorno e gli feci un cenno dal mio tavolo; l'ambiente era affollato ed era difficile riconoscere qualcuno.
«Buon pomeriggio, signorina Spencer» disse mentre mi baciava la mano e si sedeva «Aspetta da molto tempo?»
«Solo da dieci minuti. Ero nella libreria alla fine della strada a guardare alcuni volumi e sono arrivata in anticipo.»
«Posso?» chiese James.
Prese il libro che era sul tavolo e cominciò a sfogliarlo.
«Grandi speranze di Dickens. Ottima scelta.»
«L'ho comprato per il viaggio» risposi con un sorriso. «Sembra che il professore sia in ritardo.»
«È indisposto. Andrò a casa sua per dargli i passaporti e a documentazione. Ecco il suo.»
Prese i visti dalla tasca interna della giacca e me li porse. La Geographicalal Society era responsabile di tutte le procedure burocratiche di cui avevamo bisogno durante il nostro viaggio. Era incredibile la rapidità con cui avevano ottenuto il passaporto e qualsiasi tipo di documentazione.
«Spero non sia nulla di grave» replicai allarmata.
«Uno dei suoi attacchi di gotta. Dovrà riposare sulla nave e seguire una cura per un paio di settimane.»
Mi sentii sollevata. Conoscevo il professore da anni e sarebbe stato un grande supporto per me durante quel viaggio. Non avevo voglia di viaggiare da sola con Henson.
James ordinò un tè e poi una cameriera con le guance rosa passò con il carrello dei dolci; sembravano deliziosi. Ne scegliemmo due ciascuno. Non sapevamo a cosa avremmo dovuto attenerci con il cibo in futuro e approfittammo dell'occasione.
«So che lei è una delle prime laureate della sua Università» affermò, posando la tazza di tè. Non l'aveva lasciata riposare abbastanza a lungo ed era ancora in ebollizione.
«Mi scusi se la correggo» risposi mentre assaggiavo una torta di mirtilli. «Da anni le donne si laureano nonostante l'opposizione dei settori conservatori. Continuano a pensare che l'istruzione universitaria dovrebbe essere solo maschile.»
«Non intendevo offenderla. Mi riferisco ad un commento fatto dal direttore della Geographical Society.»
«Il direttore è un grande amico di mio padre. Gli sono molto grata per l'opportunità che mi hai dato» spiegai. «Ma lei sarà d'accordo sul fatto che la Geographical Society non ha mai incoraggiato la partecipazione femminile.»
James annuì con la testa.
«Se sono qui oggi, è a causa del poco interesse mostrato per le culture precolombiane nel nostro Paese. Non c'erano molte altre opzioni quando si assumeva un esperto nella materia.»
«Passeremo molto tempo a lavorare insieme» mi interruppe «Cosa ne pensi se ti chiamo con il tuo nome di battesimo?»
«Perfetto» aggiunsi con un ampio sorriso. «Anch'io comincerò a darti del tu.»
«Per rispondere alla tua domanda, Margaret, è vero che ci sono pochi esperti nella cultura precolombiana. La maggior parte dei nostri studenti non si è mai preoccupata del proprio passato nelle mani degli spagnoli.»
«La distanza e il fatto che parlano un'altra lingua non li ha avvantaggiati.»
«Se il direttore ti ha scelta, è perché sei ben preparata per questa spedizione.»
«Grazie, James. Apprezzo le tue parole.»
Continuammo a chiacchierare ancora per un po' finché non decidemmo di andarcene. C'era molto da preparare quel pomeriggio. Quando lasciammo l'edifico, aveva smesso di piovere e la strada era di nuovo piena di gente.
«Una carrozza ti verrà a prendere presto. Ci vediamo alla Geographical Society.»
«D'accordo. Dirò addio alla mia associazione e poi terminerò i bagagli.»
«Un club di lettura?»
Scossi la testa.
«Appartengo al movimento delle suffragette del West End.»
James non rispose e se ne andò lungo la strada.

Ci imbarcammo a metà pomeriggio nel porto di Southampton verso il nord della Spagna, dove ci attendeva il vapore che faceva la rotta dall'Europa ai Caraibi. La nostra destinazione era la città di Cartagena delle Indie, nel nord della Colombia.
Ci sistemarono in cabine adiacenti al terzo piano della nave. Piccoli scompartimenti senza bagno interno, con un letto nella parte inferiore e diverse poltrone. Erano decorati con motivi marini e avevano un oblò.
Il viaggio aveva una durata di quaranta giorni, tempo più che sufficiente per definire i preparativi per la nostra spedizione e conoscerci un po' meglio.
I primi giorni esplorammo quella splendida nave. Era un transatlantico di dimensioni impressionanti con giganteschi camini che espellevano il fumo nell'aria lasciando una larga nuvola nera sul suo cammino. La nave si stava fermando su diverse isole prima di raggiungere la sua destinazione finale nelle Americhe.
Le classi sociali erano ben definite nell'infrastruttura della nave. Noi alloggiavamo in prima classe, dove i passeggeri avevano tutti i tipi di comfort, quasi nessun contatto con il resto, dove emigranti e avventurieri erano situati nelle cabine inferiori. Il numero di passeggeri superava di gran lunga la capacità della nave.
La Transatlantic Company ospitava i sogni di uomini e donne che lasciavano il loro Paese in cerca di prosperità e nuovi orizzonti.
Ogni giorno c'erano storie di familiari e amici che vivevano come re dall'altra parte dell'Atlantico. La popolazione era triplicata in Europa, l'assenza di opportunità di lavoro e le cattive condizioni di vita rendevano le Americhe un'occasione unica per trovare un futuro migliore.
La mattina ci riunivamo nella cabina di prua per continuare a studiare il progetto, mentre i pomeriggi li trascorrevamo nella sala principale bevendo tè e giocando a carte in compagnia di diversi uomini d'affari britannici che avevano affari in America Latina.
Devo ammettere che James era un buon compagno di bridge, ma la coppia con cui giocavamo era spesso così esperta che non ci fu modo di vincere una partita durante tutto il viaggio. Il professore continuava il suo attacco di gotta e riposava nella cabina studiando le culture mesoamericane.
Un pomeriggio, la signora McLeyton, un'anziana robusta con le guance rosee e suo marito, Fraser, un colonnello allampanato del Royal Army, lasciarono il gioco prima del solito soffrendo di forte nausea, lasciando me e James al tavolo del bridge a degustare uno soave tè di Ceylon. Durante i fine settimana c'erano spettacoli musicali nel salone. Quel giorno, salì sul palco una soprano avanti con l'età con un abito malva vecchio stile. Si fermò accanto ad un elegante pianoforte a coda e iniziò a cantare la Carmen di Bizet.
«Dio mio!» esclamai coprendomi il viso quando cominciò a cantare.
James iniziò a ridere senza sosta. Era la peggior interpretazione che avesse mai sentito.
Dal tavolo accanto iniziarono a guardarci, ci alzammo e decidemmo di fare una passeggiata sul ponte.
Alcuni passeggeri si godevano la splendida giornata sdraiati su comode amache con un libro in mano. I bambini correvano senza sosta al nostro passaggio e pochi metri più avanti giocavano a shuffleboard o, come lo chiamavano gli spagnoli su quella nave, il gioco del Tejo. Una coppia di sposi novelli si divertiva a lanciare i dischi con una palette a forma di scopa cercando di ottenere il punteggio più alto possibile.
