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Le Mura Di Tarnek
Goran Segedinac
Sta succedendo qualcosa nella città di Tarnek. I kasi, popolo un tempo immortale, dedito alla religione e al benessere, devono affrontare un terrore primordiale e un’inconcepibile paura della morte. Le leggende si sono risvegliate e, mentre il mondo per come lo conoscevano va lentamente a pezzi, essi devono sconfiggere i dogmi e accettare la verità sulle proprie origini e sul proprio destino.
Sta succedendo qualcosa nella città di Tarnek. I kasi, popolo un tempo immortale, dedito alla religione e al benessere, devono affrontare un terrore primordiale e un’inconcepibile paura della morte. Le leggende si sono risvegliate e, mentre il mondo per come lo conoscevano va lentamente a pezzi, essi devono sconfiggere i dogmi e accettare la verità sulle proprie origini e sul proprio destino.

Hanno venerato per secoli falsi dèi? Quali forze demoniache hanno creato l’illusione in cui hanno vissuto? Esiste un modo per ricostruire la civiltà e salvarsi dalla dannazione? Sono solo alcune delle domande a cui i protagonisti dovranno trovare una risposta per evitare conseguenze incommensurabili.

“Le mura di Tarnek” è stato inserito nell’elenco dei cinque migliori manoscritti del 2016 al concorso letterario per la prima opera letteraria “Vrata Knjige” dell’editore Portalibris.

Strillo di Dragoljub Igrošanac, editore di Art-Anima:

“Le mura di Tarnek” è un romanzo fantasy che ruota intorno alla politica spietata e alle lotte di classe e di religione all’interno delle mura dell’isolata città di Tarnek, i cui abitanti immortali si ritrovano per la prima volta ad affrontare il rischio di un trapasso violento o naturale. Tradimenti, cospirazioni, intrighi, crimine, corruzione, alleanze forzate, terrorismo e altre piaghe sono tratteggiati in modo estremamente convincente e calate nella vita reale di un sistema cittadino chiuso su sé stesso. L’opera prima di un autore noto per i suoi risultati nell'ambito del racconto fantastico ci racconta la storia dinamica e immaginifica di eroi che affrontano immensi ostacoli, sfide e circostanze impreviste, le cui decisioni e mutamenti richiamano molti personaggi dell’odierna vita pubblica e politica. Quest’opera immerge la fiction nel mondo contemporaneo, ma anche nel suo criticismo freddo e spietato.


Goran Segedinac
Le Mura di Tarnek

Traduttore: Jacopo Vigna-Taglianti
Tektime, 2017.

PROLOGO
CAPITOLO PRIMO (#ulink_ff8ce5cf-1f87-5321-a4a9-e855017321c2)
CAPITOLO SECONDO (#ulink_ec1f62cb-c91a-5939-9598-39e2a681eed1)
CAPITOLO TERZO (#ulink_ad3c86ff-728e-5831-b81e-e2b1281b319c)
CAPITOLO QUARTO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO QUINTO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO SESTO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO SETTIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO OTTAVO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO NONO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DECIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO UNDICESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DODICESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO TREDICESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO QUATTORDICESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO QUINDICESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO SEDICESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DICIASSETTESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DICIOTTESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO DICIANNOVESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTUNESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTIDUESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTITREESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO (#litres_trial_promo)
CAPITOLO VENTICINQUESIMO (#litres_trial_promo)
EPILOGO (#litres_trial_promo)
GLOSSARIO (#litres_trial_promo)