«Ti piacerebbe fare una partita?»
«Forse un'altra volta» risposi con un sorriso. Ero molto impacciata nei giochi.
Continuammo la passeggiata e quando arrivammo alla fine della nave ci appoggiamo al bordo mentre contemplavamo la schiuma lasciata dalla nave sul suo percorso.
Quel tardo pomeriggio un grappolo di nuvole cercava di togliere il centro della scena ad un sole radioso che sembrava preso da una bellissima tela impressionista.
«Potrei farti una domanda personale?» disse James mentre l'aria turbinava i suoi abbondanti riccioli per il forte vento.
Annuii sorridendo.
«Partecipi spesso a queste riunioni del movimento delle suffragette?»
«Certo che sì» risposi indignata. Non mi aspettavo quella domanda. «Non possiamo più essere soggette alle opinioni che questa società sessista impone.»
Mi guardò un po' sorpreso. Immagino per la veemenza che usai nel difendere i miei argomenti.
«Siamo agli albori del XX secolo e non nel Medioevo» continuai. «Il movimento è iniziato con poche combattenti e si è diffuso in tutto il Paese. Non ci vorrà molto per ottenere il diritto di voto e tutto cambierà.»
«Sono d'accordo con te» rispose con voce sommessa. «Ma conosco il modo di pensare di diversi membri del Governo. Penso che siate ancora lontane dall'essere in grado di ottenerlo.»
«Hai qualcosa contro il nostro movimento?»
«No, al contrario. Ho incontrato diverse donne in Egitto che finanziano privatamente le loro spedizioni archeologiche. Fanno un ottimo lavoro.»
«È un peccato che, tranne in alcune occasioni come la mia, le donne abbiano dovuto organizzare spedizioni a proprie spese.»
«In questo caso siamo sotto l'enorme responsabilità» rispose, fissandomi negli occhi. «Se avremo successo, molte donne avranno l'opportunità di far parte di qualche spedizione.»
Rimasi in silenzio per alcuni istanti meditando sulle sue parole.
«Non ci avevo pensato. Vuoi dire che la responsabilità è mia?»
«No, Margaret. Formiamo una squadra, ricordi?»
Annuii e gli dedicai il migliore dei miei sorrisi.
Andammo nella sala dove la cena era già iniziata.

Continuammo la traversata senza grandi imprevisti. Un pomeriggio, una forte tempesta fece oscillare la nave da un lato all'altro. Dall'oblò vedevamo come le onde forti superassero l'altezza alla quale eravamo. Era difficile che quell'enorme nave colasse a picco, ma sentivo un brivido intenso ogni volta che avvertivo una forte scossa.
Decidemmo di trascorrere il pomeriggio in cabina a studiare il nostro progetto.
«Prima di arrivare alla nostra destinazione, vorrei spiegarvi il metodo di scavo che useremo nella spedizione.»
Il professore ed io ascoltavamo seduti sulle comode poltrone della cabina.
«Ho pensato di dividere la città in due parti: Nord e Sud» disse, disegnando una grande mappa che posizionò su un leggio. «Concentreremo gli scavi dove si trovano gli edifici principali della città. Quindi analizzeremo il resto, che ha un interesse archeologico minore.»
«Io realizzerei uno studio più approfondito» risposi indicando diversi punti sulla mappa. «Potremmo creare una divisione molto più piccola del terreno, in questo modo conosceremmo meglio la sua popolazione. È un nuovo metodo che viene eseguito in diverse spedizioni.»
«Hai ragione, Margaret» aggiunse il professore. «È una delle ultime tecniche che si stanno perfezionando. Ma ogni archeologo ha la sua, non esiste la certezza che un metodo sia migliore di un altro.»
«Hai sentito il professore. Questa è la mia spedizione e prendo io le decisioni. Il giorno in cui ne dirigerai una, la farai a modo tuo» rispose arrabbiato.
«Perché teniamo queste riunioni se hai già deciso tutto?» esclamai alzando la voce.
«Mi limito a comunicarvi quale sarà il vostro compito. Questa non è una riunione aziendale in cui dobbiamo raggiungere un consenso» rimase in silenzio per un momento mentre raccoglieva i suoi pensieri e poi aggiunse. «Hai ancora molto da imparare.»
«Preferirei andare nella mia cabina piuttosto che continuare a perdere tempo» gli risposi.
Mi alzai e mentre stavo uscendo dalla porta gli dissi:
«Quando arriveremo alla nostra destinazione, mi spiegherai il lavoro che mi compete.»
Sbattei la porta facendo rimbombare la stanza. Dopo quella discussione passammo diversi giorni senza parlare.

Una settimana dopo avvistammo Cartagena de Indias dalla prua della nave.
In lontananza si distingueva una fortezza difensiva che si estendeva per tutto il perimetro della città, sorvegliata da un gran numero di cannoni che un tempo servivano da difesa degli attacchi di nemici e pirati.
La baia era un'enclave naturale con l'acqua più pulita e trasparente che avessi mai visto, con un amalgama di colori blu con tonalità più chiare mentre si allontanavano dalla costa, da un blu intenso in alto mare passando per un verde smeraldo per finire con un azzurro pallido mentre ci avvicinavamo alla riva. Un forte odore di salnitro e pesce proveniente da diverse imbarcazioni impregnava quella calda brezza mattutina.
Scendendo le scale della nave, la prima sensazione che provammo fu un calore soffocante aumentato dalla forte umidità che causava una continua spossatezza.
La folla si raggruppava le scale della nave; si udiva un rumore assordante di domestici, commercianti e braccianti che venivano ogni giorno per guadagnarsi da vivere ogni volta che una nave sbarcava.
Un gran numero di portuali era impegnato nel carico e scarico delle navi che arrivavano al porto, per lo più discendenti di schiavi. In teoria, la schiavitù era stata abolita un secolo fa ma, in pratica, la maggior parte dei loro discendenti continuava a svolgere lo stesso lavoro che i loro antenati avevano sviluppato.
Dalla passerella inferiore venivano scaricate le numerose merci che arrivavano al molo, caricate sulle spalle venivano trasportate ai carri in attesa all'entrata del porto. Successivamente venivano trasportate nei magazzini di proprietà delle grandi compagnie commerciali che si erano state stabilite in quella prosperosa città.
Era uno dei porti più importanti dei Caraibi dove arrivavano i prodotti fabbricati dalla Rivoluzione Industriale Europea, in particolare dall'Inghilterra, che aveva sostituito la Spagna nel monopolio commerciale dell'America Latina da quando avevano ottenuto l'indipendenza dalla metropoli. Nonostante alcuni vani sforzi di industrializzazione, il continente americano era rimasto dipendente dalla produzione in eccesso inviata dall'Europa e, in misura minore, dagli Stati Uniti.
Insieme alla merce sbarcarono tutti i tipi di emigranti delle più diverse nazionalità che cercavano un futuro migliore; principalmente spagnoli, portoghesi e italiani.
«Fate attenzione ai bagagli quando attraversate il porto» ci avvertì James mentre scendevamo le scalette. «Vado a cercare una carrozza.»
Dopo aver aggirato la moltitudine innumerevole, ricevendo qualche gomitata, caricammo i bagagli in cima alla carrozza che ci avrebbe trasportato in albergo.
Il professore si sedette accanto a me, continuando a tenere in mano un fazzoletto per asciugarsi il sudore. Io avevo un ventaglio che la signora Fizzwater mi aveva regalato dopo avermi assicurato che sarebbe stato il mio bene più prezioso da quando avevo messo piede in quel continente; capii subito che aveva ragione.
James, dopo aver dato le istruzioni adeguate al cocchiere, aprì la porta della carrozza e si sedette di fronte a noi; indossava un cappello a tesa larga che non si sarebbe tolto durante l'intero viaggio.
La città non differiva molto dall'ingresso del porto. Era un vivido ritratto del caos che avevamo sperimentato non appena scesi dalla nave, ma aumentato di dieci. I carri passavano a tutta velocità su un terreno non asfaltato dove si sollevavano grandi quantità di polvere, senza rispettare i pedoni, che in più di un'occasione dovettero tornare indietro di diversi passi prima di attraversare la strada se non volevano essere investiti.
Quella città di stradine inondate da portici civettuoli e alte palme con edifici a due piani sembrava ancorata in un passato coloniale dal quale nessuno, nemmeno i suoi capi, intendevano svegliarla.
I borghesi viaggiavano a cavallo abbigliati con vestiti e cappelli enormi che coprivano gran parte dei loro volti, mentre la maggior parte della popolazione umile indossavano abiti bianchi che erano ben lungi dall'essere intonsi; il fango nelle strade li costringeva ad indossare stivali alle ginocchia.
In quel tragitto dal porto all'hotel potei verificare che la nostra spedizione sarebbe stata molto più complicata di quanto potessi inizialmente prevedere, senza nemmeno sospettare le avventure e le disavventure che stavamo per vivere.

Il cocchiere fermò la carrozza di fronte a un edificio in stile plateresco che sembrava aver vissuto tempi migliori. In precedenza, era stato il Palacio de la Audiencia; era ancora pulito e il suo personale efficiente.
Due ragazzi di non più di quindici anni portarono dentro i bagagli e ci accompagnarono alla reception. Mentre aspettavamo che ci fosse assegnata la stanza, il direttore consegnò a James un telegramma da Londra.
Mentre apriva il sigillo della lettera, notai sul suo viso qualche preoccupazione; quell'imprevisto non sembrava rientrare nei suoi piani. Non ci fu bisogno di aspettare a lungo per vedere che i suoi sospetti erano più che giustificati. Mentre leggeva la lettera, il suo volto divenne più cupo.
«Cosa succede?» gli chiesi quando terminò di leggere.
Senza dire una parola, ci porse la lettera.
La Geographical Society ci informava che l'Università canadese del Quebec stava preparando una spedizione con lo stesso nostro proposito.
Quando sollevai lo sguardo vidi come stava salendo le scale senza dire una parola. Il professore ed io lo seguimmo nella stanza, un piccolo ambiente piuttosto austero con due letti, un paio di fotografie della città e un grande crocifisso tra di essi.
Lì trovammo James che disfaceva i bagagli a capo chino.
«Stai bene?» dissi mettendogli una mano sulla spalla.
Lui annuì mentre posava una bussola e diverse mappe sul letto vicino alla finestra.
«Faranno i preparativi in Canada» commentai cercando di incoraggiarlo. «Ci concedono un significativo vantaggio.»
«Non è questo che mi preoccupa» rispose senza guardarmi. «Vorrei sapere come hanno ottenuto le informazioni.»
«Gli americani hanno allargato i loro tentacoli in questa zona» aggiunse il professore mentre accendeva la pipa e si sporgeva dalla finestra. «Le nostre società commerciali hanno già avuto diversi incontri con loro.»
«Hanno potuto ricevere le informazioni prima di noi» rispose. «Se hanno il supporto delle istituzioni locali, inizieranno con un grande vantaggio.»
«È vero» risposi mettendomi di fronte a lui e guardandolo dritto negli occhi. «Ma questo non è un motivo per scoraggiarci. Studio la loro cultura da anni e tu parli perfettamente lo spagnolo.»
«Sono d'accordo» affermò il professore. «Non credo che la loro preparazione sia migliore della nostra.»
«Apprezzo la vostra fiducia» ci rassicurò con un sorriso.

La mattina seguente chiedemmo alla reception dell'hotel dove potevamo assumere una guida per portarci sull'Altopiano. Lì ci informarono che molti di loro si incontravano nelle taverne accanto al vivace mercato alimentare.
Quella zona era vicino all'imponente castello di San Felipe de Barajas, il grande bastione difensivo della città. All'arrivo scoprimmo che si trovava in una grande piazza con numerose bancarelle dove vendevano tutti i tipi di attrezzi e cibo. I prodotti agricoli provenivano dai sobborghi vicini alla città. Lì si coltivavano mango, papaia, manioca, caffè e cacao; accanto ad essi c'erano tutti i tipi di piante tropicali e animali esotici come le piccole scimmie Titì, molto richieste dalle élite locali come animali da compagnia.
Facemmo colazione con un paio di arepas di mais ripiene di carne di pollo e pomodoro che erano deliziose. Il negoziante ci disse che due strade sottostanti c'era una taverna dove gli esploratori si incontravano.
Attraversammo il mercato e arrivammo in una piccola piazza con un obelisco e una bella chiesa gotica dove si trovava la taverna.
Una minuscola porta dava accesso a un interno buio dove le pareti sembravano cadere a pezzi per l'umidità e le mosche svolazzavano felici senza che nessuno facesse il minimo per impedirlo. Al bancone ci servì un indio con un'enorme cicatrice sullo zigomo destro.
In fondo c'era un ragazzo che continuava a dare ordini; sembrava essere il proprietario. Da quando entrammo, non mi tolse gli occhi di dosso, sembrava che non molte donne entrassero nel locale o almeno non della mia condizione.
«Benvenuti, amici» disse con un ampio sorriso, «Come posso aiutarvi?»
«Stiamo cercando qualcuno che ci porti a Cuzco.»
«Conosco due ragazzi che potrebbero aiutarvi» rispose mentre puliva dei bicchieri con uno straccio macchiato di vino. «Ma penso che siano stati arrestati dall'esercito il mese scorso.
«Non c'è nessuno che viaggia fino a lì?»
«Esteban conosce a menadito quella zona» ci assicurò un vecchio seduto al bancone, indicando un tipo tarchiato con ampie basette che giocava a una partita a carte in fondo alla taverna.
Il cameriere lo avvertì e costui si sedette accanto a noi per discutere della questione ad un tavolo vicino all'ingresso.
Ci servirono una brocca di vino e quattro bicchieri. Quando James andò a riempire il mio gli dissi che non avrei preso nulla in quell'antro scuro nemmeno per tutto l'oro del mondo.
«Quante persone formano il gruppo?» chiese Esteban con un forte accento indigeno.
«Solo tre» rispose James. «Ma trasportiamo molti bagagli.»
«I bagagli non sono un problema, amico. Rallentano solo un po' la strada» aggiunse mentre si affrettava a bere il bicchiere di vino. «Il più grande inconveniente al momento è il percorso.»
«Il percorso?»
«Il Camino Real è infestato da banditi. Da quando gli spagnoli se ne sono andati, l'esercito combatte contro di loro senza molto successo.»