PROLOGO
Tre giustizieri si facevano largo tra la folla, mantenendo con difficoltà la formazione a triangolo regolare ogni volta che un’ondata di persone si abbatteva su di loro. L’intenso sguardo sotto i cappucci dell’uniforme grigio-nera lasciava chiaramente intendere che non si trovavano lì per far compere. Impossibilitati a opporsi all’inerzia, i kasi si scusavano in fretta, abbassando lo sguardo, non appena qualcuno li sfiorava col corpo o si metteva di traverso sul loro cammino. Il primo dei tre, un pelo più corpulento degli altri, con l’estremità di un apparecchio tubolare che premeva loro con forza sul petto, ricordava a quei pochi individui sprovveduti di fare spazio per il passaggio. La loro scorta, senza perdere il passo, si girava all’indietro ogni tot metri e poi, soddisfatta della distanza alla quale lo spazio vuoto che avevano lasciato dietro di sé tornava a essere mercato, procedeva oltre.
Attraversarono in diagonale l’intera lunghezza della piazza e procedettero oltre, vicino ai pochi fortunati che offrivano la propria merce su banchi improvvisati. Quel che offrivano non era meno sporco di quanto era esposto a terra, ma perlomeno non correva il rischio di essere calpestato. Quando erano quasi arrivati in fondo alla via, si fermarono un istante e poi, come se si fossero accordati in silenzio, s’infilarono in fretta nello stretto spazio tra due banchi, finché il mare ribollente di vita si richiuse dietro di loro. Voci oranti si congiungevano sopra le loro teste, gli sguardi pescavano i bordi delle falde che sparivano, scivolavano e cadevano e, proprio quando sembrava che il senso di ristrettezza sarebbe diventato insopportabile, sbucarono nello spazio aperto di una delle strette strade secondarie. Per qualche minuto camminarono in silenzio tra mucchi di stracci e spazzatura e, quando il chiasso che si erano lasciati alle spalle divenne appena un quieto bisbiglio, il capofila si fermò e imprecò ad alta voce, abbassandosi il cappuccio.
“Se la prendesse il fuoco, questa lurida gentaglia!”.
Gli rispose la voce, di gran lunga più misurata, di un suo compagno.
“I kasi devono fare qualcosa”. Minstrel era noto per la sua pacatezza. In vent’anni che aveva servito l’Ordine, non c’era stata una situazione che gli avesse fatto perdere le staffe. I suoi occhi grigio-argentei fissavano allegri il suo interlocutore.
“Sembrano ratti, guarda che roba”.
Tutt’intorno a loro vi erano strati di spazzatura in cui, se si faceva attenzione, si potevano distinguere i rimasugli di cose che si erano guastate o avevano smesso di funzionare prima di essere offerte ai potenziali acquirenti. I mercanti le avevano depositate nelle stradine circostanti e avevano lasciato che si accumulassero, e quelle poche che ancora valevano le avrebbero comprate i mendicanti, gettandole poi dopo che avessero smesso di funzionare del tutto. Se si teneva presente che Piazza dell’Eroina era solo una delle dieci piazze cittadine, non c’era da stupirsi che Tarnek sembrasse un enorme immondezzaio.
“Le tue stanze non sono poi tanto meglio”, ribatté Minstrel. “Che dici, Gort, il nostro Tesos non è un kas fortunato? Ovunque si trovi, si sente sempre a casa”.
“Ora basta con le stupidaggini”. Anche se per corporatura non primeggiava sugli altri due, nella voce di Gort si poteva sentire un tono autoritario. “Quanta strada abbiamo fatto?”.
Tesos sbuffò e guardò il tubo con cui fino a poco prima si era aiutato con successo nel farsi strada, come se si aspettasse che gli avrebbe risposto.
“Abbastanza”, rispose Minstrel al posto suo. “Abbiamo attraversato tutta la Bocca Rossa, e sulla Via Polverosa ci siamo esibiti in modo abbastanza convincente”.
“Io le ho date per bene a un tizio”, intervenne Tesos. “Si ricorderà di me per tutto il giorno”.
“Be’”, continuò, “per quanto mi riguarda, nessuno può darci degli scansafatiche”.
“Un passo alla volta. Con tutti i problemi che abbiamo, non dobbiamo correre ulteriori rischi. Preferisco agire con cautela piuttosto che fare le cose di fretta come uno stupido”, rispose Gort.
“E quanti ne hai sistemati tu? O non ci hai fatto attenzione?”, lo punzecchiò Minstrel.
“Ho visto quel che ci basta da inserire nel resoconto. Dimmi, come risulterebbe il nostro rapporto di servizio serale se nessuno di noi fosse in grado di descrivere qual è la situazione nella nostra zona? O forse pensi che sarebbe furbo inventarcelo come Suvi e il suo plotone?”.
Minstrel non ribatté. Gort aveva ragione. Il trimestre scorso Suvi aveva ricevuto una nota disciplinare. Lui e un altro kas, di cui non sapeva il nome, erano finiti in brutto giro di gioco d’azzardo. In breve tempo erano tanto presi dalla passione appena scoperta che quasi non uscivano all’aperto. Trascorrevano le loro giornate nei seminterrati, circondati dalla feccia. Il controllo li aveva tenuti attentamente sott’occhio e alla fine aveva reagito. Probabilmente si sarebbero presto uniti alla gentaglia su qualche piazza.
Soddisfatto dell’effetto ottenuto, Gort continuò. “Bene, sbrighiamoci a chiudere questa faccenda. Minstrel ed io staremo di guardia. Ora andiamo laggiù, e se qualcosa va storto facciamo irruzione. Tu, come d’accordo, tieniti pronto per entrambi i piani”.
Tesos annuì.
“Non trattenerti troppo a lungo. Da’ loro quel che hai e prendi la merce contraffatta e il balsamo. Se sono in troppi, vieni subito fuori. Possiamo sempre giustificarlo come un controllo di routine. Non potranno dimostrare niente”.
“E se qualcuno di quella gentaglia fa qualcosa di pericoloso, datti una mossa e corri fuori. Non credo siano tanto stupidi, ma non puoi mai essere sicuro”, aggiunse Minstrel.
“Non ci proveranno neanche”, disse Tesos. “Il Verde è troppo sporco per prendersi gioco di noi. E finora è sempre stato un vero professionista”.
“Così dev’essere. In ogni caso, sta’ all’erta”.
“Questo è chiaro”, lo rassicurò Tesos. “Andiamo ora”.
Chi conosceva bene Tarnek si poteva muovere con facilità attraverso la rete di fitte strade e giungere senza grandi difficoltà alla destinazione desiderata. I meno pratici sarebbero impazziti per ore. Per gli esperti membri dell’Ordine valeva la prima regola. Più si addentravano nelle viscere della città, meno vi erano potenziali testimoni, e presto rimasero completamente soli. Non appena si trovarono in quelle circostanze, Tesos non poté più rilassarsi. L’impresa odierna non era qualcosa di cui si sarebbero vantati nell’Ordine, ma avevano deciso di realizzarla a tutti i costi. Anche Minstrel si era fatto serio, la sua tensione si leggeva chiaramente sul quel piccolo volto che il cappuccio non riusciva a nascondere. Il fatto che camminiamo per uno spazio deserto aumenta soltanto le probabilità di essere avvistati con più facilità, pensò. Le case e gli edifici circostanti erano pieni di finestre e fessure, e ognuna di esse poteva indicare la presenza di occhi indiscreti.
Il suono uniforme dei loro passi fu infine interrotto da Tesos. “Qui”, disse, e fece un cenno con la mano verso una casa a un piano tutta fatiscente che si ergeva in un angolo. Non si distingueva affatto dall’ambiente circostante se non per il fatto che, a differenza degli edifici vicini, non aveva una porta. Un tappeto spesso, quasi marcito sui bordi per l’umidità e la sporcizia, svolgeva tale funzione. Il luogo dell’incontro non aveva nulla di diverso rispetto ai numerosi nascondigli per i senzatetto che in città si contavano a centinaia. Era un posto scelto con assennatezza.
“Bene. Tutto procede secondo gli accordi, dunque. Ti aspettiamo”, tagliò corto Gort.
Senza esitare nemmeno un istante, Tesos abbassò la testa ed entrò.
Un corridoio insolitamente stretto, simile piuttosto a un tunnel, conduceva allo spazio quasi vuoto che componeva l’interno. Al centro della stanza si trovava un tavolo di legno, e quello era l’intero inventario. Di lì sorrideva un volto conosciuto.
“Sei arrivato”. Il Verde gli indicò con la mano una sedia vuota che lo stava aspettando.
“Verde”, disse Tesos in segno di saluto.
“Così mi chiamano”, rispose quello, e passò la mano tra i lunghi capelli dello stesso colore del suo soprannome. Aveva molti nomi, e nemmeno l’Ordine possedeva dati affidabili. La cosa non rappresentava un problema. Se hai bisogno del Verde, sarà lui a trovarti. Delinquente esperto, piccolo o pericoloso criminale, era quasi impossibile attribuirgli persino quei misfatti la cui paternità era senz’ombra di dubbio sua.
Tesos si sedette. La luce dell’unica candela accesa non sarà stata proprio una torcia, ma bastava, in combinazione con il suo udito sopraffino e l’esperienza pluriennale, perché lui avvertisse la presenza di qualcun altro.
“Come vanno le cose nell’Ordine ultimamente? Ci difendete sempre dal male?”. Negli ultimi tempi l’ironia era divenuta il tratto caratteristico di ogni criminale, e la cosa lo innervosiva. La crisi aveva indebolito la fiducia nella legge, e permesso alle comuni nullità di sentirsi superiori al sistema.
“Noi sterminiamo i criminali, se ti serve protezione dal male, rivolgiti alla Chiesa”.
Il Verde sorrise. “Mi piaci quando sei così tagliente. Pensavo che un criminale fosse necessariamente malvagio, ma ecco, con voi s’impara ogni giorno qualcosa di nuovo”.
“Non sono venuto qua per filosofeggiare”.
“Oh…”, la sua finta sorpresa era quasi credibile. “Accetta le mie scuse. Dimmi dunque, perché sei dove sei?”.
In tutta risposta, Tesos appoggiò il pesante tubo sul tavolo. Senza attendere la reazione dell’interlocutore, ne toccò la punta arrotondata, quindi la premette e fece un movimento semicircolare con la mano intorno alla nuda sommità. Il flebile rumore di un meccanismo squarciò l’oscurità. Palpò con le dita la giuntura, l’estremità opposta all’impugnatura saltò, si aprì, e rovesciò sul tavolo il suo contenuto, finora invisibile. Uno strano congegno simile a una grande mano di ferro giaceva contratto davanti a loro, legato al suo precedente nascondiglio da un cappio forte e sottile che Tesos strappò con un solo tiro, per poi gettare il contenitore a terra.
“Un pesce piccolo del sistema giudiziario ha deciso di vendere il suo prezioso trinciante”, commentò il Verde con un sorriso beffardo. “A essere sincero, mi aspettavo merce contraffatta”.
“Verme. Sapevi benissimo cosa stavo portando”.
“Sono solo realista, non mi sembra un delitto. O almeno non lo era l’ultima volta che ho ascoltato la legge. Inoltre, se ricordo bene, penso che il commercio di qualsiasi arma, figuriamoci dei celebri trincianti, sia severamente vietato. Almeno, un tempo lo era. Forse le cose sono cambiate”.
“Non provare a darmi lezioni”.
“Non ci penso neanche”, rispose il verde. “Dimmi, allora. Cosa ti porta a offrirmi questo?”.
“Non ho intenzione di discutere con te delle mie ragioni”.
“Quanta arroganza! Che cosa triste”. Sembrava che questa volta il Verde avesse riflettuto seriamente prima di parlare. “Faccio questo lavoro da oltre trent’anni. Spesso il prezzo che chiediamo dice più della stessa roba che offriamo. Ci parla delle nostre condizioni, del ceto, delle necessità e circostanze in cui ci troviamo. Se t’interessa, posso illustrarti le tipologie di mercante che preferisco”.
“Probabilmente chiunque riesci a spellare. Quelli della cui sfortuna puoi approfittare per bene”, tagliò corto Tesos.
Il Verde agitò la mano in aria.
“Non lo nego. Ma questo è lavoro, e tu non capisci proprio. Quel che io capisco perfettamente in tutta questa storia è che per l’arma più costosa del sottosuolo di Tarnek non mi hai chiesto né gioielli né vestiti”.
“Ti ho chiesto del balsamo”.
“Esatto. Se le colonne della società, gli onorevoli membri dell’Ordine, custodi dell’ordine pubblico e della legge, tradiscono i propri principi per ottenere del balsamo, allora posso concludere che ce la passiamo davvero brutta”. La sua voce assunse di nuovo un tono particolare. “Non mi fai fesso, quand’è stata l’ultima volta che te lo sei spalmato?”.
La domanda era straordinariamente maleducata, e Tesos si trattenne a fatica dal prenderlo per il collo. Come se quanto stava facendo non fosse già di per sé un’umiliazione sufficiente, gli toccava pure sopportare le offese della peggior feccia. Un tempo a elementi del genere avrebbe legato mani e piedi e li avrebbe gettati nelle Tenebre. Il Verde, un maestro del suo mestiere, si accorse del cambiamento sul volto dell’interlocutore. Non era una cosa difficile quando si aveva a che fare con Tesos. Nelle zone in cui prestava servizio si era sparsa molto in fretta la voce dei suoi scatti d’umore.
“Non prendertela, si scherza. Non vorrai mica mandare in rovina una trattativa così importante?”.
Ci vollero alcuni momenti perché si calmasse e gli rispondesse.
“Il tuo kas ha detto che mi avresti pagato bene per questo pezzo”.
“La cosa è relativa, dipende dai punti di vista. Quello che per te è un buon prezzo, per me può essere una minuzia insignificante. E viceversa”.
“Una riserva annuale di balsamo. Di prima scelta, uso quotidiano”.
Il Verde allargò i suoi denti neri in un tentativo di sorriso.
“Piano. Non ti stai un po’ sopravvalutando?”.
“Sai bene quel che ti offro. Non fare il finto tonto. Il sogno di ogni rinnegato di Tarnek è mettere le mani su una bellezza del genere. Un movimento del dito e apre il petto di un avversario. Fa un foro abbastanza grande da passarci attraverso”.
“Mi darebbe fastidio rimetterci la testa”.
“Come ti pare. Non è roba facile da reperire sul mercato nero”.
“I tuoi colleghi fanno offerte più vantaggiose. E sono anche più cortesi. Dicono che presto non ne avranno più bisogno. Sostengono che presto arriverà la salvezza dall’altra parte delle mura, e li guiderà nella luce futura. Forse si sono fatti irretire dalle storie dei santoni”.
Il Verde si comportava come se non sapesse con chi parlava. Anche se l’eresia fosse sbocciata, nessun abitante di Kazis avrebbe potuto lasciare la città in cui si era risvegliato. Quel privilegio inglorioso era riservato solo ai peggiori delinquenti, e li aveva sempre portati a morte certa. Creature terrificanti si aggiravano per i Territori. Anche se in teoria sarebbe stato possibile raggiungere le mura di qualche altra città di Kazis, non vi era speranza di ricevere il permesso di entrare. È lì dove ti sei risvegliato che ti addormenterai, e così andrà avanti in eterno. Vi erano confini precisi, invalicabili tra quel che rimane dentro e quel che abita fuori, e se qualcuno avesse provato a infrangere questa regola, il Custode se ne sarebbe occupato e lo avrebbe trascinato nel nulla. Solo i Reggenti e i Sommi Sacerdoti potevano comunicare tra loro, ed era una l’unico legame che testimoniava l’esistenza di un ordine dall’altra parte del muro. Perché quindi mentire in modo tanto stupido? Che cosa pensava di ottenere? Il suo padrone di casa era ovviamente soddisfatto dall’assenza di reazioni.
“Sei sorpreso. E devi esserlo”.
“Non sono sorpreso, sono soltanto stupito che tu sia un pessimo negoziatore”.
Quello rise sonoramente. “Non mi credi. Perché?”.
“Devo davvero risponderti?”, Tesos era davvero scoraggiato.
“Mi sottovaluti”.
“E tu mi consideri uno stupido”.
“Forse, ma non ha niente a che vedere con quel che ti sto dicendo. Non credere ciecamente a quel che ti propinano. Se vuoi, posso portarti con me la prossima volta che vado a fare rifornimenti. Anche se non ho niente a che spartire con l’Ordine, potresti essermi utile”.
“Se sei tanto cortese da lasciarmi dare una sbirciata ai tuoi affari, potrei sistemarti in una cella confortevole. Ammetti un fattuccio di cui sei sospettato, e ti accompagnerò personalmente in cima alle mura e ti farò conoscere il fuoco”.
“Così mi piaci, Tesos. Vedo che gli scherzi colpiscono”, si corresse e accennò con la testa davanti a sé. “Questo è un buon pezzo. Ti darò quanto chiedi, ma in quantità sufficiente per sei mesi”.
“Ma non ha senso. È un furto”.
“No, caro mio, il furto l’hai fatto tu. Per essere più precisi, penso che si possa definire appropriazione indebita dell’arsenale di Tarnek. Io mi occupo di commercio, e se facciamo le cose per benino sarà un peccato inferiore al tuo gesto”.
“Tu che parli di morale e peccato?”.
“Perché, non posso? C’è qualche differenza tra noi due in questo momento?”. Per quanto fosse cosciente del lavoro che svolgeva, sembrava che il Verde in qualche modo snaturato avesse un’alta considerazione di sé. Le prediche al suo onore non lo toccavano.
“Certo che ce ne sono. Ce ne sono sempre state e sempre ce ne saranno”.
“Non c’è alcuna differenza”, esclamò il Verde e sbatté la mano sul tavolo. Il pezzo sobbalzò, quasi quanto Tesos. Era abituato a ritrovarsi in situazioni tese, ma lo aveva colto impreparato. Lo spazio in cui si trovavano aveva un’influenza un po’ strana su di lui – la luce fioca giocava stranamente con la sua concentrazione.
Sembra si sia fatto più buio.
“Ti ho fatto una buona offerta. Accettala. È balsamo concentrato, e se lo diluisci ti durerà a lungo”.
“Non ci penso proprio a diluirlo. Avevamo un accordo. Gli altri partecipanti…”, Tesos si fermò. Senza pensarci, aveva svelato dei dettagli superflui.
“Non sei solo in questa cosa, e devi dividere il bottino con i tuoi complici che aspettano qua davanti”, terminò il Verde al posto suo.
Dunque sapeva, pensò Tesos. Era normalissimo e prevedibile che avesse le sue spie nei dintorni, probabilmente li avevano avvistati da un bel po’. Sperava solo che non provassero a fare qualcosa di stupido. Quel che lo preoccupava ulteriormente era il fatto che il contrabbandiere si stava davvero sforzando per rifilargli metà della merce. La domanda principale era se ci fosse ancora un modo di tornare indietro. Se si fosse alzato e incamminato, quello, per desiderio di vendetta, gli avrebbe potuto tirare un brutto gioco. Il Verde aveva una certa reputazione, e questa diceva che in qualsiasi affare, persino il più insolito, amava uscirne vincitore. Sapendo di aver raggiunto il punto di non ritorno, contro la propria natura impulsiva tentò di ribaltare un’ultima volta la cosa a proprio vantaggio.
“Alza il prezzo, devi tener presente che rischiamo molto”.
“E tu sai quanto rischio io procurandomi l’elisir vitale che mi chiedi con tanta arroganza? Non ne hai la benché minima idea, altri sarebbero grati anche per una quantità di gran lunga inferiore. Puoi vivere anche senza un trinciante, senza balsamo è ben più difficile”, la canaglia non aveva mostrato neanche per un istante di comprendere quanto Tesos gli stava offrendo in realtà. Il suo buonsenso si era ridotto a un puntolino minuscolo, la luce era appena sufficiente a illuminare il viso rugoso. Cacciò un grido, e la fiamma della candela tremolò.
“Non puoi fregarmi come un misero kas qualsiasi! Sono un membro dell’Ordine e ti sto offrendo un’arma maledetta che le canaglie come te possono soltanto sognarsi!”.
Sto per impazzire, pensò Tesos. Gli strapperò la testa a mani nude e mi prenderò da solo quel per cui sono venuto.
La stanza però era vuota, in un lembo della sua mente agitata a un tratto si fece strada la coscienza di questo fatto inquietante. Se doveva fare la consegna, dove, in nome del mondo, si trovava la sua parte? Forse è in qualche posto sicuro, rispose una voce tranquillizzante nella sua testa. È più che normale che il Verde abbia paura di essere ingannato.
“È affascinante sentire come parlate di coloro che promettete di proteggere non appena qualcuno vi fa perdere le staffe! Poveri kasi! Non c’è proprio da meravigliarsi che sempre più di loro cerchino aiuto al di fuori della legge!”. A minaccia seguiva minaccia, mano a mano che entrambi s’infervoravano.
“Un’altra parola e te ne pentirai! Ti ho già dato troppa corda!”. Gli occhi di Tesos brillavano argentei di collera. “Non sono venuto qua per parlare con gente della tua risma”.
Dall’altra parte del tavolo giunse una reazione più pacata, ma non meno velenosa.
“Non sei venuto per parlare con gente della mia risma?”, sibilò il Verde a labbra tese. “Ma lo hai fatto, Tesos, e te lo dirò una volta sola. Non far finta di essere superiore a noi solo perché ti sei risvegliato come difensore dell’ordine. Tutti voi che avete aperto gli occhi e avete avuto la fortuna di non dover soffrire per salvare la pelle avete portato i kasi al punto in cui sono. Pensate di essere migliori solo perché vi affidate a regole scritte da qualche idiota secoli fa? Pretendete di vivere proprio come chiunque altro, e siete abbastanza boriosi che alla fin fine vi autoconvincete di essere migliori degli altri”.
Oltre a provare una gran rabbia, comprendeva la situazione in cui si trovava. La loro decisione di vendere un trinciante era abbastanza pericolosa e preoccupante. Non avrebbe mai acconsentito se Gort non lo avesse rassicurato che il pezzo era finto, che non avrebbe avuto niente di diverso rispetto a quello che si trovava sul tavolo, a parte il fatto che non funzionava. Non era un gran problema, visto che un’arma di quel tipo si usava di rado. Trasferimenti, congedi e nuovi reclutamenti erano tanto comuni che se mai l’inganno fosse stato scoperto il trinciante semplicemente avrebbe cambiato proprietario. Forse anche più di uno. In ogni caso, non sarebbe stato piacevole se fosse stato scoperto. I complici forse avrebbero avuto la speranza di scontare la pena nelle Tenebre, ma lo aspettava di sicuro una pena severa. La morte definitiva. Un sonno senza risveglio. Al posto di concludere in fretta ciò per cui era venuto, il colloquio con il Verde non aveva mai preso la direzione voluta. Che succederà se ci tradirà in qualche modo? Un altro trucco del controllo. E quanto tempo era passato mentre parlavano in quella maledetta stanza? Minstrel e Gort avrebbero sospettato di qualcosa e agito di conseguenza? Non possono montare la guardia in eterno, e più a lungo si aspetta più aumentano i rischi. Sarebbe stato ancora peggio se fossero piombati all’interno e avessero rovinato tutto. Ci andava lui per uccidere il bandito. Purtroppo, senza pensarci su aveva tirato fuori il trinciante e quel pezzo letale era completamente inutile. Tirarsene fuori era facile. Chiunque avesse superato l’addestramento di base sapeva che prevedere come sarebbe finita era tutta un’altra storia.
Ci aspettavamo di ottenere di più.
E cos’era che lo aveva spinto avanti tutto il tempo, e che non gli dava pace da quando era entrato nella stanza?
L’attimo di silenzio aveva avuto un certo effetto sul Verde. Come se non ci fosse stata alcuna discussione, con voce seria fece un’offerta, e Tesos capì che era l’ultima che avrebbe fatto.
“Dieci mesi”.
“Accetto”, si arrese. La situazione lo aveva sfinito.
Il Verde girò la testa in direzione del muro. Tesos istintivamente accompagnò il suo sguardo. Non vedeva nient’altro che tenebre.
Quando sono entrato, là c’erano delle ombre. Ombre sul muro.
“Tornan, vieni fuori”.
Con passo leggero venne avanti sotto la debole luce un altro bandito. Portava un recipiente a forma di flaconcino col manico, abbastanza grande per quel che doveva contenere. Aveva un’aria visibilmente impaurita – la tensione tra i negoziatori aveva certamente lasciato un segno anche su di lui. Non eravamo soli, pensò Tesos. Anche uno stupido l’avrebbe previsto, nessun delinquente era tanto pazzo da camminare sul filo del rasoio con un giustiziere armato. Il Verde poteva anche avere una lama nascosta, ma il trinciante era l’incubo di ogni kas. Probabilmente aveva ordinato ai suoi di nascondersi al buio. A parte che non c’era tutto quel buio quando sei arrivato. Solo il muro e le ombre, non c’era nient’altro.
Tornan, senza dire una parola, poggiò la merce sul tavolo. Il Verde sollevò il coperchio e inclinò il recipiente affinché Tesos potesse guardarne l’interno.
“Ecco qua. Posso garantirne la qualità. Ti do la mia parola che sarai soddisfatto”.
Come se la tua parola valesse qualcosa per me, pensò l’altro e tirò fuori dalle maniche un ferro piuttosto lungo. Lo aveva portato proprio con quest’intenzione – non aveva pianificato di giocarsi la carta della fiducia. Penetrò la massa biancastra senza problemi fino a toccare il fondo. Tesos lo tirò fuori e ne avvicinò la punta alla luce della candela.
È così debole, proprio come avevamo previsto.
Il ferro era pulito, il composto non vi aveva lasciato traccia, e questo poteva significare soltanto una cosa. Tirò un sospiro di sollievo. Il balsamo era veramente di qualità superiore.
“Dunque l’affare è concluso?” domandò il Verde.
“Per quanto mi riguarda, sì” rispose Tesos.
“È stato un piacere. Tornan, prendi il pezzo”.
Il bandito eseguì l’ordine e i negoziatori si alzarono, alla fine decisamente soddisfatti della buona riuscita. Il rischio dell’intero affare era grande, e tutto si era concluso bene. Dopo aver diviso il bottino tra le parti, la vita poteva andare avanti. Tesos giurò solennemente a sé stesso che non si sarebbe mai più permesso di trovarsi in circostanze simili.
Fu allora che accadde.
All’inizio pensò che il suono venisse da fuori, ma poi capì che qualcosa si agitava nell’ombra. Ce ne sono altri lì dentro, ce ne sono altri nascosti. Un’imboscata. Istintivamente afferrò il tubo vuoto, senza mollare la presa sul prezioso recipiente, poi, ricordatosi che era rimasto senza il suo supporto più valido, con la mano libera tirò fuori in un lampo la corta lama che teneva dietro la cintura. Il Verde si spostò alla destra del suo tirapiedi, ma la visibilità era troppo debole perché Tesos potesse vedere l’espressione del suo viso. La sua voce gli fece capire qual che gli occhi non potevano.
“Che succede?”. Anche il bandito era turbato.
Al posto di rispondere Tornan lanciò un gemito. Come se fosse a chilometri di distanza, pensò il giustiziere. A un tratto il desiderio di fuggire prese il sopravvento su ogni precauzione e si slanciò verso l’uscita.
Peccato che non ci fosse più un’uscita. Anche se prima lì c’era il corridoio che lui stesso aveva percorso, ora al suo posto si estendeva una vuota tenebra, quasi viva. Non può essere vero. Veloce come un lampo, vibrò la lama, senza neanche sapere cosa sperava di ottenere, ma al posto del movimento desiderato fece un goffo mezzogiro su sé stesso e per poco non finì a terra. Si scivola come sull’olio, pensò. Il tavolo presso il quale si trovava fino a poco prima aveva perso ogni forma nella distanza, mentre la fiamma della candela era ormai un punto lontano nell’infinito. Laggiù da qualche parte c’era anche il Verde, non poteva vederlo ma sapeva che c’era.
Poi con un rumore spaventoso tutto prese a girare intorno a lui e l’oscurità prese una forma la cui esistenza gli fece perdere la ragione.
Mentre con gli ultimi brandelli di coscienza navigava in un mare di terrore, il suo corpo gridò.

CAPITOLO PRIMO
“Abbi pietà dei deboli,
perché il loro risveglio può essere il tuo”
Dal Libro della Grazia

Sarius si ricordava bene il suo primo giorno sulla strada. Aveva subito prestato giuramento all’Eternorisorto per entrare nella Chiesa, e non dovette passare molto tempo prima che gli assegnassero una circoscrizione. Da allora erano trascorsi vent’anni, ma i cambiamenti erano così palpabili che gli sembrava che si trattasse almeno del doppio.
Un tempo aspettavo l’indomani con impazienza.
Dall’alba al tramonto i predicatori trascorrevano il loro tempo con i kasi, tempravano la loro forza di volontà e le loro virtù, si godevano i momenti trascorsi insieme e fugavano preoccupazioni e paure. Non molto tempo fa, i cittadini erano soliti andare loro incontro con un sorriso, discutere con loro di Dio e giungere a conclusioni tali da riempire il corpo di gioia. Un tempo avrebbe riconosciuto i loro volti, e si sarebbe fermato a parlare con loro e a benedirli. Oggi era diverso. Passo a passo era andato tutto in malora, non si sa bene come. Semplicemente, era successo.
Non ci sono più volti familiari.
La cosa lo angustiava. Le esistenze minacciate, i kasi avevano continuato a migrare da una zona della città all’altra, le loro attività erano sparite e il bisogno li aveva spinti a trovarne di nuove, buona parte delle quali non faceva loro onore. Se anche di tanto in tanto avesse incontrato nella massa un volto conosciuto, non lo avrebbe stupito l’assenza di cordialità. Quando il domani diviene incerto, una parola santa non può offrire una consolazione sufficiente.
È la stessa cosa dentro di noi.
Era un segreto di pulcinella. Anche se la Chiesa era una delle parti della società meno minacciate, nonostante la continua ricerca di quello o quell’altro balsamo fosse ormai roba ordinaria, molti fratelli avevano perso le forze e abbandonato il servizio divino. Sarius non lasciava che le voci di corridoio alimentassero i suoi timori, ma sempre più spesso nel suo ordine religioso si potevano sentire racconti che gli facevano venire i brividi.
Se i più devoti si allontanano tanto dalla retta via, cosa può mai succedere agli altri?
Qualche giorno prima, fratello Pion era rientrato dal servizio prima del previsto. Sarius non era riuscito a vederlo, ma – secondo quanto aveva sentito – aveva una brutta ferita nella zona delle spalle. Per qualche ragione si era rifiutato di parlare, e la cosa, unita al foro delle dimensioni di una mano che gli aveva quasi trapassato il corpo, aveva causato un’ulteriore inquietudine. Che cosa può terrorizzare tanto un servitore del Sarto dei sogni, del Dio Eternorisorto che senza fallo elargisce i destini? Quali forze oscure si erano moltiplicate tra le mura, e quando qualcuno si sarebbe messo sulla loro strada?
Anche l’Ordine, certo, ha i suoi problemi.
Sarius riteneva di possedere una buona capacità di giudizio. Non aveva mai dubitato della propria fede, forse proprio in virtù di questo dono. Una cosa però è credere, un’altra è agire. A che cosa servono le preghiere se non ti sforzi in prima persona di combattere per ciò a cui mirano i tuoi pensieri? Non vi era ragione di negare che erano ormai a un passo dal collasso, e non vi era più motivo di negare che la situazione era fuori controllo. Perché dunque nessuno reagiva? Anche se un piano fosse esistito, il tempo per metterlo in moto era agli sgoccioli. Almeno una parte, solo un piccolo segnale di unità di cui tutti avevano un gran bisogno, al di là del loro status sociale.
Certo, non si tratta di un unico problema.
Soltanto un kas stupido lo avrebbe presupposto. Se tutto era diventato evidente con la carenza di balsamo, ciò non significava necessariamente che fosse quello l’unico focolaio. Che cosa mai aveva portato al crollo definitivo della produzione? Per quale motivo le elargizioni dall’Anello Esterno si stavano praticamente estinguendo? Come mai quel suolo per secoli fertile era d’improvviso diventato sterile? E perché in nome di tutto il Consiglio Cittadino non si esprimeva a riguardo? Possibile che il Reggente non contattasse la Gilda dei Veggenti? Sarius era presente quando alla riunione annuale Tenej il Gioioso aveva chiesto al Santo Fratello Kalej la posizione ufficiale della Chiesa su tale questione. Sconsiderato nell’affrontare l’argomento, aveva gettato l’ombra del dubbio sul Sommo Sacerdote e sul suo impegno nella più alta struttura del potere. Fu ammonito all’istante. Sarius lo compativa, profondamente convinto che le sue intenzioni non fossero cattive. Un predicatore tanto rispettato, abbastanza da essere condannato alla rovina. Tuttavia, la decisione doveva essere rispettata, e in un certo senso poteva capirne i retroscena. I tempi erano tali da non permettere dubbi sulla forza e la correttezza dell’autorità, soprattutto negli ordini ufficiali.
Eternorisorto, dacci la forza per superare tutta questa follia.
Camminava a rilento attraverso un fiume di kasi. Li guardava in volto, e sembrava che fosse l’unico a farlo. Si spingevano e cadevano, strillavano e s’insultavano. Gli sembrò che a qualche metro da lui fosse scoppiata una lite ma non poteva esserne sicuro per il gran chiasso.
Un tempo non vi erano risse.
Strinse forte l’involto sul petto pensando al proprio compito. Quelli che oggi avevano bisogno di lui non si trovavano tra la folla. Si diresse verso il monumento alle stelle ed entrò nel Viale della Luna. La spazzatura non incenerita era ammucchiata attorno a una fontana inaridita. Una filigranetta ricoperta di polvere ne beccava inutilmente l’arida sommità. Gli uccelli sono creature fragili e hanno bisogno di acqua. In tempi più felici le fontane cittadine lavoravano solo per loro, e loro mostravano la propria gratitudine col canto. Da tempo non li vedeva più in stormi.
Sei rimasto solo, piccolo. Qui non placherai la tua sete.
Prese a destra all’incrocio successivo, e si fermò davanti a una baracca mezza crollata. Era solo una tra le tante in città che offrivano rifugio agli emarginati. Come se volesse assicurarsi di essere nel posto giusto, fissò attentamente la porta cadente prima di imboccarla e procedere all’interno.
“Che l’Eternorisorto vi porti la pace”, annunciò la propria presenza. In tutta risposta, qualcuno gemette. Rimase fermo sul posto per qualche istante, finché i suoi occhi non si abituarono all’oscurità. Poi, con un movimento che mostrava la sicurezza di quanto cercava, smosse il mucchio di stracci che si trovava vicino ai suoi piedi.
Era messa peggio del giorno prima, la cancrena si era diffusa più in fretta di quanto potesse immaginare. Era partita dal petto, ma come un fiore si era diffusa nell’intero torace e aveva preso tutti gli arti e parte del viso. Solo gli occhi potevano ancora muoversi, e lasciavano trapelare una tristezza infinita. Sta per morire, pensò, se la sposto andrà in pezzi. Coprì la poveretta, consapevole che ungerla sarebbe stato solo uno spreco della preziosa risorsa. Per lei non poteva più fare niente. Le chiuse gli occhi.
Sarto dei sogni, accorcia la pena della tua serva fedele e guidala verso il riposo eterno.
I due malati successivi non erano messi tanto meglio, e Sarius prese la difficile decisione di non ungerli col balsamo. La misericordia era una cosa, ma un inutile spreco di quel prezioso unguento su corpi immobili in cui si stava irrimediabilmente spegnendo la vita era tutt’altra cosa. Sperava che anche la loro coscienza fosse ormai andata, che gli infelici non fossero coscienti di cosa li aveva colpiti. Il corpo era la cosa più sacra per ogni kas, e la sua conservazione il primo dei propri doveri. Essere negligente nei confronti del proprio corpo o annientare quelli altrui erano peccati al di sopra di ogni peccato. Qualcosa per cui non vi era perdono.
Solo che loro non sono responsabili della propria rovina.
La morte cancrenosa, un’epidemia che devastava i tessuti, era diventata realtà. Il balsamo, un bene dato per scontato di cui la Gilda riforniva la città, e la ghiera che teneva insieme la società, era diventato un lusso. La sua scomparsa definitiva era ancora ben lontana, ma persino quei fortunati che continuavano a ricevere la razione regolare erano preoccupati per la sua efficacia. Le conseguenze di tale situazione giacevano di fronte a Sarius. L’unico kas ancora capace di muoversi, accanto a cui si era accovacciato, alzò con gran pena la testa e si appoggiò al muro.
“Come stai oggi, Kalon?”, domandò Sarius con dolcezza.
“Meglio, predicatore. Ero convinto di poter fare una bella corsetta, ma le gambe mi hanno stranamente tradito”. La gola di Kalon emise un suono stridente, un misero tentativo di risata. Sarius era stupito dalla combattività del suo spirito.
“Fammi vedere”. Sollevò la coperta sporca temendo ciò che avrebbe trovato. La situazione era tutt’altro che buona. La gamba destra sembrava quasi non appartenergli più, giusto un paio di strisce di pelle secca la teneva attaccata al resto del corpo. Delle bolle di un azzurro sbiadito non lasciavano spazio alla speranza che l’altra potesse sfuggire al destino della sua vicina.
“Sembra un po’ meglio”, mentì senza pensarci troppo su.
“Sembra, niente più”, rispose il malato. “Se si potesse ancora curare la cancrena, le probabilità di guarigione sarebbero ben più alte”.
Sarius avvampò per la vergogna. “Volevo dire che l’abbiamo un po’ rallentata”.
“Lo so, predicatore. Voi siete un buon kas, le vostre intenzioni sono pure. Una rarità, al giorno d’oggi”.
“Sono solo un servitore dell’Eternorisorto, il merito è suo”, rispose, slacciando il telo cerato che copriva l’involto. L’unguento diluito iniziò a gocciolare, e lui lo carpì velocemente con le dita e iniziò a sfregarlo sul punto dolente.
“L’Eternorisorto… avete ancora le forze per credere in lui?”.
Stupito dalla domanda, Sarius lo fissò. Prima che riuscisse a formulare una risposta, Kalon continuò.
“Stanotte ho pensato di strisciare fino a quei poveretti e di porre fine alle loro sofferenze. Sarebbe bastato tuffare le mani nella carne incancrenita e li avrei fatti a pezzi”.
“Perché dovresti voler fare una cosa del genere? Non ti hanno fatto nulla di male”, ribatté Sarius.
“Farmi del male?”, sorrise Kalon. “Oh, non mi hanno fatto nulla. Né a me, né a Dio. Eppure, lui li ha premiati con una morte lenta. Penso che avrebbero di gran lunga preferito il mio dono”.
“Uccidere un corpo è il più grave dei delitti”.
“Ma lui li uccide comunque. Perché?”.
“Abbiamo tutti un destino, ci svegliamo con esso, lo viviamo e alla fine ci avviamo verso il riposo. Al di là del destino, però, esistono circostanze che in esso si possono manifestare in modo diverso. La morte cancrenosa è solo una di esse. Quando ci sono favorevoli, le chiamiamo fortune. Quando non lo sono, ci arrabbiamo con Dio e diciamo che è ingiusto”.
“Le circostanze giustificano le mie intenzioni. Non sarebbe forse sensato abbreviare la loro sofferenza? I corpi non sentiranno l’invito nella Torre di Cristallo”. Kalon non si arrendeva.
Anche se era perfettamente consapevole di parlare con un morente, Sarius decise di essere sincero.
“Forse sembra sensato a te e a quelli che ti somigliano”, iniziò. “Al momento, non per tua colpa, la portata di ciò che ti turba si trova tra le mura questa stanza. Non è neanche più una malattia, perché è diventata parte di voi. Questa è la morte, Kalon, e tu per questo pensi che il culto del corpo non abbia senso. Quel che mi preoccupa, al di là dello spazio che al momento condividiamo, è quanto succede agli altri kasi che si trovano nella mia circoscrizione, e al di fuori di essa. Sono queste le mie mura. Tra di esse risiedono le mie speranze per un domani migliore, e per questo m’importano. Ora immagina una coscienza i cui confini non esistono, una cui singola scelta sbagliata possa sconvolgere l’ordine perfetto in cui anche noi siamo stati creati, immagina le sue mura e le sue speranze, poi dimmi – abbiamo il diritto di innalzarci al suo stesso livello?”.
Kalon taceva. L’ho offeso, pensò Sarius, ma proprio allora arrivò la risposta.
“Parli con saggezza per essere un predicatore. Posso parlare apertamente?”.
“Certo”.
“Puoi immaginare perché non ho portato le mie intenzioni fino alla fine?”.
“Hai onorato la regola? Alla fine hai riconosciuto di peccare?”.
“No, idiota! Temevo che mi si staccasse la gamba!”. Kalon scoppiò in un altro impeto di riso spezzato, e questa volta anche Sarius si unì a lui. Qualcosa in quel kas era degno di ammirazione.
Un colpo deciso alla porta raggelò il riso sulle loro bocche. Un’onda di luce abbagliante lo colpì negli occhi e Sarius scorse il contorno di un kas imponente. La sagoma fece qualche passo in avanti. Era straordinariamente corpulento e indossava la scadente imitazione di un’uniforme, rattoppata usando pezzi di diverse divise. I pantaloni sembravano fatti con la fodera delle uniformi dell’Ordine, sbiadite e probabilmente raccolte dalla spazzatura. I lunghi capelli neri erano raccolti in un codino unto che pendeva moscio sul petto. Aveva un’aria tanto sgraziata nella sua altezza che pareva si tenesse in equilibro bilanciandosi mentre teneva con entrambe le mani un bastone a due bracci con delle lame al posto delle estremità. Sarius non aveva il minimo dubbio sulla sua professione ancora prima che iniziasse a parlare.
“Mi scuso con vostra santità per aver interrotto così la festa!”. La risata di Kalon era musica in confronto al rumore che veniva dalla sua gola. “Vi prego di benedirmi, io sono Herek!”, fece una brutta imitazione di un inchino e senza attendere risposta strappò via il mucchio di stracci sotto a cui giaceva il malato.
Sarius si alzò, conscio che il balsamo vitale che era rimasto sul pavimento avrebbe presto iniziato a riversarsi al di là dell’orlo dell’involto che avrebbe dovuto contenerlo.
“Vattene di qui. Non abbiamo niente per te, qui ci sono solo malati”.
Il bruto si accigliò, poi fece qualche passo avanti.
“Ti sbagli, santità. Qui non c’è più nulla per i cadaveri di cui ti prendi cura”. Lo allontanò con sgarbatezza e il predicatore si tenne a fatica in piedi. Il bandito si chinò, quindi afferrò e annusò il balsamo. “Pensate di curarli con questa risciacquatura?”. Il suo sguardo si abbassò su Kalon, che in silenzio osservava la scena. Con una mano enorme avvicinò lo stracciò al suo volto e gli premette la testa contro il muro, finché la crema biancastra lì rimasta grondò per la pressione. “Eccolo qui, ti senti meglio, cadavere?”. Rise sguaiatamente, evidentemente soddisfatto del suo sadico gioco. Il malato non emetteva più alcun suono.
“Smettila immediatamente o ne pagherai le conseguenze!”, gridò Sarius.
“Pagare le conseguenze a chi, verme? A chi? Alla Chiesa? A Dio? All’Ordine?”, urlò il bandito puntandogli la punta del bastone nel petto. “A chi?”.
“Di questi malati mi occupo io e loro sono il mio dovere. Ogni impedimento intenzionale all’adempimento del mio dovere sullo spazio pubblico è considerato insubordinazione civica e come tale è trattato in accordo con la legge”. Neppure lui sapeva da dove gli fosse venuta l’idea di citare le dichiarazioni del compendio per le situazioni critiche, ma per qualche strano caso questo aveva placato un briciolo il bruto. Tuttavia, le parole che seguirono non erano meno sinistre.
“Ascoltami bene. Questo spazio appartiene ai sani, ficcatelo bene nella tua santissima zucca. Me ne sbatto dell’asta e della legge e dell’Ordine e della Chiesa intera se serve. Vogliamo che spariate, e se ti trovo un’altra volta qui, farò in modo che la punta del mio bastone ti finisca in un occhio”. Senza attendere la risposta, Herek si voltò e se ne andò.
Sarius attese un paio d’istanti, quindi tentò di aprire la porta. Per fortuna, era ancora integra. Poi tornò indietro e si chinò accanto a Kalon. L’infelice lo guardava con un triste sorriso e Sarius sentì dolore e impotenza come un colpo allo stomaco.
“Stai bene?”, gli domandò, e la mano si mosse da sola per spalmare i pochi rimasugli di balsamo che gli erano gocciolati sul volto e sul collo.
“Sì. E come potrei stare dopo un simile trattamento?”.
“Erano già venuti?”.
“No”, rispose Kalon. “È la prima volta che vedo uno di loro”.
Non vi erano parole con cui avrebbe potuto esprimere tutto ciò che provava in quel momento. Avrebbe quasi desiderato ammalarsi e giacere accanto ai sofferenti rimasti.
“Ascoltami, Kalon, ascolta bene. Chiederò all’Ordine di mandare già stasera qualcuno a proteggervi”.
“Lasciate perdere, predicatore. Hanno lavori più importanti che occuparsi dei cadaveri. Come avete detto anche voi, questa regione è abitata da molti kasi, e un gruppetto di morti viventi è solo un granello di sabbia nell’infinito”:
Non pensavo che suonasse così, pensò Sarius, messo in trappola dalle sue stesse parole. Ognuno aveva il diritto alla pace. Persino la follia avrebbe dovuto riconoscere dei limiti.
“Manderanno qualcuno, è sicuro”, fu tutto quel che riuscì a rispondere.
Come se volesse confortarlo, Kalon con fatica gli toccò la mano. Come ho potuto credere che avesse veramente le forze per strisciare?
Mentre tornava con passo affrettato in chiesa, Sarius si sentiva più malato di lui.