«E non c'è altra alternativa?»
«C'è un altro percorso nell'interno che attraversa la giungla amazzonica durante un tratto. È più lento e non è privo di pericoli ma è molto più sicuro.»
«Quanti soldi vuoi per portarci?»
Si tolse il cappello e cominciò a farsi aria.
«Il mio compare ed io ci accontentiamo di quattromila pesos. Muli e attrezzature devono essere acquistati separatamente.»
«Abbiamo in programma di viaggiare più volte in questa zona. Se abbassi un po' il prezzo, raggiungeremo un accordo.»
James gli riempì di nuovo il bicchiere di vino ed Esteban lo bevve in un sorso. Accettò senza contrattare, sembrava aver bisogno urgentemente dei soldi.
«Hai qualche cartina del percorso che possiamo vedere?»
La guida annuì.
Si alzò e prese da una bisaccia diverse mappe che aveva conservato.
«Studierò entrambe le opzioni con i miei colleghi e domani ti daremo una risposta.»
«Andate con Dio, amici» si congedò da noi con una stretta di mano.

Quel pomeriggio nella camera d'albergo iniziammo a studiare le mappe che ci erano state fornite. Erano le stesse che gli spagnoli avevano usato per secoli. Alcune ci erano familiari mentre altre erano più complete di quelli della Geographical Society.
Il Camino Real era la strada che gli spagnoli avevano usato per secoli per trasportare oro e merci via terra dall'Altopiano all'America Centrale.
«Dovremmo prendere il percorso attraverso la giungla» disse James mentre lasciava la mappa su un piccolo tavolo di legno. «Il Camino Real è più breve ma troppo rischioso. Qual è la sua opinione, professore?»
«Mi va bene a quello che decidete» rispose sbadigliando. Non chiudeva occhio da due giorni.
Prese il tabacco dalla tasca e si arrotolò una sigaretta.
«E tu, Margaret?»
«Attraversare la giungla è molto rischioso» commentai, sorpresa dalla rapidità con cui aveva preso la decisione. «Se ci sono banditi sul Camino Real, nella giungla ci sono tutti i tipi di tribù, animali selvatici e un caldo insopportabile.»
«C'è qualcosa che ti piace?» aggiunse, sarcastico.
«Stai insinuando che creo sempre problemi?» esclamai offesa.
«Da giorni non contribuisci in modo positivo.»
«Vedo che hai già preso la tua decisione. Comandi tu» risposi con ironia.

Ci alzammo presto e incontrammo di nuovo Esteban. Lo informammo del percorso che avevamo scelto e ci accompagnò al mercato per fare rifornimento di cibo e attrezzi. Quindi andò in alcune stalle situate nei sobborghi e comprò i muli necessari per affrontare la traversata. Non ci restava molto da fare e decidemmo di passare il pomeriggio a conoscere quella vivace città.
Al crepuscolo tornammo in hotel. Un gruppo di canadesi stava controllando i bagagli alla reception; vedendo le valigie e i vestiti, ci rendemmo subito conto che era il gruppo inviato dall'Università del Quebec. Erano atterrati quel pomeriggio stesso.
«Stavo pensando di partire tra un paio di giorni» disse James, coprendosi la bocca con il palmo della mano in modo che nessuno potesse sentirlo. «Ma ora cambia tutto. Partiremo domani.»
«Abbiamo tempo per preparare tutto?» chiesi incredula.
«La spedizione sarà una corsa contro il tempo a partire da questo momento.»
Sbuffai mentre annuivo. Se fosse già stata una spedizione complicata in condizioni normali, da quel momento avrei contato ogni minuto.
Salimmo nella stanza pensando che i canadesi non ci avessero riconosciuto. In linea di principio non c'era nulla che ci rivelava, fintanto che non sentivano il nostro accento non avrebbero saputo che eravamo inglesi. Dopo qualche minuto, scendemmo a cena. Avevamo programmato di andare a letto presto e partire di buonora la mattina successiva.
Entrando nella sala da pranzo, trovammo i canadesi che stavano cenando. Quei tizi stavano iniziando a diventare il peggiore dei nostri incubi. Decidemmo di sederci dall'altra parte della sala da pranzo per passare inosservati. Non c'erano troppe persone a cena quella sera; era la stagione delle piogge e c'erano meno stranieri del solito.
Il gruppo era composto da cinque uomini, il più anziano che sembrava essere il capo, aveva circa cinquant'anni e i capelli grigi. Il resto era più giovane, più o meno della nostra età e, come nel mio caso, alcuni facevano di una spedizione per la prima volta.
Ci servirono il primo piatto senza dire una parola.
«Ho un'idea» mi sussurrò James all'orecchio. «Non penso di andarmene da qui senza sapere cosa sanno della spedizione.»
«Che intendi fare? Ti alzi e vai al loro tavolo?» risposi ironicamente James sorrise.
«Scendendo le scale ho visto le loro stanze. Non avremo un momento migliore per registrare i loro bagagli.»
«Ma sei impazzito, James Henson?!»
«Non alzare la voce» rispose, cercando di calmarmi.
«Se ci scoprono, avremo un problema serio.»
«Perché dovrebbero scoprirci?»
«Pensavo fossi molto più ragionevole. Senza di me non sarai in grado di trascrivere alcun documento» aggiunsi facendogli l'occhiolino.
Ci alzammo e lasciammo il professore che stava ancora cenando al tavolo senza dire una sola parola. Gli eventi stavano accadendo così rapidamente che era disorientato.
Quando salimmo le scale le mie gambe iniziarono a tremare e sentii le gocce di sudore cadere sulla mia fronte. Quella era una sensazione nuova per me, notavo come l'adrenalina mi attraversava il corpo e mi faceva sentire viva.
Dopo aver raggiunto il primo piano ci dirigemmo verso le stanze sul retro, cercando di fare il minor rumore possibile.
«Come pensi di aprire la porta?»
«Ho imparato qualche strano trucco per aprire qualsiasi tipo di serratura chiusa da per molti anni.»
Quella tecnica di cui stava parlando si rivelò essere un coltello multiuso che teneva in tasca. Lo infilò nella serratura e in un paio di secondi ci fu un clic e la porta si aprì.
Entrando vedemmo come i canadesi avevano trasportato una grande quantità di bagagli dal Quebec. Ciò poteva significare che ne sapevano più di noi sulla ricerca, ma era un grande inconveniente, dal momento che avrebbero dovuto assumere più portatori e animali da soma per trasportare i bagagli. Il loro viaggio sarebbe stato molto più lento del nostro.
Iniziammo ad aprire tutto. In uno degli zaini trovammo una cartella con le mappe dell'area andina e le planimetrie di due impianti di scavo che la loro Università aveva realizzato nelle città precolombiane negli ultimi anni. Quelle mappe ci sarebbero state utili per confrontarle con le nostre.
Nel frattempo, nella sala da pranzo, il professore osservava allarmato uno dei canadesi che si alzava dalla sedia, andava alla reception e iniziava a chiacchierare con il portiere. Restò lì per diversi minuti e poi iniziò a salire le scale. Il professore dal suo tavolo assisteva alla scena terrorizzato senza sapere cosa fare.