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Il torrione della Chiesa della Speranza si stagliava altero contro il cielo serale. Le teste in pietra dei Quattro guardavano la città da ciascun lato dell’antico campanile, rappresentando le emanazioni basilari dell’Eternorisorto – il Sarto, il Pensatore, il Creatore e il Messaggero. Proprio di fronte all’arco del portone, Sarius levò lo sguardo su di essi. L’assenza di reazioni fu reciproca.
Nel cortile sedeva una ventina di predicatori. Il tempo del servizio si avvicinava alla fine e si erano lentamente raccolti prima di andare a meditare nelle celle comuni. Parlavano in gruppetti e alcuni di loro chinarono la testa in segno di saluto. Non volendo unirsi a loro, procedette oltre. Gli eventi a cui aveva assistito lo avevano scosso profondamente, e doveva adempiere alla promessa data prima di ritirarsi per raccogliere le proprie idee e prepararsi a una nuova alba.
Una sorpresa lo attendeva giusto di fronte all’ingresso. Non aveva ancora messo piede nel cortile quando sentì la voce del sovrintendente Rel.
“Sarius! Che bene che sei tornato!”. Gli si avvicinò a piè sospinto, senza rispondere all’inchino formale che il predicatore gli aveva rivolto.
“Il Sacerdote desidera parlare con te!”.
Preso in contropiede dall’invito, di primo acchito non sapeva che cosa rispondere. La Chiesa della Speranza contava circa duecento fratelli, cosa che la rendeva la terza per dimensione a Tarnek. Non era raro incontrare il Sacerdote Tios nell’edificio e neppure scambiare qualche parola con lui sul servizio. Tuttavia, gli incontri privati erano tutta un’altra cosa, e un predicatore qualsiasi che si fosse ritrovato in simili circostanze avrebbe difficilmente potuto sperare in bene.
“Quando?”, domandò sconcertato Sarius. Forse in qualche modo è venuto a sapere degli eventi odierni, pensò. Se si trattava di quello, non aveva motivo di preoccuparsi. Ho agito correttamente.
“Subito!”. Negli occhi del sovrintendente si leggeva un rimprovero. Poi, come se volesse stemperare la tensione, aggiunse in fretta: “So soltanto che è urgente”.
“Volete annunciarmi?”.
“Va’ da solo”, gli rispose. “Ho da fare, e non vi servirà la mia presenza”. Senza attendere altre domande, il sovrintendente gli diede una pacca sulle spalle e si avviò verso l’uscita. Il discorso era chiuso.
Che altro devo aspettarmi da questa giornata?, si domandò Sarius, e si affrettò verso il tempio per adempiere al proprio dovere. Non c’era nessuno, i servizi si svolgevano soltanto all’alba. Per la prima volta nel suo ciclo mise piede al di là dell’altare e socchiuse la porta finemente intagliata di legno rosso. Un corridoio piuttosto lungo terminava in una scalinata. Dunque da qui si accede al Torrione Orientale, pensò. I cardini cigolarono, e il passaggio si richiuse alle sue spalle.
Le scale in pietra erano strette, ma per tutta la loro lunghezza sporgevano dalle pareti dei corrimani in ferro. Anche se la luce delle torce era sufficiente, pensò che ci andava particolare attenzione, soprattutto durante la discesa. Tutto traspirava un’estrema ordinarietà. Non c’erano rilievi o altro che indicasse la peculiarità del posto verso cui si era incamminato. Terminata l’ascesa, si ritrovò di fronte a una porta solitaria, quasi identica a quella che si era lasciato alle spalle, con un battente eccezionalmente pesante a forma di quadruplice occhio. Lo stesso simbolo gli pendeva sul petto, lo portavano tutti coloro che avevano subordinato la propria esistenza a Dio. La superficie metallica era piacevole al tatto e lui bussò.
“Entra”, riconobbe la voce del Sacerdote.
L’ambiente era tanto grande quanto il diametro della torre, ma le pareti non erano abbastanza per accogliere tutti i tomi rilegati in pelle che quella tesoreria ospitava. L’eccedenza era disposta ordinatamente in pile che senza un criterio visibile spuntavano in diversi punti, in particolare intorno a un massiccio tavolo la cui parte anteriore era decorata con dettagli che non riusciva a riconoscere. Quando fece un passo sul sontuoso tappeto che ricopriva il pavimento, la morbidezza sotto i suoi stivali fu tale che per un attimo pensò di togliersi le scarpe. Stregato dal calore, si accorse della presenza del Sacerdote solo quando quegli gli rivolse nuovamente la parola.
“Ti piace quel che vedi?”. Era stato tutto il tempo accanto al tavolo, ma Sarius non lo aveva neppure notato. Devo sembrare uno stupido.
“È stupendo… vostra santità”. Per la forte agitazione per poco non si era dimenticato a chi si rivolgeva.
Il Sacerdote sorrise. “Condivido la tua osservazione. Ogni kas sapiente prova venerazione di fronte alla conoscenza che ci suggeriscono i libri”. Un grande occhio di giada pendeva sopra di lui, quasi vivo alla luce delle candele che bruciavano su quattro candelabri di acciaio nero. “Avvicinati, Sarius, avvicinati senza timori”.
Obbedì, ma non osò parlare.
“Immagino che t’interessi sapere perché ti ho chiamato?”.
Il predicatore chinò la testa in un cenno d’assenso. “Vostra santità, spero che siate soddisfatto del mio servizio”.
“Più che soddisfatto. Sai, anche se non sembra, seguo con attenzione il lavoro di ognuno”.
“Non ne ho mai dubitato”.
Il Sacerdote sorrise. “Tu no, ma altri probabilmente sì”.
È una domanda o un’affermazione? Sarius di solito non si faceva problemi a esprimere il proprio pensiero. Tuttavia, la situazione in cui si trovava non era ordinaria. Come se avesse percepito quel dilemma, il suo interlocutore continuò.
“Non preoccuparti, il dubbio è cosa buona. Ci rende attenti, e se siamo attenti vuol dire che peccheremo di meno. Al giorno d’oggi l’attenzione non basta mai, concordi?”.
“Concordo, vostra santità”.
“Questo è bene”.
Tios si mosse gentilmente di lato, senza distogliere lo sguardo da Sarius, e mosse la mano in direzione di un simbolo che si trovava sul muro. “Predicatore, dimmi, cosa vedi qui?”.
“Un occhio… vedo il quadruplice occhio”.
“L’occhio dell’Eternorisorto, simbolo del nostro Dio e della nostra fede”. Si toccò d’istinto il medaglione sul petto, come se cercasse una conferma della correttezza della risposta.
“Esatto. Non molto fantasioso, ma esatto”. Evidentemente soddisfatto di quanto aveva sentito, si avvicinò nuovamente al suo interlocutore, allargando le braccia. “E cosa vedi qui?”.
Sarius era confuso. Il miscuglio di tensione e di enigmi lo rendeva nervoso. L’esito di tutto ciò dipende da me?
“Non capisco, vostra santità”.
Sembrava che tutto ciò divertisse il kas davanti a lui. “Hai capito, predicatore. Non lasciarti tormentare dalle paure, ma rispondi così come hai risposto alla mia domanda precedente. Che cosa vedi qui, attorno a noi?”.
“Vedo… vedo… una stanza, santità. Il vostro alloggio”.
“E poi? Che altro?”.
“Vedo un tavolo, vedo dei libri… dei libri sugli scaffali… sul pavimento… vedo delle pergamene sul vostro tavolo…”.
“Altro?”.
Sarius si guardò più liberamente attorno. “Vedo delle matite sul tavolo, due… tre, una è caduta a terra… la vostra collana cerimoniale è appesa allo schienale della sedia… laggiù accanto alla porta una pila è inclinata come se stesse per cadere…”.
“Non è un esempio di ordine? Questa mia stanza?”, domandò il Sacerdote aggrottando la fronte.
L’ho offeso, Sarius fu preso dall’inquietudine. Anche se avrebbe voluto esserne capace, non aveva intenzione di mentire. Andrà come deve andare, ma se è tutto un suo gioco, giocherò onestamente.
“Non lo è, vostra santità”.
Quel che seguì fu una risata calda e rumorosa.
“La tua sincerità è una gioia per le mie orecchie. Penso che gli altri fratelli avrebbero accettato di farsi strappare gli arti prima di ammettere che negli alloggi personali del loro Sacerdote regna il caos. Neppure il mio sovrintendente avrebbe avuto il coraggio di farlo. Esatto, Sarius, qui attorno a noi si può vedere solo un gran disordine, ma ciò che ora vorrei che m’illustrassi, e prometto che non ti tormenterò più, è che cosa secondo te può esserne la causa”.
Questa volta rispose senza indugi.
“I vostri impegni. Sembra che siate sempre di fretta. Forse la mancanza di tempo per riportare le cose al proprio posto?”.
Senza smettere di guardarsi attorno, notava sempre più dettagli. Praticamente non c’era spazio in cima al tavolo che non fosse uniformemente ricoperto di polvere, e i pochi mucchietti di quest’ultima erano ulteriormente smossi dalle cose che venivano portate e rimesse a posto. Anche le pile di libri, a differenza di quelli sulle pareti, non erano disposte in ordine per colore o dimensione. Se fossero messe lì per mancanza di spazio, probabilmente avrebbero un qualche ordine. Ma mentre stava ancora formulando quest’ipotesi, si accorse del numero considerevole di fessure scure sugli scaffali. Non sono a terra perché non c’è spazio per loro, sono qui perché li sta leggendo. Era mai possibile? Ce n’era almeno qualche centinaio.
Mantenendo la promessa, il Sacerdote corroborò la sua affermazione.
“Il lavoro, predicatore, hai detto bene. Attorno a noi puoi vedere il lavoro”.
“Il lavoro”, ripeté Sarius.
“Proprio così. Qui ci sono dei simboli che ci ricordano chi serviamo. Eppure, il semplice simbolo o la divisa che indossiamo non ci rende suoi degni strumenti. Un Sacerdote incapace di comprenderlo non è più messaggero di Dio di un qualsiasi ignorante a cui li abbiamo dati perché li indossi. Solo il lavoro, un lavoro difficile e solerte, una completa dedizione e un’assidua ricerca della verità ci rendono ciò che siamo stati destinati a essere nel risveglio. Dalla Torre di Cristallo escono solo le ombre di ciò che deve diventare un’immagine dell’Eternorisorto. L’ombra di nulla deve diventare ombra delle sue idee, solo così siamo realizzati, solo così possiamo ottenere la perfezione. Ciò vale per noi come per tutti gli altri kasi”.
“Così è, vostra santità”.
“Purtroppo”, continuò Tios, “oggi siamo più persi di quanto non siamo mai stati. Lascio di rado lo spazio della chiesa e ne sono grato. Questo nulla che ha messo radici tra noi… è… è difficile trovare la parola giusta”.
“Rovinoso”. Sarius si era quasi liberato.
“Inammissibile!”, gli occhi del Sacerdote s’illuminarono. “Dobbiamo lavorare più che mai. Se vogliamo diventare almeno un pallido ricordo di quanto eravamo un tempo”.
Il predicatore chinò la testa. “Concordo perfettamente con vostra santità”.
“Allora siamo in due, caro mio. E per una stanza come questa è uno stato delle cose più che buono”. Come se aspettasse di trovarvi dei capelli, passò la mano sulla nuda pelle della testa, poi rassettò gli orli del mantello che oltre a lui in tutta Tarnek solo in quattro avevano l’onore di indossare. “Dimmi, com’è andata la tua attività odierna?”.
Lo sa, pensò Sarius, e ne fu grato. La situazione inattesa in cui si era ritrovato aveva quasi completamente scacciato il pensiero di quanto accaduto al rifugio. Riferì al Sacerdote ogni dettaglio, proprio come, inconsapevole di cosa lo attendeva al suo ritorno, aveva pianificato di fare di fronte al sovrintendente Kal. L’altro ascoltò il rapporto con grande attenzione.
“Hai agito bene, predicatore. Tenendo conto delle circostanze oserei dire con gran coraggio. Già stasera informerò l’Ordine”.
“Vi ringrazio”, s’inchinò Sarius. Voleva sentire il rapporto, voleva assicurarsi che avessi agito correttamente. A Tarnek tutti i muri hanno occhi e orecchie, ma voleva sentire cosa avevo da dire prima di credere alle voci di corridoio. Gli faceva piacere l’onore che gli era stato dimostrato ricevendolo personalmente. Per la prima volta da quando era tornato alla chiesa, provò un sincero sollievo. Durò appena un istante, finché il Sacerdote non prese nuovamente la parola.
“Passiamo ora al dunque. Non ti ho chiamato senza motivo”. Tios si avvicinò al tavolo e iniziò a frugare tra le pergamene sparpagliate qua e là.
Pensavo che desiderasse sentire il mio rapporto. Che stupido che sono.
“Stamane è arrivata una lettera”. Gli porse un involto mezzo arrotolato. Il timbro che lo proteggeva da occhi indiscreti era stato spezzato, ma Sarius lo riconobbe all’istante. Tre occhi disposti a piramide, il simbolo della Santa Fratellanza. Il simbolo dei Tre.
Non dovrei guardarlo.
“Leggila. Non morde”. Il Sacerdote sprofondò nella sedia. “T’inviterei volentieri a sedere, ma come vedi lo spazio scarseggia”.
Sarius srotolò con attenzione la lettera, tenendola per le estremità. La grafia era fitta, ma leggibile.

Il giorno dodicesimo del trimestre del Pensatore dell’anno 1989 la Santa Fratellanza della città di Tarnek ha tenuto una seduta straordinaria ed è giunta alla conclusione di cui venite informati per grazia dell’Eternorisorto:
Il Sacerdote Galanor, priore della Chiesa Vecchia di Tarnek, dopo un devoto adempimento quarantennale del proprio dovere, e dopo settantadue anni di servizio nella Chiesa, è stato richiamato dal Sarto dei sogni ed è entrato nella Torre di Cristallo, lasciandoci a ricordare il suo fruttuoso ciclo, le cui tracce serviranno in eterno come base su cui proseguire la costruzione della nostra dottrina.
Seguendo la santa legge della Chiesa, che impone che i sacerdoti non possano essere nuovi risvegliati ma solamente scelti tra le schiere dei kasi che hanno fatto voto a Dio, i Tre hanno intrapreso un’analisi approfondita dei candidati adatti, sui quali erano stati informati per grazia delle vostre santità tramite i resoconti annuali.
Basandosi esclusivamente sul valore delle virtù, dopo una seduta di nove ore, i Tre hanno preso una decisione unanime.
Come sacerdote della Chiesa Vecchia si nomina il predicatore Sarius, fratello della Chiesa della Speranza, risvegliatosi nell’anno 1979 nel quinto giorno del trimestre del Sarto.
La Santa Fratellanza informa della propria decisione il Sacerdote della Chiesa dello Sguardo Divino Logon, il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios, il Sacerdote della Chiesa di Beanor Kudor, nonché il sovrintendente della Chiesa Vecchia Vandor. S’invita il Sacerdote della Chiesa della Speranza Tios a informare tempestivamente al ricevimento della presente lettera il neoeletto Sacerdote della decisione dei Tre.
Che l’Eternorisorto Vi porti la pace!

Le braccia di Sarius ricaddero pesanti accanto al corpo e lui rivolse uno sguardo silente alla figura che lo osservava in silenzio. Il sorriso sul volto di Tios non diminuiva la serietà della situazione che gli era crollata come un muro sulle spalle, mentre lottava senza successo per placare la tempesta dei suoi pensieri. Era impossibile collegare le righe che aveva letto alla realtà.
“Vuoi leggere ancora una volta?”, gli domandò gentilmente quello che fino a qualche istante prima era il suo priore.
“Questo… questo è…”, porse la lettera al Sacerdote. Come se si aspettasse una simile risposta, quello rispose al suo posto.
“Questa è la decisione dei tre Santi Fratelli. Riguarda la nomina del nuovo Sacerdote della Chiesa Vecchia. Galanor ha concluso il suo ciclo e si è avviato verso un nuovo risveglio”.
“C’è scritto che hanno scelto… io… c’è scritto che io sono …”.
“Il neoeletto Sacerdote. E in nome di Dio, contieniti. Sembri un predicatore qualsiasi”.
Se la battuta doveva tranquillizzarlo, ciò non avvenne. Fece un passo avanti, poi si fermò, poi ne fece un altro. Tios si alzò velocemente dal proprio posto, e gli andò incontro a braccia aperte.
“Vostra santità…”, incominciò Sarius.
“Chiamami Tios, fratello. E concedimi l’onore di essere il primo a complimentarsi”.

CAPITOLO SECONDO
“Un vecchio ferro non riposa mai”
Proverbio degli artigiani

Il profondo silenzio fu interrotto da un rumore ben scandito di colpi metallici, portato dal vento fin dall’altra parte del cancello. Gihtar amava la pace notturna, anche quando doveva trascorrerla lavorando, come negli ultimi tempi.
Qualcun altro sta forgiando, pensò. Probabilmente si tratta di Mink lo Zoppo. Nel quartiere artigiano non vi era kas più laborioso, e gli altri maestri lo prendevano spesso in giro per il modo in cui lo storpio elogiava la propria merce. La sua abilità era sprecata – e la prodigalità ormai da tempo aveva portato la sua attività sull'orlo del precipizio. La parsimonia è metà della ricchezza, gli diceva spesso il suo padrone Kulu vantandosi del proprio patrimonio. Gihtar si accigliò con un’aria di disprezzo.
“Parli di nuovo da solo?”, udì una voce alle sue spalle.
“Non hai niente da fare, Lenora? Gli stampi non si laveranno da soli”.
La kasa stava appoggiata allo stipite e giocava con la sua ricca treccia, mentre i riverberi delle fiamme nella grossa fornace formavano delle ombre sul suo viso sporco. Forse potrebbe anche essere bella, se avesse modo di mettersi un po’ in ordine.
“Li ho già lavati da un pezzo, mio signore. Solo che non volevo interrompere i tuoi sogni ad occhi aperti”. Il fatto che fosse il primo apprendista non sembrava contare nel suo rapporto con Lenora. Aveva una mente fina e una lingua tagliente, e se ne serviva con gran gioia.
“Allora faresti meglio a sparire. A meno che tu non voglia finire sotto il martello”.
Uno sguardo carico di disprezzo fu l’unica risposta che ottenne. A volte la offendo senza alcuna ragione.
“Arrivo subito”, aggiunse contrito.
“Tranquillo. In ogni caso devo versare l’acqua nelle botti”.
Ho un gran bisogno di meditare. Anni di lavoro instancabile avevano instaurato una routine che garantiva la qualità del suo lavoro, ma poteva alleggerire la tensione accumulata sul collo e sugli arti solo con qualche ora di profonda concentrazione. L’intera Tarnek era diventata un pallido ricordo dei bei tempi andati, quelli del benessere, ma per Gihtar la cosa non voleva dire nulla. La vita nella bottega del maestro Kulu era la stessa da sempre, e non c’era alcuna possibilità che potesse cambiare in meglio. A differenza di alcuni apprendisti che conosceva, non coltivava illusioni che quell’egoista potesse mai apporre il suo timbro sul riconoscimento ufficiale che lui era progredito abbastanza da avviare la propria produzione. Di ereditare la bottega neanche a parlarne, soprattutto da quando Kulu aveva trasferito il diritto di proprietà alla sua compagna Sirmiona. Anche se si preoccupava solo di condurre una vita agiata, si sapeva che un giorno lei avrebbe ricevuto in eredità anche coloro che le sarebbero toccati in base al loro risveglio. Il suo carattere lo preoccupava ancor di più.
D’altra parte, per quanto le condizioni in cui si trovava fossero difficili, aveva acquisito un’abilità eccezionale nella lavorazione del metallo, e i suoi lavori potevano stare fianco a fianco a quelli dei maestri. Il risveglio gli aveva donato una forza inusuale, con cui poteva temprare anche i pezzi più duri di minerale, e il suo oppressore era anche colui che gli aveva infuso nelle dita una precisione e una sensibilità tali da poter formare con le materie più grezze spettacoli meravigliosi davanti ai quali i potenziali clienti rimanevano rapiti. Tuttavia, questa era una magra consolazione – al posto di rendersi indipendente e realizzare il proprio destino, era un ordinario prigioniero di una volontà superiore. Ti libererò solo quando mi supererai, gli aveva detto una volta il maestro, e per farlo ti serviranno due cicli. Purtroppo, Gihtar ne aveva a disposizione soltanto uno.
La luce di una torcia illuminò le finestre del padiglione all’altra estremità del cortile e lui si affrettò a tornare nella bottega. Kulu e Sirmiona di solito meditavano l’intera notte, e se uno di loro due avesse deciso di passare a controllare, sarebbe stato meglio che non lo trovassero con le mani in mano.
Lenora aveva appena versato l’ultimo secchio in un grosso barile di legno decorato in acciaio.
“Sembra che oggi avremo un controllo. Ho visto una luce”, le disse. Lenora si era risvegliata appena cinque anni prima e riponeva ancora una grande speranza nel proprio futuro.
“Perché vengono adesso?”.
“Come potrei mai saperlo?”.
“Non importa, saranno soddisfatti. Riusciremo a finire l’ordine prima dell’alba”.
“Come se me ne fregasse”.
“Non dire stupidaggini del genere. Ti sentiranno prima o poi”.
Senza degnarsi di risponderle Gihtar afferrò un pesante bollitore e gettò qualche sottile foglia di tellurio nella vaschetta con cui terminava. Le sue mani continuavano a bruciare a causa dei colpi di martello. Era uno dei materiali più difficili da preparare.
“Hai preparato gli stampi per i braccialetti?”.
“Eccoli là”.
“E le pietre? Sono lì dentro?”.
“Calmati”, imprecò lei sottovoce. Sapeva che la cosa la faceva impazzire, ma doveva punzecchiarla. Spesso sprofondava nei propri pensieri, diventando del tutto assente. In un turno precedente lei si era dimenticata di mettere le pietre preziose nelle apposite sedi negli stampi. Li aveva montati vuoti e lo aveva costretto a riempirli con una lega a caldo. L’ordine era enorme, e il risultato catastrofico. La nuova fusione ne aveva compromesso la qualità, e il peccato più grande era il tempo perso. Fuori di sé per la rabbia, Kulu si era rimborsato la perdita sottraendo loro il poco tempo che avevano per il riposo.
Il calor bianco all’interno del forno garantiva una temperatura soddisfacente. Tenendosi a distanza di sicurezza, v’infilò il bollitore e lo spinse fino in fondo. Teneva le mani ben salde sul manico, per poter giudicare in base al calore quando la colata sarebbe stata pronta per essere versata. Era la parte più noiosa della lavorazione, ma anche quella in cui gli inesperti sbagliavano più spesso.
Anche se il lavoro fioriva, Kulu era sempre più spesso insoddisfatto. Il giorno prima aveva portato alcuni dei campioni migliori nel padiglione, e in base a ciò lui aveva immaginato che li aspettasse un lungo lavoro. Di solito i mercanti venivano nella bottega vera e propria o nello scantinato dove era depositata la maggior parte della merce, mentre solo i più seri avevano l’onore di essere accolti nelle stanze private del maestro. Non poteva non notare il panciotto decorato con piastrine di rame addosso al solitamente trascurato Tomul, che svolgeva il servizio di guardia del corpo, anche se era totalmente inutile e particolarmente sbadato. Con sua grande sorpresa, la porta fu aperta da Sirmiona.
“Che vuoi?”, gli chiese bruscamente, fingendo di non notare il contenuto della bisaccia che aveva in mano.
“Cerco il maestro”. Gihtar si sforzava sempre di essere gentile con lei, ma proprio non ci riusciva. Non era mica lei quella a cui doveva i beni che si era guadagnato e un tetto sulla testa.
“Il tuo maestro è uscito ad aspettare un ospite importante. Dimmi cos’hai lì”.
“Stamattina mi ha ordinato di portare questi campioni. Qui ci sono braccialetti incisi, collane di stihira e tellurio e qualche cammeo a bassorilievo”.
Sirmiona sbirciò con disprezzo la borsa senza neanche provare a prenderla.
“Di che bassorilievi si tratta?”.
“I cavalieri delle stelle, l’effigie del dodicesimo canto. E il banchetto dei serafini”.
“Mi sembra più materiale sprecato che un lavoro vero e proprio”.
“Se concedeste loro l’onore del vostro nobile sguardo, vi convincereste subito che state sbagliando”, non nascondeva l’ironia nella propria voce. Nessuno, neppure lei, aveva diritto di schernire il lavoro delle sue mani.
“Lascia tutto qui e sparisci”, sibilò l’arpia e lui con piacere obbedì a quella richiesta. “E sarà meglio che iniziate a lavorare! Dovete guadagnarvi ogni singola goccia del balsamo che versiamo sulle vostre inutili pellacce!”, gli gridò dietro, ma quelle parole non erano nient’altro che una vuota minaccia indegna della sua attenzione.
Le tenaglie divennero spiacevoli al tatto e Gihtar versò con destrezza la liquida colata in uno stampo cilindrico. Altre diciannove volte così. Guardò Lenora che in silenzio infilava perle variopinte su un cinturino perlaceo, osservando con attenzione ciascuna di esse prima di passare alle rimanenti che avrebbero formato la collana. Ne desidera mai qualcuna per sé? Tutte le kase, al di là dello status sociale, amavano la moda e gli accessori. Lei non poteva essere un’eccezione. Venti bracciali e altrettante collane, recitava l’ordine. Senza alcun ulteriore dettaglio. Dopo aver ricevuto le istruzioni, in un primo momento si era stupito. I braccialetti con la superficie liscia erano di uso comune, molto popolari tra il popolo per la semplice ragione che erano di facile fattura e avevano un prezzo abbordabile. Ordinare qualcosa che avrebbe potuto fare praticamente chiunque nel quartiere degli artigiani dal maestro Kulu era quantomeno irrazionale. Ricchi snob, non badano alla bellezza, ma al prezzo che devono pagare.
Si aspettavano la temuta visita appena all’alba, quando la maggior parte del lavoro sarebbe stata pronta. Gihtar pensò che fosse ancora troppo presto per chiamare il maestro, quando Kulu entrò nel laboratorio. Incredibilmente, era di buon umore.
“Come procede?”, domandò loro dalla porta. Il suo volto oblungo emanava soddisfazione. Prima ancora di ricevere risposta, posò un vassoio ovale sul tavolo e si sfregò con noncuranza le mani sull’elegante vestito di tela leggera. “È per voi, non sprecatelo”.
“Maestro, è tutto pronto. Pensavamo giusto di chiamarvi”, disse Gihtar.
“Vedo, vedo. Avete lavorato bene”. Guardò di sfuggita i gioielli e sorrise un’altra volta. “Hai scelto dei bei modelli. Hanno comprato tutto e pagato in anticipo per la merce ordinata. Ben più di quanto mi aspettassi”.
“Queste sono ottime notizie, maestro”, disse Lenora.
“Ottime, nientemeno. Potete liberamente ringraziarmi. Finché avrete me, la vostra vita sarà facile. Lavorare con successo al giorno d’oggi richiede grande fatica, ma io ho un gran fiuto per gli affari”.
“Grazie”, disse l’apprendista con aria sottomessa. Gihtar era infastidito dalla sua sottomissione. Senza curarsi della sua condiscendenza, Kulu si voltò verso il suo servo più anziano.
“È una bella giornata. Andiamo a fare due chiacchiere in cortile”.
Sei invidiosa, Lenora?, pensò con cattiveria, e si allontanò dietro al maestro senza controllare la sua reazione.
Il cortile era veramente bello. I viottoli fioriti si allungavano fino al padiglione, e perfino i muri di pietra della tenuta, ricoperti di vite vergine, avevano un’aria quasi tenera. Kulu gli mise una mano sulle spalle.
“Sono soddisfatto delle tue prestazioni”.
Gihtar rimase basito. Si prepara infine ad affrancarmi?
“Be’, hai ancora molta strada da fare”, le parole del maestro infransero le sue speranze. Come aveva potuto pensare che fossero finite le sue sventure? Il silenzio del suo interlocutore poteva essere male interpretato. “Non offenderti, qui potrai sempre sentirti al sicuro finché mi ascolterai. Mi ascolti, Gihtar, visto che siamo già in argomento?”.
“Certo, maestro”.
“Bene. La tua obbedienza significa molto per me, perché presto avremo un lavoro serio. Questo cliente è qualcosa che aspetto da mo’, e che potevo soltanto sognarmi”.
“Deve avere trattarsi di qualche riccone”.
Kulu sorrise. “Che apprendista ingenuo! Certo che si tratta di un riccone, ma non è tutto qui. Comunque, la cosa non ti riguarda. L’unica tua preoccupazione dev’essere di poter rispettare le scadenze che ti imporrò. Se non ne sei in grado, sta’ pur certo che ti manderò in rovina. Con la quantità di balsamo, vestiti e materiale con cui ti pago posso assumere anche una decina di kasi”.
“Spero che il mio lavoro valga la paga che mi date”.
L’altro fece un cenno con la testa. “Solo non pensare che io non possa farcela senza di te. Hai una mano esperta, ma Tarnek è grande. Nessuno è insostituibile”.
Neanche tu, pensò Gihtar tenendosi l’osservazione per sé.
“Farò tutto quel che mi ordinerete”.
“Allora ci siamo capiti. Ora ascoltami bene. Oggi tu e Lenora vi riposerete, vi lascio liberi fino a domani. Sirmiona pensa che sono troppo generoso, ma non posso andare contro la mia natura. Bada solo che questa non diventi un’abitudine, perché il giorno successivo sarà molto impegnativo”.
Desideroso di riposo, l’apprendista non mosse alcuna obiezione a quanto proposto. Accetta tutto ciò che ti viene offerto, questa era la regola che aveva da tempo fatto sua durante il suo servizio.
“Un’altra cosa. Sposterai immediatamente tutta la merce nello scantinato. Le porte della bottega devono essere costantemente chiuse a chiave, e non aprirai a nessun altro che a me. Nemmeno a Sirmiona. Se verrà a trovarti, fa’ finta di non sentirla. Non cedere neanche se alza la voce, e soprattutto non metterti a discutere con lei. Sta’ semplicemente zitto, e se facesse problemi come solo lei sa, fa’ appello alle mie istruzioni. Sono io quello che servi, non dimenticarlo”.
“Tutto chiaro, maestro”.
“Manderò via Lenora per qualche giorno, non voglio che neanche lei sia presente”.
Questa volta Gihtar non poté nascondere il suo stupore. Non gli sembrava strano lavorare da solo, ma un ulteriore paio di mani rappresentava un sollievo a cui rinunciava a cuor pesante. “Non guardarmi così, so bene quel che ti dico. Se tutto andrà secondo i piani, sarà un bene anche per te. Siamo alle porte di un affare molto serio, e non permetterò che niente ci minacci. Ho passato tutta la notte a trattare”.
La luce nel padiglione. Pensavo che saresti venuto a controllarci. Sembrava che neanche Sirmiona godesse di fiducia illimitata. Probabilmente avrebbe escluso anche me, se non gli fossi tanto necessario.
“Non vi deluderò”.
“Sarà ben meglio. E ora torna nella bottega e riferisci a Lenora che siete liberi. Dopo le spiegherò tutto, ma tu preparati bene per quanto ti aspetta. E non dimenticare, non una parola a nessuno su quel di cui abbiamo appena parlato”.