Dopo aver ispezionato tutto, uscimmo dalla prima stanza e, dopo aver verificato che non ci fosse nessuno nel corridoio, decidemmo di entrare nella stanza successiva. Continuammo a perquisire i bagagli e scoprimmo che la maggior parte erano vestiti e attrezzature. Ma all'interno dell'armadio, sotto una giacca, trovammo uno zaino molto interessante, contenente due manoscritti: il primo era una trascrizione di iscrizioni precolombiane in spagnolo, era una specie di Stele di Rosetta precolombiana. Un grande sorriso si disegnò sul mio viso mentre la esaminavo. Non c'erano informazioni su quel documento all'Università di Oxford e sembrava che il Quebec non avesse la minima intenzione di diffonderlo alla comunità scientifica.
Il secondo manoscritto, tuttavia, non differiva molto dalle ricerche che avevamo fatto in Inghilterra: descriveva in dettaglio il luogo esatto in cui poteva trovarsi la città verso cui ci stavamo dirigendo.
All'improvviso iniziammo a sentire un mormorio nel corridoio.
Il professore decise di alzarsi dal suo tavolo e salì il più velocemente possibile su per le scale fino a quando non raggiunse il canadese poco prima che arrivasse alla sua stanza.
«Mi scusi, amico» lo chiamò. «Ho sentito prima come parlava con i suoi connazionali. Lei è canadese?»
L'americano annuì.
«Posso esserle utile?»
«Ho trascorso diversi anni a insegnare a Montreal. Quando sento il suo accento continuo a ricordare quegli anni meravigliosi.
«Montreal. Una grande città. Cosa la porta in Colombia?»
«Sono venuto in viaggio d'affari con il mio socio e sua moglie. Ci sono grandi opportunità di espansione in questa zona.»
«È vero. Se mi scusa, devo prendere alcuni documenti prima di continuare la cena.»
«Certo. Mi dispiace averla interrotta.»
Il canadese proseguì verso la sua stanza mentre il professore si voltò e decise di tornare al suo tavolo per non destare altri sospetti.
Sentimmo il clic della porta proprio mentre James usciva dalla finestra della stanza; grazie al professore, avevamo potuto ascoltare parte della conversazione in corridoio con abbastanza tempo per scappare. La stanza era al primo piano e l'altezza non era un inconveniente per farci arrivare in strada.
Il pomeriggio era iniziato male ma alla fine si rivelò molto fruttuoso. Avevamo potuto contrastare il vantaggio con cui partivano gli americani, avevamo scoperto che erano molto più avanzati di noi nello studio della zona. Inoltre, saremmo partiti con almeno un giorno di anticipo da quella città.

Prima del sorgere dei primi raggi di sole che annunciavano l’alba, partimmo in direzione delle alte montagne che costeggiavano il litorale della costa colombiana.
Nonostante il terreno ripido, avanzammo con determinazione lungo sentieri stretti. La temperatura iniziò a scendere vertiginosamente mentre salivamo sulla catena montuosa verdeggiante. Una mattina ventosa finalmente raggiungemmo la cima e iniziammo la discesa che ci avrebbe portato alla savana.
Mentre ci addentravamo nel territorio amazzonico, l'intreccio delle piante infestanti divenne molto più fitto mentre passavamo.
Il gruppo si avviò in una lunga fila alla cui testa marciava la guida accompagnata sempre da James, poi i portatori e i muli carichi di bagagli e, infine, il professore ed io che eravamo costantemente indietro.
«Fa un caldo soffocante» commentò il professore mentre scendevamo attraverso un'ampia valle.
Si fermò un momento, si asciugò il sudore dalla fronte con un fazzoletto e bevve acqua dalla borraccia.
«L'ho ripetuto più volte a Cartagena» commentai seccata. «Avremmo dovuto prendere il Camino Real. Bisogna sempre fare quello che vuole Henson.»
«Stai attenta, potrebbe sentirti.»
«A questa distanza è impossibile che senta qualcosa. Inoltre, gliel'ho già detto in hotel.»
I portatori si facevano sempre strada con i loro machete. In alcune zone le cime degli alberi erano così estese che i loro rami si intersecavano senza far passare la luce del sole. Alcuni giorni riuscivamo a malapena a vedere il cielo. La diversità di fauna e flora era infinita.
«Guardi quei colori, professore» dissi indicando le cime degli alberi.
«Sono tucani tricolori» rispose con un grande sorriso. «In questi momenti saremmo l'invidia di qualsiasi ornitologo.»
«Sono bellissimi. Ma il rumore è insopportabile. È come avere un martello in testa che ti colpisce continuamente. Neanche di notte c'è silenzio in questo posto.»
Il professore annuì con rammarico.
«Ha visto quei primati che saltano attraverso i rami? Ci seguono da quando siamo entrati nella valle.»
«Sono solo curiosi. Ma guardali bene, alla minima disattenzione, ci ruberanno tutti i bagagli.»
Ci fermammo sulla riva di un piccolo ruscello. Quando i portatori tentarono di attraversarlo, l'acqua li sommerse fino al collo. Dovemmo scaricare i bagagli dai muli e portare i fagotti sulla testa per evitare che si bagnassero.
«Fate attenzione, ci sono alligatori in questa zona» avvisò la guida.
Sentendo queste parole, accelerammo il passo. Fortunatamente la corrente non era troppo forte in quel tratto.
«Avete visto?» commentò James, indicando l'altra riva. «Non avevo mai visto piante di simili dimensioni.»
«Sono piante acquatiche» aggiunse Esteban. «Possono arrivare a misurare più di un metro di diametro.»
Raggiunta l'altra sponda attraversammo una zona paludosa e il ritmo rallentò ancora di più. Quel viaggio stava diventando un vero incubo.
James lasciò la guida per un momento e si avvicinò al nostro fianco per sussurrarmi all'orecchio che non dovevamo staccarci dal gruppo. Ci stavano osservando da molto tempo.
«Chi ci segue?» chiesi allarmata, guardando in tutte le direzioni.
«Penso che facciano parte di qualche tribù. Mantieni la calma. Se avessero voluto attaccarci lo avrebbero già fatto.»
In quell'occasione aveva ragione. Ci stavano osservando da un bel po' fino a quando non attraversammo il loro territorio.
Le notti erano ugualmente complicate. Riuscivamo a malapena a dormire. Solo un buon fuoco teneva lontani serpenti, scorpioni e, ancora più preoccupante, la vicinanza di qualche puma.
Una sera ci accampammo vicino ad una piccola grotta rocciosa e quella notte iniziai ad ammalarmi. La febbre non smetteva di salire e il chinino che mi iniettarono mi fece effetto a malapena. La mattina seguente notai un piccolo miglioramento e decisi di continuare il viaggio. Ma un paio d'ore dopo iniziai a sentire le vertigini, la fronte mi bruciava proprio come la sera precedente e finii per svenire ai piedi del professore.
È l'ultima cosa che ricordo finché non mi svegliai due giorni dopo in una piccola capanna di giunchi. Quando aprii gli occhi mi girava ancora la testa, mi voltai a destra e vidi come il professore sorrideva.
«Sembra che la febbre sia diminuita. Ti senti meglio?»
«Sono molto stanca. Ma la mia fronte non scotta.»
«È un buon segno» rispose, posando una mano sulla mia fronte. «È proprio quello che ha detto lo sciamano.»
«Sciamano?» ripetei sorpresa.