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In quello spazio spartano che a lui spettava, meditò a lungo e profondamente. Un tempo Gihtar aveva avuto il diritto all’intera baracca dietro la bottega, ma dopo l’arrivo di Lenora aveva avuto il compito di dividerla in due parti. Quel mattino, proprio come il maestro aveva promesso, lei non c’era.
Grato per il riposo, non si era lasciato abbattere dall’idea degli impegni che lo attendevano, ma si era un po’ stupito quando Kulu gli aveva riportato i suoi ordini e gli aveva mostrato due nuovi stampi comprati apposta per ciò che lo aspettava. Prima di allora, era già stata una novità il nuovo forno con un bacino per il combustibile più profondo e un’imboccatura più stretta. Ciò a cui era destinato richiedeva una temperatura elevata e costante.
La produzione di coltelli, per la quale si prospettava un lavoro faticoso e delicato, era illegale, a meno che non si trattasse di una produzione appositamente commissionata. Non era il caso della bottega del maestro Kulu. Era perfettamente comprensibile perché fosse meglio evitare testimoni non voluti.
Gihtar non dubitava della propria abilità. Anche se non aveva mai forgiato nulla del genere, i bozzetti e le istruzioni che si era ritrovato davanti gli fornivano una risposta a tutte le incognite che avrebbero potuto causare qualche problema. Ciò che lo preoccupava era invece il tempo a sua disposizione. Dodici coltellacci, nel periodo previsto, non erano affatto un compito semplice. Sapeva che lo attendeva un lavoro come mai prima.
E in effetti, aveva proprio ragione.
I giorni alla forgia si fondevano in una lunga agonia piena di forti colpi di martello, fusioni e riforgiature, e l’arsura del forno e il rosso calore erano l’unico sole che i suoi occhi potevano vedere. Alcune volte si ritrovò sull’orlo della disperazione, sconfitto dal colpo dei coltelli che a fatica stava forgiando. Anche quando completava con successo il processo di forgiatura, poteva succedere che non raggiungesse il bilanciamento desiderato, cosa che lo riportava al punto di partenza. Se non altro, poteva perlomeno lavorare indisturbato, non lasciava mai il laboratorio, il maestro lo aveva rifornito di una quantità più che sufficiente di balsamo, e si concedeva brevi meditazioni solo in caso di estrema necessità, su un lenzuolo scolorito vicino alla massiccia incudine.
Le rare visite di Kulu mostravano segni di comprensione al di là di ogni attesa. Non commentava i frantumi dei tentativi infruttuosi, cosa assolutamente insolita per il suo carattere. Tutto era indirizzato a confortarlo, e a spronarlo a perseverare nel lavoro. Anche se la ragione di tale comportamento lo faceva impazzire, la cosa faceva piacere a Gihtar.
Trascorse quasi un intero trimestre prima che portasse anche l’ultima arma ormai finita nello scantinato. L’orgoglio e il sollievo si mescolavano con una profonda spossatezza, e lui si sentiva rinvigorito dal ferro su cui posava lo sguardo. Un gran lavoro, e probabilmente la più grande sfida della sua vita, era ormai un’impresa fruttuosa alle sue spalle. Che qualcuno lo ammettesse o no, come mai prima di allora era certo del proprio posto nel mondo. Il maestro Gihtar.
Quella sera stessa Kulu si presentò nella bottega con un altro kas. Dunque, ecco il cliente.
Intorpidito dalla stanchezza, Gihtar era più rilassato che mai.
“Questo è il mio apprendista”, lo indicò il maestro con la mano. Non gli aveva chiesto di uscire, ma ogni traccia di amorevolezza era ormai svanita. “Porta qui la merce”, tagliò corto.
Di primo acchito il committente sembrava assolutamente ordinario, non si distingueva affatto da tutti gli altri che erano passati di lì. La camicia di seta, così comune ed economica, era sbottonata ai limiti del buoncostume, mentre i pantaloni erano infilati in alti stivali di pelle cotta. Persino io ne ho di migliori, un accenno di risata pervase Gihtar, ma riuscì a trattenersi. Il volto dello sconosciuto, quasi latteo come una pietra bianca, freddo e duro con le labbra tirate, faceva un’impressione ben più forte. Chiunque fosse, questo kas aveva attorno a sé un’aura di autorità: era quella la sensazione che provava, mentre l’uomo osservava in silenzio le dodici spade che, tornato dallo scantinato, Gihtar aveva riposto sul tavolo di fronte a lui. A giudicare dalla postura anche Kulu aveva avuto la stessa sensazione. Si tormentava nervosamente le dita, senza distogliere lo sguardo dall’acquirente.
“Sono fatti col metallo più raffinato, che ne pensate? Prego, prendetelo in mano… sentite com’è al tatto”.
Obbedendo al maestro, l’uomo afferrò l’elsa e fece qualche movimento agile e veloce attraverso l’aria. L’arma sembrò cantare nelle sue agili mani. L’ho fatto io, pensò Gihtar, io li ho forgiati e questo kas può uccidere con essi. Solo l’abilità poteva risvegliare la natura mortifera di un coltello. Guardando con quale abilità l’arma si muoveva nelle sue mani, Gihtar comprese che questa era l’ultima cosa che mancava al misterioso ospite.
“È un buon lavoro, maestro. Proprio come avevi promesso”.
Kulu prese a vantarsi.
“Il mio nome è noto in lungo e in largo. In tutto ciò che faccio lascio una parte di me”.
Il maledetto si fa bello del mio lavoro. Non che fosse una novità, ma questa volta la situazione era ben diversa. Se per tutti i braccialetti, le collane, le corazze, le piastre e tutte le altre cose gli era toccato creare senza nemmeno la parvenza di ricevere il benché minimo riconoscimento era riuscito a rimanere zitto, non aveva intenzione di lasciar correre con quest’ultima sua creazione. Le armi che aveva forgiato erano qualcosa di ben più serio – non erano orecchini e accessori che qualcuno avrebbe indossato nell’insensato tentativo di imitare la bellezza e la gloria. Erano la prova della sua maturità – come fabbro e come kas. È vero che una parte di qualcuno rimane impressa per sempre nel ferro lucente, ma questa parte non apparteneva a chi lo aveva dichiarato. Da dove si è preso un simile diritto? Gihtar aprì la bocca, pronto a difendere il proprio onore ad ogni costo, ma prima di riuscire a emettere un suono, rimase atterrito. Se l’impudente tentativo dell’apprendista aveva colpito il maestro, non era il caso del committente.
Il suo sguardo gli imponeva di trattenersi.
Non pensò neppure di mettere in discussione quanto gli avevano ordinato quei due occhi di un nero brillante nello spazio di un secondo. No. Il viso era privo d’espressione, ma gli occhi ardevano di vita.
“I miei servitori passeranno a ritirare la merce e ti porteranno la somma pattuita. Entro stanotte”, le labbra tirate si aprirono solo per far passare le avide parole.
Kulu chinò la testa. “Va bene, va bene. L’importante è che nessuno sospetti…”.
“Non preoccuparti. Piuttosto fa’ attenzione che la tua lingua non si spinga troppo oltre”.
“Non c’è di che preoccuparsi, la discrezione è il mio motto. Spero che lavoreremo a lungo insieme e che ne siate soddisfatto”.
Il suo interlocutore chinò la testa. “Per quanto riguarda il tuo inventario…”, ma non finì la frase. Kulu, con un’impazienza totalmente in disaccordo con il comportamento tenuto fino ad allora, alzò la mano bloccandolo a metà della frase.
“Questi sono solo inutili braccialetti, anelli e qualche altra robetta. Non li terrei nemmeno, se non mi ci avessero costretto i debitori. Ci sono kasi di ogni sorta – arrivano, ordinano la merce, la portano via e non pagano. E così io m’impoverisco, devo darmi da fare e prego Dio di riuscire a ripagare almeno un po’ le mie pene, almeno con questi ninnoli. Ecco il motivo per cui ce li ho”.
“Dunque non sarà un problema vendermeli”, rispose pacifico l’estraneo. Kulu fece un cenno di dissenso.
“Non vi arrabbiate, ve ne prego. Vi ho detto che non voglio farlo. La mia Sirmiona è solo una kasa, le ho dato la mia parola che questi gioielli sono suoi”.
“Sei un uomo d’affari. Ogni cosa ha un prezzo”.
Gihtar riusciva a percepire la pena del maestro. Non poteva immaginare di quali gioielli si trattasse, ma la consapevolezza della sua sottomissione alla kasa con cui condivideva il tetto lo divertiva. Era strano, lo conosceva bene e sapeva che per il giusto prezzo avrebbe venduto la sua stessa pelle. Come ha fatto quella lì a comprarlo?
“Vi prego”, continuò Kulu quasi implorandolo, “posso farvi delle copie identiche. Le farò per metà del prezzo che farei a chiunque altro, cosa ne dite? Come gesto dalla mia buona volontà, in vista dei lavori futuri”.
“Non dubito della tua abilità”. Il suo sguardo si soffermò appena un attimo su Gihtar. “Sono certo che le copie sarebbero persino meglio degli originali. Tanto buone che neanche l’interessata si accorgerebbe della differenza”.
Pur messo con le spalle al muro, il maestro non si arrendeva. “Non sono in vendita”, la sua voce era secca ma decisa. Come se non fosse successo nulla, il suo interlocutore s’inchinò velocemente e si avviò verso la porta.
“Non serve che mi accompagni, conosco la strada”.
Kulu si trattenne ancora un po’ nella bottega, senza accennare a quanto era appena successo. Fissava l’inventario con aria assente, borbottava fregandosi la barba e scrutava quasi impaurito in ogni angolo. Poi si tranquillizzò e ordinò a Gihtar di riposarsi fino all’indomani, regalandogli un sorriso amichevole in segno di riposta quando quegli gli chiese altro tempo libero. Erano trascorsi tre mesi di lavoro sanguinoso, e a giudicare dalle parole del maestro tutto si sarebbe dovuto concludere così. L’apprendista lo maledisse tra sé e sé e poi, dopo lungo tempo, si diresse verso la propria baracca.
La stanchezza accumulata fece la sua parte. Non appena ebbe incrociato le gambe e appoggiato le spalle al freddo muro, gli occhi si chiusero da soli. Il silenzio lo inondò, e iniziò a cullarlo dolcemente. Le emozioni gli inondarono il corpo e lo attraversarono fino alla punta delle dita, dalla quale fuoriuscirono in lontananza e tornarono depurate. Da lì tutto si sfogava, e lui sentì un piacevole flusso di tensione che presto sarebbe sparito dagli arti. Finalmente.
Quando una voce iniziò a parlare, cercò invano di sobbalzare.
“Lo odii?”, nel silenzio più assoluto il sussurro risuonò come un tuono.
“Chi va là?”, il corpo non obbediva, gli occhi continuavano a restare chiusi, ma almeno la voce non si rifiutava di obbedire. “Chi va là?”, domandò nuovamente. Conosceva la risposta prima ancora di ottenerne una.
“Calmati, non avere paura. Puoi chiamarmi Set”.
“Pensavo… pensavo foste uscito”.
“Sono tornato per dare il giusto riconoscimento al tuo lavoro. Da molto tempo non m’imbattevo in un simile ferro. Dimmi, lo odii?”.
Qualcosa nel suo tono, nell’atmosfera in generale, lo liberò dalla paura e gli fece provare un’inspiegabile vicinanza. Gihtar sapeva di non poter mentire. E non voleva mentire.
“Lo odio”, rispose.
“Anch’io lo odierei, se fossi al tuo posto. Sei più in gamba di lui, più in gamba di molti altri. Eppure, sei un semplice prigioniero. Sei uno schiavo, Gihtar”.
“Sono solo un apprendista”.
Il riso riempì lo spazio avvolto dalle tenebre. “Sei solo quel che vuoi essere. Ognuno sceglie il proprio destino, artigiano”.
“Faccio ciò che Dio mi ha donato con il mio risveglio”.
“Dio ti ha assegnato il ruolo di maestro, ma lui non te lo permetterà mai. Perciò lo odii. Tu non sei un maestro”.
“Posso creare ciò che m’immagino. Sono un maestro”.
“E il suo schiavo. A che serve l’abilità se non puoi godertela?”. Set aveva colpito un punto delicato. Perché non riesco a calmarmi?
“Che cosa volete?”, domandò. L’assenza di paura era assolutamente incredibile. Mi ha stregato. In qualche modo ci è riuscito.
“Te l’ho già detto. Sono qui per darti il giusto riconoscimento, ma anche per farti un’offerta. Desideri la libertà, Gihtar?”.
Non rispose subito. Forse è tutto un tranello, forse Kulu mi sta mettendo alla prova. Che sia un esame della mia maturità? Non aveva mai sentito di una pratica simile, ma il suo padrone era uno che si discostava spesso dalla norma. Qualcosa accanto a lui frusciò, e lui comprese che non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Non ora, non dopo tutto quel che aveva passato. Se Set se ne fosse andato, avrebbe potuto perdere per sempre ogni possibilità. Sarebbe andato fino in fondo, senza curarsi dell’esito.
“La voglio”.
“Quanto?”.
“Più di ogni altra cosa”.
La voce si fece più vicina. “Posso dartela, ma dovrai fare alcune cose, e farle esattamente come te le dirò. L’unica cosa che voglio è che tu sia risoluto nella tua decisione. Non c’è prezzo per quanto ti viene proposto, ma dovrai essere pronto a batterti”.
“Sono pronto”, rispose Gihtar. Lo era davvero, più che mai.
“Allora ascoltami con attenzione e cerca di ricordarti ogni mia parola. Un’occasione migliore, caro apprendista, non l’avrai mai”.

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Mancava ancora qualche ora all’alba, e Gihtar si sentiva comunque più stanco di quanto fosse stato da molto tempo. Anche se non c’era rischio che lo sentissero, scivolò silenziosamente attraverso la porta socchiusa della baracca, e tenendo d’occhio le ombre sgattaiolò fino al muro della bottega. Nella stanza aveva qualche metro di tela morbida, ottenuta in pagamento, e vi avvolse le suole rinforzate delle sue scarpe. Nel silenzio notturno si muoveva senza fare alcun rumore.
Questa volta la bottega non era la sua destinazione. Era uno scarto rispetto alla pratica ormai da anni consolidata, ma era un nonnulla rispetto a quello che sarebbe dovuto accadere dopo. Per quanto fosse il simbolo della sua sofferenza e dell’ingiustizia subita, amava quel posto. Là da qualche parte mi attende qualcosa di meglio e di più bello, pensò mettendosi a cercare la risolutezza dentro di sé. Le istruzioni erano chiare, presto tutto ciò sarebbe stato soltanto una parte del suo difficile passato. Per sempre alle mie spalle.
Il giardino era inondato dalla luce lunare. All’altra estremità si trovava il padiglione, che – come un fiore – si levava in alto su uno zoccolo di pietra. Da qualche parte laggiù meditavano Kulu e Sirmiona, incuranti della propria insolenza, sicuri della certezza di cui godevano immeritatamente. Non farò più parte di tutto ciò.
In pochi passi Gihtar si trovò accanto al muro che cingeva la proprietà, ma non si diresse verso il cancello principale. Non ancora. Il terreno dietro la baracca non era così ben ordinato, ma rappresentava piuttosto l’altro lato della vita nella proprietà di Kulu, di cui lui stesso faceva parte. Pezzi rozzi di minerali e materie prime non lavorate erano accatastati in grosse pile nell’attesa che mani esperte dessero loro forma. La loro quantità non era conseguenza di un’attenta raccolta delle riserve, ma il frutto di un insensato acquisto di tutto ciò che si poteva avere con la minima spesa. A volte per mesi si accumulava solo legname, mentre vi erano periodi in cui ogni cinque giorni vi si scaricavano i metalli più svariati, spesso perdendo la possibilità anche solo di registrare quanto era stato così depositato. Ogni tanto accadeva che una pila crollasse, e se presagiva tale possibilità, il maestro la preveniva esortandoli a lavorare come dei forsennati e a riversare articoli già pronti nell’immenso magazzino sotterraneo.
Ciò che lo interessava era il portone di servizio, e notò con felicità che era vuoto. Il compito di Tolum prevedeva tra le altre cose di montarvi la guardia durante la notte, ma la pigrizia riempiva ogni parte del suo essere. Probabilmente per la gran mole di lavoro e perché conducevano esistenze separate, Gihtar non aveva mai avuto l’occasione di conoscerlo meglio e anche i pochi contatti che avevano avuto non avevano suscitato in lui un desiderio più serio. La guardia era un’armatura vuota, tanto priva di personalità e tanto ordinaria che gli dava fastidio anche solo dedicargli i propri pensieri. Un tempo si era interrogato sul suo rapporto con il maestro, se anche lui condividesse la grave pena di un arduo servizio, ma alla fine si era stancato di tutto ciò. Se qualcuno meritava un superiore come Kulu, quello era Tolum.
Come sempre, l’ampio portone era ben sbarrato. Gihtar dubitava che qualcuno se ne fosse occupato mentre lui era impegnato alla forgia. Aveva avuto indicazioni di svolgere tutti i lavori pesanti e probabilmente proprio una serie di incarichi era l’unica ricompensa che lo attendeva nei giorni successivi. Bussò con calma sul portone al ritmo del segnale concordato, e due ombre passarono come un fantasma presso il muro e si appostarono sulla sua sommità senza compiere più alcun movimento. Persino a una tale vicinanza era difficile distinguerle dall’ambiente circostante. Sicuramente per loro non è la prima volta.
Doveva procedere oltre.
Mentre lasciava i cumuli delle scorte alle sue spalle, gli sembrò di vedere un movimento sul muro opposto, ma non riuscì a capire se era solo la distanza a prendersi gioco di lui. Tieni conto solo di quanto ti dico di fare, gli era stato chiaramente indicato, e fermamente deciso ad attenersi a tali istruzioni si avvicinò alla dimora di Kulu. Si fermò solo quando avvistò Tolum.
Era un kas grande e grosso, e ciò che impediva alla sua figura intera di essere armoniosa erano di fatto le mani – innaturalmente piccole in rapporto alla sua altezza, indubbiamente funzionali e tuttavia troppo impacciate per poter possedere qualche qualità più nobile della forza bruta. Lo stemma maldestramente ricucito del maestro Kulu, un martello da fabbro circondato da quella che sarebbe dovuta essere una collana, s’intravedeva appena sulla stoffa scadente della tunica che persino sotto il manto della notte appariva sporca. Se non riesco a convincerlo, sarò in guai grossi. Tastò il pezzo di carta rilegata e lo strinse forte. Le cose erano ormai andate troppo oltre, non poteva più tornare indietro e tutto quel che poteva fare era riporre la speranza nell’attendibilità delle promesse di Set. Nella tasca troverai un messaggio. Non leggerlo per nessuna ragione, ma dallo al guardiano quando arriverai sul posto.
“Tolum”, lo chiamò sottovoce. Non vi fu alcuna reazione. Quanta devozione al proprio dovere. “Tolum”, tentò un po’ più forte, temendo per le possibili conseguenze. Anche se il guardiano era duro d’orecchi, i due dentro il padiglione no. Per fortuna, riuscì a strapparlo al suo sonno e lui alzò lo sguardo. Gihtar fece un passo avanti, facendogli segno con le mani di non fare rumore.
“Che ci fai qui?”, sussurrò il guardiano.
“Sono venuto a portarti questo”, gli porse il rotolo. Tolum lo fissò guardingo.
“Che cos’è?”.
“Una lettera per te”.
“Una lettera? Sai che ora è?”.
“Prendila e leggila, su”.
“Non dovresti essere qui”, continuò l’altro, si guardò attorno, poi aggiunse più piano: “Da parte di chi?”.
“Ti prego, prendila”.
Tolum infine obbedì, e sembrò trascorrere un’eternità prima che riuscisse infine a sciogliere la cinghia con cui era avvolta. Gihtar poteva distinguere le spesse linee che formavano le poche parole, ma il guardiano dovette avvicinarla al volto. Per fortuna, sa leggere. L’alfabetizzazione non era affatto una rarità, ma nel caso di Tolum non lo avrebbe sorpreso il contrario.
Qualsiasi cosa vi fosse scritta, ebbe un certo effetto. L’uomo nascose in tutta fretta la carta sotto la cintura, e si passò le mani impacciate tra i radi capelli.
“Spero che non sia un qualche trucchetto. Se mi prendi in giro, te ne pentirai”. Benché dovesse suonare come una minaccia, dalla forte apprensione nella sua voce risultò quasi buffa. Gihtar aveva la risposta pronta e sperava che servisse allo scopo.
“Occhio di Luna, non ho altro da dirti”.
Tolum rimase di stucco, come se non potesse credere a quanto aveva appena sentito. Poi si mosse di scatto e iniziò ad allontanarsi a passi veloci verso la bottega. Proprio quando iniziava a pensare di essersene sbarazzato, quello si fermò, si voltò verso di lui e fece qualche passo avanti.
“Non muoverti da qui. Finché non torno”.
“Non c’è fretta. Ma non fare rumore”.
Il guardiano chinò la testa e riprese ad affrettarsi. In breve tempo di lui vide solo i contorni, e poi le tenebre si chiusero attorno a lui. Gihtar si sentiva a disagio. Non si sentiva alcun rumore.
Ancora un po’ e tutto sarà compiuto. Ora che l’ostacolo principale era stato aggirato, il pericolo di essere colto sul fatto era di gran lunga inferiore. Combattendo con l’agitazione si trascinò fino all’ingresso principale e tirò la maniglia che apriva il battente. Il cigolio del meccanismo squarciò la notte, finché l’ultima difesa della sicurezza di Kulu non si aprì per lasciare spazio a ciò che doveva accadere.
Tutto si svolse come un lampo.
Preoccupato che il rumore potesse risvegliare i proprietari, Gihtar si diresse verso il padiglione, giusto in tempo per vedere delle figure ombrose scivolare abilmente sulla rampa e prendere posizione accanto al portone indifeso. Mentre cercava rifugio al riparo del muro, attraverso il silenzio riecheggiò un’esplosione e lui con un malevolo piacere di cui non avrebbe mai neppure immaginato di essere capace capì che avevano fatto irruzione. Sirmiona lanciò un urlo acuto quando la luce di una fiaccola illuminò l’ambiente. Farà loro del male? Dalla distanza a cui si trovava non poteva vedere l’interno, ma i rumori portati dal vento gli fecero comprendere che nelle stanze del suo padrone non stava succedendo niente di piacevole.
Alla sua destra si sentirono delle voci e un’ala del cancello aperto colpì con forza il muro quando attraverso ad esso irruppero nella proprietà un gran numero di persone, cadendo una dietro l’altra. Con terrore riconobbe l’uniforme dell’Ordine su una di esse. È la fine, sarò catturato. La legge era giunta da sé, come aveva potuto essere tanto stupido da accettare la proposta di Set? Dalla posizione in cui si trovava era difficile passare inosservato, e soprattutto sembrava che gli intrusi come per dispetto avessero illuminato le stanze di Kulu con tanta luce che ogni tentativo di nascondersi sotto il velo delle tenebre era vanificato.
La bottega, devo riuscire a raggiungerla. La profonda cantina sarebbe potuta servire come nascondiglio, avrebbe avuto abbastanza tempo per organizzare una difesa, una volta nascosto. O quello – o tentare di fuggire di lì e trovare asilo nelle strade di Tarnek. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che lo trovassero? Si trovava di fronte a una scelta tutt’altro che facile. Avrebbe potuto raggiungere la bottega per la stessa strada con cui era arrivato fino lì, ma laggiù si aggiravano delle ombre. Non riusciva a immaginarne il numero. L’altra strada s’insinuava tra il padiglione e l’ingresso principale, ma lì ora si trovava l’Ordine, e se lo avessero preso si sarebbe dovuto fare largo tra i giustizieri. Si trovava di fronte allo stesso dilemma anche se avesse scelto la fuga. Posso far finta di essere una vittima. Li manderò al piano di sotto e fuggirò.
Prese una decisione. Non si sarebbe mai permesso di rinunciare alla libertà, per quanto poco potesse durare. Non ora che ce l’aveva tra le mani. Forse non mi noteranno affatto, pensò, e che cosa potrebbero mai farmi in nome di Dio? Preso dal panico, rimase quasi accecato da quanto accadeva intorno a lui, registrandolo solo con gli occhi e non con l’intelletto. Uno dei guardiani della legge ruotò su sé stesso e quasi gli cadde sui piedi quando un kas con una corazza di cuoio lo colpì con un’enorme mazza. Gihtar scoppiò a ridere, reso folle dall’improvvisa consapevolezza. L’Ordine era lì, ma non era solo. Quelli con cui tentavano di combattere erano due volte di più. Riecheggiò un suono acuto quando uno di loro brandì la spada e un braccio avvolto nell’uniforme prese il volo nell’aria. Il mio lavoro, pensò, è così che taglia quel che io forgio, e appena un attimo dopo si trovò faccia a faccia con un altro proprietario dell’opera a cui si era tanto a lungo dedicato. Mi colpirà. C’era qualcosa di selvaggio nell’idea che sarebbe stato ferito da una lama che lui stesso aveva creato.
“Lui è con noi”, riecheggiò una voce ferma e il suo aspirante assalitore si spostò, alzando la lama in alto sopra la testa, pronto a calare il colpo su chi lo avesse meritato. Prima che riuscisse ad abbassare il braccio, una punta di ferro con precisione quasi chirurgica fece breccia nella corazza di pelle dura sulle sue spalle e appena un attimo dopo furono tutti bersagliati dai rimasugli di quanto un tempo componeva il suo torso. Rabbia e soddisfazione brillavano sul volto del guardiano della legge, che gettò a terra il trinciante usato e di scatto estrasse un pugnale correndo verso Gihtar. Mi ucciderà, pensò, e tentò di difendersi alla bell’e meglio. Sarebbe stato tutto di gran lunga più facile se avesse avuto un’arma qualsiasi. Non c’era quasi spazio di manovra, il mondo attorno a lui era diventato una massa di grida e colpi e lui pensò al fatto che era un vero miracolo che fosse ancora in piedi. Pochi istanti lo dividevano dal suo assalitore e lui con ammirazione pensò all’energia del colpo che ne sarebbe inevitabilmente seguito. Vuole uccidermi. Il suo boia, ormai a un passo dal suo scopo, inciampò sui resti di qualcosa, e se non avesse avuto un’aria di stupore sul volto Gihtar non si sarebbe accorto della situazione salvifica che gli si era inaspettatamente presentata. Guidato da un istinto di cui in precedenza non era mai stato cosciente, si spostò abilmente di lato e con un forte colpo placò per sempre l’ira del suo aspirante carnefice. Sembra che ora io possieda un’arma. Sconvolto dalla vista del cranio deformato del kas, tento di valutare quanto balsamo sarebbe stato necessario per curare lo sfregio che i frammenti d’osso avevano procurato alla sua mano. Lo strappò dallo stato di trance una mano che lo scuoteva stringendogli forte una spalla. “Maledetto, gli hai fatto saltare la testa con un pugno!”, urlò un volto rozzo ricoperto dalla barba scoprendo allegramente una serie di denti affilati. “Lo hai spappolato come se fosse una torta di zucchine!”.
Si guardò attorno, barcollò, tentando di allontanarsi dal cadavere accanto al quale stava in piedi. Aveva ucciso un kas – per quanto fosse una questione di difesa, l’aveva comunque ucciso. Un altro Gihtar dentro di lui pensò quant’era bizzarro trovarsi dentro il Gihtar criminale. Gihtar l’assassino. La proprietà era illuminata a giorno, e lui comprese che il padiglione era in fiamme. Le figure oscure, ora radunate alla base del gigantesco falò, non erano più ombre – la torcia aveva scoperto le loro nere uniformi, per niente meno spaventose di prima. Il cadavere di qualcuno bruciava mentre gli altri trafficavano intorno a dei supporti di legno sui cui era riposta una cassa. Tutto attorno si trovavano i resti di quelli che non si sarebbero più risvegliati. La battaglia presso il cancello era giunta al termine.
“Andiamo!”, gridò qualcuno, e la folla si affrettò verso l’uscita. Gihtar si lasciò trascinare dalla massa, e ben presto correva completamente disorientato per le strade vuote della città. Camminando al ritmo dei passi dei suoi inattesi commilitoni, si guardava attorno disorientato – le mura, i tetti, la notte che pian piano spariva lasciando spazio al suo primo mattino di libertà, così forte e impressionante da ubriacarlo e da sembrargli che quella che fino a ieri pareva vita fosse così lontana da non essere mai successa. Correva come un pazzo, selvaggio e sregolato, sorbendo ogni dettaglio con un entusiasmo per via del quale il suo corpo ardeva. E adesso, all’improvviso, come tutto ciò che era accaduto quella notte, il suolo sotto i suoi piedi svanì e lui cadde nelle tenebre.