«Siamo stati in un villaggio indigeno per due giorni. Era l'unico posto dove potevano curarti.»
«Ma di cosa sta parlando?»
«Hai contratto la malaria» rispose solennemente.
«È tutta colpa di Henson. Dovevamo prendere l'altra strada. Non è nemmeno presente quando si ha più bisogno di lui.»
«Questo non è vero, Margaret. Ha passato gli ultimi due giorni senza mai separarsi da te. È riuscito a malapena a dormire.»
Non mi aspettavo di sentire quelle parole e rimasi in silenzio.
«Se non ti avesse portata al villaggio, non saresti sopravvissuta un altro giorno. Dovreste appianare le vostre divergenze.»
«Ma lui non ascolta nessuno. Vuole sempre avere ragione. È insopportabile.»
«Sta solo facendo il suo lavoro. Se ti mettessi al suo posto lo capiresti meglio.»
In quel momento James entrò nella porta sussurrando una canzone …
«Vedo che stai meglio.»
«Sono guarita» assicurai abbozzando un lieve sorriso.
«Ti porto la colazione. Un po' di frutta fresca e del tè. Lo sciamano mi ha assicurato che con questa miscela di erbe e una settimana di riposo ti sentirai come nuova.»
«Non possiamo aspettare una settimana!» esclamai allarmata. «I canadesi saranno in vantaggio su di noi e la spedizione precipiterà.»
«Dimenticali. C'è ancora molta strada da fare.»
«Volevo ringraziarti per esserti preso cura di me in questi giorni.»
«Non devi farlo. È stato un piacere.»
«Potresti portarmi il mio bagaglio? Devo essere orrenda.»
«Come desideri, Maggie» rispose con un ampio sorriso. «Anche se non ne hai bisogno.»
Era la prima volta che pronunciava quelle parole ma lo faceva con tanta tenerezza che non riuscii a rispondergli. Da quella mattina la mia opinione su di lui cominciò a cambiare.

Due giorni dopo riprendemmo la marcia. I primi giorni viaggiavo a dorso di mulo, cercando di non essere un peso per il resto del gruppo. Mi sentivo esausta.
Un pomeriggio finalmente avvistammo le aspre montagne all'orizzonte, ci lasciammo alle spalle le ultime vestigia della foresta amazzonica ed entrammo nell'Altopiano. Dovemmo attraversare alte montagne con profonde vallate dove la vegetazione cresceva con difficoltà.
Il percorso era segnato da piccoli villaggi dove la maggior parte della popolazione era impegnata nelle miniere. L'afa e l'umidità lasciarono il posto ad un caldo secco durante il giorno e un freddo intenso di notte. A poco a poco notai come la mia salute migliorasse a passi da gigante.

Una fredda mattina arrivammo a Potosí, l'epicentro minerario di quella regione. Accanto alla miniera, gli spagnoli avevano costruito una città per sfruttare i giacimenti d'argento. Gli indigeni lavoravano per un salario minimo in condizioni così disumane che molti di loro non riuscivano a sopravvivere. Il servizio nelle miniere durava un anno e gli era stato vietato di tornare a lavorare al loro interno fino a quando non ne erano trascorsi altri sette, ma molti indios si facevamo assumere di nuovo come lavoratori liberi.
Passammo oltre le case precarie dove vivevano i minatori con le loro famiglie e attraversammo il centro della città. Quel posto era diventato un'area ricreativa piena di mense e bordelli notturni dove i minatori avrebbero speso i loro soldi dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro. Ci saremmo fermati il tempo sufficiente per caricare le scorte e passare la notte.
Quel pomeriggio James andò a fare acquisti. Il professore ed io restammo in una locanda di pulci e scarafaggi di cui preferisco non parlare. Dopo aver riposato per un po', il professore uscì a prendere aria mentre guardavo dalla finestra della mia stanza come ciò che chiamavano progresso aveva trafitto le pendici di una montagna lasciandola quasi vuota all'interno. Un forte odore di mercurio e zolfo mi colpì il viso e dovetti chiudere la finestra.
Il professore era appoggiato al lungo ponte che attraversa il fiume e stava fumando la pipa quando, all'improvviso, apparvero alcuni ragazzi che lo afferrarono di colpo e lo trascinarono in fondo alla strada. Provai ad urlare, ma avevo così paura che non ero in grado di articolare una parola. Rimasi in un angolo a piangere fino alla comparsa di James.
«Lo hanno rapito in pieno giorno?»
«Non c'erano quasi nessuno per strada» risposi angosciata.
«Che aspetto avevano?» chiese, lasciando il cappello su una sedia.
«Non sembravano della zona. Uno di loro mi ha ricordato un canadese che cenava a Cartagena.»
«Ma con che razza di gentaglia abbiamo a che fare ?!» esclamò con rabbia.
«Andiamo dalla polizia» suggerii disperata.
«Non servirà a nulla» rispose, scuotendo la testa. «Li corromperanno facilmente.»
«E allora?»
«Aspetteremo il prossimo passo.»
Dopo tre ore, finalmente ricevemmo notizie dai canadesi. Mandarono la guida che avevano assunto a Cartagena con una proposta.
Ci avrebbero restituito il professore sano e salvo se gli avessimo consegnato il documento che gli avevamo rubato in hotel. Ma c'era qualcosa che non rientrava nei nostri piani: dovevamo abbandonare la spedizione e tornare a Londra.
Quello non fu di nostro gradimento, ma non avevamo altra scelta che accettare la proposta. Facemmo lo scambio quella notte e il professore tornò da noi senza un graffio.
Il mattino seguente raccogliemmo le nostre cose e tornammo per la strada che portava a Cartagena. Due portatori pagati dai canadesi ci scortarono fino alla costa colombiana, dove ci saremmo imbarcati su una nave a vapore per tornare in Europa.
Solo un dettaglio era stato trascurato. A mezzogiorno James parlò con loro e raggiunse un accordo pagando una somma di denaro superiore a quella che avevano ricevuto. L'affare fu concluso, ricevettero denaro da entrambe le parti e se ne andarono senza esitazione.
Ci voltammo e tornammo sullo stesso percorso. Avevano un giorno di vantaggio rispetto a noi ma c'era ancora molta strada da fare.

In una profonda valle racchiusa tra diverse montagne avvistammo finalmente la città di Cuzco, l'antica capitale dell'Impero Inca. L'ingresso alla città era fiancheggiato da una tripla parete a forma di zig-zag formata da grandi blocchi di pietra che la circondavano completamente.
Dopo aver attraversato la sua affollata porta salimmo per la strada principale, lasciandoci alle spalle vecchi edifici coloniali a due piani e numerose chiese. Durante il tragitto potemmo osservare che questa città non aveva quasi alcuna somiglianza con Cartagena de Indias. La maggior parte dei suoi abitanti erano discendenti degli Incas e la loro cultura era profondamente radicata.
Giunti ad una piccola piazza, attraversammo un mercato molto frequentato dove gli indigeni camminavano con diversi fardelli sulla schiena, schiacciati dall'enorme peso che sostenevano. I mercanti trasportavano la merce su carri di fortuna carichi fino in cima e le madri portavano i loro bambini appena nati in fazzoletti legati intorno al collo mentre gli anziani camminavano al loro fianco.