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Quando recuperò i sensi, si accorse di essere in un’immensa sala senza finestre, piena di kasi che parlavano allegramente tra loro, ridendo e scherzando sotto la forte luce della fiamma che ardeva in un focolare in muratura al centro della stanza. Era seduto a un tavolino in un angolo, e di fronte a lui si trovava un barile di legno pieno di balsamo. I suoi vestiti erano per la maggior parte strappati, e gli vennero alla mente le sue cose, che aveva lasciato probabilmente per sempre nella baracca nella proprietà del maestro Kulu.
Quando tentò di alzarsi per osservare meglio l’ambiente attorno a sé si accorse di essere troppo debole per reggersi in piedi. L’esperienza inattesa aveva preso il suo dazio, e lui con sofferenza richiamò alla memoria l’ultima volta che era riuscito a compiere una meditazione completa. Era un vero miracolo che fosse riuscito a reggere tanto a lungo. Una voce si distinse tra tutte altre, ma non poté distinguere cosa avesse detto. Chiuse gli occhi. Come se fosse importante, pensò. Tutto era compiuto, non avrebbe mai più dovuto sopportare la tortura, e qualsiasi cosa lo attendesse non poteva essere peggio di quanto si era lasciato alle spalle. Quella consapevolezza lo tranquillizzò.
“Ti piace la libertà?”. A differenza degli altri, la fonte dell’inattesa domanda era nota e Gihtar con stanchezza sollevò la testa. Set sorrideva. Anche lui sembrava spossato mentre con una mano si appoggiava a un kas più basso il cui volto era nascosto da un cappuccio nero. “Abbiamo avuto qualche piccolo problema con l’Ordine, ma alla fine è andato tutto bene. Qualcuno quaggiù dice che hai la mano pesante”.
“Ho agito secondo le istruzioni”.
“Sì. Sono felice di non essermi sbagliato quando ti ho affidato questo compito”.
“Kulu e Sirmiona…”.
“Sono morti. Non opprimeranno più nessuno. Devi esserne felice”.
Gihtar tuttavia si sentiva più vuoto che felice. In ogni caso, la cosa gli faceva piacere.
“E Tolum?”, domandò sottovoce. S’immaginava che anche a lui non fosse toccato un destino migliore.
“Il guardiano non è stato un problema. Fino all’ultimo istante non si è potuto rassegnare al fatto che lo attendeva la nostra fratellanza, invece di quel che si era aspettato dopo aver letto la lettera”.
“Che stupido kas…”.
“E di natura assai amorosa, se posso fare un’osservazione”, aggiunse Set quasi con allegria. “Visto che siamo già in argomento, permettimi di presentarti il suo Occhio di Luna”.
Se il guardiano volesse controllare, digli solo questo nome, ancora si ricordava le istruzioni di Set. La figura accanto a lui si abbassò il cappuccio e Gihtar ne vide il volto.
“Lenora…”.
“Mio signore apprendista”, prese parola lei fingendosi umile, “benvenuto nella Fratellanza Nera”.

CAPITOLO TERZO
“… All’interno della città, nostra è la giustizia!”
Giuramento dell’Ordine