La strada era costellata di bancarelle di legno improvvisate con tende da sole precarie dove vendevano la loro merce: capi di alpaca, pelle conciata che tessevano a mano, tutti i tipi di frutta e verdura e alcuni pezzi di artigianato acquistati principalmente dalle élite locali. Alcuni parlavano in spagnolo mentre altri continuavano a mantenere viva la lingua Inca.
La cosa più sorprendente erano i loro abiti colorati; le donne indossavano ampie gonne dei colori più diversi, adornate con pittoreschi cappelli neri a bombetta, e gli uomini indossavano ampi poncho che li proteggevano dal freddo con enormi cappelli a tesa larga.
Sebbene la maggior parte della popolazione fosse indigena, erano ancora governati come il resto del Paese dalle élite creole, ex discendenti degli spagnoli.
A Cuzco avevamo in programma di incontrare l'archeologo Néstor Domínguez, che aveva informato la Società Geografica della scoperta fatta da alcuni contadini a circa centotrenta miglia dalla capitale. Quando persero i loro lama dovettero attraversare una vasta area montuosa dove trovarono i resti di una città sepolta dalla giungla.
Lavorava nell'archivio comunale accanto alla cattedrale di Cuzco, una delle più antiche di tutto il Sud America, situata nell'immensa Plaza de Anasen, il centro nevralgico della città, circondata da vecchi edifici con splendidi portici.
Appena entrati nell'edificio del Cabildo, si accedeva ad un magnifico chiostro che mi ha affascinò per la sua grande bellezza non appena lo vidi. Era un antico palazzo barocco di origine spagnola acquisito dal Consiglio Comunale a basso prezzo.
Era costruito su un patio rettangolare a due piani che poggiava su archi semicircolari con colonne doriche.
Dopo aver attraversato il patio trovammo diverse sale trasformate in librerie piene di volumi classici in splendidi scaffali gotici. Al piano superiore si accedeva per una scala a chiocciola sormontata da una raffinata balaustra.
Quando arrivammo, non c'era nessuno alla reception e cercammo al piano terra senza fortuna. Finalmente udimmo un rumore all'ultimo piano e decidemmo di salire.
«Lei è il signor Dominguez?»
Il peruviano si voltò e annuì.
«Il Signor Henson, suppongo» rispose con un grande sorriso. «Benvenuti nell'antica capitale del Perù. Spero che abbiate fatto un buon viaggio.»
«Non tanto quanto ci aspettavamo» risposi, con tono sarcastico.
«Non sarete abituati a questo caldo in Inghilterra. Immagino che il viaggio sarà stato duro» aggiunse. E ci strinse la mano.
«Questo è stato il minore degli inconvenienti» puntualizzò James mentre lasciavamo i pesanti zaini sul pavimento. «Margaret si è ammalata di malaria, il professor Cooper è stato rapito e abbiamo una dura concorrenza per la spedizione.»
«Lei mi lascia senza parole» ci assicurò, sorpreso. «Andiamo nel mio ufficio, deposito questi documenti e partiamo.»
Attraversammo la sala della biblioteca, uscimmo per la porta sul retro e percorremmo un corridoio attraverso il quale raggiungemmo l'altra ala dell'edificio.
«Sa se qualcun altro è stato informato della scoperta?»
«I contadini hanno avvisato le autorità locali. Quindi la notizia ha raggiunto la capitale.»
«Allora non siamo gli unici a cercare la città.»
Attraversammo uno stretto corridoio decorato con splendidi arazzi spagnoli che rappresentavano l'evangelizzazione delle Indie.
«Ci sono molti cacciatori di tesori in questa zona. Ma nessuno possiede l'attrezzatura necessaria per dissotterrare una città sepolta nella giungla per secoli.»
«Penso che adesso ci sia qualcuno» aggiunse James con rassegnazione. «La concorrenza di cui parlo è l'Università del Quebec.»
Udimmo varie persone parlare a voce alta in fondo ad un patio. Nestor ci spiegò che era una sala in cui i cittadini presentavano le loro lamentele al Cabildo.
«Sono già stati qui in occasioni precedenti. Spazzano via tutto ciò che trovano e non contano affatto sugli archeologi locali.» Nestor proseguì imperterrito, aprì la porta del suo ufficio, lasciò i documenti su un tavolo e chiuse a chiave.
«Ha preparato tutto?» volle sapere James, angosciato dal vantaggio che i canadesi avevano su di noi.
Il peruviano annuì soddisfatto.
«Andiamo a casa mia» disse indicando il fondo della piazza quando lasciammo l'edificio. «Non è lontana da qui.»
Nestor era un creolo di origine spagnola, moro e di media statura che aveva sempre un sorriso sul volto. Appassionato della cultura Inca, aveva studiato nella città di Lima e aveva imparato abbastanza bene la nostra lingua. Mi piacque fin dall'inizio.
Era uno dei primi archeologi della zona sudamericana abituato a gestire spedizioni straniere. Nel suo Paese non c'era molto interesse a recuperare il patrimonio locale e c'erano poche ricerche che potevano essere finanziate.
Non ebbe altra scelta che far parte delle diverse spedizioni che altri Paesi sviluppavano nella zona.
Attraversammo la piazza e scendemmo per una strada così acciottolata che sentii lo scatto delle mie ginocchia in un paio di occasioni. Svoltando in fondo c'era la sua casa, un'abitazione uniforme attaccata ad uno dei vecchi muri di pietra.
«Accomodatevi nella mia umile casa» disse con un piccolo cenno del capo dopo aver aperto la porta.
La casa disponeva di due stanze piuttosto austere. Una piccola stanza che fungeva da camera da letto e da ufficio e un ampio soggiorno decorato con dipinti dei suoi antenati, che mettevano in risalto un vecchio arredamento del periodo coloniale e un divano sfilacciato. In fondo c'era un cortile interno pieno di piante con due enormi cactus.
«Accomodatevi nel soggiorno. Ho qualcosa di importante da mostrarvi.»
In quel momento apparve con un piccolo oggetto avvolto in un fazzoletto di seta che appoggiò sul tavolo.
«Questa forziere è stato trovato dai contadini in uno dei templi della città» spiegò mentre ci avvicinavamo per vederlo.
Il forziere di piccole dimensioni era lavorato in una pietra vulcanica molto comune in Sud America chiamata ossidiana e aveva scolpiti rilievi su ciascun lato: il bassorilievo della parte superiore rappresentava una costellazione di stelle dove spiccava la figura di una divinità al centro, mentre il bassorilievo dell'area inferiore aveva cinque piccoli simboli incorniciati in legno e disposti orizzontalmente.
«Cosa c'è dentro?» chiese James.
«Il forziere è sigillato» rispose con un'alzata di spalle. «Non sono riuscito ad aprirlo.»
Prese una lente d'ingrandimento da un cassetto e ce la porse.
«Questa è una rappresentazione di Hanan Pacha, il mondo celeste» disse, indicando il primo bassorilievo. «Solo le persone giuste possono accedervi, attraversando un ponte fatto di capelli umani. Lì vive il dio Viracocha.»
«È magnifico» risposi con entusiasmo.
Nestor mi rivolse un grande sorriso. L'interesse che gli stavo dimostrando era importante per lui.
«Tuttavia, i simboli del bassorilievo inferiore sono sconosciuti per me.»
«Non ho mai visto niente del genere» intervenne il professore. E si avvicinò la lente d'ingrandimento il più possibile per vedere più chiaramente.
«Lavoro con le iscrizioni Inca da più di dieci anni e siamo riusciti a decifrare solo il trenta percento.»
«Forse Margaret può aiutarci» aggiunse James. Prese l'oggetto dalle mani del professore e me lo diede «Conosci qualche simbolo del bassorilievo?»
«Riconosco gli stessi che Nestor ha descritto. Ma forse con il dono dei canadesi scopriremo qualcos'altro» annunciai estraendo un taccuino dalla mia borsa.
«Ma ho visto come l'hai restituito» esclamò sorpreso.
«Ho avuto abbastanza tempo per copiarlo prima di ammalarmi.»
«Brava, Margaret» rispose. Penso che fosse la prima volta che si congratulava con me per qualcosa.
Mi avvicinai al patio dove c'era più luce e potei vederlo più chiaramente. Tenendolo tra le mani provai un forte brivido che percorse il mio corpo. Quel materiale era scivoloso e freddo come una pietra levigata.
«Dove avete trovato questo documento?» chiese Nestor.
Lo guardava con gli occhi così spalancati che sembrava aver scoperto il tesoro di Montezuma.
«È la trascrizione più completa che abbia mai visto dalla lingua Inca allo spagnolo.»
«È stato nelle nostre mani per un breve periodo» commentò James. «Ti racconterò la storia più tardi.»
Poi lasciai il documento sul tavolo e confrontammo i suoi simboli con quelli del forziere per più di un'ora.
«Penso che questo sia il primo» dissi, indicando il bassorilievo del forziere e il suo omonimo nel documento. Questo è il simbolo dell'acqua.»
«Acqua? Potrebbe riferirsi a qualche tipo di alluvione.»
«È una zona montuosa» spiegò Nestor. «Lì le piogge sono abbondanti.»
«Cosa ne pensa, professore?»
Era rimasto in silenzio per un po' senza dire nulla.
«Il clima attuale è molto diverso da quello di mille anni fa. In Europa, le temperature cambiarono intorno all'undicesimo secolo. Il clima freddo e umido lasciò il posto ad un'epoca più calda grazie alla quale le colture sono migliorate e le carestie si sono ridotte.»
«Qualcosa di simile potrebbe essere accaduto in questa zona» sottolineò James. «Ma è impossibile sapere se il bassorilievo parla di un'inondazione. Ci sono ancora quattro simboli da decifrare.»
«È vero» assicurai. «Non possiamo saltare a conclusioni affrettate.»
«La cosa migliore sarà aspettare. Non sappiamo cosa ci aspetterà nella città andina» disse il professore.
Nestor annuì.
James sembrava inquieto quella sera. Durante il tragitto aveva commentato che le sue precedenti spedizioni consistevano in un precedente studio della zona e in un successivo scavo del luogo. Non aveva mai fatto una spedizione con una dura concorrenza fin dal primo giorno, accompagnato da malattie e scrigni enigmatici. Quel giorno feci ciò che il professore mi suggerì, mi misi nella sua pelle e capii che non era facile dirigere una spedizione del genere.

Dopo esserci rinfrescati, Néstor ci invitò a cena quella sera in un ristorante nel centro della città in modo da poter assaggiare il gustoso cibo andino. Dopo diversi giorni nella giungla lo ringraziammo profondamente.
La locanda si trovava nel cortile interno di un antico palazzetto rinascimentale. Gli archi semicircolari erano decorati con motivi floreali di vari colori accanto a due rampicanti che salivano fino al soffitto.
Un intenso profumo di gelsomino accompagnava una leggera brezza in quella splendida notte.
Ci sedemmo in fondo al patio ad un tavolo di noce con tovaglie di pizzo bianco. Il cameriere ci servì immediatamente due grandi brocche di vino e alcuni pomodori conditi con mais.
«Cosa desiderate per cena?» chiese un cameriere magro con grandi guance rosa.
«La specialità della zona è l'alpaca al forno con yucca fritta» commentò Nestor, come se fosse il piatto più squisito della gastronomia mondiale.
«Apprezzo il tuo suggerimento» risposi dopo alcuni istanti di riflessione. «Proverò l'alpaca. «E lei, professore?»
«Mi va un po' di pesce.»
«Penso che il ceviche le piacerà» aggiunse Nestor.
«Io prenderò fagioli con patate» disse James.
«Solo dei fagioli?» rispose Nestor un po' offeso. «Dopo il tempo che avete trascorso nella giungla, ho pensato che avreste avuto fame.»
«Non ho molto appetito. Ma per il disturbo che ti sei preso stasera, farò uno sforzo. Proverò qualche piatto tipico.»
Il cameriere, che aveva già preso nota dei fagioli e stava andando in cucina, tornò su insistenza di James.
«Mi scusi, cambierò il piatto. Mi porti la vigogna saltata con purè di patate e mais.»
Il cameriere annuì senza prendere nota.
Continuammo la cena commentando vari aneddoti della nostra spedizione. Quando guardai i commensali che si erano seduti al resto dei tavoli, vidi l'enorme miscela razziale di quella zona: creoli, mulatti, meticci, indios e neri.
«Sapete se la Geographical Society sta pianificando di aprire una filiale in Sud America?» chiese Nestor. «Ci avvisa solo per lavori sporadici.»
«Ciò dipenderà in gran parte dal successo della nostra spedizione.»
«Spero che questi anni di collaborazione servano a trovare un buon incarico» suggerì Nestor mentre gustava il suo bicchiere di vino.
«Sono molto contenti del tuo lavoro. Se decidono di fondare una filiale avrai un incarico importante.»
Nestor abbozzò un dolce sorriso.
James aveva ragione. Le spedizioni in Sud America non erano state molto importanti fino a quel momento. La nostra spedizione poteva significare un prima e un dopo nell'interesse degli europei per le spedizioni archeologiche nel territorio americano. Il problema più grande era la distanza.
Andai al bagno al piano di sopra. Quando passai tra i tavoli sentii come mi guardavano, anche se non sfacciatamente come a Cartagena de Indias. Mi faceva sentire a disagio, non sapevo se fossero i miei vestiti o i miei capelli, ma non avevo altra scelta che iniziare ad abituarmi.
Il cameriere finalmente arrivò con i piatti che avevamo ordinato. Eravamo affamati.
«Ecco qui i fagioli, l'alpaca, il pesce e un piatto di arachidi, uova strapazzate, mais e manioca.»
«Mi scusi, ma le ho detto di cambiare i fagioli con un piatto di vigogna» sottolineò James. «E non abbiamo ordinato manioca e mais.
«Scusi, signore. Deve esserci stato un malinteso con l'ordine.»
Dall'altro tavolo un ragazzo che stava ascoltando la conversazione si rivolse a noi.
«Ehi, amici! Anch'io ho ordinato fagioli. Se non lo mangiate, terrò io quel piatto. Non mangio da ore.»
«Ed io prenderò l'uovo strapazzato e la yucca» aggiunse James. «Continuo a non avere appetito. In questo modo non dovrà restituire nessun piatto in cucina.»
«Grazie, signore. Mi scuso di nuovo per la confusione.»
Continuammo con una cena molto piacevole. Nestor ci raccontò diverse storie che aveva vissuto in spedizioni precedenti.

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