Per un attimo aveva pensato di essere nell’Avamposto, ma quella supposizione si dissolse tanto facilmente quanto era comparsa. Era a casa, e si abbandonò a quella piacevole sensazione mentre la coscienza gli riempiva nuovamente il corpo. Giornata libera.
Quel che lo ritemprava era il rumore che veniva dalla stanza accanto. Aperti gli occhi, Nelgor diede un’occhiata all’uniforme appesa accanto alla porta. Un raggio di sole cadeva su un bottone levigato, facendo sembrare che fosse fatto d’oro. Monada. Deve averlo pulito lei. La notte precedente aveva avuto appena le forze di liberarsi dai vestiti e pulirsi con un asciugamano. Che brava kasa. Sembrava che avesse meditato a fondo, perché non l’aveva affatto udita alzarsi e uscire. Non l’ho neanche sentita. La stanchezza e lo stress facevano la loro parte. Un tempo quasi non vi era notte in cui non fosse cosciente della sua presenza, e non appena si stendevano la loro energia dava inizio alla loro danza, vorticando liberamente e selvaggiamente attorno ai corpi esausti. Notti d’amore. Grazie a quegli ardori tornava a essere più completo che mai, pronto a lavorare per giorni senza interruzioni. Purtroppo, situazioni del genere erano ormai sempre più rare, e anche quando accadevano erano più meccaniche che caratterizzate da una sincera sensualità. Probabilmente con gli anni certe cose erano diventate ordinarie. Nonostante tutto, la amava con lo stesso ardore.
Indossò velocemente la vestaglia e diede un’occhiata attraverso la finestra. La giornata è stupenda. Due kasi passeggiavano pigramente per la strada chiacchierando tra loro. Si fermarono di fronte a una vetrina e si misero a guardare dei tappeti sontuosamente decorati. Sulla porta si affacciò il proprietario e si scambiarono qualche parola che lui non poté sentire. Riconobbe Fenor; viveva al pianterreno e per quanto potesse essere scorbutico con i clienti era sempre cortese senza alcuna eccezione. Potremmo fare due passi oggi.
Avvistò Monada non appena mise piede nella stanza principale. Questa era l’unico altro spazio che insieme alla sala per la meditazione formava ciò che chiamavano casa. In ogni caso non potevano vantarsi della grandezza dell’appartamento, ma le loro esigenze erano pienamente soddisfatte. Sul pavimento accanto al tavolo si trovava un secchio; Monada, china su di esso, ne stava amalgamando il contenuto con grande impegno con un mestolo di legno. Quando lo sentì, sollevò la testa, lottando con una ciocca di capelli color porpora che dispettosamente le nascondeva lo sguardo. Quant’è bella.
“Sei tornato”, lo salutò. “Non volevo disturbarti, mi sarebbe dispiaciuto”.
“Avresti dovuto”, con un tenero gesto le allontanò i capelli dal volto. “Per poco non ti vedevo neanche oggi”.
Lei sorrise. “Che importa, dovevi riposarti”. Il suo sguardò si posò sulla scura mistura di cui si stava occupando. “Sono uscita in silenzio per non svegliarti. Ho portato il collante… pensavo che mi avresti aiutato a rattoppare quel…”.
Nelgor fece una smorfia. “Moni, perché continui a insistere? Poteva aspettare”. Qualche mese prima in un angolo del soffitto si era aperta una crepa. L’edificio era vecchio, ma comunque non era una cosa che sarebbe dovuta accadere. In ogni caso, non si era preoccupato troppo, i dispiaceri sarebbero comparsi solo se fosse iniziato a piovere e i rovesci erano tanto rari che non si poteva ricordare quand’era stata l’ultima volta che il cielo aveva bagnato Tarnek. D’altra parte, Monada non aveva smesso di frignare e la cosa lo irritava sempre più. Temeva che il buco potesse allargarsi, e l’umidità era quel che la preoccupava di più. Quando s’intrufola non hai modo di liberartene, gli aveva detto, e quando compare la cancrena allora è troppo tardi. Era la verità, ma le cose non erano poi così tragiche. La morte cancrenosa coglieva le sue vittime in molti modi, e non c’era un motivo razionale per una tale paura di tutto ciò che avrebbe potuto causarla.
Doveva immaginare che era questione di giorni prima che la donna prendesse in mano la situazione. Era ostinata e testarda. In reazione alla critica, i suoi occhi rivelarono un chiaro messaggio. Se vuoi metterti a discutere, accomodati pure. Forse si sarebbe sottomesso senza opporre resistenza, e avrebbe accettato il lavoro, ma la domanda che seguì s’impose da sé.
“Con che cosa hai pagato?”. Quell’anno era stato particolarmente pesante, e il terzo trimestre che stavano ora attraversando non infondeva speranze che si concludesse meglio di com’era iniziato. La grande domanda era che cosa avrebbe portato con sé il futuro. Aveva la fortuna di servire l’Ordine, ma poteva ringraziare solo la sua parsimonia per le scorte di balsamo che avevano accuratamente messo da parte. Allo stesso tempo, le ore di straordinario comportavano un ragguardevole profitto, e oggi non si sapeva se la norma ordinaria avrebbe portato frutto. Già tre volte al posto della paga avevano ricevuto una garanzia, un pezzo di carta con cui la città s’impegnava a trasformarlo in quello che si erano onorevolmente guadagnati non appena si fossero accumulate riserve sufficienti. Non avevano potuto rifiutare. Non le aveva mai imposto la propria volontà, ma aveva solo una preghiera, un’unica semplice regola che si aspettava venisse rispettata. Non rivendiamo il balsamo. Raramente avevano altri beni che potevano essere scambiati, perciò vivevano semplicemente, ma perlomeno a differenza di molti non dovevano preoccuparsi per la propria pelle.
“Ne ho preso appena un po’”. Nella voce c’era senso di colpa, ma non pentimento.
“Per l’amor di Dio, Monada!”, gridò lui. “Non posso credere che l’hai fatto!”.
“Ne ho preso un briciolo, non farne subito un problema!”.
“Ma questo è un problema!”. Dopo la prima volta ne sarebbe giunta anche una seconda, e l’eccezione in brevissimo tempo sarebbe diventata una regola. “Sprechi ciò da cui dipende la nostra vita per qualcosa di insignificante come il collante!”.
“Non è colpa mia se abbiamo solo quello da spendere”. La sua risposta la colpì come una lama. Non parlavano mai del fatto che solo il suo lavoro era retribuito. Monada era un’artista, una pittrice, e quella professione non era messa bene neppure in tempi migliori. Non aveva mai pensato di lasciarla per quello, era sottinteso che lavorava per entrambi. Era un colpo basso, e non era affatto degno di lui.
“Mi dispiace, ma è tutto quel che abbiamo”. Aveva abbassato i toni, trattenendosi dall’offesa. “Se pensi che dobbiamo rimanere anche senza quello, fa’ pure. Spendilo tutto”.
“Non lo farei mai!”. Il mestolo le cadde dalle mani e finì sul pavimento. “Come puoi non capire, volevo proteggerti. Quel buco… dobbiamo rattopparlo”.
“Sono d’accordo, ma non così. Sai quanti kasi non hanno la possibilità di permettersi nemmeno un unguento annacquato?”.
“Meglio di te. Il fatto che sei di servizio non significa che tu sia l’unico a vedere quanto accade”.
Non ne hai la benché minima idea, pensò lui, ma stette zitto. Il giorno prima durante il turno era scoppiato un focolaio. Un criminale era fiorito, e per qualche ragione i più deboli si erano trovati a portata di tiro del bandito. Li avevano inceneriti ancora morenti, nascosti in un angolino, come se la cancrena non avesse già abbastanza amareggiato il loro destino. Era impossibile rintracciarli, la ricerca si era trasformata in un circolo vizioso. I pochi testimoni erano troppo spaventati per dare una qualsiasi informazione, e nuovi focolai germogliavano quasi ogni notte.
Conscio che una qualsiasi parola di troppo avrebbe solo potuto far scoppiare una lite aggiunse con più calma: “Puoi promettermi che non farai più cose del genere?”. Non voleva trascorrere nell’ira i pochi momenti liberi insieme a lei. Quel che era stato fatto non poteva più essere corretto.
Lei chinò lo sguardo sul pavimento, come se la risposta si trovasse vicino alle loro gambe. Quando lo guardò, seppe che aveva placato la sua rabbia e inghiottito il rospo.
“Lo giuro”. Agli angoli della sua bocca c’era qualcosa che poteva sbocciare in un sorriso. “Non avevo intenzione di sprecare quel che abbiamo, ma credo davvero che sia una necessità. Volevo solo il meglio”.
“Lo so”. La abbracciò e la stanza si riempì di un piacevole silenzio.
“Ci mettiamo al lavoro o continuiamo a ciondolare?”. Il sussurro di Monada gli solleticò l’orecchio.
“Al lavoro. Ma dopo dobbiamo goderci questa giornata insieme”.
Come la maggior parte delle cose che si potevano acquistare a Tarnek, neanche il collante era particolarmente di qualità. Monada teneva il recipiente mentre lui si sforzava di mantenere l’equilibrio sull’instabile sedia e riempiva il buco con il miscuglio che si asciugava più lentamente di quanto previsto. Proprio quando pensava che il lavoro fosse ormai terminato, parte del miscuglio crollava, scoprendo nuovamente un pezzetto di cielo sereno. Quello che sarebbe dovuto essere pronto in meno di un’ora, ne richiese due, e quando finalmente fu terminato entrambi guardarono con soddisfazione il proprio risultato.
“Finalmente”, disse lei. “Il venditore mi aveva assicurato che era di prima qualità. Che sia maledetto!”.
“Dove l’hai comprato? Al mercato?”, domandò Nelgor.
“In Via Argentata. Mi dava fastidio andare tra la folla”.
“Non sapevo che ci fossero dei venditori anche lì”.
“Già da un po’, non sono in molti, giusto due o tre. Principalmente di materiali da costruzione. Anch’io li ho visti per la prima volta qualche giorno fa, quando sono andata a trovare Kartagona. Le loro bancarelle sono proprio accanto a casa sua”.
“Mi stupisce che non ci abbiano ancora mandati a cacciarli via. È un quartiere troppo ricco perché trasformino anche quello in un mercato. Che cosa dice Kartagona, non hanno fatto rapporto?”. Era una kasa pignola, con degli sguardi piuttosto irritanti sulla società, che non perdeva occasione per imporre il proprio pensiero persino nelle situazioni in cui nessuno glielo aveva chiesto. Eppure, rispettava il fatto che fosse amica di Monada.
“No. Per loro è meglio che si trovino accanto a casa che andare tra la folla. Vorrebbero anzi che l’offerta si ampliasse”.
“Sono diventati così pigri?”.
“Non è quello il punto. Hanno paura”.
La risposta non gli fece piacere. I kasi ricchi da sempre avevano un’alta opinione di sé e amavano ostentare il proprio prestigio. Probabilmente lo trova più degradante di quello che teme. Tuttavia, e se fosse questa la verità? E se fossero infino giunti al punto in cui anche i potenti avevano paura? Per le strade c’erano kasi di ogni tipo e non si era mai trattato di una questione di carattere, ma del loro livello di prepotenza. Quanto siamo diventati impotenti?
“Penso che esageri”, disse. Monada fece solo un cenno con la testa. Valutare le ragioni altrui non la interessava.
“Ti ricordi che ti ho parlato della vicina di Kartagona, Jotaka?”.
Lui annuì.
“Beh, stamattina le ho incontrate entrambe mentre facevo compere e mi hanno invitato a casa loro”.
“Un po’ di chiacchiere tra amiche”. Non aveva intenzione di essere ironico, ma Monada in ogni caso non vi avrebbe rivolto grande attenzione. Voleva condividere qualcosa con lui.
“Quella Jotaka un tempo era insegnante di filosofia, ma ha lasciato il lavoro. Forse per mancanza di interesse si sono fuse due scuole, e così si è formata una folla troppo grande. Dice che non aveva intenzione di andare fino all’altro capo della città per una lezione alla settimana”.
“Tenendo conto della situazione, è molto responsabile da parte sua”.
“È ricca, può permetterselo”.
“Incredibile per un’insegnante di filosofia”.
“Ha avuto un qualche kas, credo si trattasse di un giudice. Quando la Torre di Cristallo lo ha chiamato al riposo, già da tempo le era stato intestato tutto”.
“Ora si spiega tutto”, sbuffò lui.
“Ma questo adesso non importa ai fini del racconto. In generale, abbiamo chiacchierato un po’ anche l’altra volta, ma oggi abbiamo continuato. Sai, dopo che ha lasciato il lavoro, si è completamente dedicata alla religione”.
“Filosofo un giorno, filosofo per tutta la vita. Lo studio della religione non contribuirà granché alla società. Ma probabilmente ci penserà quando perderà tutto quello che ha ereditato”.
“Non essere così negativo”. Monada con un dolce gesto gli diede un colpetto sotto il tavolo. “Non è affatto male”. E poi aggiunse, abbassando il tono: “E non studia la religione. Voglio dire, la studia, ma non è l’unica cosa che fa”.
“Oh?”. Ora la cosa iniziava a interessarlo. Fino a che punto l’ozio degli individui è pronto a spingersi?
“Predica anche”. Sul viso di lei si poteva leggere un sincero stupore. Nelgor trattenne a fatica il riso, non volendo essere interpretato male.
“Non sapevo che la Chiesa permettesse alle kase di predicare. Moni, sei sicura che qualcuno non si stia prendendo gioco di te?”.
“Certo che lo sono. Dovresti sentirla”.
“La religione è piuttosto esplicita quando si tratta di certe cose. Lo è da sempre”.
“Lo so… ma…”. Si fermò, esaminandolo insicura con lo sguardo. Ha qualcosa in serbo per me.
“Ma cosa?”.
“Qui non si tratta… di quella religione”.
L’unica fede che Tarnek riconosceva era rappresentata dalla Chiesa. Nelgor venerava il Dio Eternorisorto nella misura in cui ciò era normale, astenendosi da ogni cieco fanatismo e inutile superstizione. Capiva molto bene quello che Monada aveva appena condiviso con lui. Era un’altra delle follie causate dalla crisi. Sfortunatamente, c’erano cose ben peggiori con cui l’Ordine doveva fare i conti. La Chiesa potrebbe fare qualcosa almeno quando i problemi sono nel suo campo, pensò.
“Non vorrai dirmi che hai ascoltato una settara?”. Nella sua voce non c’era rabbia. Era deluso.
“Sì, e allora? Hai mai sentito qualcuno di loro?”.
“No, perché ho abbastanza cose più intelligenti di cui preoccuparmi”. I colpi bassi ora erano parte del suo repertorio. “Per quanto lo neghi, non hai idea di come si vive nelle parti più povere della città. Pertanto ti prego di comprendere che considero le farneticazioni degli eretici una perdita di tempo”.
Incredibilmente, questa volta lei rimase calma. “Si chiamano Predicatori della Verità”.
“Oh, e pare che chi si fregia di un nome simile probabilmente dica soltanto la verità. Dimmi, le sue predicazioni erano gratis, o le hai pagate come la riparazione del soffitto?”.
“Non ho pagato niente. La tua reazione è completamente comprensibile, Jotaka dice che…”.
“Non m’interessa qual che dice Jotaka! Mi fai davvero impazzire se penso che sei seriamente impazzita per simili cose”. L’ultima cosa che voleva era una kasa fanatica religiosa in casa.
“Non sono impazzita, volevo solo chiacchierare un po’”.
“Di cosa, in nome di Dio?”.
“Di quel che ho sentito da lei. Penso… so che non può essere la verità, ma d’altra parte…”.
“Non c’è un’altra parte, Moni. È una massa di gente da nulla che vuole approfittarsi della paura delle persone”.
“Predicano solo”.
“E creano il panico. Qualcuno all’Avamposto mi ha raccontato di aver ascoltato quelle stronzate nel Parco di Pietra. La fine del mondo e altre idiozie. Non capisci cosa c’è dietro? Raccolgono adepti per poi spennarli, è un vecchio trucco da impostori. Prima ti faccio impazzire gratis, e poi sei in mio potere”.
“Forse è così, però… se avessi sentito come parla…”.
Le prese la mano nella sua e la guardò negli occhi.
“Vedi, sai che non do molta importanza a cose del genere. E non penso che ci sia qualcosa di terribile nel fatto che hai iniziato ad ascoltare questa follia. Tuttavia, ti ho sempre considerata razionale e saggia”. Monada lo guardava abbattuta, evidentemente anche lei incerta di dove volesse andare a parare. “Non vorrai mica permettere che qualcuno che conosci appena ti riempia così facilmente quella bella testolina?”.
“Nessuno ha riempito la mia testolina. Ho solo riflettuto su quel che ho sentito, tutto qui”.
“Questo è bene. Ma ti prego, t’imploro, non pensarci troppo perché mi preoccuperò seriamente. Idiozie del genere non meritano l’attenzione di una persona normale”.
“Te l’ho detto, non è proprio come…”.
Si sentirono dei colpi alla porta. Monada s’interruppe, e lui tra sé e sé ringrazio il vero Dio per questo. Il giorno si era avviato in una direzione totalmente sbagliata. Quando lei aprì, lui riuscì a vedere solo l’orlo della manica dell’ospite inatteso, e ciò fu più che sufficiente per sapere di cosa si trattava. Aveva riconosciuto l’uniforme.
Senza attendere che glielo dicessero, si alzò e andò nell’altra stanza a cambiarsi d’abito. Uscendo si salutò con Monada, facendo finta di non essersi accorto del suo disagio. Tuttavia, ciò che lo attendeva alla porta lo colse completamente alla sprovvista, e lui borbottò una scusa, confuso. Si aspettava uno dei colleghi giustizieri, di solito qualcuno di loro notificava quelli liberi di tornare in servizio non appena ve n’era l’esigenza. Simili pratiche non erano frequenti, ma capitava che i Pugni annunciassero un controllo o una retata inattesa. Le uniformi si distinguevano solo per le spalle e le cinghie. Maledetta kasa, lo ha lasciato sulla strada. Non distingue i gradi?
Sul volto del capitano si poteva scorgere solo impazienza.
“Tutto a posto, giustiziere, sbrigati solo”, gli rispose. “I Pugni hanno ordinato una riunione straordinaria all’Avamposto”.

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Il Quinto Avamposto era una delle organizzazioni più rispettate dell’Ordine di Tarnek. Anche se non era così attrezzato come il Primo, era importante per la presenza di giustizieri che erano tradizionalmente tra i meglio valutati nei resoconti annuali.
Non appena oltrepassò il portone di controllo, si trovò nel cortile d’addestramento strapieno di colleghi. Non aveva senso farsi strada verso l’edifico, ottenne una spiegazione dal primo a cui si rivolse. La riunione si sarebbe svolta all’aria aperta. Non poteva essere altrimenti, sapeva che non c’era uno spazio tanto grande da poter accogliere tutti i giustizieri radunati. Il capitano si era affrettato a richiamare anche gli altri, ma a lui non servivano indicazioni per capire che la questione era più che importante. Cercando il posto più comodo tra la folla, avvistò Nostros, il giustiziere con cui al momento usciva di pattuglia.
“Sei qui”, lo salutò quello.
“Sono appena arrivato. Il capitano è venuto a prendermi, avevo la giornata libera”.
“Mi hanno trovato per strada. Aspetto già da un’ora”.
“Sai di cosa si tratta?”.
Nostros scrollò le spalle. “Non hanno detto niente, ma sembra che stanotte ci siano stati problemi nel Quartiere degli Artigiani. L’ho sentito oggi quando ho preso servizio”.
C’erano sempre problemi, ma non era un motivo per convocare praticamente tutte le unità. Soprattutto perché la zona della città interessata non era di loro competenza.
“Che cos’è successo?”.
“Non so proprio immaginarmelo, sai come sono le voci di corridoio. Alcuni dicono che sia scoppiato un incendio, altri invece affermano che ci siano addirittura dei morti”.
Nelgor ruotò la testa. “Qualcuno incenerisce i barboni ammalati. Ieri ho intravisto alcuni focolai, non so cosa li ha sopraffatti”.
“È terribile. Ma non si tratta di questo”.
“In ogni caso non è un bene”.
“Concordo. Non mi piace più andare in certi quartieri. Ho anche un po’ paura”.
“Non temere, Nostros”. Nelgor gli diede un colpetto amichevole sulla spalla. “I delinquenti non osano colpirti. Hai quello sguardo pericoloso, e anche il trinciante a portata di mano”. La lama era una dotazione standard dell’equipaggiamento, ma circa un giustiziere su venti aveva la possibilità di portare il tubo distruttivo. Nella pratica, lo estraevano di rado. L’annientamento del corpo era una cosa seria, rigidamente regolata dalla legge. Per farla breve, un giustiziere persino in quelle situazioni in cui la sua esistenza personale era messa in discussione doveva pensarci bene prima di utilizzarlo. Una cosa era disabilitare un kas, tutt’altra togliergli il diritto di recarsi un giorno nella Torre di Cristallo ed essere nuovamente risvegliato come una persona migliore. Un tempo la necessità di eliminare quasi non si presentava. Tuttavia, le cose erano probabilmente cambiate sul serio.
L’osservazione dell’amico non confortò Nostros…
“Neanche le armi bastano più a salvarci la pelle. Hai sentito di quello sfortunato del Terzo Avamposto?”.
“Quello che è dato per scomparso?”.
“Sì”.
“Per quanto mi riguarda, qui non dovrebbe essere successa una cosa del genere. Non capisco tutto questo nervosismo, probabilmente ha disertato”. Purtroppo, simili cose accadevano, e non facevano onore al servizio. Il suo interlocutore sorrise tristemente.
“I due che erano di pattuglia insieme a lui giurano che non poteva fuggire da nessuna parte, l’edificio non aveva uscite secondarie ma solo un unico ambiente. Il disgraziato è solo entrato per un controllo di routine. Quando la cosa è diventata sospetta sono andati a cercarlo ma dentro non c’era nessuno. Tutto ciò che hanno trovato erano le sue armi, l’uniforme e brandelli di vestiti. Per quanto ti ci sforzi, non c’è una spiegazione logica”.
“La paura ha grandi occhi, e anche i racconti possono assumere dimensioni prodigiose quando passano di bocca in bocca”.
“Non so, amico mio, da quando mi sono risvegliato, non ce ne sono mai state così tante. E se anche solo la metà è vera…”.
All’improvviso risuonò un gran chiasso, e Nelgor avvistò un kas sul balcone dell’edificio. Osservava tranquillo aspettando che tutti si accorgessero di lui e dopo qualche istante calò un silenzio completo. Il tempo delle chiacchiere facoltative era finito, tutti i giustizieri presenti rivolsero la propria attenzione a ciò che era proprio necessario che fosse condiviso con loro. Il Pugno sembrava quasi ieratico mentre reggeva con la mano un pesante mantello di piastrine metalliche, mentre un vento leggero giocava con le pieghe della sua uniforme marrone. Nella pace del cortile, la sua voce profonda riecheggiò forte e distinta.
“Colleghi giustizieri, dichiaro aperta la riunione straordinaria del Quinto Avamposto dell’Ordine di Tarnek”. Tacque qualche istante e, evidentemente soddisfatto di quanto vedeva, continuò.
“Nelle prime ore mattutine, il comandante superiore dell’Ordine, il Condottiero Tonas Minar, mi ha convocato insieme ai Pugni degli altri Avamposti nel Palazzo del Comando per condividere con noi delle notizie tutt’altro che buone. Oggi nel Quartiere degli Artigiani si è giunti a una seria infrazione della giustizia quando due pattuglie di giustizieri si sono scontrate con dei banditi numericamente superiori. I fuorilegge hanno manifestato un comportamento apertamente aggressivo, ed è con dolore che v’informo che nessuno dei nostri commilitoni è sopravvissuto”.
I presenti rimasero scioccati. Nelgor guardò Nostros in cerca di una conferma di quanto aveva realmente sentito, ma tutto ciò che ottenne fu uno sguardo febbrile. I giustizieri parlottavano sottovoce, sconvolti da quanto avevano sentito. La cosa superava anche le voci più ardite. Vi erano casi di ferimento durante il servizio, ma di conseguenze mortali si poteva leggere solo negli archivi. Un sestuplice omicidio era qualcosa che nella lunga storia della città non era mai stato registrato. Che cos’è successo, in nome del mondo?

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